Giustizia razziale contro la lobby israeliana: quando essere pro-Palestina diventa la nuova normalità

Ramzy Baroud

5 ottobre 2021,Middle East Monitor

C’è un inequivocabile cambiamento nella politica americana riguardo la Palestina e Israele, contraddistinto dal modo in cui molti americani, specialmente i giovani, vedono la lotta palestinese e l’occupazione israeliana. Anche se questo cambiamento deve ancora tradursi in una riduzione tangibile della morsa israeliana sul Congresso degli Stati Uniti, promette di avere grandi conseguenze in futuro.

I recenti eventi alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti hanno dimostrato questa realtà senza precedenti. Il 21 settembre, dopo le obiezioni di diversi membri progressisti del Congresso, i legislatori democratici hanno respinto con successo un’istanza che proponeva di fornire a Israele 1 miliardo di dollari in finanziamenti militari extra come parte di un più ampio disegno di legge di spesa. Il denaro era destinato specificamente a finanziare l’acquisto di nuove batterie e intercettori per il sistema di difesa missilistico israeliano Iron Dome [cupola di ferro, ndtr.].

Due giorni dopo il finanziamento per il sistema Iron Dome è stato riproposto e questa volta è stato approvato in modo schiacciante, con 420 voti contro 9, nonostante l’appello accorato della rappresentante palestinese americana Rashida Tlaib. Nella seconda votazione solo otto democratici si sono opposti al provvedimento. Il nono voto contrario è stato espresso dal repubblicano Thomas Massie del Kentucky. La sfida di Massie al consenso repubblicano gli è valso il titolo di “Antisemita della settimana” da parte di una famigerata organizzazione filo-israeliana chiamata Stop Antisemitismo. Confondere le legittime critiche a Israele con l’antisemitismo è un modo in cui la lobby che sostiene Israele mette a tacere le voci a favore della Palestina.

Pur essendo tra coloro che il 21 settembre hanno bloccato la misura di finanziamento, la rappresentante democratica Alexandria Ocasio Cortez ha modificato all’ultimo minuto il suo voto [da contraria, ndtr.] a “presente”, creando confusione e suscitando rabbia tra i suoi sostenitori.

Nonostante l’esito finale, il fatto stesso che tale discussione abbia avuto luogo al Congresso costituisce una pietra miliare nella lotta per la giustizia razziale. Fare sentire la propria voce contro l’occupazione israeliana della Palestina non è più un tabù tra i politici statunitensi eletti. Non molto tempo fa mettere in discussione la legislazione filo-israeliana al Congresso avrebbe provocato una reazione massiccia e ben organizzata da parte della lobby, in particolare dell’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), che in passato ha posto fine a promettenti carriere politiche, anche di politici esperti. Una combinazione di diffamazioni mediatiche, sostegno ai rivali e minacce palesi ha segnato il destino dei membri dissenzienti del Congresso.

Per quanto l’AIPAC e le organizzazioni affini continuino a seguire le stesse vecchie tattiche, la strategia generale non è efficace come prima. I membri della Squad [Squadra, ndtr], giovani parlamentari che spesso si pronunciano contro Israele e a sostegno della Palestina, hanno fatto la loro comparsa al Congresso nel 2019. Con poche eccezioni sono rimasti ampiamente coerenti nella loro posizione a sostegno dei diritti dei palestinesi. Nonostante gli intensi sforzi della lobby che sostiene Israele, sono stati tutti rieletti nel 2020. La morale qui è che essere critici nei confronti di Israele nel Congresso degli Stati Uniti non significa più garantirsi una decisiva sconfitta elettorale; in alcuni casi è esattamente il contrario.

Il fatto che 420 membri della Camera abbiano votato a favore della concessione a Israele di fondi aggiuntivi, oltre ai 3,8 miliardi di dollari già esistenti, riflette la stessa triste realtà che, grazie ad una copertura mediatica inesorabilmente faziosa, la maggior parte dei collegi elettorali americani continua a sostenere Israele.

Tuttavia l’allentamento della morsa della lobby sul Congresso degli Stati Uniti offre opportunità uniche per gli elettori filo-palestinesi di esercitare pressioni sui propri rappresentanti, chiedendo responsabilità ed equilibrio. Queste opportunità non sono create solo da voci nuove e più giovani nelle istituzioni democratiche americane, ma anche dal rapido cambiamento dell’opinione pubblica.

Per decenni, la stragrande maggioranza degli americani ha sostenuto Israele per una serie di motivi, in ragione della definizione politica fornita dai rappresentanti istituzionali e dai media statunitensi. Prima del crollo dell’Unione Sovietica, per esempio, Tel Aviv era vista come un fedele alleato di Washington contro il comunismo. Negli anni successivi, sono state inventate nuove narrazioni per mantenere l’immagine positiva di Israele agli occhi dell’americano medio. La cosiddetta “guerra contro il terrore”, dichiarata all’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001, ha investito Israele del ruolo di alleato americano contro “l’estremismo islamico”. La legittima resistenza palestinese è stata dipinta come “terrorismo”, dando così all’occupazione della Palestina da parte di Israele una copertura morale, se non legale, per occultare il suo disprezzo per il diritto internazionale.

Tuttavia, nuovi fattori hanno destabilizzato questo paradigma. Il sostegno a Israele è diventato una questione controversa nella politica americana sempre più tumultuosa e combattiva, dove la maggior parte dei repubblicani sostiene Israele e la maggior parte dei democratici no.

Inoltre, poiché la giustizia razziale è diventata uno degli argomenti più sensibili della politica statunitense, molti americani ora vedono la lotta palestinese contro l’occupazione israeliana attraverso il prisma della lotta di milioni di americani per la propria uguaglianza razziale. L’hashtag dei social media #PalestinianLivesMatter continua a fare tendenza insieme a #BlackLivesMatter; la solidarietà comunitaria e l’intersezionalità prevalgono sulla politica egoistica, in cui conta solo il denaro.

Milioni di giovani americani ora vedono la lotta in Palestina come parte integrante della lotta antirazzista in America; nessun tipo di lobby a favore di Israele al Congresso può cambiare questa inconfutabile tendenza. Ci sono molte statistiche che lo attestano. Il sondaggio d’opinione presso l’Università del Maryland a luglio, ad esempio, ha mostrato che più della metà degli americani intervistati disapprova l’atteggiamento da parte del presidente Joe Biden verso la guerra di Israele contro Gaza del maggio di quest’anno, ritenendo che avrebbe potuto fare di più per fermare l’aggressione israeliana.

Ovviamente ci sono stati anche in passato dei politici statunitensi coraggiosi che hanno osato pronunciarsi contro Israele, ma c’è una netta differenza tra le generazioni precedenti e questa. In America oggi ci sono politici che vengono eletti per la loro forte presa di posizione a favore della Palestina. Se si discostano dalle loro promesse elettorali rischiano le ire del crescente elettorato filo-palestinese. Questa realtà in mutamento consente finalmente di coltivare e sostenere una presenza filo-palestinese nel Congresso degli Stati Uniti. In altre parole, parlare a sostegno della Palestina in America non è più un evento raro. Come il futuro sicuramente rivelerà, è la cosa “politicamente corretta” da fare; la nuova normalità.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Cresce la resistenza in Cisgiordania, aumentano i timori di Israele

Dr Adnan Abu Amer

4 ottobre 2021 Middle East Monitor

Con la progressiva ripresa delle operazioni della resistenza palestinese in Cisgiordania, i servizi di sicurezza e l’esercito di Israele sono sempre più preoccupati per quello che considerano un allarmante risveglio delle cellule della resistenza.

Di fronte ai recenti attacchi armati in Cisgiordania i servizi di sicurezza israeliani si interrogano sulla possibilità di mantenere la ferrea stretta imposta sulla Cisgiordania. Al momento all’interno del sistema di sicurezza israeliano prevale la convinzione che sono ormai finiti i tempi di relativa calma in Cisgiordania, almeno per l’imminente futuro.

Israele si rende conto che l’infrastruttura della resistenza non è stata completamente scoperta e che essa molto probabilmente consiste di piccoli nuclei che sono cresciuti e disseminati in un’area relativamente estesa nelle città, campi e paesi della Cisgiordania.

La nuova infrastruttura militare di Hamas in Cisgiordania è completamente diversa dalla tradizionale infrastruttura organizzativa basata su relazioni strette modellate su famiglia, clan, amicizia, luoghi di residenza e di lavoro, conoscenze di lunga data. I membri delle cellule non hanno più bisogno di incontrarsi, perché gli attivisti del movimento nel nord della Cisgiordania ricevono armi o istruzioni dai dintorni di Gerusalemme, e viceversa. Pertanto al momento Israele si concentra più sul lavoro di intelligence che su quello operativo, in quanto gli ambiti dell’attuale infrastruttura di Hamas non sono ancora del tutto chiari per la sicurezza israeliana.

Israele sostiene che le direttive dei capi di Hamas vengono trasmesse ai livelli successivi in Cisgiordania vuoi indirettamente, tramite il movimento di Gaza, o direttamente, e che talvolta ciò avviene in incontri mediante messaggi criptati. Questa è una grave minaccia per la sicurezza che l’esercito israeliano si trova ad affrontare.

Questo significa che la campagna israeliana a Gerusalemme e Jenin che mirava a colpire la pluriennale infrastruttura delle forze di resistenza non è completamente riuscita, perché oltre alle attività militari a Gaza, Hamas ha stabilito non da ieri un’infrastruttura organizzativa in Cisgiordania sotto la guida dei suoi alti dirigenti. L’obiettivo è di avere una forza di combattimento radicata nella zona.

Ciò dimostra che la serie di blitz portati avanti da esercito e apparati di sicurezza a Jenin e Ramallah nelle ultime settimane non erano di routine, non solo per le dimensioni e il numero di vittime, ma per le ripercussioni sul futuro della sicurezza sul terreno. Questi blitz sono una risposta alle esistenti tensioni a Gaza, agli attacchi offensivi in Cisgiordania e all’evasione di prigionieri dalla prigione di Gilboa.

La sicurezza israeliana ha fatto trapelare che si sarebbe già iniziato ad addestrare elementi armati, nonchè a tentare di produrre materiale esplosivo all’interno delle case. I membri delle cellule sono abitanti delle zone di Ramallah e Jenin, dove Hamas possiede già una solida infrastruttura, e dove l’Autorità Nazionale Palestinese e le sue forze di sicurezza stanno incontrando difficoltà operative.

E’ ormai evidente che Hamas sta cercando di creare un’infrastruttura armata attiva in Cisgiordania con l’obiettivo di attirare l’esercito in grosse operazioni nel cuore delle principali località dei Territori, mettendo così in cattiva luce l’Autorità Nazionale Palestinese ed il suo apparato di sicurezza per la loro collaborazione con Israele.

A dispetto di tutto ciò, non è ancora chiaro se l’esercito israeliano sia completamente riuscito a neutralizzare l’infrastruttura della resistenza a seguito delle sue recenti operazioni delle ultime settimane, specialmente nella recente serie di raid. Comunque sia, nell’esercito resta il timore che la capacità di penetrazione di Hamas in Cisgiordania possa crescere ulteriormente, non solo sul piano militare, ma anche politico ed educativo, e che la Striscia di Gaza e la Cisgiordania possano trasformarsi in due arene per un unico fronte, con il movimento di Hamas che le controlla e guida in base ai propri interessi e alla propria ideologia.

La preoccupazione israeliana per l’escalation delle operazioni di resistenza in Cisgiordania coincide con il 16^ anniversario del ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza, il che contribuisce alla diffusione dell’ipotesi israeliana che se, in seguito a qualche accordo con l’Autorità Nazionale Palestinese, ci sarà un analogo ritiro da alcune parti della Cisgiordania, si verificheranno allora in Cisgiordania dei cambiamenti simili a quelli avvenuti a Gaza, e in quel caso Israele si troverà presto esposta alla minaccia di lanci di razzi dalla Cisgiordania verso le città di Kfar Saba, Petah Tikva e i dintorni di Tel Aviv.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Barghouti: l’Autorità Palestinese non ha autorità

28 settembre 2021 – Middle East Monitor

Ieri l’agenzia di stampa Sama [agenzia di notizie siriana, ndtr.] ha riferito che Marwan Barghout, membro del Comitato Centrale di Fatah, ha detto dal carcere: “ L’Autorità Palestinese (ANP) non ha autorità” e ha aggiunto che la battaglia per Gerusalemme “ha rivelato l’inettitudine e la fragilità” del sistema politico palestinese.

Barghouti ha anche detto che l’ANP “ha permesso all’occupazione israeliana di non spendere nulla,” facendo notare che l’occupazione “pratica la pulizia etnica ed è responsabile di molti atti di aggressione contro i palestinesi.”

Ha spiegato che la frazione principale dell’Olp ” ha accettato condizioni inferiori al minimo” necessario per raggiungere la pace con l’occupazione israeliana.

Immigrazione, colonie, rafforzamento dell’esercito e potenti alleanze internazionali “sono il pilastro dell’occupazione israeliana,” ha spiegato Barghouti, osservando che gli ebrei immigrati in Israele sono 32.000 all’anno e che il numero dei coloni ebrei israeliani nella Cisgiordania occupata è salito negli ultimi dieci anni a 200.000.

Nel frattempo Israele ha accresciuto la sua potenza militare e sta stringendo alleanze con Russia, Cina e India, oltre agli USA. Questo Stato occupante sta cercando al contempo di diventare una nazione centrale nella regione con cui i Paesi vicini stanno cercando di stringere alleanze, ha spiegato.

La recente battaglia per Gerusalemme avvenuta a maggio nei territori occupati e in Israele, “è la prova che, nonostante sofferenze e dolori, i palestinesi non smetteranno di combattere per i propri diritti,” ha concluso Barghouti.

Ciò ha anche “evidenziato l’inettitudine e la fragilità del sistema politico palestinese e dimostrato che dobbiamo produrre una nuova leadership alternativa tramite elezioni generali.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




C’è bisogno di una nuova strategia per impedire la totale ebraizzazione della moschea di Ibrahimi

Lama Khater

17 agosto 2021 Middle East Monitor

Diversi giorni fa le autorità di occupazione hanno avviato l’attuazione di un nuovo progetto di ebraizzazione nelle vicinanze della moschea di Ibrahimi [Abramo ndt] nella città di Hebron. L’obiettivo apparente di questo progetto è costruire un ascensore per facilitare l’assalto dei coloni alla moschea, la cui costruzione comporterà il sequestro circa 300 metri quadrati dei cortili e delle strutture della moschea. Tuttavia il progetto ha l’obiettivo di ebraizzare completamente la moschea e renderla un sito esclusivamente ebraico, oltre a controllare il più possibile la terra e gli immobili circostanti.

Il problema di Hebron con l’ebraizzazione è stato e continuerà ad essere difficile. La sua causa principale è l’esistenza di un quartiere esclusivamente di coloni nel cuore della città, che si è ampliato con il sequestro di molte proprietà immobiliari possedute dai palestinesi nella Città Vecchia di Hebron, dove si trova la Moschea di Ibrahim. A causa di questa presenza ebraica a Hebron, nel 1997 è stato stipulato lo sciagurato accordo di Hebron, derivante dagli accordi di Oslo. L’intesa ha diviso Hebron in due aree, una sotto il controllo palestinese e l’altra sotto il controllo israeliano, e quest’area comprende gran parte del sud e dell’est della città, inclusa la Moschea di Ibrahim.

L’accordo prevede la riapertura di via Al-Shuhada nella città, chiusa e controllata dalle forze di occupazione, ma queste ultime non hanno mai attuato le disposizioni dell’accordo. Invece l’hanno sfruttato per estendere la loro operazione di ebraizzazione della città e hanno espulso i palestinesi dalla zona meridionale attraverso restrizioni sistematiche per i palestinesi, a cominciare dal massacro della moschea di Ibrahim nel 1994, quando venne temporalmente e spazialmente divisa tra i coloni ebrei e i musulmani [nel 1994 un fondamentalista sionista entrò in divisa nella sala di preghiera riservata ai fedeli musulmani, aprì il fuoco e uccise trenta persone e ne ferì 125, ndt.]. Tuttavia la situazione della moschea ora è tale da essere sul punto di diventare un sito puramente ebraico, poiché i dintorni della moschea, compresi i cortili, gli ingressi e le aree palestinesi limitrofe sono considerati caserme militari, intersecate da diverse barriere e posti di blocco. Ai palestinesi non è permesso accedere all’area con le loro auto, mentre i coloni possono attraversare le barriere. I cortili della moschea sono riservati ai coloni. Inoltre chiunque riesca ad arrivare in quest’area deve sorbirsi i commenti razzisti e gli incitamenti a uccidere gli arabi da parte di giovani coloni e dei loro anziani.

È risaputo che il progetto di occupazione israeliano aveva come giustificazione morale un mito religioso senza fondamento che rivendicava il diritto alla terra di Palestina; la prosecuzione di questo progetto resterà legata alla necessità di controllare i siti religiosi musulmani in Palestina, specialmente quelli altamente simbolici, come la Moschea Al-Aqsa e la Moschea di Ibrahim. Ciò significa che la lotta per questi luoghi è essenziale per l’identità palestinese e richiede un grande ed eccezionale sforzo che scaturisca dalla consapevolezza della realtà dei pericoli che minacciano questi luoghi santi.

Oggi Hebron sta affrontando una grande sfida, ed è a un bivio: o opporsi a questo progetto mobilitando la popolazione e creando le condizioni per contrastarlo, oppure ignorare ciò che sta accadendo, per poi dover affrontare una realtà amara: la perdita della moschea per i musulmani. Ciò costringerà i palestinesi rimasti a lasciare le loro case e proprietà sotto la pressione dell’espansione delle colonie e dei feroci attacchi dei coloni contro i restanti abitanti di quell’area.

E’vero che la sfida è grande e quasi supera la capacità dell’opinione pubblica, delle fazioni palestinesi e delle loro limitate potenzialità, ma è possibile invertire l’equazione che rende la vita difficile per i palestinesi. Questo può essere fatto cercando di rendere difficile la vita dei coloni invece di lasciare che siano loro a rendere difficile la vita dei palestinesi. È necessaria una nuova equazione che richiede volontà e iniziativa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




I pescatori di Gaza presi tra l’incudine e il martello 

Motasem A Dalloul

9 agosto 2021 middleeastmonitor

“La vita del pescatore è sempre dura, ovunque, ma sotto l’occupazione militare israeliana lo è ancora di più.”

Samya e Omayya Abu Watfa hanno perso il padre undici anni fa. Si stanno preparando per il nuovo semestre all’università, dove Samya studia chimica e Omayya studia sicurezza alimentare. Ognuno ha bisogno di circa 1.100 – 1.200 dollari per le tasse scolastiche, ma dipendono dal fratello Mohammad, 33 anni, che è un pescatore. Ciò significa che il denaro scarseggia.

“Lavora giorno e notte per provvedere a noi, a nostra madre e ai tre fratelli”, mi ha detto Samya. Mohammad è per noi fratello, padre, tutto.” Ha anche la sua famiglia a cui pensare, una moglie e quattro figli.

A 22 anni Mohammad Abu Watfa ha ereditato la barca da suo padre. Ha lasciato l’università per lavorare e provvedere alla famiglia. “Lavoravo con mio padre quando era vivo, anche durante gli studi. Voleva che diventassi ingegnere, ma non potevo lavorare e continuare a studiare”.

Come tutti gli altri pescatori di Gaza, Abu Watfa sarebbe contento del suo lavoro, anche se è molto duro, se non fosse per le restrizioni imposte da Israele e per le quotidiane violenze esercitate dalla marina israeliana.

Il capo del Sindacato dei Pescatori di Gaza ha ribadito come l’occupazione israeliana abbia imposto un rigoroso blocco terrestre, aereo e marittimo sulla Striscia di Gaza dal 2006. “Questo rende insopportabile la vita di oltre 2 milioni di persone a Gaza”, ha affermato Nizar Ayyash. “La pesca è uno dei settori più colpiti dal blocco. Più di 4.500 pescatori, che hanno complessivamente a carico circa 50.000 persone, vivono e lavorano sotto un’estrema pressione e stress a causa delle misure israeliane connesse al blocco”.

Secondo gli Accordi di Pace di Oslo firmati nel 1993 tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, i palestinesi dovrebbero avere accesso alla pesca senza restrizioni fino a 20 miglia nautiche al largo della costa di Gaza. Tuttavia, non sono mai stati autorizzati ad avventurarsi oltre le 16 miglia. Normalmente, sono bloccati entro le 12 miglia; spesso molto meno.

La scorsa settimana, ad esempio, la marina di occupazione israeliana ha ridotto la zona di pesca a sei miglia nautiche in risposta a ciò che Israele ha affermato essere il lancio di palloni incendiari da Gaza verso Israele. È stato poi esteso di nuovo a 12 miglia nautiche. Questo è il gioco israeliano con i pescatori palestinesi dal 2005. Ci sono momenti in cui lo Stato di occupazione vieta del tutto la pesca per giorni o settimane con il più debole dei pretesti.

“Dal 2007”, ha affermato l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari ( OCHA) in un recente rapporto, “Israele ha mantenuto incerta la zona di pesca come parte della sua politica di ‘zone cuscinetto’ marittime, ovvero limposizione unilaterale da parte di Israele di inaccessibili zone militari nelle acque palestinesi, spesso vietando completamente la pesca ai palestinesi”.

La pesca è sempre stata un lavoro pericoloso per uomini come Abu Watfa, che mette in gioco la propria vita per portare il cibo in tavola. “A volte ci sono branchi di pesci a circa 15 miglia al largo. Se vogliamo catturarli, dobbiamo andare più in là e spingerli a riva. Quando lo facciamo, la marina israeliana ci insegue, ci spara e poi ci vieta di pescare”.

L’ OCHA ha sottolineato che “Nel corso degli anni, gli attacchi illegali e ingiustificati di Israele – comprese forme di forza letale e altri eccessi, arresti arbitrari, confisca e distruzione di barche e altri materiali da pesca – e restrizioni punitive contro i pescatori palestinesi hanno reso la pesca al largo della costa di Gaza un rischio per la vita e la sicurezza e ridotto la comunità dei pescatori in povertà estrema”.

Queste pratiche, ha aggiunto l’ONU, fanno parte della attuale politica di Israele di interdizioni nella Striscia di Gaza. “Equivalgono a una punizione collettiva illegale degli oltre due milioni di residenti palestinesi, e sono tra le pratiche, leggi e politiche che costituiscono il regime di apartheid di Israele contro il popolo palestinese”.

Bilal Bashir, 42 anni, lavora insieme ad altri dieci pescatori sulla stessa barca. Si è lamentato delle ripetute aggressioni israeliane contro di loro. “A volte, Israele decide di ridurre la zona di pesca proprio mentre siamo in mare. Apprendiamo della restrizione solo quando la marina apre il fuoco contro di noi o i marinai ci urlano contro con gli altoparlanti”.

La sua barca è stata colpita più volte dal fuoco israeliano. Nel marzo 2015, ricorda con amarezza, il suo collega Tawfiq Abu Riala, 32 anni, è stato ucciso. “Quando Tawfiq è stato colpito siamo rimasti scioccati e abbiamo chiesto aiuto. Invece di aiutarci, la marina ha arrestato altri due uomini”.

L’ultimo incidente del genere è accaduto nel febbraio 2018. Le forze di occupazione hanno spiegato cosa è successo: “Una nave sospetta [sic] ha lasciato la zona di pesca al largo della Striscia di Gaza settentrionale, con a bordo tre sospetti [per cui i marinai israeliani hanno iniziato] il protocollo di arresto, che include richiami [di stop], spari di avvertimento in aria e spari alla barca stessa… A seguito degli spari, uno dei sospetti è stato gravemente ferito e in seguito è morto per le ferite riportate”.

La pesca è un affare costoso. Un giorno in mare di una barca con dieci pescatori a bordo può costare fino a 1.500 dollari. “Quando navighiamo entro le 15 miglia nautiche, difficilmente il pescato può coprire le spese”, ha osservato Kinan Baker, 27 anni. “Quando la zona di pesca viene ridotta a sei miglia nautiche è una perdita enorme perché il pescato non copre le spese .”

Ayyash ha descritto l’industria della pesca come il settore più vulnerabile sotto l’assedio imposto a Gaza dall’occupazione israeliana. “Israele sfrutta tutto per mettere sotto pressione la resistenza palestinese. Questa [punizione collettiva] è una chiara violazione del diritto internazionale”. Il capo del sindacato ha chiesto al mondo di esercitare pressioni su Israele affinché smetta di mettere in pericolo la vita e il sostentamento dei pescatori per motivi politici o di sicurezza.

Le punizioni collettive equivalgono a crimini di guerra, e se parte di una politica diffusa o sistematica sono crimini contro l’umanità e sono i fattori principali del deterioramento della situazione umanitaria a Gaza”, ha aggiunto il Center Al Mezan for Human Rights [organizzazione non governativa con sede nel campo profughi palestinese di Jabalia nella Striscia di Gaza, ndtr.]

Nel giugno dello scorso anno la Banca Mondiale ha affermato che “la pesca è una fonte vitale di occupazione, con più di 100.000 persone che beneficiano del settore”. Oltre ai pescatori e alle loro famiglie, ha indicato come beneficiari del settore i commercianti al dettaglio, i proprietari di ristoranti, gli operatori di vivai e i trasportatori del pesce. “Tuttavia, il mare non è più generoso come una volta. La gente di Gaza non può far conto sul proprio pesce, e a volte nemmeno permetterselo. La maggior parte delle famiglie di pescatori sono povere e il loro reddito sta diventando sempre più precario man mano che gli ecosistemi marini continuano a degradare.”

La vita del pescatore è sempre dura, ovunque, ma sotto l’occupazione militare israeliana lo è ancora di più. I pescatori di Gaza sono presi tra l’incudine dell’occupazione e il martello delle difficoltà economiche.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Colono israeliano in Cisgiordania spara a dei palestinesi usando il fucile di un soldato

2 agosto 2021 – Middle East Monitor

Nel video, ripreso nel villaggio di Al-Tuwani, si vede anche che i coloni attaccano proprietà palestinesi, spezzano rami degli ulivi, lanciano pietre contro i palestinesi e danno fuoco alle loro proprietà, tutto in presenza delle forze di occupazione.

Un colono israeliano ha sparato a dei palestinesi nella Cisgiordania occupata usando l’arma di un soldato israeliano, come si vede in un video diffuso dall’organizzazione B’Tselem [ONG israeliana che si autodefinisce “Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati”, ndtr].

Come riferito da Haaretz, i palestinesi che hanno assistito all’episodio, avvenuto il 26 giugno scorso, dicono che il soldato ha dato l’arma al colono, mentre i militari israeliani sostengono che il colono “ha preso l’arma dal soldato per sparare poi in aria”.

“Sul tetto con me c’erano dieci bambini e tremavamo tutti, non ha sparato in aria, ha sparato nella nostra direzione,” dice un palestinese del posto. Anche un altro testimone oculare, che si trovava sullo stesso tetto, dice di aver visto il soldato dare il fucile al colono, aggiunge Haaretz. 

Nel video, ripreso nel villaggio di Al-Tuwani, si vede anche che i coloni attaccano proprietà palestinesi, spezzano rami degli ulivi, lanciano pietre contro i palestinesi e danno fuoco alle loro proprietà, tutto in presenza delle forze di occupazione.

Il portavoce dell’esercito israeliano afferma: “Si è verificato uno scontro violento fra coloni e palestinesi,” in cui “si sono scagliati pietre a vicenda e [i palestinesi] hanno lanciato petardi contro i coloni. Un soldato dell’IDF [l’esercito] ha caricato su un veicolo militare un abitante che gli aveva chiesto un passaggio, e quando sono arrivati sul posto sono state lanciate delle pietre contro il veicolo. Come reazione, il civile ha preso l’arma dal soldato e ha sparato in aria. Non ci sono stati feriti. Considerata la gravità dell’incidente, il soldato è stato immediatamente convocato dal comandante di brigata per indagini e approfondimenti, e c’è stato un chiarimento sulle regole di ingaggio.”

Secondo il sito palestinese di informazione Safa questo incidente non è che l’ulteriore dimostrazione della cooperazione congiunta fra coloni ed esercito israeliani nell’aggressione contro i palestinesi.

Safa afferma che nel maggio scorso undici palestinesi sono rimasti uccisi nella Cisgiordania occupata nel corso di aggressioni da parte dell’esercito israeliano e dei coloni.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Il popolo contro Mahmoud Abbas: l’Autorità Nazionale Palestinese ha i giorni contati?

Ramzi Baroud

6 luglio 2021 Middle East Monitor

Attualmente si sente dire spesso che l’Autorità Nazionale Palestinese [ANP] ha i giorni contati. Questo accade ancora di più dopo che il 24 giugno Nizar Banat, noto attivista palestinese di 42 anni, è stato torturato e ucciso ad Hebron (Al-Khalil) dagli sgherri delle forze di sicurezza dell’ANP.

L’uccisione di Banat – o “assassinio”, come viene descritto da alcune organizzazioni in difesa dei diritti dei palestinesi – non è tuttavia un fatto isolato. La tortura nelle prigioni dell’ANP è il modus operandi con cui gli interroganti palestinesi estorcono le “confessioni”. I prigionieri politici palestinesi detenuti dall’ANP vengono divisi solitamente in due gruppi principali: quelli sospettati da Israele di essere coinvolti in attività contro l’occupazione israeliana; e gli altri che sono stati fermati per avere espresso critiche nei confronti della corruzione dell’ANP o della sua subalternità ad Israele.

In un rapporto di Human Rights Watch del 2018, l’organizzazione ha parlato di “decine di arresti” eseguiti dall’ANP “a causa di messaggi critici postati sui social media”. Banat rientrava perfettamente in questa categoria, in quanto era uno dei critici più espliciti e tenaci, che con i suoi numerosi video e messaggi sui social denunciava e metteva in difficoltà la leadership ANP di Mahmoud Abbas e del suo partito di governo Fatah. A differenza di altri, Banat faceva i nomi ed invocava misure severe contro chi sperpera i fondi pubblici palestinesi e tradisce la causa del popolo palestinese.

Banat era stato arrestato dalla polizia dell’ANP diverse volte in passato. A maggio la sua casa era stata attaccata con pallottole, granate stordenti e gas lacrimogeni da uomini armati. Banat aveva accusato dell’attacco Fatah.

La sua ultima campagna sui social media riguardava lo scandalo delle dosi di vaccino Covid-19 quasi scadute che l’ANP aveva ricevuto da Israele lo scorso 18 giugno. A causa della pressione pubblica esercitata da attivisti come Banat, l’ANP è stata costretta a restituire i vaccini israeliani che il primo ministro israeliano, l’ultranazionalista di estrema destra Naftali Bennett, aveva pubblicamente decantato come un gesto di buona volontà.

Quando gli uomini dell’ANP hanno fatto un blitz nella casa di Banat il 24 giugno, la ferocia della loro violenza è stata inaudita. Suo cugino Ammar ha spiegato che quasi 25 membri della sicurezza dell’ANP hanno fatto irruzione in casa, gli hanno spruzzato spray al peperoncino mentre era ancora a letto, e “hanno iniziato a colpirlo con spranghe di ferro e manganelli di legno”. Dopo averlo spogliato completamente, lo hanno trascinato dentro un veicolo. Dopo un’ora e mezza, i familiari hanno saputo che cosa gli era accaduto da un gruppo WhatsApp.

Dopo le smentite iniziali, sottoposta alle pressioni di migliaia di persone che protestavano in tutta la Cisgiordania, l’ANP è stata costretta ad ammettere che quella di Banat non era stata una morte “naturale”. Il ministro della giustizia Mohammed Al-Shalaldeh ha dichiarato alla televisione locale che un primo rapporto medico aveva segnalato che Banat era stato oggetto di violenza fisica.

Questa rivelazione apparentemente esplosiva avrebbe dovuto dimostrare che l’ANP era disposta ad investigare e ad assumersi la responsabilità delle sue azioni. Niente di più falso, invece. L’ANP non si è mai assunta la responsabilità della propria violenza, che è il fulcro stesso della sua esistenza. Arresti arbitrari, tortura, repressione di proteste pacifiche sono sinonimi dei servizi di sicurezza dell’ANP, come hanno segnalato numerosi rapporti di organizzazioni in difesa dei diritti sia palestinesi sia internazionali.

Potrebbe darsi, dunque, che “l’ANP abbia i giorni contati”? Per valutare questo interrogativo è importante prendere in esame la logica di fondo che ha portato alla creazione dell’ANP e confrontare questa finalità iniziale con ciò che è emerso negli anni successivi.

L’ANP venne fondata nel 1994 come autorità nazionale di transizione con l’obiettivo di guidare il popolo palestinese lungo il processo che doveva culminare nella liberazione nazionale, passando per “negoziati per un assetto definitivo”, che si sarebbero dovuti concludere entro la fine del 1999. Sono trascorsi quasi tre decenni senza che l’ANP abbia segnato un qualsiasi risultato al proprio attivo. Questo non significa che l’ANP, dal punto di vista della sua dirigenza e di Israele, sia stato un fallimento completo, perché essa ha continuato a svolgere il ruolo più importante che le era stato affidato: il coordinamento della sicurezza con l’occupazione israeliana. In altre parole, proteggere i coloni illegali ebraici nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme, e fare il lavoro sporco per Israele nelle zone palestinesi gestite autonomamente dall’ANP [secondo gli accordi di Oslo, Cisgiordania e Gaza si sarebbero divise fra Zona A (pieno controllo civile dell’ANP); Zona B (controllo civile palestinese e controllo israeliano per la sicurezza); Zona C (pieno controllo israeliano, ndtr]. In cambio l’ANP avrebbe ricevuto miliardi di dollari provenienti dai “Paesi donatori” a guida USA e le tasse palestinesi raccolte a nome suo da Israele.

Quello stesso paradigma è tuttora operativo, ma per quanto ancora? In occasione della ribellione palestinese di maggio, il popolo ha mostrato un’unità nazionale mai vista prima e una determinazione che supera le divisioni fra fazioni, richiedendo con fermezza la rimozione dal potere di Abbas. Ha associato – con ragione – l’occupazione israeliana con la corruzione dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Da quando ci sono state le proteste di massa a maggio, la retorica ufficiale dell’ANP è stata offuscata da confusione, disperazione e panico. I dirigenti dell’ANP, Abbas incluso, hanno tentato di posizionarsi come leader rivoluzionari. Hanno parlato di “resistenza”, “martiri” e persino di “rivoluzione”, quando al contempo rinnovavano il proprio impegno nei confronti del “processo di pace” e dell’agenda USA in Palestina.

Quando Washington ha ripreso a sostenere economicamente l’Autorità di Abbas dopo l’interruzione decisa dal precedente presidente Donald Trump, l’ANP ha sperato di ritornare alla situazione precedente di relativa stabilità, abbondanza economica e rilevanza politica. Sembra invece che il popolo palestinese abbia voltato pagina, come dimostrano le proteste di massa, che sono sempre state represse – il che è rivoltante ma assolutamente prevedibile – con violenza da parte delle forze di sicurezza dell’ANP nell’intera Cisgiordania, compresa Ramallah, sede dell’ANP.

Anche gli slogan sono cambiati. In seguito all’omicidio di Banat, a Ramallah migliaia di manifestanti, in rappresentanza di tutti gli strati della società, hanno chiesto all’ottantacinquenne Abbas di dimettersi. I cori si riferivano agli sgherri della sua sicurezza come “baltajieh”e “shabeha” — “delinquenti” – che sono termini mutuati dalle proteste arabe durante i primi anni delle varie rivolte in Medio Oriente.

Questo cambiamento di linguaggio rimanda ad uno spostamento critico nel rapporto fra i palestinesi medi – persone che hanno trovato il coraggio di organizzare una ribellione di massa contro l’occupazione e il colonialismo israeliani – e la propria “dirigenza” opportunista e collaborazionista. E’ importante notare che non c’è aspetto di questa Autorità Nazionale Palestinese che goda di una qualche credenziale democratica. Anzi, il 30 aprile scorso Abbas “ha rinviato” le elezioni generali che si sarebbero dovute tenere in Palestina a maggio. I pretesti addotti erano inconsistenti, e “rinviato” era un eufemismo per “annullato”. Il suo mandato personale come presidente è scaduto dal 2009.

L’ANP si è rivelata essere un ostacolo alla libertà dei palestinesi, e non ha alcuna credibilità fra coloro che vivono nella Palestina occupata. Rimane al potere solo per il sostegno di USA e Israele. Se questa particolare Autorità abbia i giorni contati o no dipende dalla capacità del popolo palestinese di dimostrare che la propria volontà collettiva è più forte dell’ANP e dei benefattori di questa. L’esperienza insegna che quando arriveremo al capitolo Il Popolo contro Mahmoud Abbas, alla fine sarà il popolo palestinese ad avere la meglio.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Gli attivisti britannici filopalestinesi dimostrano che l’azione diretta e il BDS sono efficaci

Yvonne Ridley

11 giugno 2021 – Middle East Monitor

Questa notte i sostenitori della Palestina hanno festeggiato una vittoria, dopo che la Scozia ha onorato la sua reputazione di “territorio ostile” per i sionisti con l’annuncio che l’ultimo fondo pensioni delle amministrazioni locali del Paese ha disinvestito dalla controversa banca israeliana Hapoalim. Anni di campagne e pressioni, guidate dalla Campagna Scozzese di Solidarietà con la Palestina e altri scozzesi sensibili, hanno dato i loro frutti.

Ciò dimostra ancora una volta la forza del movimento non violento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), un’iniziativa diretta dai palestinesi che lavora per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza. Il BDS è calunniato dai gruppi di pressione filoisraeliani solo perché insiste sul fatto che i palestinesi hanno gli stessi diritti del resto dell’umanità.

Ora la Scozia è una zona libera dalla banca Hapoalim”, ha dichiarato il cofondatore di SPSC, Mick Napier, dopo aver annunciato che il Fondo Pensioni del Lothian [regione della Scozia sud-orientale, ndtr.], che rappresenta i quattro consigli comunali orientale, centrale e occidentale e della città di Edimburgo ha disinvestito dalla banca israeliana. Hapoalim compare nel database dell’ONU delle imprese che partecipano ad attività che danneggiano i diritti civili, politici, economici, sociali e culturali del popolo palestinese in tutto il territorio palestinese occupato, compresa Gerusalemme est.

Un’indagine dell’ONU ha scoperto che le attività della banca Hapoalim riguardano la fornitura di servizi e programmi che appoggiano la conservazione e l’esistenza di colonie illegali nella Cisgiordania occupata, compresa la rete di trasporti. Anche le operazioni bancarie e finanziarie contribuiscono a sviluppare, ampliare o conservare le illegali colonie israeliane e le loro attività, compresi i prestiti immobiliari e lo sviluppo di imprese.

Il fondo pensioni del Lothian è il secondo più grande delle autorità locali scozzesi, con 84.000 affiliati e 8.000 milioni di sterline di attivo. È il terzo fondo di questo tipo, e l’ultimo, che ha preso le distanze dalla banca Hapoalim. Il fondo pensioni di Falkirk [nella Scozia centro-meridionale, ndtr.] è stato il primo a disinvestire nel 2018 in risposta alle campagne dell’SPSC appoggiate dalla pressione dei sindacati. L’anno successivo il fondo pensioni del Tayside [regione a nord di Edimburgo, ndtr.] ha disinvestito, lasciando il fondo pensioni del Lothian come unico fondo municipale scozzese che continuava a fare investimenti nella banca.

Ora è giunta la notizia che anche questo ha disinvestito, il che significa che gli 11 fondi pensione delle autorità locali scozzesi si sono liberati dagli investimenti nell’impresa israeliana che contribuisce a sostenere la rete di colonie illegali di Tel Aviv nei territori palestinesi occupati.

Secondo Napier il fondo del Lothian ha resistito ad anni di pressioni perché disinvestisse, finché in marzo ha ceduto. Benché sia poco probabile che ciò venga attribuito alle campagne del SPSC, i suoi membri e i sindacati hanno fatto costantemente pressione nelle riunioni del consiglio di amministrazione del fondo pensioni e i consiglieri eletti hanno ricevuto migliaia di mail degli elettori locali.

Napier ha spiegato che una delegazione della campagna “Time to Divest” [Tempo di Disinvestire] si è riunita con il direttore generale del fondo pensioni del Lothian e i suoi collaboratori nel dicembre 2019. “Nonostante la riunione, non abbiamo trovato un accordo perché il fondo fosse coerente con il suo impegno riguardo ai Principi di Investimento Responsabile dell’ONU e si assicurasse di non investire in imprese che vengono considerate complici di violazioni dei diritti umani.”

Imperterriti, per ottenere questa vittoria storica SPSC, Unison Scotland [sindacato scozzese degli impiegati pubblici, ndtr.] e altri membri della campagna Time To Divest hanno inviato letteralmente migliaia di mail ai consiglieri locali. “Questo sarà un boccone amaro da masticare per i sionisti,” ha aggiunto Napier, anche se ha avvertito che gli attivisti del BDS scozzese non si accontenteranno. “C’è ancora molto da fare per esercitare pressioni affinché i fondi pensione delle autorità locali scozzesi continuino a disinvestire da imprese belliche e altre operazioni commerciali che sono complici di quelli che Human Rights Watch [famosa Ong internazionale per i diritti umani, ndtr.] definisce “crimini contro l’umanità di apartheid e persecuzione” da parte di Israele.

Egli ha sottolineato che il fondo pensioni del Lothian, per esempio, continua a investire in Booking Holdings (anch’esso presente nella lista dell’ONU), in Caterpillar, BAE Systems, Lockheed Martin, General Dynamics e Northrop Grumman, il che significa che continua a investire nell’apartheid israeliano. “La nostra campagna continua. Stiamo mostrando in tutta la Scozia che forti pressioni possono produrre risultati.” L’esperto attivista ha invitato più persone a essere coinvolte come volontari inviando una mail a info@timetodivest.net.

Nel contempo a sud del Confine [scozzese, ndtr.] altri attivisti filopalestinesi hanno scelto una forma meno sottile di azione diretta come metodo che prediligono per affrontare le imprese belliche le cui armi sono state usate soprattutto contro le popolazioni civili a Gaza e nella Cisgiordania occupata. Palestine Action [Azione Palestina] ha preso di mira la sede centrale della LaSalle Investment Management, insozzando il luogo con pittura rosso sangue, impedendovi l’ingresso e rivestendo il posto con video sulla “scena del delitto di guerra. ” LaSalle Investment Management, una succursale della Jones Lang LaSalle, è proprietaria della sede centrale di Elbit Systems, che consente quelle che l’associazione descrive come “operazioni letali e agevolazione dei crimini di guerra israeliani.”

Finora LaSalle ha rifiutato di rispondere alle ripetute richieste di sfrattare Elbit o di riconoscere il ruolo che l’impresa gioca nella repressione dei palestinesi e di altri civili in tutto il mondo. L’azione diretta di mercoledì segna un’escalation contro i proprietari di tutti i siti di Elbit in Gran Bretagna. Il gruppo afferma che non smetterà “finché Elbit sarà sfrattata dal Regno Unito e completamente chiusa.”

Un comunicato stampa reso pubblico mercoledì afferma: “Palestine Action è impegnata in una campagna di forti azioni dirette contro Elbit System, danneggiando il più possibile i profitti dell’impresa per chiuderla del tutto e impedire che venga agevolata l’uccisione di palestinesi.”

Cosa importante, il gruppo ha evidenziato che né i crimini di guerra israeliani né Elbit System operano in modo isolato. “Per funzionare efficacemente si basano su una catena logistica globale di produzione, spedizione, vendita e, ovviamente, locatori. Palestine Action intende rompere questa catena mortale di approvvigionamento per salvare la vita dei palestinesi.”

Si stima che le audaci iniziative di Palestine Action abbiano obbligato l’impresa a chiudere le proprie attività e siano costate milioni di sterline di perdite nella produzione.

Elbit Systems è la principale industria israeliana di armamenti e produce l’85% degli aerei da guerra e da ricognizione senza pilota dell’esercito di terra israeliano. Molti prodotti di Elbit, in particolare i droni da guerra Hermes, vengono utilizzati direttamente nel massacro indiscriminato di civili palestinesi a Gaza e nella repressione e controllo dei palestinesi nel resto dei territori occupati.

L’impresa pubblicizza apertamente e cinicamente i suoi prodotti come “testati in combattimento”, quello che per molti attivisti è un riferimento all’uso di queste armi contro civili palestinesi. Dicono che Elbit esporta i suoi prodotti letali a regimi oppressivi di tutto il mondo. Anche i civili del Myanmar, dell’Armenia e dello Sri Lanka e i rifugiati e richiedenti asilo che attraversano il Mediterraneo e il Canale della Manica hanno denunciato il loro uso.

Uno dei maggiori sostenitori di questo tipo di azioni dirette è stato il leader dei diritti civili, il defunto Martin Luther King, che ha persino ammiratori in Israele, dove il governo ha dato il suo nome a un parco nazionale. Vale la pena ricordare agli israeliani e ai loro sostenitori che fu King ad affermare: “Lo scopo dell’azione diretta è creare una situazione talmente critica da portare inevitabilmente a un negoziato.”

I successivi governi israeliani di Benjamin Netanyahu hanno dimostrato che lo Stato di occupazione è impegnato ad ampliare il proprio territorio invece di tornare alle frontiere formali del 1967 (la Linea Verde dell’”armistizio” del 1949) e consentire la fondazione di uno Stato palestinese sostenibile. I negoziati del cosiddetto “processo di pace” hanno strappato una concessione dopo l’altra ai palestinesi senza niente in cambio. È poco probabile che il nuovo “governo per il cambiamento” proposto sia diverso.

Per questo sono così importanti le vittorie del BDS come quella vista in Scozia, e l’azione diretta contro quanti traggono benefici dall’apartheid israeliano. Lo Stato sionista deve sapere che, finché continua ad esistere l’occupazione israeliana, ci sarà un prezzo da pagare. I negoziati vanno benissimo, ma la libertà e la giustizia per i palestinesi, basate sui diritti umani e sulle leggi internazionali, devono avere la priorità.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

Yvonne Ridley

La giornalista e scrittrice britannica Yvonne Ridley propone analisi politiche su questioni riguardanti il Medio Oriente, l’Asia e la guerra mondiale contro il terrorismo. Il suo lavoro è stato pubblicato su molte pubblicazioni di tutto il mondo, da oriente a occidente, da testate tanto diverse come The Washington Post, il Teheran Times e il Tripoli Post, ottenendo riconoscimenti e premi negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Dieci anni di lavoro per le grandi testate di Fleet Street [via di Londra in cui si trovano i principali quotidiani britannici, ndtr.] hanno ampliato il suo ambito di attività ai media elettronici e alla radiofonia, con la produzione di una serie di documentari su argomenti palestinesi e internazionali, da Guantanamo alla Libia alle Primavere Arabe.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La lobby filoisraeliana teme che l’appoggio si autodistrugga a causa dei bombardamenti su Gaza

Yvonne Ridley

19 maggio 2021 – Middle East Monitor

La scorsa notte l’influente lobby filoisraeliana in America era sbigottita dopo che si è saputo che il governo USA potrebbe bloccare la vendita a Israele di missili teleguidati per 735 milioni di dollari. I politici USA, in genere sostenitori dello Stato sionista, sono divisi sul fatto di dare la loro usuale approvazione a un simile accordo.

Qualunque cosa faccia a meno di un appoggio incondizionato da parte di quelli di Washington porterebbe ad accuse di antisemitismo da parte dei lobbysti, ma persino loro stanno avendo sempre più difficoltà a giustificare i crimini di guerra commessi dal loro Stato favorito contro i palestinesi nella Striscia di Gaza.

Mentre i bombardamenti israeliani di civili palestinesi hanno provocato una condanna globale, quello che pare concentrare l’attenzione dei e delle parlamentari a Washington è il fatto che siano stati deliberatamente presi di mira dallo Stato dell’occupazione il grattacielo che ospitava importanti uffici dei mezzi i di comunicazione e case civili, tra cui gli uffici di una compagnia americana, l’Associated Press [agenzia di notizie USA, ndtr.]. I democratici della Commissione per gli Affari Esteri della Camera stanno facendo pressione sull’amministrazione Biden perché rimandi almeno la vendita di armi tecnologicamente avanzate in attesa di un riesame. Deve insistere che venga firmato un accordo di cessate il fuoco prima che sia dato il via libera alla vendita.

Il gruppo di pressione ebraico If Not Now [Se Non Ora] ha accolto positivamente la notizia dell’opposizione del Partito Democratico all’accordo d’emergenza per la vendita di armi. “È un segno incoraggiante di quanto accadrà. Per decenni [l’organizzazione della lobby filo-israeliana] AIPAC ha cinicamente utilizzato false accuse di antisemitismo per rendere impossibile ai democratici mettere in discussione il modo in cui gli USA stavano finanziando le politiche israeliane di apartheid, ha detto la portavoce Morriah Kaplan. “Ora, grazie al movimento guidato dai palestinesi in Israele/Palestina e nella diaspora, chiunque presti attenzione può vedere che queste bombe fabbricate e finanziate dagli USA vengono utilizzate per uccidere palestinesi e commettere crimini di guerra. I bombardamenti israeliani stanno esacerbando le tensioni e rendendo sia i palestinesi che gli ebrei israeliani sempre meno sicuri. Se Joe Biden continua a imporre questo accordo riguardo agli armamenti sarà chiaramente dalla parte sbagliata della storia e del suo stesso partito.”

Ovviamente tra le voci di dissenso c’è stata Ihlan Omar, esplicita critica di Israele e membro della commissione. La parlamentare ha affermato che sarebbe “sconvolgente” che l’amministrazione Biden permettesse la vendita “senza alcun vincolo in seguito alla crescente violenza e agli attacchi contro i civili.”

Un ulteriore dissenso è arrivato da uno dei “buoni amici” di Israele, il politico texano Joaquin Castro, che ha affermato che gli USA non dovrebbero più guardare da un’altra parte mentre vengono commesse atrocità sul territorio di Gaza dagli israeliani. Un rinvio, ha affermato, consentirebbe alla commissione di condurre un riesame approfondito.

“Sarebbe ragionevole chiedere un rinvio di questa vendita in modo che possiamo verificarla alla luce di quanto sta avvenendo,” ha spiegato Castro, “in particolare il fatto che Israele, che è nostro buon amico e che gli Stati Uniti hanno appoggiato da generazioni, ora ha preso di mira un edificio che ospitava un’agenzia americana, l’Associated Press.” Ha evidenziato che nessuno può limitarsi a guardare da un’altra parte. “Gli Stati Uniti devono inviare un fermo messaggio.”

Eventuali risoluzioni di disapprovazione condivise richiedono un’approvazione speciale della commissione, perché il tempo per presentare un ricorso è già tecnicamente scaduto. Tuttavia il fatto che politici USA siano divisi sull’accordo relativo agli armamenti illustra i venti di cambiamento che soffiano nei corridoi del potere a Washington.

Lunedì pomeriggio i democratici hanno tenuto un incontro urgente sulla prevista vendita dopo che il Washington Post ha informato che l’accordo sugli armamenti include kit di Joint Direct Attack Munitions (“JDAM”), che trasformano le bombe in missili teleguidati e Guided Bomb Unit-39s (GBU-39), un’arma sviluppata per penetrare in strutture fortificate situate a grande profondità sottoterra.

Il presidente della Commissione Affari Esteri della Camera, il deputato Gregory Meeks, ha accettato di inviare una lettera all’amministrazione Biden chiedendo che la vendita venga rinviata mentre i parlamentari riesaminano il contratto che è stato formalmente autorizzato il 5 maggio e di cui il Congresso era stato informato. Si tratta di un processo di revisione di 15 giorni, che termina giovedì [20 maggio].

Meeks è considerato un grande amico delle lobby filo-israeliane di Washington ed è una presenza costante alla conferenza annuale dell’AIPAC (the American Israel Public Affairs Committee) [Commissione degli Affari Pubblici Israelo-Americana]. Tuttavia pare che la disponibilità comprata e pagata dall’AIPAC non sia più una garanzia di influenza sul Congresso.

Sono scoppiate tensioni tra i deputati democratici sulla commissione che vuole ritardare il discusso accordo. Molti affermano di aver appreso della sospensione dell’accordo solo durante il fine settimana e hanno criticato la commissione per la scarsa trasparenza.

Mentre tenevano un incontro urgente per discutere sul futuro dell’accordo, l’esercito israeliano era impegnato a lanciare attacchi aerei mortali sulla Striscia di Gaza. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha esternato le solite bellicose minacce: “Faremo tutto il necessario per ripristinare l’ordine, la tranquillità e la sicurezza del nostro popolo e la deterrenza. Stiamo cercando di ridurre la capacità terroristica di Hamas e la sua volontà di riprovarci. Quindi ci vorrà un po’ di tempo. Spero che non ci voglia molto, ma non sarà immediato.”

Tuttavia, nonostante i tentativi di contrastare la copertura giornalistica dal vivo sul terreno a Gaza distruggendo deliberatamente gli uffici di alcune agenzie di notizie con missili e bombe, il mondo esterno può vedere chiaramente la devastazione provocata da Israele. E sappiamo tutti dell’uccisione di uomini, donne e bambini innocenti.

È quasi certo che tra la vasta gamma di armamenti utilizzati contro la popolazione civile ci sono missili ottenuti da Israele dal Dipartimento della Difesa USA attraverso un accordo di 1.8 miliardi di dollari nel 2015 per la fornitura di armi.

Nel contratto di vendita c’erano 14.500 kit JDAM per trasformare missili intelligenti e altre armi di distruzione di massa installati su aerei da combattimento e droni israeliani come quelli inviati a bombardare il grattacielo di Gaza che ospitava l’Associated Press e Al Jazeera. Israele ha sostenuto che l’agenzia di intelligence militare di Hamas stava utilizzando l’edificio commerciale e residenziale, ma finora non è stata fornita alcuna prova di ciò. L’AP chiede un’inchiesta indipendente. Nel contempo anche una linea elettrica di servizio dell’unica centrale per la maggior parte di Gaza City è stata distrutta.

I tradizionali amici di Israele sembrano essere divisi sull’offensiva militare dello Stato sionista e alcuni democratici americani stanno facendo pressione sul presidente Joe Biden perché faccia presente a Netanyahu i loro sentimenti.

“Non riesco a ricordare una guerra aperta in cui vengano uccisi bambini da ambo le parti in cui gli USA non abbiano aggressivamente spinto per un cessate il fuoco,” ha detto ai giornalisti il senatore Tim Kaine.

Il presidente della sottocommissione Relazioni Estere sul Medio Oriente del Senato, senatore Chris Murphy, ha sottolineato che “se Israele non crede che il cessate il fuoco sia nel suo interesse, ciò non significa che noi dobbiamo accettare questa opinione. Abbiamo un enorme potere di persuasione.”

In effetti l’America ha un enorme potere di persuasione e sarebbe incoraggiante vedere che una volta tanto venga utilizzato per appoggiare il popolo palestinese. Non possiamo che sperare che il potere e l’influenza della lobby filo-israeliana sia in declino. Sarebbe una cosa buona, non solo per i palestinesi, ma anche per la democrazia occidentale.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Unità, infine: il popolo palestinese si è sollevato

Ramzy Baroud

18 maggio 2021 – Middle East Monitor

 

Anzitutto qualche chiarimento sul linguaggio usato per descrivere le violenze in atto nella Palestina occupata ed anche in tutto Israele. Non è un ‘conflitto’. Non è neppure una ‘controversia’ o una ‘violenza settaria’, né una guerra in senso tradizionale.

Non è un conflitto perché Israele è una potenza occupante e il popolo palestinese è una nazione occupata. Non è una controversia perché libertà, giustizia e diritti umani non possono essere trattati come semplici divergenze politiche. I diritti inalienabili del popolo palestinese sono inscritti nel diritto internazionale e umanitario e l’illegalità delle violazioni israeliane dei diritti umani in Palestina sono riconosciute dalle stesse Nazioni Unite.

Se è una guerra, allora è una guerra unilaterale israeliana, che incontra una modesta, ma reale e determinata resistenza palestinese.

In realtà, si tratta di una rivolta palestinese, un’Intifada senza precedenti nella storia della lotta palestinese, sia per la sua natura che per la sua portata.

Per la prima volta da tanti anni vediamo il popolo palestinese unito, da Gerusalemme Al-Quds [nome arabo della città di Gerusalemme. Significa “la (città) santa”, ndtr.] a Gaza, alla Cisgiordania e, anche in modo più importante, alle comunità, città e villaggi nella Palestina storica – oggi Israele.

Questa unità conta più di qualunque cosa, è molto più carica di conseguenze di qualche accordo tra le fazioni palestinesi. Essa eclissa Fatah e Hamas e tutto il resto, perché senza un popolo unito non può esserci una resistenza significativa, una prospettiva di liberazione, una lotta vincente per la giustizia.

Il Primo Ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu non poteva certo prevedere che un’azione di routine di pulizia etnica nel quartiere di Gerusalemme est di Sheikh Jarrah avrebbe condotto ad una sollevazione palestinese, che unifica tutti i settori della società palestinese in una dimostrazione di unità senza precedenti.

Il popolo palestinese ha deciso di lasciarsi alle spalle tutte le divisioni politiche e le polemiche di fazione. Sta invece creando nuove terminologie, incentrate sulla resistenza, la liberazione e la solidarietà internazionale. Di conseguenza sta sfidando la faziosità, e contemporaneamente ogni tentativo di normalizzare l’apartheid israeliano. Di pari importanza, la voce palestinese sta ora bucando il silenzio internazionale, costringendo il mondo ad ascoltare un unico canto di libertà.

I capi di questo nuovo movimento sono giovani palestinesi, a cui è stato impedito di partecipare a qualunque forma di rappresentanza democratica, che vengono costantemente emarginati ed oppressi dalla loro stessa leadership e dalla incessante occupazione militare israeliana. Sono nati in un mondo di esilio, povertà ed apartheid, indotti a pensare di essere inferiori, di una razza inferiore. Il loro diritto all’autodeterminazione e tutti gli altri loro diritti sono stati rinviati indefinitamente. Sono cresciuti senza speranza, vedendo le loro case demolite, la loro terra rubata e i loro genitori umiliati.

Infine, si stanno sollevando.

Senza un previo coordinamento e senza un manifesto politico, questa nuova generazione palestinese sta facendo sentire la sua voce, sta mandando un inequivocabile forte messaggio ad Israele e alla sua società sciovinista di destra, cioè che il popolo palestinese non è fatto di vittime passive: che la pulizia etnica di Sheikh Jarrah e del resto della Gerusalemme est occupata, il protratto assedio di Gaza, l’interminabile occupazione militare, la costruzione di colonie ebraiche illegali, il razzismo e l’apartheid non resteranno più sotto silenzio; benché stanchi, poveri, spossessati, assediati ed abbandonati, i palestinesi continueranno a difendere i propri diritti, i propri luoghi sacri e l’assoluta inviolabilità del proprio popolo.

Certo, l’attuale violenza è stata fomentata dalle provocazioni israeliane nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est. Tuttavia non si è mai trattato solo della pulizia etnica di Sheikh Jarrah. Questo quartiere assediato non è che un microcosmo della più ampia lotta palestinese.

Netanyahu può aver sperato di usare Sheikh Jarrah come un modo per mobilitare il suo elettorato di destra intorno a sé, per formare un governo di emergenza o aumentare le sue possibilità di vincere anche le quinte elezioni. Il suo spericolato comportamento, inizialmente dovuto a motivi del tutto personali, ha scatenato una ribellione popolare tra i palestinesi, mostrando Israele come lo Stato violento, razzista e di apartheid quale è ed è sempre stato.

L’unità palestinese e la resistenza popolare si sono dimostrate vincenti anche sotto altri aspetti. Mai prima d’ora avevamo visto questa ondata di sostegno alla libertà palestinese, non solo da parte di milioni di persone comuni in tutto il mondo, ma anche da parte di celebrità – star del cinema, calciatori, intellettuali di primo piano ed attivisti politici, addirittura modelle e influencer dei social media. Gli hashtag ‘SaveSheikhJarrah’ e ‘FreePalestine’, tra i tanti altri, sono ora interconnessi e hanno pervaso tutte le piattaforme social per settimane. I continui tentativi di Israele di presentarsi come una vittima perenne di qualche immaginaria orda di arabi e musulmani non pagano più. Il mondo finalmente può vedere, leggere e ascoltare la tragica realtà della Palestina e la necessità di porre termine immediatamente a questa tragedia.

Nulla di tutto ciò sarebbe possibile se non per il fatto che tutti i palestinesi hanno legittime ragioni e stanno parlando all’unisono. Nella loro spontanea reazione e nella genuina, comune solidarietà tutti i palestinesi sono uniti, da Sheikh Jarrah all’intera Gerusalemme, a Gaza, Nablus, Ramallah, Al-Bireh e persino alle città palestinesi all’interno di Israele – Lod, Umm Al-Fahm, Kufr Qana ed altre.

Nella nuova rivoluzione popolare della Palestina le fazioni, la geografia e tutte le divisioni politiche sono irrilevanti. La religione non è fonte di divisione, ma di unità spirituale e nazionale.

Le attuali atrocità israeliane a Gaza continuano, con un crescente pedaggio di morte. Questa devastazione continuerà fino a quando il mondo tratterà il devastante assedio della impoverita e sottile Striscia (di Gaza) come irrilevante. La gente a Gaza moriva da molto prima che le bombe israeliane esplodessero sulle sue case e quartieri. Moriva per la mancanza di medicine, per l’acqua inquinata, per la carenza di elettricità e per le infrastrutture fatiscenti.

Dobbiamo salvare Sheikh Jarrah, ma dobbiamo anche salvare Gaza; dobbiamo chiedere la fine dell’occupazione militare israeliana della Palestina e, con essa, del sistema di discriminazione razziale e di apartheid. Le organizzazioni internazionali per i diritti umani sono ora precise e determinate nel descrivere questo regime razzista, con Human Rights Watch e l’associazione israeliana per i diritti B’Tselem che si uniscono all’appello per l’eliminazione dell’apartheid nell’intera Palestina.

Parlatene. Parlatene apertamente. I palestinesi si sono svegliati. E’ ora di schierarsi al loro fianco.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)