Per scongiurare una grave crisi alimentare la Palestina richiede un’attenzione immediata

Ramzy Baroud

19 aprile 2022 – Middle East Monitor

Mohammed Rafik Mhawesh, un giovane giornalista di Gaza e mio amico, mi ha detto che nel territorio assediato nelle ultime settimane il costo del cibo è salito alle stelle. Le famiglie già impoverite faticano a mettere insieme il pranzo con la cena. Ha spiegato che “I prezzi dei generi alimentari hanno subito una notevole impennata, specialmente dall’inizio della guerra Russia-Ucraina.”

Il costo di alimenti essenziali come grano e carne è raddoppiato. Quello dei polli, per esempio, che comunque solo una piccola frazione degli abitanti Gaza poteva permettersi, è aumentato da 20 shekel (circa 5.70 euro) a 45 shekel (quasi 13 euro).

Tale impennata sarebbe forse gestibile in alcune parti del mondo, ma in una società già poverissima che da 15 anni subisce un assedio ermetico da parte dell’esercito israeliano si tratta di una imminente e grave crisi alimentare.

L’ong internazionale Oxfam l’ha segnalata l’11 aprile, quando ha comunicato che i prezzi dei generi alimentari nella Palestina occupata erano saliti del 25% e, cosa più allarmante, le scorte di farina nei Territori Palestinesi Occupati potrebbero “esaurirsi in tre settimane “.

L’impatto della guerra Russia-Ucraina si fa sentire in tutto il mondo, in alcuni luoghi più che in altri. I Paesi africani e mediorientali che da anni combattono contro povertà, fame e disoccupazione sono i più colpiti.

Comunque la Palestina è tutta un’altra storia. È un Paese occupato che dipende quasi interamente dai provvedimenti della potenza occupante, Israele, che si rifiuta di rispettare il diritto internazionale e quello umanitario. Il problema dei palestinesi è complesso, ma, in un modo o nell’altro, quasi ognuno dei suoi vari aspetti è collegato a Israele.

Da molti anni Gaza è soggetta al blocco economico imposto da Israele. La quantità di cibo a cui Israele permette di entrare nella Striscia è razionata e manipolata dallo Stato occupante e usata come punizione collettiva. Amnesty International nel suo rapporto sull’apartheid in Israele pubblicato a febbraio ha dettagliato le restrizioni israeliane sulle derrate palestinesi e le riserve di carburante. Secondo l’organizzazione dei diritti umani Israele usa “formule matematiche per determinare quanto cibo far entrare a Gaza”, limitando le provviste a ciò che Tel Aviv giudica “essenziale per la sopravvivenza della popolazione civile”.

A parte i molti problemi infrastrutturali derivanti dall’assedio, come la quasi totale mancanza di acqua potabile, elettricità e attrezzature agricole, Gaza ha per esempio anche perso gran parte della sua terra coltivabile, destinata ad essere una zona di esclusione militare israeliana stabilita lungo il confine nominale intorno alla Striscia.

La Cisgiordania non sta molto meglio. La maggior parte dei palestinesi nei Territori Occupati, oltre all’impatto devastante della pandemia da Covid-19 e alle debolezze strutturali nell’Autorità Palestinese, afflitta da corruzione e malgoverno, sta patendo l’oppressione crescente dell’occupazione israeliana.

Secondo Oxfam l’ANP importa il 95% del suo grano e non possiede nessuna struttura di stoccaggio. Tutte queste importazioni passano attraverso Israele, che controlla ogni accesso alla Palestina dal mondo esterno. Dato che Israele stesso importa quasi metà del suo grano e cereali dall’Ucraina, i palestinesi sono ostaggio di questo particolare meccanismo dell’occupazione.

Comunque Israele ha ammassato riserve di cibo ed è in massima parte indipendente per l’energia, mentre i palestinesi sono in difficoltà a tutti i livelli. Mentre l’ANP ha parte della colpa per aver investito nel suo elefantiaco apparato di “sicurezza” a spese della sicurezza alimentare, Israele ha in mano quasi tutte le chiavi della sopravvivenza dei palestinesi.

A causa delle centinaia di checkpoint nella Cisgiordania occupata posti dall’esercito israeliano e che separano le comunità una dall’altra e i contadini dalle proprie terre, in Palestina l’agricoltura sostenibile è quasi impossibile. Questa complessa situazione è ulteriormente aggravata da due grossi problemi: gli oltre 700 kilometri del cosiddetto “Muro di Separazione” che non “separano” per niente gli israeliani dai palestinesi, ma privano illegalmente i palestinesi di ampie aree delle loro terre, quasi tutte zone agricole, e il vero e proprio furto di acqua palestinese dalle falde acquifere della Cisgiordania. Mentre molte comunità palestinesi in estate non hanno acqua potabile, Israele non ha mai scarsità di acqua in nessun periodo dell’anno.

La cosiddetta Area C determinata dagli Accordi di Oslo costituisce quasi il 60% dell’area totale della Cisgiordania ed è sotto completo controllo militare israeliano. Sebbene sia relativamente poco popolata, contiene la maggior parte dei terreni agricoli dei Territori Palestinesi Occupati, specialmente le zone della fertilissima valle del Giordano. A causa della pressione internazionale Israele ha rimandato la sua annessione ufficiale dell’Area C, ma essa è comunque praticamente avvenuta e i palestinesi sono lentamente cacciati via e rimpiazzati da una popolazione crescente di coloni illegali ebrei-israeliani.

I prezzi dei generi alimentari in rapida crescita stanno danneggiano proprio quei contadini e allevatori che sono impegnati a riempire l’enorme voragine causata dall’insicurezza alimentare globale risultante dalla guerra. Secondo Oxfam, in Cisgiordania i costi dei mangimi sono saliti del 60%, problema che va ad aggiungersi al “presente fardello” che gli allevatori devono affrontare, come l’”inasprimento dei violenti attacchi dei coloni israeliani” e “lo sfollamento forzato”, un eufemismo usato per definire la pulizia etnica, parte delle politiche di annessione di Israele.

La fine della guerra Russia-Ucraina probabilmente porterebbe un parziale miglioramento, ma persino questo non porrebbe fine all’insicurezza alimentare della Palestina dato che il problema è provocato e prolungato da specifiche politiche israeliane. Nel caso di Gaza infatti la crisi è totalmente creata da Israele con in mente specifici obiettivi politici. L’infame commento dell’ex consigliere del governo israeliano Dov Weisglass che nel 2006 spiegava i motivi dell’assedio di Gaza resta il principio guida dell’atteggiamento di Israele verso la Striscia: “L’idea è di mettere i palestinesi a dieta, ma di non farli morire di fame.”

Perciò, per scongiurare una grave crisi alimentare, la Palestina ha bisogno di un’attenzione immediata. L’estrema e prolungata povertà e l’elevata disoccupazione a Gaza non lasciano alcun margine per altre disastrose limitazioni. Comunque qualsiasi cosa si faccia ora sarebbe solo un rimedio a breve termine. Si deve tenere un dibattito serio, che coinvolga i palestinesi, i Paesi arabi, la FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) e altri organismi per discutere e risolvere l’insicurezza alimentare palestinese. Per la gente della Palestina occupata questa è la vera e concreta minaccia esistenziale.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perché un parlamentare israeliano dell’estrema destra ha fatto irruzione nella moschea Al-Aqsa?

Nabil Al-Sahli

5 aprile 2022 – Middle East Monitor 

Giovedì scorso un parlamentare israeliano dell’estrema destra ha fatto irruzione nei cortili della moschea Al-Aqsa. Durante l’azione l’estremista Itamar Ben-Gvir è stato protetto da una massiccia presenza della polizia. La sua incursione rientra nel contesto dell’obiettivo israeliano politico-strategico a lungo termine di ebraizzare la Gerusalemme occupata e i suoi monumenti religiosi, il più importante dei quali è il Nobile Santuario di Al-Aqsa.

È evidente che con le sue mosse aggressive il governo di occupazione cerchi l’escalation a Gerusalemme in generale e nella moschea Al-Aqsa in particolare. Già sostiene la divisione temporale e spaziale fra i nativi gerosolimitani palestinesi e i coloni ebrei con lo scopo ultimo di imporre l’ebraizzazione come fatto compiuto.

Il ritmo delle irruzioni nella moschea Al-Aqsa da parte di figure politiche e religiose sioniste è aumentato, come sono cresciute anche le richieste di dividere la moschea fra musulmani ed ebrei, e a ciò è stato dedicato molto tempo nel dibattito fra vari partiti israeliani.

L’intenzione delle ripetute incursioni nella moschea da parte dello Stato israeliano d’apartheid è di permettere agli ebrei di svolgervi le preghiere talmudiche cosa che “giustificherebbe” l’abietta richiesta di dividere Al-Aqsa, così come in passato la falsa giustificazione fu usata per dividere la moschea di Abramo [tomba dei Patriarchi per gli ebrei, ndtr.] a Hebron. Vale la pena di far notare che Israele non si fermerà a questo obiettivo di breve termine. È ben noto che i leader israeliani e i coloni ebrei estremisti vogliono distruggere tutti i luoghi di preghiera musulmani nel Nobile Santuario e costruire al loro posto un tempio.

Richieste di dividere e occupare la moschea di Al-Aqsa per costruire un tempio non sono nulla di nuovo, sono state fatte con veemenza dal 1967, quando Israele occupò e successivamente annesse la parte orientale di Gerusalemme, un’annessione che rimane illegale ai sensi del diritto internazionale. Fra chi ha avanzato queste richieste ci sono leader politici, militari, religiosi ed esponenti dei diritti umani dello Stato di occupazione. Sono spesso molto visibili durante le campagne elettorali israeliane, quando i candidati rivaleggiano fra loro per attrarre il crescente voto dei coloni.

Una delle irruzioni più gravi fu quella dell’11 luglio 1971 da parte di un gruppo di dodici giovani del movimento Betar [del sionismo revisionista di destra, ndt.]. Cercarono di pregare nella moschea Al-Aqsa quando agli ebrei era proibito dalle stesse autorità religiose [ebraiche] di entrare nel complesso. Undici giorni dopo un altro gruppo di ebrei dello stesso movimento riuscì a pregare nella moschea.

L’irruzione più pericolosa nel Nobile Santuario Al-Aqsa avvenne il 28 settembre 2000 da parte dell’allora leader del partito di destra Likud Ariel Sharon, protetto da decine di soldati e coloni. Quella “visita provocatoria” scatenò l’Intifada (Insurrezione) di Aqsa, durante la quale furono uccisi e feriti migliaia di palestinesi.

Nel 2009 ci fu il record di irruzioni israeliane nella moschea Al-Aqsa. Nel settembre di quell’anno membri di un’unità della polizia di occupazione conosciuta come gli “esperti di esplosivi” si aggirarono nel santuario e nella moschea. Nello stesso mese gli scontri fra fedeli musulmani, polizia israeliana e gruppi di ebrei dentro la moschea Al-Aqsa e ai suoi ingressi si conclusero con 16 palestinesi feriti e numerosi arresti.

Negli ultimi anni le incursioni contro Al-Aqsa e i suoi cortili sono aumentate. L’anno scorso in maggio durante il mese del Ramadan coloni estremisti protetti dalla polizia e dall’esercito di occupazione sono entrati nel santuario, una mossa che ha causato una sollevazione che ha coinvolto palestinesi nei territori occupati, inclusi quelli occupati nel 1948 [cioè in Israele, ndt.] come anche più in generale nella diaspora. L’unità nazionale è stata stabilita in modo chiaro ed evidente.

L’irruzione dentro Al-Aqsa da parte di Itamar Ben-Gvir non è la prima e non sarà l’ultima da parte di un israeliano, politico, giudice o membro dei vari servizi di sicurezza. Gruppi di coloni ebrei estremisti protetti da polizia ed esercito di occupazione israeliani entrano frequentemente dentro Al-Aqsa.

Quello che è certo in tutto ciò è che Israele ha cominciato ad accelerare i suoi piani di ebraizzare Gerusalemme e passare alla fase in cui riusciranno a costruire un tempio a spese della moschea benedetta di Al-Aqsa.

Alcuni analisti credono che l’incursione di Ben-Gvir suggerisca che Israele intende avvantaggiarsi dell’intrinseca tendenziosità filoisraeliana riguardo all’occupazione dell’amministrazione Biden e di altri alleati occidentali. Facendo ciò spera anche di avvantaggiarsi della scandalosa e continua divisione politica palestinese per rafforzare la sua morsa su Gerusalemme ed ebraizzarne tutti gli aspetti della vita.

Incursioni nel Nobile Santuario di Al-Aqsa e la sua profanazione da parte di coloni ebrei illegali e altri colonizzatori sionisti, indipendentemente dalla loro affiliazione politica, riflette le decisioni prese dai vari governi israeliani che si sono succeduti per controllare la moschea e imporvi un’assoluta sovranità israeliana ebraica. L’idea della divisione temporale e spaziale della moschea non è più solo uno slogan, sta già accadendo come preludio all’ebraizzazione della città occupata di Gerusalemme, il cui primo obiettivo è la benedetta moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo di culto più sacro dell’Islam.

Ciò richiede una risposta da parte del mondo arabo e islamico per far pressione sulla comunità internazionale per una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, vincolante per tutti gli Stati membri, incluso Israele, al fine di prevenire la divisione della moschea Al-Aqsa e che condanni tutte le misure israeliane volte a cambiare il carattere della città di Gerusalemme in generale e della moschea in particolare. Ciò darà anche maggiore rilievo alla dimensione araba e islamica del problema di Gerusalemme e al rischio a cui è esposta Al-Aqsa. La richiesta che l’Onu metta in pratica le sue risoluzioni emesse dal 1967 e relative alla città di Gerusalemme, alla moschea di Al-Aqsa e a tutte le altre zone sacre può quindi essere posta con maggiore serietà. Tali risoluzioni richiedono la cessazione dell’espansione delle colonie, il loro smantellamento e l’annullamento dei cambiamenti forzati imposti dall’occupante Stato di Israele.

Essendo cominciato da pochi giorni il mese del Ramadan del 2022, resta la domanda se vedremo o no un’altra sollevazione palestinese contro le continue politiche israeliane di ebraizzazione come le incursioni di coloni nel Nobile Santuario della moschea di Al-Aqsa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il Consiglio per i Diritti Umani adotta la prima risoluzione a favore della Palestina

31 marzo 2022 – Middle East Monitor

Martedì il Consiglio per i Diritti Umani dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ha approvato [quasi, n.d.t.] all’unanimità una risoluzione per accertare le responsabilità e per il conseguimento della giustizia in Palestina.

37 Paesi hanno votato a favore della risoluzione, 7 si sono astenuti e 3 hanno votato contro.

Il ministero palestinese per gli Affari Esteri e per gli Emigrati ha accolto positivamente la risoluzione dell’UNHRC, ringraziando gli Stati membri che hanno votato a favore della bozza di risoluzione presentata dallo Stato di Palestina.

In una dichiarazione il ministero ha affermato che il voto unanime riflette “la salda posizione degli Stati membri sull’importanza della responsabilità del regime coloniale e di apartheid israeliano”.

Secondo il comunicato, 37 Nazioni hanno votato a favore della risoluzione, tra cui Paesi arabi ed europei, la Cina e importanti Nazioni in Africa e in Asia, mentre sette si sono astenute, cioè Ucraina, Regno Unito, Camerun, Isole Marshall, India, Nepal e Honduras. Malawi, Brasile e Stati Uniti hanno votato contro la risoluzione.

Il ministero ha affermato che “il consenso internazionale e il voto in favore della risoluzione sulla Palestina è una forma di protezione per il popolo palestinese e per preservare i suoi diritti, il che condurrebbe in ultima istanza allo smantellamento del regime israeliano di apartheid,” aggiungendo che il voto è una prova “dell’impegno di queste Nazioni nel garantire che sia chiesto conto a coloro che si sono macchiati di crimini di guerra e crimini contro l’umanità a danno del popolo palestinese.

Il ministero ha sollecitato la comunità internazionale a “chiedere conto allo Stato di Israele e ai criminali di guerra israeliani” e ha sottolineato che “la politica dei doppi standard e del carattere selettivo nell’implementazione delle leggi del diritto internazionale rischia di indebolire l’ordine internazionale basato sul diritto.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Israele ha chiesto all’ANP di intercedere sui detenuti perché non inizino lo sciopero della fame in difesa dei loro diritti

Redazione di Middle East Monitor

23 Marzo 2022 – Middle East Monitor

Quds Net News [una delle principali agenzie di stampa palestinesi, ndtr.] ha informato che lo Stato di Israele ha ufficialmente chiesto alla Autorità Nazionale Palestinese [ANP] di convincere i detenuti ad annullare lo sciopero della fame il cui inizio è previsto venerdì. Viene riportato che in risposta l’ANP avrebbe detto a Israele di concedere ai detenuti i diritti che spettano loro.

I detenuti hanno annunciato lo sciopero della fame come protesta contro le nuove restrizioni che le autorità israeliane hanno imposto loro.

Secondo un alto funzionario di Hamas, queste restrizioni includono una riduzione delle ore d’aria e dell’accesso alla mensa. Si afferma inoltre che i detenuti siano privati dei diritti fondamentali che includono l’istruzione e la salute.

Nel frattempo il ministro israeliano per la Sicurezza, Omar Bar-Lev, ha chiesto un incontro con il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas prima dell’inizio del mese sacro del Ramadan, la settimana prossima. Israele e gli Stati Uniti sono preoccupati di possibili rivolte durante il Ramadan, che quest’anno concide con altre festività religiose.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




[Sono passati]19 anni dall’uccisione dell’attivista pacifista statunitense Rachel Corrie.

Redazione

19 marzo 2022 MiddleEastMonitor

L’omicidio israeliano della statunitense attivista per la pace Rachel Corrie è stato ricordato e condannato il 16 marzo 2022, nel 19° anniversario della morte. Insieme ad altri otto, Corrie faceva da scudo umano per impedire ai bulldozer israeliani di demolire le case palestinesi a Gaza.

Corrie era nata il 10 aprile 1979 a Olympia, Washington. Ha dedicato la sua vita ai diritti umani, difendendo principalmente i diritti dei palestinesi.

Nel 2003 si è unita ai membri dell’International Solidarity Movement, una ONG filo-palestinese, per protestare contro la demolizione israeliana di case palestinesi nella città di Rafah, nel sud di Gaza.

Il 16 marzo si era posta davanti a un bulldozer israeliano, mettendo in atto una protesta pacifica per proteggere la casa di una famiglia palestinese dalla demolizione.

Teneva in mano un megafono e invitava l’autista del bulldozer israeliano a non demolire la casa palestinese, ma lui ha continuato a procedere, schiacciandola.

I palestinesi hanno accolto la notizia del suo omicidio con dolore e orrore, chiamandola “martire”.Da allora, i palestinesi hanno dedicato un campionato sportivo annuale a celebrare l’assassinio israeliano di Corrie.

Un enorme murale di Corrie è stato dipinto su un muro vicino a dove è stata uccisa.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




L’esercito israeliano è pronto ad invadere Gaza

14 Marzo 2022 – Middle East Monitor

Ieri Arab48 ha riferito che il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Aviv Kohavi, ha affermato che il suo esercito è pronto ad invadere Gaza e altre città palestinesi più efficacemente di quanto accaduto a Jenin nel 2002.

Il canale televisivo israeliano Kan 11 ha riportato il discorso di Kohavi per il 20° anniversario dell’invasione nel 2002 di Jenin e di altre città della Cisgiordania nel tentativo di soffocare la Seconda Intifada.

Il tentativo dell’esercito israeliano di fermare l’Intifada fallì nonostante i massacri e i crimini di guerra che vennero compiuti. Allora il primo ministro israeliano, il defunto Ariel Sharon, ordinò la costruzione dell’illegale muro di separazione.

Kohavi ha affermato che il piano d’azione portato avanti a Jenin nel 2002, tagliando le comunicazioni, l’acqua e l’elettricità alla città, potrebbe essere ripetuto a Gaza nel 2022, “ma in un modo più efficace”.

Kohavi ha dichiarato che “la capacità dell’esercito israeliano di occupare le città palestinesi e di amministrarle ha dato alle leadership politica e militare israeliane e ugualmente ai comandanti sul campo dell’esercito israeliano ampia credibilità che l’esercito sia in grado di raggiungere qualunque luogo.”

L’ultima invasione israeliana di Gaza è stata nel 2014, quando lo Stato di Israele ha ucciso più di 2.200 palestinesi, inclusi 551 bambini. Da allora ha effettuato un certo numero di offensive contro la striscia, l’ultima delle quali è stata a maggio 2021, quando in 11 giorni sono stati uccisi 254 palestinesi. L’esercito di occupazione bombarda periodicamente Gaza, fa volare in cielo droni da ricognizione e danneggia i raccolti nell’enclave assediata.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Organizzazioni israeliane chiedono agli USA di non sottoporre a sanzioni il miliardario russo Roman Abramovich

3 Marzo 2022 – Middle East Monitor

Alcune importanti istituzioni e cittadini israeliani si sono appellati agli Stati Uniti perchè non sottopongano a sanzioni il miliardario russo-israeliano Roman Abramovich.

In una lettera inviata all’ambasciatore statunitense Tom Nides, Yad Vashem – il memoriale ufficiale israeliano dell’Olocausto – David Lau, il rabbino capo aschkenazita di Israele, e Yitshak Kreiss, il direttore del centro medico Sheba, hanno chiesto a Washington di non sanzionare Abramovich, che è uno dei maggiori donatori della causa sionista.

Abramovich, che ha preso la cittadinanza istraeliana nel 2018 dopo non essere riuscito a prolungare il suo visto nel Regno Unito, ha donato quasi 102 milioni di dollari ad una organizzazione di coloni israeliani di estrema destra che espelle famiglie palestinesi da Gerusalemme Est occupata. Tuttavia il totale delle sue donazioni per la causa israeliana sarebbe di oltre 500 milioni di dollari. L’oligarca ha anche acquistato almeno tre proprietà, di cui una da 64,5 milioni [di dollari].

Nella lettera si afferma che sanzionare Abramovich danneggerebbe le istituzioni israeliane che fanno affidamento sulle sue donazioni. Dani Dayan [esponente dei coloni e di Nuova Speranza, un partito di destra, ndtr.], il presidente di Yad Vashem, ha aggiunto che Abramovich è il secondo più importante donatore del museo, dopo il defunto Sheldon Adelson e la sua vedova, Miriam.

Il mese scorso il museo del memoriale dell’Olocausto Yad Vashem ha annunciato che Abramovich ha fatto una donazione di molti milioni di dollari allo stesso e l’ha definita “un nuovo partenariato strategico di lunga durata”.

Dayan ha affermato che “siamo profondamente grati a Roman Abramovich per il suo generoso contributo che rafforzerà significativamente la missione dello Yad Vashem”.

In un articolo apparso sul quotidiano Haaretz, la scrittrice israeliana Noa Landau ha descritto la lettera come “imbarazzante”. Landau ha anche criticato lo Yad Vashem per aver facilitato ciò che lei chiama “Shoah-washing” [ripulitura dell’immagine attraverso la Shoah, ndtr.] invitando soggetti come il leader di destra ungherese, Viktor Orban, a visitare il museo come parte della offensiva politica israeliana contro i palestinesi e gli iraniani, nonostante l’accusa di antisemitismo nei confronti di Orban.

Dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina Abramovich ha camminato sul filo del rasoio diplomatico. L’Occidente ha risposto imponendo sanzioni contro il presidente russo Vladimin Putin, i membri della sua cerchia ristretta e gli oligarchi russi vicini a lui.

Inoltre la decisione delle istituzioni israeliane di intervenire in aiuto di Abramovich sottolinea l’equilibrismo diplomatico dello Stato occupante. Sebbene politici israeliani abbiano criticato l’invasione russa dell’Ucraina, essi hanno rifiutato molteplici richieste di aiuto da parte del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, incluso il trasferimento di equipaggiamento militare.

L’ambasciatore ucraino a Tel Aviv, Yevgeny Kornichuk, ha affermato di essere “deluso” che Israele non abbia accettato tuttti i profughi dalla guerra nella sua Nazione. Anche le pratiche razziste dello Stato di Israele sono diventate una fonte di rabbia e frustrazione per i dirigenti ucraini. Mentre lo Stato occupante ha aperto le sue porte agli ebrei ucraini, non è altrettanto accogliente con i non ebrei che fuggono dalla guerra.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Perché Israele non è più l’eccezione alle regole internazionali

Ramzy Baroud

1° marzo 2022- Middle East Monitor

Israele può subire pressioni? Oppure è l’unica eccezione alle regole internazionali e all’ordine politico globale in cui ogni Paese, grande o piccolo che sia, è soggetto a pressioni e conseguenti cambiamenti di atteggiamento e di comportamento?

Gli eventi degli ultimi giorni mettono in primo piano la questione della responsabilità legale e morale di Israele. Il 21 febbraio l’Autorità israeliana per la natura e i parchi ha deciso di ritirare un piano che mirava a espropriare, illegalmente, le terre di proprietà della Chiesa sul Monte degli Ulivi nella Gerusalemme est palestinese occupata. Il piano ha suscitato rabbia e resistenza allo stesso modo tra palestinesi cristiani e musulmani. I leader cristiani locali hanno denunciato il proposto furto della terra come un “attacco premeditato ai Cristiani in Terra Santa”.

Dopo che il 2 marzo il Times of Israel ha riferito che il progetto avrebbe dovuto ricevere l’approvazione dal comune di Gerusalemme controllato da Israele, la comunità palestinese e i leader religiosi hanno iniziato a raccogliere sostegno non solo tra i palestinesi ma anche a livello internazionale contro l’ultimo progetto di 

occupazione coloniale.

La decisione di ritirare il piano dimostra ancora una volta che la resistenza palestinese funziona. Ricordiamo la grande mobilitazione palestinese del 2017 dentro e intorno al Nobile Santuario di Al-Aqsa, quando il potere popolare a Gerusalemme costrinse Israele a rimuovere i metal detector e altre “misure di sicurezza” dal sito sacro all’Islam.

Il giorno dopo la decisione israeliana di rinunciare al progetto del Monte degli Ulivi, la Corte di Gerusalemme ha deciso di congelare temporaneamente l’ordine di sfratto contro la famiglia Salem nel quartiere palestinese di Sheikh Jarrah. La famiglia palestinese, che ha vissuto per tre generazioni nella casa presa di mira, si è mobilitata, insieme a molte altre famiglie e attivisti, palestinesi e internazionali, per protestare contro il sequestro illegale da parte di Israele delle case palestinesi nella città occupata.

Sebbene la decisione del tribunale israeliano sia solo temporanea e non smentisca la massiccia e sistematica pulizia etnica in corso a Sheikh Jarrah, Silwan e nel resto di Gerusalemme est, può essere vista in una luce positiva: incoraggia la resistenza popolare nella Gerusalemme occupata e, in effetti, in tutta la patria palestinese

Inoltre, il 25 febbraio, due detenuti palestinesi, Hisham Abu Hawash e Miqdad Al-Qawasmi, sono tornati alle loro famiglie dopo aver trascorso molti mesi in detenzione illegale; erano in sciopero della fame rispettivamente da 141 e 113 giorni. L’immensa sofferenza di questi due uomini, insieme a numerose immagini dei loro corpi emaciati, è stata utilizzata per mesi dai palestinesi per illustrare la brutalità di Israele e l’ormai leggendario sumoud, la fermezza, dei normali palestinesi.

Come previsto, i prigionieri liberati sono stati ricevuti dalle loro famiglie, amici e migliaia di palestinesi festanti. Durante le celebrazioni, la parola “vittoria” è stata ripetuta più e più volte nelle strade, nei notiziari palestinesi e nei social media.

Questi sono solo alcuni esempi di quotidiane vittorie palestinesi che raramente vengono sottolineate, o addirittura riconosciute come tali. Questi risultati, per quanto sembrino poca cosa, sono cruciali per comprendere la natura quotidiana della resistenza palestinese; sono anche altrettanto importanti per rendersi conto che anche Israele, che ama considerarsi uno Stato eccezionale sotto ogni aspetto, può essere soggetto a pressioni.

Quando i palestinesi e molti altri in tutto il mondo hanno chiesto a Israele di porre fine agli sgomberi forzati degli abitanti di Gerusalemme a Sheikh Jarrah lo scorso maggio l’allora primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha affermato che il suo paese “rifiuta fermamente” le pressioni e ha portato avanti senza ostacoli le sue misure coercitive. Ma quando i palestinesi si sono sollevati in massa per solidarietà con Gerusalemme e Gaza, personaggi come il presidente degli Stati Uniti Joe Biden hanno invitato tutte le parti a “ridimensionarsi“.

Eppure Netanyahu ha continuato a comportarsi come se il suo Paese fosse al di sopra della legge, delle procedure politiche e persino del buon senso. “Sono determinato a continuare con questa operazione fino al raggiungimento dell’obiettivo”, ha insistito. Ha anche affermato che la guerra contro Gaza – in effetti, contro tutti i palestinesi – è “un diritto naturale di Israele”. Quando i palestinesi hanno continuato la loro resistenza, assieme, questa volta, a un crescente movimento di solidarietà globale, Israele è stato costretto ad accettare un cessate il fuoco, raggiungendo pochi, se non nessuno, dei suoi presunti obiettivi.

In questo momento Israele sta cercando l’aiuto di vari mediatori per la restituzione di diversi soldati israeliani – o delle loro spoglie – attualmente trattenuti a Gaza. I palestinesi sono aperti a un accordo di scambio di prigionieri e chiedono la libertà di centinaia di prigionieri politici, comprese importanti personalità palestinesi, detenuti in Israele da molti anni.

Inoltre vogliono ottenere serie garanzie per evitare il ripetersi di uno scambio di prigionieri come quello dell’ottobre 2011, quando oltre 1.000 palestinesi sono stati rilasciati solo per essere poi nuovamente arrestati da Israele poco dopo. Anche in merito a questo Israele ha assicurato che non cederà di fronte alle condizioni palestinesi, ma molto probabilmente lo farà.

Israele non è l’unico paese ad affermare di essere al di sopra delle pressioni e di non dover rendere conto delle proprie azioni. Molti regimi coloniali in passato si sono rifiutati di riconoscere la resistenza popolare nelle rispettive colonie, eppure, in qualche modo, il colonialismo tradizionale si è debitamente concluso con la sconfitta ingloriosa dei colonizzatori.

Questo non vuol dire che l’eccezionalismo israeliano non sia reale; lo è, e lo si può vedere chiaramente nel Congresso degli Stati Uniti e nel comportamento di molti governi occidentali filo-israeliani. Tale eccezionalismo rivela spesso ipocrisia e doppi standard, nonché l’illusione che uno Stato in particolare sia al di sopra dell’ordine naturale e delle regole internazionali che hanno governato per secoli le relazioni statali, la politica e i riallineamenti geopolitici.

Mentre Israele continua ad illudersi di essere al di sopra delle pressioni, i palestinesi devono rendersi conto che la loro resistenza, in tutte le sue manifestazioni, è in grado di arrivare al risultato voluto, la libertà. La crescita del movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) a guida palestinese e la sua capacità di sfidare Israele su numerose piattaforme di informazione in tutto il pianeta sono un perfetto esempio di come il popolo della Palestina occupata sia riuscito a portare la sua lotta per la libertà in tutto il mondo. Se Israele non è suscettibile alle pressioni, allora perché dovrebbe combattere il movimento BDS con tanta sfrenata ferocia e, a volte, disperazione?

Israele non è eccezionale in nessun senso. Come altri regimi coloniali e di apartheid del passato alla fine crollerà aprendo la strada a un futuro in cui arabi palestinesi ed ebrei israeliani potranno coesistere alla pari.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Il marchio di articoli sportivi PUMA è sollecitato a smettere di sponsorizzare il calcio nell’Israele dell’apartheid

Yvonne Ridley

11 febbraio 2022 – Middle East Monitor

Il principale produttore europeo di articoli sportivi, Adidas, ha posto fine al suo redditizio accordo [di sponsorizzazione] per le sue scarpe con il calciatore francese Kurt Zouma dopo che il giocatore della Premier League inglese è stato visto picchiare e prendere a sberle il suo gatto in un video pubblicato sulle reti sociali da suo fratello. Da allora il difensore del West Ham ha subito moltissime critiche per la sua crudeltà.

In effetti la società di calcio ha multato Zouma per una somma pari al compenso di due settimane – addirittura 250.000 sterline [quasi 300.000 euro] -, egli ha perso il suo contratto di sponsorizzazione a sei zeri con Adidas e una compagnia di assicurazioni ha sospeso la sua sponsorizzazione del West Ham. Questa vicenda continua a comparire sui media e pare che stia costando al giocatore e al suo club un sacco di soldi. Fortunatamente i due gatti di Zouma sono stati presi in carico dall’ente benefico per la protezione degli animali RSPCA, ma è ancora possibile che venga avviata un’indagine penale.

Data la lodevole risposta di Adidas al fatto che un animale innocente sia stato picchiato, mi chiedo cosa stia facendo l’impresa concorrente PUMA riguardo ai suoi rapporti con Israele. Le forze di sicurezza dello Stato che pratica l’apartheid – sia poliziotti che soldati – picchiano e prendono a calci sistematicamente uomini, donne e bambini palestinesi innocenti. E non si dimentichino le vite innocenti perse quando studenti vengono presi di mira e uccisi da cecchini e bombe israeliani. La brutalità dell’occupazione israeliana della Palestina viene messa a nudo alla vista di tutti noi sulle reti sociali.

Eppure PUMA continua a sponsorizzare l’Associazione Calcistica Israeliana. Decine di migliaia di persone in Gran Bretagna hanno già firmato una petizione a PUMA chiedendo che l’impresa ponga fine all’accordo di sponsorizzazione dell’IFA, che governa e appoggia squadre che giocano nelle illegali colonie israeliane costruite su terra palestinese occupata. Oltretutto i calciatori palestinesi vengono trattati in modo terribile dalle autorità occupanti israeliane.

Tuttavia ciò non basta per obbligare PUMA a cambiare la sua politica di sponsorizzazione. Purtroppo in Occidente la reazione dell’opinione pubblica nei confronti di minorenni palestinesi innocenti che vengono maltrattati ed uccisi non è altrettanto forte di quando si tratta della crudeltà nei confronti degli animali. Entrambe dovrebbero essere viste e condannate allo stesso modo e dovrebbe essere rapidamente fatta giustizia contro l’oppressore.

Forse ciò cambierà sabato, quando ci sarà una giornata internazionale di azione fuori dai negozi e distributori PUMA per spingere l’impresa a porre fine al suo appoggio all’apartheid israeliano. Ciò potrebbe spostare l’ago della bilancia.

Secondo un comunicato stampa della Palestine Solidarity Campaign [Campagna di Solidarietà con la Palestina] (PSC), una nota interna fatta filtrare rivela che PUMA ha ammesso che i suoi testimonial e i suoi soci commerciali stanno mettendo in discussione il suo appoggio all’apartheid israeliano. Un legale dell’impresa ha detto alla PSC che ciò sta rendendo la vita “impossibile” a PUMA.

Il suo contratto con la IFA termina in giugno, ma invece di attendere la sua fine “naturale”, PUMA dovrebbe tagliare i rapporti con l’apartheid israeliano ora e far sapere alla gente in Israele che la crudeltà e la brutalità dell’occupazione ne sono la ragione. Se Adidas può interrompere la sponsorizzazione di una stella del calcio a 48 ore da quando ha picchiato un gatto, allora PUMA può sicuramente tagliare ogni rapporto e interrompere la sua disgustosa sponsorizzazione dell’Israel Football Association senza ulteriori indugi. PUMA, è una rete a porta vuota. Non mancarla.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’hasbara di Israele a Sheikh Jarrah: il sasso ‘terrorista’ e la logica distorta di Gilad Erdan

Ramzy Baroud

24 gennaio 2022 – Middle East Monitor

L’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, sta conducendo la propaganda (hasbara, ndtr.) antipalestinese del suo Paese, impegnandosi questa volta in una propaganda preventiva che anticipa una risposta palestinese alle continue espulsioni nel quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme est.

Lo riterreste un attacco terroristico se un sasso come questo fosse scagliato contro la vostra macchina mentre state guidando con i vostri figli?”, ha chiesto Erdan al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite tenendo in mano la pietra. “Come minimo, condannereste questi brutali attacchi condotti da palestinesi contro civili israeliani?”

Questa logica israeliana è del tutto tipica, laddove i palestinesi oppressi sono descritti come aggressori e l’oppressore Israele – uno Stato razzista di apartheid sotto ogni aspetto – si presenta come vittima che non fa che difendere i propri cittadini.

Ma la logica selettiva di Erdan questa volta è dovuta ad altro. La sua messinscena all’ONU mira esclusivamente a stornare l’attenzione dai continui terribili fatti che avvengono a Sheikh Jarrah e in tutta la Gerusalemme est occupata. Mercoledì 19 gennaio la casa della famiglia palestinese Salhiya è stata demolita da Israele, lasciando senza un tetto 15 persone, in maggioranza bambini.

Pochi giorni prima è avvenuto un fatto straziante sul tetto di quella casa, quando membri della famiglia Salhiya hanno minacciato di darsi fuoco perché angosciati dall’imminente perdita della casa della loro famiglia.

Non abbiamo più niente a Gerusalemme. Questa è pulizia etnica. Oggi tocca a me, domani ai miei vicini. Meglio per noi morire sulla nostra terra con dignità che arrenderci a loro”, ha detto Mahmoud Salhiya, il proprietario della casa, prima di essere dissuaso dai vicini dal darsi fuoco.

A questi tragici eventi si assiste attentamente, anzitutto da parte dei palestinesi, ma anche della gente di tutto il mondo. Se la prassi delle distruzioni israeliane continuerà ci sono probabilità che assisteremo ad un’altra sollevazione popolare. Lo spettacolo di Erdan all’ONU è un disperato gesto di propaganda per dissuadere i membri della comunità internazionale dal criticare Israele.

Ma Israele non riesce a far valere la propria causa, come non è riuscito a difendere la propria terribile violenza contro i palestinesi in tutta la Palestina occupata nel maggio 2021. Persino i tradizionali alleati di Israele esprimono contrarietà verso l’ultima ondata di pulizia etnica a Sheikh Jarrah.

La rappresentante degli USA alle Nazioni Unite ha espresso ‘preoccupazione’ riguardo all’espulsione forzata nel quartiere palestinese. “Per compiere un passo avanti, sia Israele che l’Autorità Nazionale Palestinese devono evitare mosse unilaterali che esasperano le tensioni e soffocano gli sforzi per far progredire una soluzione negoziata di due Stati”, ha detto Linda Thomas-Greenfield, utilizzando l’usuale linguaggio prudente. Tuttavia Thomas-Greenfield ha proseguito mettendo in guardia contro “le annessioni di territori, l’attività di colonizzazione, le demolizioni e le espulsioni – come quelle che abbiamo visto a Sheikh Jarrah.”

Il 19 gennaio anche il deputato repubblicano USA Mark Pocan ha duramente criticato la decisione di Israele di espellere con la forza la famiglia Salhiya a Sheikh Jarrah.

La scorsa notte, con la complicità del buio e di un freddo pungente, le abitazioni della famiglia Salhiya a Sheikh Jarrah, Gerusalemme, sono state distrutte dalle forze israeliane, lasciando senza casa 15 persone. Ciò non è accettabile e deve finire”, ha twittato Pocan, aggiungendo il popolare hashtag # Savesheikhjarrah.

Da parte sua l’inviato speciale dell’ONU per il Medio Oriente, Tor Wennsland, ha duramente condannato l’espulsione della famiglia palestinese da parte delle autorità occupanti israeliane.

Chiedo alle autorità israeliane di porre fine agli sfratti ed alle espulsioni dei palestinesi, in base ai loro obblighi previsti dal diritto internazionale, e di approvare nuovi programmi che consentirebbero alle comunità palestinesi di costruire legalmente e di provvedere alle proprie necessità di sviluppo”, ha detto Wennsland, secondo quanto riportato sul sito web dell’ONU.

Torniamo allo spettacolo di Erdan, quando ha presentato il ‘terrorismo’ palestinese mostrando la presunta prova schiacciante di un sasso.

Va detto che criticare o difendere la resistenza palestinese, anche simbolica, permette ad Israele di impostare un dibattito fuorviante e futile, che crea un’equivalenza morale tra l’occupante e l’occupato, il colonizzatore e il colonizzato.

Che i palestinesi usino una pietra, un fucile o un pugno per resistere e difendersi, la loro resistenza è moralmente e legalmente giustificata. Israele invece, come tutti gli altri occupanti militari e colonialisti, non ha argomenti né morali né legali per giustificare la sua oppressione sui palestinesi, la distruzione delle loro case – come quella della famiglia Salhiya – e l’uccisione dei loro figli.

A giudicare dalla crescente solidarietà con i palestinesi dovunque, è chiaro che il patetico spettacolo di Erdan è solo un ulteriore esercizio di futilità politica.

Nulla di ciò che Israele può dire o fare potrà alterare la realtà lampante del fatto che una nuova generazione di palestinesi sta riunificando ancora una volta la narrazione palestinese, in particolare riguardo alla resistenza palestinese all’occupazione israeliana. Sia che l’oppressione israeliana avvenga a Sheikh Jarrah, a Gaza o nel deserto del Negev, ora i palestinesi rispondono in modo collettivo, come un unico corpo politico. Grazie alla rivolta del maggio 2021 sono finiti i tempi in cui i palestinesi vengono scacciati dalle loro case nel cuore della notte come fosse una consuetudine senza conseguenze.

Inoltre sta cambiando il linguaggio politico usato per descrivere gli eventi in Palestina in ambito internazionale. Il ‘diritto di Israele di difendersi’ non è più la reazione automatica che spesso viene adottata per descrivere la violenza israeliana e la resistenza palestinese.

Infine sembra che Israele non sia più la parte che determina gli eventi in Palestina e controlla la narrazione ad essi relativa. I palestinesi ed un crescente movimento internazionale di loro sostenitori stanno attivamente dando forma alla percezione globale della realtà sul campo. Né Erdan né i suoi capi a Tel Aviv possono ribaltare questo slancio a guida palestinese. Il suo intervento all’ONU non fa che rispecchiare il grado di disperazione e fallimento intellettuale di Israele e dei suoi rappresentanti.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)