Perché Israele festeggia i suoi terroristi: Ben Uliel e l’assassinio della famiglia Dawabsheh

Ramzy Baroud

22 maggio 2020 – Middle East Monitor

I media israeliani e gli apologeti del sionismo in tutto il mondo sono impegnati a ripulire l’immagine di Israele gravemente danneggiata a livello mondiale utilizzando la rara condanna di un terrorista israeliano, Amiram Ben Uliel, che recentemente è stato ritenuto colpevole per l’uccisione della famiglia palestinese Dawabsheh, compreso un bambinetto di 18 mesi, nella cittadina di Duma, a sud di Nablus.

La condanna di Ben Uliel il 18 maggio da parte della corte israeliana composta da tre giudici è prevedibilmente acclamata da qualcuno come la prova che il sistema giudiziario israeliano è corretto e trasparente e che Israele non deve essere messo sotto inchiesta da soggetti esterni.

Il tempismo della decisione del tribunale israeliano nel condannare Ben Uliel per tre accuse di omicidio e due di tentato omicidio è stato particolarmente significativo, in quanto ha fatto seguito a una decisione della procuratrice generale della Corte Penale Internazionale (CPI), Fatou Bensouda, di proseguire l’indagine per crimini di guerra commessi nella Palestina occupata.

Visto come gli estremisti israeliani, soprattutto quelli che vivono illegalmente nella Cisgiordania occupata, sono governati attraverso un sistema separato, e molto più clemente del regime militare che governa i palestinesi, l’apparentemente netta condanna del terrorista israeliano merita un ulteriore esame.

Gli apologeti di Israele si sono affrettati a festeggiare il verdetto del tribunale fino al punto che lo stesso organo israeliano di intelligence interna, lo Shin Bet, noto per i suoi famigerati metodi di tortura dei prigionieri palestinesi, ha descritto la decisione come “un’importante pietra miliare nella lotta contro il terrorismo ebraico.” Altri hanno lavorato per scindere il macabro attacco di Ben Uliel dal resto della società israeliana, sottintendendo che l’uomo era un lupo solitario e non il risultato diretto del folle razzismo e dei discorsi violenti diretti contro palestinesi innocenti.

Nonostante la chiara condanna di Ben Uliel, il tribunale israeliano ha cercato di evidenziare che il terrorista israeliano ha agito da solo e non è membro di un’organizzazione terroristica. In base a questa logica il tribunale ha sostenuto che i giudici “non potrebbero scartare l’ipotesi che l’aggressione sia stata motivata dal desiderio di vendetta o razzismo senza che Ben-Uliel fosse effettivamente membro di un gruppo organizzato.”

Date le circostanze il verdetto è stato lo scenario più favorevole per l’immagine di Israele, in quanto assolve deliberatamente la massiccia rete terroristica che ha prodotto personaggi come Ben Uliel e l’esercito israeliano che protegge quotidianamente quegli stessi estremisti, mentre ripulisce la meritata pessima reputazione di Israele come una società violenta con un sistema giudiziario ingiusto.

Ma Ben Uliel non è affatto un lupo solitario.

Quando il terrorista israeliano, insieme ad altri aggressori mascherati, ha fatto irruzione nella casa di Sa’ad e Reham Dawabsheh alle 4 del mattino del 31 luglio 2015 era chiaramente impegnato a farsi un nome all’interno della società fervidamente razzista ed estremista che ha fatto dell’omicidio e della pulizia etnica dei palestinesi una missione divina.

Ben Uliel ha raggiunto in pieno i suoi obiettivi. Non solo ha ucciso Sa’ad e Reham, ma anche il loro figlio di 18 mesi, Ali. L’unico membro della famiglia sopravvissuto è stato Ahmed, di 4 anni, che è rimasto gravemente ustionato.

La morte della famiglia palestinese, in particolare del piccolo Ali, è diventata rapidamente fonte di gioia e di festeggiamenti tra gli estremisti ebrei. Nel dicembre 2015, sei mesi dopo l’uccisione della famiglia Dawabsheh, un video di 25 secondi diventato virale sulle reti sociali ha mostrato una folla di israeliani che festeggiava la morte di Ali.

Il video mostrava una “stanza piena di uomini con zuccotti bianchi che saltavano e danzavano, molti con i lunghi riccioli degli ebrei ortodossi. Alcuni di loro – ha riportato il New York Times – brandivano armi da fuoco e coltelli.”

“Due (degli israeliani che festeggiavano) appaiono mentre accoltellano pezzi di carta che hanno nelle mani, che la rete televisiva ha identificato come foto di un bambino di 18 mesi, Ali Dawabsheh.” Nonostante la polizia israeliana sostenga di avere in corso “indagini” sulla festa di odio, non c’è nessuna prova che qualcuno sia stato considerato responsabile della vera e propria celebrazione della violenza contro una famiglia innocente e un neonato. Di fatto i magistrati dello Stato di Israele hanno in seguito sostenuto di aver perso il video originale degli estremisti che ballavano.

La celebrazione del terrorismo israeliano è proseguita per anni senza tregua, fino al punto che il 19 giugno 2018 estremisti israeliani, minacciando il nonno di Ali mentre stava lasciando un tribunale israeliano, hanno apertamente gridato slogan osceni come “Dov’è Ali? Ali è morto,” “Ali è sulla griglia.”

L’efferata uccisione di Ali e della sua famiglia e il conseguente processo si sono aggiunti a una serie di altri avvenimenti che hanno chiaramente messo in discussione l’immagine creata con cura di Israele come una democrazia liberale. Il 24 marzo 2016 Elor Azaria ha ucciso a sangue freddo un palestinese, Fattah al-Sharif. Al-Sharif era stato lasciato a terra sanguinante privo di sensi dopo che, secondo quanto sostenuto dall’esercito israeliano, avrebbe cercato di accoltellare un soldato israeliano.

Azaria ha avuto una lieve condanna a 18 mesi, presto liberato tra festeggiamenti di massa come un eroe vittorioso. Importanti esponenti del governo israeliano, compreso il primo ministro Benjamin Netanyahu, hanno appoggiato l’assassino che ha agito a sangue freddo durante il processo. Non è affatto sorprendente che Azaria chieda di avere in futuro un ruolo importante nel governo israeliano.

I festeggiamenti per gli assassini e i terroristi come Ben Ulliel e Azaria non sono un fenomeno nuovo nella società israeliana. Baruch Goldstein, il terrorista israeliano che nel 1994 uccise molti fedeli palestinesi mentre erano inginocchiati in preghiera nella moschea Al-Ibrahimi di Al-Khalil (Hebron) ora è percepito come un moderno martire, un santo di proporzioni bibliche.

In questi casi, quando la natura del delitto è così terribilmente violenta, la cui gravità si impone ai mezzi di informazione internazionali, a Israele non rimane altra possibilità che utilizzare la condanna del “terrorismo ebraico” come un’opportunità per reinventare se stesso, il suo sistema “democratico”, i suoi procedimenti giudiziari “trasparenti”, e via di seguito. Nel contempo i media israeliani e i loro associati in tutto il mondo si danno da fare per descrivere lo “shock” e l’“indignazione” collettivi provati dagli israeliani “rispettosi della legge” e “amanti della pace”.

L’uccisione della famiglia Dawabshe, seppur uno dei numerosi atti di violenza perpetrati da estremisti ebrei e dall’esercito israeliano contro palestinesi innocenti, è un esempio perfettamente calzante.

In effetti un rapido sguardo ai dati e ai rapporti prodotti dalle Nazioni Unite indica che l’assassinio della famiglia palestinese da parte di coloni ebrei non è stato un’eccezione quanto la regola.

In un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per le Questioni Umanitarie (OCHA) del giugno 2018 i ricercatori dell’ONU hanno parlato di un aumento esponenziale della violenza dei coloni ebrei contro i palestinesi.

“Tra il gennaio e l’aprile 2018 l’OCHA ha documentato 84 incidenti attribuiti ai coloni israeliani che hanno provocato vittime palestinesi (27 casi) o danni a proprietà palestinesi (57),” afferma il rapporto. Questa tendenza prosegue, a volte con un aumento marcato, senza che nessuno ne debba rendere conto.

L’associazione israeliana per i diritti Yesh Din ha seguito la piccola percentuale di indagini sulle violenze dei coloni aperte dall’esercito e dalla polizia israeliani. L’associazione conclude che “su 185 inchieste aperte dagli investigatori tra il 2014 e il 2017 che sono arrivate a conclusione, solo 21, cioè l’11,4%, ha portato al procedimento penale contro i responsabili, mentre altre 164 denunce sono state chiuse senza un’imputazione.”

La ragione di ciò è semplice: le centinaia di migliaia di estremisti ebrei che sono stati trasferiti perché si insediassero stabilmente nei territori occupati, un atto che viola chiaramente il diritto internazionale, non operano al di fuori del paradigma colonialista disegnato dal governo israeliano. In qualche modo anche loro sono “soldati”, non solo perché sono armati e concordano i propri spostamenti con l’esercito israeliano, ma perché le loro colonie in continua espansione si trovano al centro dell’occupazione israeliana e del suo continuo processo di pulizia etnica.

Pertanto la violenza dei coloni ebrei come quella commessa da Ben Uliel non dovrebbe essere analizzata separatamente dalla violenza inflitta dall’esercito israeliano, ma vista all’interno del più vasto contesto della violenta ideologia sionista che governa la società israeliana nel suo complesso. Ne consegue che la violenza dei coloni può finire solo con la fine dell’occupazione militare in Cisgiordania, a Gerusalemme est e a Gaza e con la fine dell’ideologia sionista razzista che diffonde odio, accoglie il razzismo e rende razionale l’assassinio.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le forze di sicurezza palestinesi si ritirano dalla zona B di Gerusalemme

23 maggio 2020 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu [agenzia di stampa turca, ndtr.] informa che le forze di sicurezza palestinesi si sono ritirate dai villaggi e dai sobborghi di Gerusalemme classificati come zona B dagli Accordi di Oslo.

Secondo i testimoni le forze palestinesi hanno abbandonato le cittadine nordoccidentali di Iksa, Qatanna e Biddu, e quelle settentrionali di Abu Dis e Izarriya.

Benché l’Accordo di Oslo II, firmato nel 1995 tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ed Israele, designi la zona B come sottoposta al controllo di sicurezza israeliano, Tel Aviv ha permesso alle forze di sicurezza palestinesi di dispiegarvisi a causa della pandemia da coronavirus.

I funzionari palestinesi non hanno ancora chiarito se la misura sia collegata alle recenti affermazioni del presidente Mahmoud Abbas sul ritiro della Palestina dai precedenti accordi con Stati Uniti e Israele, in quanto è previsto che Tel Aviv si annetta vaste aree della Cisgiordania occupata.

Martedì Abbas ha detto che il Paese stava interrompendo tutti gli accordi e le intese firmati con Israele e con gli Stati Uniti, compresi quelli sulla sicurezza.

Ha affermato che la Palestina ritiene l’amministrazione USA responsabile dell’occupazione del popolo palestinese e la considera un complice fondamentale delle azioni e decisioni di Israele contro i diritti dei palestinesi.

Da parte sua, mercoledì il Primo Ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha ordinato di mettere in atto le decisioni di Abbas di troncare i rapporti con Israele e gli USA.

Di conseguenza, nella riunione governativa straordinaria tenutasi nel pomeriggio, Shtayyeh ha ordinato a tutti i ministeri di prendere concrete e urgenti misure relativamente alle decisioni di Abbas.

L’iniziativa è stata presa come protesta per le minacce israeliane di annettere parte dei territori palestinesi occupati nel 1967.

In base all’Accordo di Oslo II i territori palestinesi della Cisgiordania occupata furono divisi in zone A, B e C.

La zona A comprende il 18% della Cisgiordania ed è controllata dall’Autorità Nazionale Palestinese, sia per quanto riguarda la sicurezza che l’amministrazione.

La zona B comprende il 21% della Cisgiordania ed è sottoposta all’amministrazione civile palestinese e alla gestione della sicurezza israeliana.

La zona C comprende il 61% della superficie della Cisgiordania ed è sotto il controllo amministrativo e di sicurezza di Israele, cosa che implica l’approvazione delle autorità israeliane per qualunque progetto o iniziativa palestinese al suo interno.

(Traduzione dallo spagnolo di Cristiana Cavagna)




Più di 150 personalità arabe chiedono a Israele e al mondo arabo di scarcerare i prigionieri politici

20 maggio 2020 – Middle East Monitor

Oltre 150 note personalità del mondo arabo hanno chiesto la scarcerazione di prigionieri palestinesi dalle prigioni israeliane e di prigionieri politici da quelle negli Stati arabi, definendo la pandemia da coronavirus durante la detenzione una “doppia punizione”.

Tra le personalità arabe figurano diplomatici, giornalisti, artisti, accademici, attivisti per i diritti umani e intellettuali, ciascuno dei quali ha aderito all’appello in un articolo pubblicato ieri sul sito politico in francese Orient XXI.

L’articolo chiede ad Israele e agli Stati arabi che detengono prigionieri di coscienza di rilasciarli immediatamente e senza condizioni, soprattutto in quanto “in presenza della pandemia la detenzione diventa una doppia punizione”.

Tra i firmatari vi sono gli scrittori giordano Ibrahim Nasrallah   ed egiziano   Ahmed Nagy, gli accademici rispettivamente marocchino, palestinese-americano e tunisino Abdellah Hammoudi, Rashid Khalidi and Yadh Ben Achour, il compositore e suonatore di oud tunisino Anouar Brahem e la cantante libanese Omaima El Khalil. Vi sono inoltre l’attore palestinese Saleh Bakri, i giornalisti libanese ed egiziano Pierre Abi Saab e Khaled al-Balshi, i politici palestinesi Hanan Ashrawi e Nabil Shaat e il difensore dei diritti umani palestinese Omar Barghouti e tunisino Mokhtar Trifi.

L’articolo afferma che, nonostante il regime occupante israeliano ed i regimi arabi abbiano risposto a precedenti appelli internazionali per il rilascio di prigionieri e “abbiano annunciato la scarcerazione di prigionieri e ne abbiano effettuato alcune, queste non sono state estese ai prigionieri politici.”

Inoltre sottolinea che non vi è una reale e significativa differenza tra i prigionieri palestinesi in Israele ed i prigionieri politici nel mondo arabo, definendo entrambe le categorie “unite dallo stesso destino”. Una firmataria, l’ex ambasciatrice palestinese per la Francia e l’Unione Europea, Leila Shahid, ha affermato: “La lotta per la libertà, la cittadinanza e i diritti umani non ha nazionalità. In Palestina, in Marocco o in Egitto, la lotta è la stessa e dobbiamo essere tutti uniti.”

Un esempio citato a tal proposito è Ramy Shaath, coordinatore della sezione egiziana del movimento internazionale per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) contro l’occupazione di Israele ed i prodotti da essa sfruttati. Per quasi un anno Shaath è stato incarcerato dalle autorità egiziane, diventando uno dei prigionieri di coscienza di cui l’articolo chiede il rilascio.

Il vice-presidente della Federazione Internazionale per i Diritti Umani [che riunisce 164 organizzazioni nazionali di difesa dei diritti umani in oltre 100 Paesi, ndtr.], Hafidha Chekir, ha affermato: “Il diritto dei popoli all’autodeterminazione è parte integrante del diritto internazionale riguardo ai diritti umani e non può essere soggetto né a deroga né ad esclusione.” Sostenere questo diritto umano e il rilascio dei prigionieri che lo hanno esercitato, ha detto,“è una causa nobile e legittima”, chiedendo “il rilascio immediato e senza condizioni di Ramy, come anche di tutti i prigionieri palestinesi e i detenuti politici nella regione araba.”

Durante l’attuale crisi causata dalla pandemia da coronavirus parecchi Stati del Medio Oriente – come Egitto, Iran, Siria – hanno scarcerato migliaia di prigionieri per il timore del diffondersi del virus nelle prigioni. Tuttavia queste misure in genere hanno permesso la scarcerazione di chi era vicino alla fine della detenzione e non hanno incluso i prigionieri detenuti per motivi politici.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La Corte Penale Internazionale non rappresenta una “minaccia strategica” per Israele

Ramona Wadi

19 maggio 2020. MiddleEastMonitor

Da quando la Corte Penale Internazionale (CPI) ha stabilito che la Palestina è uno Stato in cui svolgere indagini sui crimini di guerra commessi da Israele contro civili palestinesi, una nuova serie di minacce è stata mossa contro l’istituzione. Il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha messo in guardia dalle conseguenze di ciò che il suo governo ritiene costituisca uno Stato palestinese. “Gli Stati Uniti ribadiscono la loro continua obiezione a qualsiasi illegittima indagine della CPI. Se la Corte continuerà per la strada presa ne trarremo le dovute conseguenze” ha detto Pompeo.

L’opposizione degli Stati Uniti a uno Stato palestinese è stata ulteriormente ribadita dal cosiddetto “accordo del secolo”, che finge di sostenere uno Stato palestinese dando invece priorità all’agenda coloniale di Israele – in cui non cè spazio per la formazione di uno Stato palestinese. L’opposizione degli Stati Uniti alle indagini della CPI, dunque, è continua e convinta.

Intanto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha bollato le possibili inchieste sui crimini di guerra come “minaccia strategica”. Intervenendo durante la prima riunione del governo e sostenendo di usare raramente l’aggettivo “strategico” che invece è la normale definizione quando si tratti dell’Iran o del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), Netanyahu ha dichiarato: “Questa è una minaccia strategica per lo Stato di Israele – ai soldati dell’esercito, ai comandanti, ai ministri, ai governi, a tutto.”

Israele ha a lungo approfittato delle eccezioni per mantenere la sua colonizzazione della Palestina e rafforzare ulteriormente la sua occupazione militare. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha beneficiato Israele di unimpunità senza precedenti e dell’accettazione delle violazioni del diritto internazionale, al punto che, rafforzato anche dal tacito silenzio della comunità internazionale, Israele sta politicizzando le indagini della CPI allo scopo di mantenere lo stato di eccezione.

Le imminenti indagini sui crimini di guerra di Israele contro il popolo palestinese non sono una minaccia strategica, ma una risposta tardiva che potrebbe offuscare temporaneamente l’immagine di Israele. La collusione fra Israele e la comunità internazionale è un grave ostacolo: non bisogna dimenticare che a livello internazionale Israele gode di un tacito sostegno che gli permette di costituire lui stesso una minaccia strategica per i palestinesi.

La retorica di Netanyahu è un diversivo. Israele non è perseguitato dalla CPI; è possibile che i suoi funzionari siano perseguiti per crimini di guerra, che è la procedura standard. La violenza di Israele ne sostiene la politica coloniale – l’una non può esistere senza l’altra. I palestinesi hanno subìto questa minaccia strategica per decenni. Il tentativo di invertire i ruoli nonostante le prove dei crimini di guerra è una manovra politica che dovrebbe ritorcersi contro Israele se solo la comunità internazionale rimuovesse la sua faziosità pro-Israele e prendesse posizione a favore della decolonizzazione.

Mentre Netanyahu tenta di stringere alleanze contro la CPI, che cosa farà la comunità internazionale? Se la CPI ha stabilito che Israele ha commesso crimini di guerra, il minimo che la comunità internazionale possa fare è sbarazzarsi della retorica dei “presunti crimini di guerra” per sostenere il diritto internazionale e decostruire l’impunità che ha protetto Israele. Se ritenere prioritarie le richieste coloniali di Israele viene prima della legislazione che regola ciò che costituisce i crimini di guerra, la comunità internazionale renderà possibili ulteriori violazioni come nuovi piani di annessione e le prossime indagini saranno eclissate da una nuova ondata di impunità tale per cui ci potrebbero volere decenni prima che siano sottoposte ad attenzione giuridica.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’esercito israeliano è contrario all’annessione della valle del Giordano sostenuta dai suoi dirigenti politici

Adnan Abu Amer

28 aprile 2020 – Middle East Monitor

I generali israeliani hanno rivelato che l’annuncio dell’annessione della valle del Giordano e di colonie in Cisgiordania porterà al collasso dei servizi di sicurezza palestinesi, perché essi perderanno il controllo della popolazione e verranno visti come collusi con l’occupazione. Inoltre il piano di annessione darà come risultato il collasso della stessa ANP [Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] perché dimostrerà ai palestinesi il suo fallimento nel processo politico, anche se questo dovesse significare che l’opinione pubblica palestinese si rivolga ad Hamas, che sta cercando di trarre vantaggio dall’eventuale caos relativo alla sicurezza in Cisgiordania.

Stanno emergendo sempre più voci di un certo numero di ex- importanti generali e dirigenti dell’esercito e dei sistemi di sicurezza israeliani secondo i quali ogni decisione di annettere la Cisgiordania costituisce una minaccia per il destino degli israeliani e Israele potrebbe non essere in grado di affrontare le conseguenze di una simile iniziativa. Tuttavia ai sostenitori del piano di annessione non interessa quello che potrebbe succedere il giorno dopo, intendono semplicemente soddisfare i propri desideri, benché ci siano ancora molte questioni irrisolte.

Molti generali israeliani credono che i risultati di un qualunque processo di annessione, totale o parziale, provocheranno reazioni che Israele non sarà in grado di affrontare o gestire, soprattutto perché il danno provocato dall’annessione avrà un effetto domino. Porrà una minaccia alla sicurezza dello Stato, alla sua economia e ai suoi rapporti con i vicini arabi.

Oltretutto il fatto che i decisori politici israeliani non ascoltino le raccomandazioni di chi ha l’esperienza nel prevedere le conseguenze del piano di annessione suggerisce una mancanza di responsabilità, perché questi esperti stanno dicendo che riprendere il controllo israeliano sui palestinesi costerà al bilancio israeliano circa 14, 8 miliardi di dollari.

L’attuale capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Aviv Kochavi, ha manifestato la propria irritazione nei confronti del suo ministro della Difesa, Naftali Bennett [della coalizione di estrema destra dei coloni “Nuova Destra”, ndtr.] per aver posto le basi dell’annessione senza averlo coinvolto in questi sforzi. Ciò ha implicato radunare importanti ufficiali di vari settori dell’esercito, dell’amministrazione civile e del coordinatore israeliano delle attività di governo nei territori occupati [enti israeliani che gestiscono i territori palestinesi, ndtr.] ed esperti di diritto e chiedere loro di preparare una serie di scenari per annettere la valle del Giordano e alcune colonie.

Sul terreno la decisione di annettere la valle del Giordano e altre zone porterà a proteste di massa da parte dei palestinesi e indebolirà la Giordania a causa della diffusione di caos e disordini che potrebbero avvenire sul suo territorio. Ciò potrebbe consentire l’ingresso nel Paese dell’influenza iraniana, lasciando Israele senza confini sicuri mentre sulla sua porta di casa si insedierebbero milizie filo-iraniane.

Ci sono stime secondo cui l’annuncio da parte di Israele di un piano per l’annessione della valle del Giordano sia una finzione da sbandierare e serva come messaggio all’opinione pubblica israeliana secondo cui la valle del Giordano è ancora presente nell’agenda politica del partito. Pertanto l’idea dell’annessione di un terzo della Cisgiordania riappare quando si inizia a parlare di elezioni e poi viene subito accantonata e ritirata dopo il voto.

L’appello israeliano ad annettere la valle del Giordano è un’implicita manifestazione della mancanza di volontà di raggiungere un accordo politico con i palestinesi, in quanto tale annessione danneggia l’accordo di pace con la Giordania e l’Egitto, oltre alle minacce che i palestinesi interrompano il coordinamento per la sicurezza con Israele.

Si prevede che annettere la Cisgiordania senza un accordo con l’ANP danneggerà seriamente il progetto sionista. Non c’è modo di ottenere un’annessione, ridotta o estesa, o di dire che l’annessione includerà solo la “Zona A” della Cisgiordania o le colonie ebraiche al suo interno.

Il danno diretto risultante dall’annessione è la cessazione del coordinamento per la sicurezza con l’ANP, che non sarà in grado di sopravvivere, obbligando l’esercito israeliano a schierarsi in tutta la Cisgiordania. A quel punto è difficile immaginare gli scenari previsti. Si potrebbe assistere alla fine del sogno sionista perché la comunità internazionale considererebbe Israele una nuova versione del regime di apartheid sudafricano.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Nella giornata dei prigionieri palestinesi, la lotta dovrebbe riguardare la richiesta di libertà, non il Covid-19

Ramona Wadi

16 aprile 2020Middle East Monitor

L’annuale commemorazione della Giornata dei Prigionieri Palestinesi potrebbe facilmente trasformarsi in una celebrazione farsa. Quest’anno il 17 aprile sarà segnato da dichiarazioni che chiedono il rilascio dei prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane per motivi umanitari dovuti alla pandemia di coronavirus. Tuttavia vi sarà una scarsa consapevolezza che il principio umanitario, quando collegato a circostanze momentanee, non è una base sufficiente per rivendicare il rispetto dei diritti umani. È la lotta legittima che dovrebbe sostanziare la richiesta di libertà, non il Covid-19.

Nel 2020 Israele ha già incarcerato 1.324 palestinesi; 5.000 persone in totale sono attualmente detenute delle carceri israeliane. A marzo, in coincidenza con lo scoppio del coronavirus nei territori palestinesi occupati, Israele ha incarcerato 357 palestinesi, compresi minori e donne.

Israele ha costruito una falsa narrazione sulla resistenza palestinese per promuovere la propria narrazione sulla sicurezza, di qui l’etichetta di “terroristi palestinesi”. In realtà i palestinesi hanno un legittimo diritto a condurre una lotta anticoloniale con qualunque mezzo a disposizione. Nella Giornata dei Prigionieri Palestinesi questo deve essere portato all’attenzione del mondo prima di far ricorso al paradigma umanitario, che sfrutta e offende i prigionieri privilegiando la pandemia rispetto alla loro libertà politica, ai loro diritti e alla liberazione della loro terra.

Se i principi umanitari fossero veramente umanitari, la lotta anticoloniale farebbe parte della narrazione internazionale. I prigionieri palestinesi sono stati descritti sulla base di singoli eventi e circostanze, invece che di principi politici e della causa palestinese, forse per accondiscendere alla tendenza della comunità internazionale a pretendere i diritti umani in base ai programmi umanitari. Di qui l’ampia pubblicizzazione data agli scioperi della fame, per esempio, o ad un possibile diffondersi del coronavirus tra i prigionieri palestinesi, che certamente sarebbe catastrofico. Tuttavia questi non sono che aspetti della più ampia narrazione della lotta per la libertà, ed enfatizzare situazioni momentanee piuttosto che la causa che sta alla radice della questione danneggia sia i prigionieri palestinesi che la causa anticoloniale.

Le giornate di commemorazione sono inutili se la celebrazione si limita ad una singola occasione senza un piano per un’azione costante. Quando vi è un contesto diverso dalla lotta dei prigionieri per la liberazione della Palestina, in questo caso la pandemia, è facile rovesciare le priorità in modo tale che essa prenda il sopravvento rispetto ai prigionieri e ai loro diritti. Se i palestinesi fossero sostenuti nella loro lotta anticoloniale dalla comunità internazionale, come dovrebbe essere, il discorso relativo al coronavirus e ai palestinesi sarebbe differente. Inoltre, quando la pandemia finirà, la richiesta di liberazione dei prigionieri politici palestinesi continuerà? Oppure essa scomparirà perché l’attivismo, nonostante tutte le buone intenzioni, ancora una volta si è servito della pandemia per mettere in luce temporaneamente le continue violazioni e negligenze del sistema penitenziario israeliano?

La Giornata dei Prigionieri Palestinesi dovrebbe essere celebrata come momento culminante per evidenziare una coerente strategia per la liberazione. Dopotutto, i prigionieri politici palestinesi hanno abbracciato la lotta anticolonialista in modo permanente. Devono essere rilasciati perché il loro anticolonialismo è una causa legittima e non è una violazione del diritto internazionale. Sostenere che i prigionieri palestinesi devono essere liberati per motivi umanitari durante la pandemia di coronavirus è scorretto, dal momento che è ben noto che i principi umanitari sono soggetti alle interpretazioni politiche della comunità internazionale. Perciò nella Giornata dei Prigionieri Palestinesi 2020 dobbiamo politicizzare i principi umanitari dal punto di vista della memoria collettiva e della narrazione del popolo palestinese, in modo da poter elaborare una strategia coerente che non dipenda da circostanze esterne.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Hamas rifiuta le condizioni israeliane per gli aiuti a Gaza contro il coronavirus

Adnan Abu Amer

10 aprile 2020 Middle East Monitor

Nei giorni scorsi, Hamas e Israele hanno avuto un evidente scontro sulla fornitura di assistenza medica alla Striscia di Gaza per contrastare il coronavirus, poiché come condizione dell’assistenza medica Israele ha posto il ritorno dei suoi soldati catturati nella guerra del 2014. I media israeliani hanno chiesto a Hamas di liberare i soldati in cambio degli aiuti per combattere il coronavirus.

Da parte sua, Hamas ha annunciato tramite il suo leader a Gaza, Yahya Al-Sinwar, che otterrà quanto serve alle necessità umanitarie con la forza, minacciando che “sei milioni di israeliani potrebbero smettere di respirare” se Israele non sarà disposto a rifornire la Striscia di Gaza dei respiratori necessari ai pazienti con coronavirus.

Al-Sinwar ha lasciato anche intendere che Hamas potrebbe fare una concessione in merito all’accordo di scambio se sarà permesso l’ingresso di forniture per migliorare le condizioni di vita e l’assistenza medica a Gaza nonché il rilascio dei prigionieri palestinesi anziani, malati, minori e donne. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha risposto incaricando Yaron Bloom, coordinatore israeliano dei prigionieri di guerra e prigionieri israeliani MIA [missing in action, dispersi durante una azione, ndtr], di avviare i colloqui necessari per riprendere il negoziato di scambio di prigionieri con Hamas.

Questo tira e molla significa che sarà possibile un incremento di violenza tra Hamas e Israele, perché le fazioni palestinesi cercheranno di fare pressione su Israele affinché conceda l’ingresso di forniture mediche e assistenza sanitaria a Gaza per combattere il coronavirus. Alcuni giorni fa sono stati lanciati dei missili da Gaza contro Israele e questo solleva degli interrogativi, se entrambe le parti si indirizzeranno ad un’escalation militare o se raggiungeranno un accordo di scambio. Assisteremo a uno scontro militare non voluto durante questa disastrosa situazione sanitaria a Gaza e in Israele, o alla fine avranno luogo negoziati per raggiungere un nuovo accordo di scambio di prigionieri tra le parti?

Alcuni giorni fa l’esercito israeliano ha annunciato di aver bombardato le postazioni di Hamas nella Striscia di Gaza, in risposta a un missile sparato contro gli insediamenti intorno a Gaza. Migliaia di israeliani si sono precipitati nei rifugi, anche se era la prima aggressione dall’inizio dell’emergenza coronavirus a febbraio, con palestinesi e israeliani chiusi nelle loro case per fermarne la diffusione.

Nessuna delle fazioni palestinesi ha rivendicato il lancio di missili, ma il bombardamento israeliano delle postazioni di Hamas è per via del controllo di Hamas su Gaza. Le fazioni palestinesi hanno affermato che Israele stesse approfittando della preoccupazione del mondo nella lotta al coronavirus per intensificare il blocco su Gaza.

L’atmosfera nella Striscia di Gaza segnala che la crisi sanitaria, dopo l’individuazione di numerosi casi di coronavirus, potrebbe spingere Hamas a fare pressione su Israele perché allenti il blocco su Gaza. Alcuni gruppi israeliani hanno profilato un cupo scenario simile al Giorno del Giudizio, con Gaza che esplode in faccia a Israele un diffuso contagio di coronavirus.

Hamas ha ripetutamente affermato che sotto il blocco israeliano Gaza vive in condizioni catastrofiche e che solo Israele è responsabile del suo prolungamento. Hamas è in contatto con dei mediatori per costringere Israele a revocare il blocco su Gaza, alla luce della pandemia di coronavirus che aggrava la situazione – segnalando che il lungo blocco di Gaza non favorisce il mantenimento della calma nei sistemi di vigilanza. Hamas non ha esplicitamente ammesso la sua responsabilità nel lancio di missili contro Israele, ma non ha negato, ammantando la questione di mistero e ambiguità.

La Commissione di Monitoraggio del governo guidato da Hamas nella Striscia di Gaza ha dichiarato che le autorità governative di Gaza hanno bisogno di supporto dall’interno e dall’esterno per affrontare il virus. Ha annunciato la distribuzione di un milione di dollari in fondi di emergenza urgenti a 10.000 famiglie a basso reddito colpite dai provvedimenti, e l’assunzione di 300 nuovi membri del personale per il Ministero della Sanità di Gaza. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha discusso con alcuni partiti palestinesi, regionali e internazionali, gli effetti della diffusione del coronavirus in Palestina.

La posizione palestinese ammette che Hamas e Israele non hanno interesse a un’escalation militare sotto il coronavirus, e il lancio del missile da Gaza potrebbe far parte del caos nella sicurezza creato dai militanti armati che Hamas sta cercando di controllare. Inoltre, Israele teme la diffusione del virus a Gaza per paura che la comunità internazionale lo ritenga responsabile di Gaza; potrebbe quindi concedere alcune agevolazioni, come consentire l’ingresso di attrezzature sanitarie e forniture mediche di prevenzione, nonché mobilitarsi per un sostegno finanziario alla paralisi economica di Gaza a seguito allo scoppio della pandemia.

Le principali richieste di Gaza per affrontare il coronavirus sono forniture mediche: respiratori, kit per testare il virus, provviste alimentari e aiuti per gli abitanti di Gaza che soffrono i provvedimenti presi per combattere la pandemia.

Vale la pena notare che Gaza è in grado di gestire solo 100-150 casi di coronavirus, perché il suo sistema sanitario è fragile e non può prendere in carico grandi numeri. Ha uno scarso numero di ventilatori e letti per terapia intensiva, nonché una carenza di farmaci del 39%.

Anche se la recente escalation a Gaza potrebbe non essere collegata a una specifica organizzazione palestinese, potrebbe essere un messaggio che segnala che Israele ha la responsabilità di affrontare esaustivamente la situazione sanitaria a Gaza, dove ci sarebbe una grande catastrofe se il coronavirus si diffondesse tra la gente. Chiunque abbia lanciato i missili, sembra aver chiesto a Israele di revocare il blocco su Gaza. Israele è interessato a soddisfare il bisogno di salute e di vita di Gaza, perché se la pandemia si diffonde tra i palestinesi, li spingerà a lanciare e far scoppiare decine, se non centinaia, di missili. Potrebbero anche affollarsi al confine Israele-Gaza per salvarsi dalla pandemia.

Con il mantenimento delle prescrizioni per affrontare il coronavirus a Gaza, le autorità governative di Gaza affiliate ad Hamas stanno, tra le altre misure, sottoponendo i viaggiatori che ritornano a Gaza attraverso il valico di Rafah con l’Egitto e il valico di Beit Hanoun con Israele ad una quarantena obbligatoria di 21 giorni. Hanno anche chiuso tutte le moschee, università, scuole, mercati, sale per matrimoni e ristoranti fino a nuovo avviso. Stanno anche studiando la possibilità di imporre un coprifuoco completo, oltre a chiedere ai palestinesi di rimanere sempre in casa.

Tutte queste misure hanno contribuito alla crescente sofferenza di gruppi vulnerabili come autisti, impiegati di sale per matrimoni, ristoranti e bar. Forse la sovvenzione mensile del Qatar di 100 dollari distribuita a 100.000 famiglie bisognose a Gaza riduce relativamente l’effetto dell’assedio israeliano e allevia il deterioramento della situazione economica di Gaza; la sovvenzione del Qatar faceva parte degli accordi umanitari concordati tra Hamas e Israele nell’ottobre 2018.

In questi giorni, il Qatar ha annunciato che avrebbe fornito 150 milioni di dollari in sostegno finanziario alla Striscia di Gaza per un periodo di sei mesi, per alleviare le sofferenze dei palestinesi e per aiutare a combattere il coronavirus, senza chiarire la natura della distribuzione della sovvenzione né i beneficiari.

Nel frattempo, il Ministero dello Sviluppo Sociale di Gaza ha fornito tutti i pasti a coloro che sono stati messi in quarantena nei centri sanitari, per un totale di 6.000 pasti al giorno. Il Ministero fornisce anche le risorse necessarie ai soggetti in quarantena, come frigoriferi, elettrodomestici e utensili per la casa. Il Ministero ha anche registrato il numero di famiglie colpite dallo stato di emergenza imposto dal coronavirus; queste famiglie saranno raggiunte e aiutate.

Tutto ciò conferma peraltro che le condizioni sanitarie ed economiche a Gaza sono disastrose, le necessità fondamentali dei palestinesi non sono coperte e ciò che le agenzie internazionali e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) forniscono è solo una piccola parte del necessario. Le agenzie governative di Gaza forniscono cibo e bevande a 1.600 palestinesi in centri di quarantena; queste agenzie soffrono da tempo di un grave deficit economico, che richiede un’urgente iniezione di finanze.

Il lancio di un missile da Gaza verso Israele potrebbe essere il messaggio palestinese a Israele che le condizioni a Gaza non sono accettabili e che qualsiasi tentativo israeliano di esimersi dal provvedere alle richieste umanitarie e sanitarie di Gaza potrebbe significare che nel prossimo futuro i missili aumenteranno. Tuttavia, è improbabile che si arrivi ad uno scontro a pieno titolo tra Hamas e Israele, piuttosto ad un processo di progressiva intensità, per diversi giorni, se il virus si diffondesse tragicamente a Gaza.

Middle East Monitor ha appreso da fonti palestinesi che Hamas ha inviato un messaggio a Israele attraverso dei mediatori regionali e internazionali: “Hamas considera Israele direttamente responsabile del deterioramento delle condizioni di vita e salute a Gaza e non rimarrà inerte di fronte alla diffusione del coronavirus, perché Hamas crede che Israele sia tenuto a agire per impedire il collasso del sistema sanitario, con aiuti diretti o attraverso l’ANP o le agenzie internazionali “.

Hamas non ha rivendicato il lancio di missili contro Israele e potrebbe non essere nel suo interesse impegnarsi in un esteso confronto militare. Tuttavia, l’attuale peggioramento delle condizioni nella Striscia di Gaza, l’aumento dei casi di coronavirus, la mancanza di attrezzature mediche sufficienti per esaminare i pazienti e la mancanza di supporto finanziario necessario per aiutare coloro che non possono lavorare in quanto costretti a rimanere a casa, possono intensificare l’effetto a catena. Hamas potrebbe decidere un incremento di violenza contro Israele per costringerlo a fornire le scorte insufficienti a Gaza. Hamas pensa che Israele corrisponderà alle sue richieste, per essere libero di affrontare la diffusione su larga scala del coronavirus tra gli israeliani.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Rashid Khalidi parla del passato e del futuro della Palestina

William Parry

18 marzo 2020 – Middle East Monitor

I termini “secolo” e “cento anni”, spesso intercambiabili, condividono una strana coincidenza il 18 gennaio, quando l’eminente accademico palestinese-americano, professor Rashid Khalidi, ha pubblicato il suo ultimo libro, “La guerra dei Cent’anni contro la Palestina: una storia di colonialismo di insediamento e di resistenza, 1917-2017”. Mentre usciva nelle librerie, il presidente Usa Donald Trump rendeva pubblico il suo piano di pace per il Medio Oriente definito “l’accordo del secolo”. Benché entrambi riguardino lo stesso problema israelo-palestinese, li separano non cento anni, ma anni luce.

Al telefono Khalidi mi dice di aver scelto il titolo per alludere alla guerra dei Cent’Anni medievale tra Inghilterra e Francia (1337-1453) perché pensava che sarebbe risultato evocativo per i lettori dell’Occidente. “Ho letto parecchio sulla guerra dei Cent’Anni e sono rimasto colpito dal fatto che in Palestina vi siamo coinvolti ormai da più di 100 anni,” spiega. “La guerra tra le corone d’Inghilterra e di Francia durò 117 anni, quindi non ci siamo ancora arrivati, ma ci siamo vicini. Ho pensato che avrebbe fatto colpo sulle persone.”

Utilizzando la frase “contro la Palestina”, Khalidi intende spostare la definizione della narrazione predominante da quella di un conflitto tragico ed inevitabile tra due popoli che lottano per una terra “contesa” a una definizione “più veritiera”: “Volevo scioccare il lettore. Sapevo che ciò non sarebbe piaciuto a qualcuno ma non penso che si possano edulcorare alcune di queste cose. Non è solamente il modo in cui le vedono i palestinesi, penso che sia effettivamente com’è: una guerra contro una popolazione indigena da parte di una coalizione estremamente forte, guidata dalla maggiore potenza dell’epoca che appoggiava il movimento sionista e, in seguito, lo Stato di Israele. È come la guerra contro le popolazioni indigene del Nord America o contro gli algerini da parte dei colonialisti francesi, e via di seguito.”

Il professor Khalidi vede il suo ottavo libro sulla storia del Medio Oriente contemporaneo come l’ultimo di un’ampia serie di voci sempre più numerose – di figure accademiche, culturali, giuridiche e politiche – che insieme, anche se gradualmente, stanno definendo un’emergente narrazione palestinese che sta prendendo piede. Una ragione per la quale ha stentato ad emergere, sostiene, è che “la narrazione sionista venne proposta da persone nate nei Paesi da cui essa ebbe origine.” Erano sionisti austriaci e tedeschi che comunicavano in tedesco, sionisti francesi in francese, sionisti americani e britannici in inglese, eccetera. La narrazione era esposta alla gente nella propria lingua, nel proprio idioma e nel contesto della loro stessa cultura nazionale da parte di persone che erano loro concittadini e concittadine.”

Aggiunge che la narrazione sionista era anche aiutata da quella biblica, estremamente nota all’opinione pubblica occidentale, e in più il sionismo riuscì ad allearsi con “le principali potenze coloniali” dell’epoca. “C’era un intrinseco vantaggio per l’establishment di vari Paesi in quanto erano solidali con gli obiettivi sionisti e/o li appoggiavano, soprattutto nel caso della Gran Bretagna e in seguito degli USA.”

I palestinesi non hanno avuto quel vantaggio fino a molto di recente e quindi hanno iniziato con un grande handicap, aggiunge Khalidi. Ma ci sono stati fondamentali cambiamenti a questo riguardo, che lo rendono ottimista.

“Ho visto un cambiamento negli ultimi due o tre decenni negli scritti accademici, soprattutto sul Medio Oriente e sulla Palestina. C’è stato un enorme cambiamento nei campus universitari, nel senso di una volontà di ascoltare un’interpretazione alternativa delle cose e di essere in qualche modo critici rispetto alle versioni ricevute. In alcuni altri settori delle società americana ed europea penso che, nonostante l’enorme rifiuto, ora ci sia una ricettività che in realtà non c’era un decennio fa in questi ampi settori della popolazione.”

Il libro di Khalidi finisce con riflessioni sul presente e sulle opportunità e sfide che abbiamo di fronte per continuare a ridefinire la narrazione. Egli è duro nei confronti delle fazioni palestinesi rivali, Fatah e Hamas, che descrive come due “movimenti politici ideologicamente fallimentari”, i cui sforzi “non hanno portato a niente.” Pensa che la riconciliazione aiuterà, ma essi non hanno “la nuova strategia dinamica necessaria per smuovere la causa palestinese dal suo attuale stato di stagnazione e regresso.” Il suo capitolo finale non dice quale ruolo i cittadini palestinesi di Israele possano giocare nei futuri tentativi. Ritiene che abbiano da portare un qualche contributo?

“Hanno moltissimo da insegnare agli altri palestinesi su come affrontare il sionismo, Israele, lo Stato securitario israeliano e i suoi metodi. Hanno decisamente la comprensione più elaborata di tutte queste cose perché hanno la più lunga esperienza di ciò, parlano ebraico e sono israeliani tanto quanto palestinesi. Con il passare del tempo parte dell’isolamento tra i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza da una parte e i palestinesi all’interno di Israele dall’altra diminuirà, e abbiamo [di fronte] la grande sfida di imparare da questi ultimi.”

Egli trae stimolo e guida anche da alcuni aspetti delle iniziative della società civile. La nascita del movimento internazionale per il Boicottaggio, Il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) contro Israele, avviato dalla società civile palestinese ed ora appoggiato, tra gli altri, da gruppi di base per i diritti umani, gruppi religiosi e sindacati a livello internazionale, ha fatto di più per promuovere la causa palestinese che i due principali partiti politici in Cisgiordania e a Gaza, mi dice.

Profondamente consapevole dell’impatto che il BDS potrebbe avere e del suo ruolo nel ridefinire la narrazione palestinese, il governo israeliano ha investito decine di milioni di dollari per combatterlo a livello mondiale, principalmente attraverso il ministero degli Affari Strategici, recentemente creato. Le accuse di antisemitismo sono una tattica sempre più frequentemente utilizzata contro il BDS ed i suoi sostenitori.

Khalidi crede che queste accuse stiano avendo un impatto – basta vedere le continue accuse e la caccia alle streghe che ha dovuto affrontare ormai da parecchi anni il partito Laburista britannico, o l’attuale campagna delle primarie democratiche di Bernie Sanders negli USA – ma, insiste, sono destinate a fallire.

“Sono intese ad avere un effetto dissuasivo. Avranno successo? Una cosa che noi abbiamo negli USA e non avete in Europa è il Primo Emendamento. In definitiva ogni legge approvata che vada nel senso di sopprimere i boicottaggi o il movimento BDS è destinata ad essere giudicata una violazione del Primo emendamento, il diritto dei cittadini alla libertà di parola. Falliranno. Il boicottaggio è una forma rispettabile di resistenza all’oppressione fin da quando in Irlanda il capitano Boycott [imprenditore e amministratore di terre inglese che nell’Irlanda della fine del XIX secolo venne ostracizzato dalla comunità irlandese e da cui è nato il termine “boicottaggio”, ndtr.] venne boicottato dai contadini irlandesi; poi l’hanno adottato gli indiani, i sudafricani, il movimento americano per i diritti civili, ed ora anche i palestinesi. È americano tanto quanto la torta di mele. Non lo puoi mettere fuorilegge.”

Benché possano sostenere che il BDS è “antisemita”, potremmo aggirare il problema: “Era in un certo modo una discriminazione razziale quella dei contadini irlandesi nei confronti del capitano Boycott? Ovviamente no: era resistenza contro l’oppressione. Ciò dimostra che brandire istericamente il termine antisemitismo per descrivere ogni critica a Israele o al sionismo, o ogni difesa dei diritti dei palestinesi, è assurdo in maniera talmente evidente che penso che prima o poi queste persone verranno derise in tribunale.” Nelle pagine conclusive del suo libro Khalidi tocca anche la questione della soluzione a uno o a due Stati, ma afferma di essere agnostico riguardo a quale forma avrà alla fine. Quella situazione è molto lontana, sostiene, e distrae dal messaggio più urgente necessario adesso.

“Dovremmo pensare a come andare oltre il punto in cui siamo, da questo tipo di status quo a uno Stato verso una situazione di Stato unico egualitario, o verso due o più Stati egualitari, o quel che sia? Non succederà molto presto, e preoccuparci dei dettagli ci distrae dai principi: deve essere (basata sulla) assoluta uguaglianza. Insistete sul fatto di vivere in un Paese basato sull’idea che ogni uomo è creato uguale, o un Paese che afferma che libertà, uguaglianza e fraternità sono la base della repubblica, e avete un argomento che è incontrovertibile. (Quello che c’è) è disuguaglianza e discriminazione – non avete bisogno di usare un termine come “apartheid”, benché secondo me sia peggio dell’apartheid – e questo è un ideale che riguarda l’uguaglianza. Questa dovrebbe essere la cosa da sottolineare.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un’app per evitare i taxisti arabi: poteva esistere solo nel regime israeliano di apartheid!

Nasim Hamed

24 febbraio 2020 – Middle East Monitor

Un’app israeliana per chiamare i taxi, che offre ai suoi clienti ebrei l’opzione che garantisce che non verranno trasportati da un taxista arabo, è stata denunciata da alcuni avvocati per i diritti umani. Gett, una multinazionale con utenti in quasi tutte le città più importanti, potrebbe dover sborsare $ 47 milioni in indennizzi per aver fornito una funzione che discrimina i non-ebrei.

Nella causa collettiva intentata questa settimana, la funzione extra di Gett, un servizio esclusivo noto come “Mehadrin” offerto a ebrei osservanti, è descritta da Asaf Pink, l’avvocato che lavora al caso, come “un servizio razzista che fornisce taxi con autisti ebrei.” Pink e il Centro di Azione Religiosa israeliano (un gruppo locale di attivisti) hanno presentato il caso dopo un’indagine privata che ha provato che il servizio era stato creato su misura per andare incontro alle necessità specifiche dei passeggeri ebrei, benché discriminatorio.

Nel corso dell’indagine del 2018, Herzl Moshe, il rappresentante di Gett a Gerusalemme, pare abbia affermato che non avrebbe mai assunto un autista arabo per il servizio speciale offerto agli ebrei, anche se avessero accettato le condizioni di Gett. “Lasciate che vi racconti un segreto.” ha detto in dichiarazioni registrate. “Gett Mehadrin non è per i religiosi [ebrei]. È per quelli che non vogliono un taxista arabo. Quando mia figlia vuole spostarsi, io le chiamo un Gett Mehadrin. A lei non importa se l’autista è religioso o no, perché quello che vuole è che sia ebreo.”

L’agenzia a cui hanno commissionato l’investigazione privata ha anche mandato un arabo a chiedere se poteva lavorare per il servizio, ma gli è stato detto di no. Moshe avrebbe detto: “Io ho 1500 autisti arabi e non uno di loro lavora, né lavorerà, per Mehadrin.”

Il caso ha scatenato un dibattito sulla natura del razzismo in Israele. Nonostante le sue molte somiglianze con il Sud Africa durante il periodo dell’apartheid, lo Stato sionista ha avuto un certo successo nel proteggersi dal tipo di stigma che abbatté il regime razzista nel 1991.

Parte di questo successo è dovuto al fatto che i legislatori israeliani hanno evitato di imporre quello che è spesso definito “il piccolo apartheid”. Questa pratica è il lato più visibile dell’apartheid e include la segregazione basata sulla razza nei servizi, come i luoghi pubblici di divertimento, parchi, gabinetti e trasporti pubblici. L’app di Gett rientrerebbe di sicuro in questa categoria.

Il “grande apartheid” si riferisce alle limitazioni imposte ai neri in Sud Africa e relative all’accesso alla terra e ai diritti politici. Queste includevano leggi che impedivano ai neri sud-africani persino di vivere nelle stesse aree dei bianchi. Negavano anche ai neri africani la rappresentanza politica e, nei casi più estremi, la cittadinanza in Sud Africa.

Anche se in Israele si possono trovare entrambe le forme di apartheid, non esistono cartelli come “Solo per bianchi” o, nel caso di Israele, “Solo per ebrei”. Per trovare esempi di entrambe le forme bisogna fare uno sforzo maggiore che semplicemente leggere un cartello su un bus.

Si vedono quotidianamente esempi di ‘grande apartheid’ nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza. Oltre cinque milioni di palestinesi sono tenuti da circa settant’anni in uno stato di occupazione senza il diritto al voto. Israele amministra un territorio dove la legge non è applicata equamente. Esistono sistemi legali e giudiziari separati per ebrei e non ebrei. Israeliani e palestinesi sono segregati anche in settori quali l’alloggio, l’istruzione, la salute, i trasporti e il welfare. Gli ebrei che vivono nei territori occupati sono considerati residenti dello Stato idonei a godere di tutti i diritti conferiti dallo Stato, ma la stessa legge non si applica ai loro vicini palestinesi.

Qualsiasi altro Paese in questa situazione sarebbe giustamente considerato uno Stato in apartheid, ma, per qualche motivo, questo è tollerato, presumibilmente perché l’occupazione è considerata una caratteristica temporanea di Israele. Va però fatto notare che il periodo di apartheid nella storia del Sud Africa è durato meno della cosiddetta “occupazione temporanea” della Palestina da parte di Israele.

La discriminazione nei territori occupati va molto più in profondità delle politiche razziste. Israele è un unicum nel modo in cui ha creato un modello di cittadinanza a vari livelli all’interno dello Stato con lo scopo di mantenerne il suo carattere ebraico. È stata emanata una serie di leggi per costruire lo Stato su una discriminazione istituzionalizzata. La Legge del Ritorno del 1950, per esempio, incorpora l’ideologia fondamentale del sionismo: tutti gli ebrei, indipendentemente da dove siano nati, hanno il diritto inalienabile di emigrare in Israele.

Intanto, la Legge sulla Cittadinanza del 1952 (meglio conosciuta come la Legge sulla Nazionalità) dà a tutte le persone a cui è concessa la nazionalità ebraica dalla succitata Legge del Ritorno il diritto di rivendicare automaticamente, senza alcuna procedura formale, la cittadinanza israeliana all’arrivo all’aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv. Però la stessa legge stabilisce procedure specifiche per i non-ebrei che desiderano avere la cittadinanza.

Secondo il principio extraterritoriale israeliano di sovranità, la cittadinanza è concessa a chiunque condivida la stessa etnia o religione, indipendentemente da dove viva nel mondo. Nel caso di Israele, solo agli ebrei sono concessi i diritti di nazionalità, mentre i non ebrei residenti nello stesso territorio sono privati di tali diritti. In ciò Israele è un caso unico. Nessun Paese a maggioranza musulmana, per esempio, concede automaticamente la cittadinanza sulla base della religione o della propria “arabicità”. Allo stesso modo, nessuna democrazia occidentale concede la cittadinanza automatica solamente in base a razza e religione.

A differenza delle democrazie liberali in Occidente, Israele mantiene una distinzione imposta dalla costituzione tra “cittadinanza ” e “nazionalità”. Solo agli ebrei è concessa la nazionalità e solo loro possono godere completamente dell’intera gamma dei diritti riconosciuti dallo Stato. Questo ha generato un sistema odioso di concessioni di sussidi statali per dare l’impressione che Israele non stia discriminando i non ebrei.

Separando i servizi tra istituzioni “nazionali” e “governative”, Israele è in grado di convogliare legalmente le risorse per fornire i servizi solo ai cittadini ebrei. Per esempio, le istituzioni finanziate da gruppi sionisti come il Fondo Nazionale Ebraico possono discriminare, e lo fanno apertamente, a favore degli ebrei senza dare l’impressione di contaminare il governo, apparentemente democratico, con la puzza di razzismo.

Questo tipo di doppio binario di servizi pubblici fra ebrei e non ebrei nega ai cittadini non ebrei dello Stato l’accesso a fondi e servizi disponibili solo agli ebrei. Dato che il 92% della terra di Israele è “di proprietà” del Fondo Nazionale Ebraico, in gran parte espropriata ai palestinesi, inaccessibile ai cittadini israeliani non ebrei, questi sono impossibilitati per legge a possederli, affittarli, viverci o lavorarli.

Nonostante gli sforzi per limitare i casi di ‘piccolo apartheid’ e nascondere le discriminazioni sotto strati di sofismi, spesso erompono pratiche razziste come la segregazione sui trasporti pubblici, che ha una storia di condanne e innesca una spontanea reazione di sdegno.

Nel 2015 il governo israeliano si era trovato nella situazione imbarazzante di dover sospendere alcune nuove regole che avrebbero separato sugli autobus i passeggeri palestinesi dagli ebrei. L’anno scorso, tre ospedali israeliani hanno ammesso per la prima volta, di aver segregato le partorienti ebree dalle arabe. Nel 2018 i residenti di Afula, città nel nord di Israele, hanno fatto delle manifestazioni contro la vendita di una casa a una famiglia di cittadini palestinesi. La stessa città ha imposto ai palestinesi il divieto di entrare in un parco. Mesi prima, una piscina pubblica nel sud di Israele è stata denunciata per aver separato ebrei e palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Sempre più vittorie nella campagna contro la diffamazione a favore di Israele

Nasim Ahmed

12 marzo 2020 – Middle East Monitor

Calunniare a mezzo stampa gli attivisti per i diritti umani che denunciano la brutale realtà dell’occupazione militare, a quanto pare eterna, di Israele in Palestina è stato il modus operandi dei gruppi anti-palestinesi. Questa tattica ha avuto un relativo successo negli ultimi anni perché alcuni governi occidentali, incluso quello britannico, vedono le voci che si levano per la Palestina e l’opposizione alla brutale occupazione israeliana con la lente deformante del “terrorismo palestinese” e non, come ci si aspetterebbe, nell’ambito del legittimo diritto di resistere all’occupazione e di opporsi al razzismo. Inoltre, una discutibile “definizione attuale di antisemitismo” che assimila le critiche a Israele all’ostilità antiebraica ha consentito ai sostenitori di Israele di diffamare chi critichi lo Stato sionista e l’ideologia razzista su cui si fonda.

Anche se effettivamente entrambi i fattori hanno avuto un pesante effetto sulla libertà di parola in Europa e negli Stati Uniti quando si tratti di denunciare i crimini di Israele, ci sono buone ragioni per credere che, nonostante università e istituzioni pubbliche capitolino di fronte alle attuali pressioni e reprimano l’attivismo filo-palestinese, portare in tribunale le campagne di diffamazione costruite dalla rete israeliana di organizzazioni sociali può dare i suoi frutti. Una di queste organizzazioni è UK Lawyers for Israel [Giuristi Britannici per Israele] (UKLfI).

Recentemente Defence for Children International – Palestine [Difesa Internazionale dei Bambini-Palestina] (DCIP), associazione per la difesa e la promozione dei diritti dei bambini che vivono nella Cisgiordania occupata, comprese Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza, ha portato UKLfI in tribunale. DCIP ha vinto presso l’Alta Corte di Giustizia di Londra la causa contro il gruppo di avvocati di UKLfI per aver pubblicato post sul blog del loro sito web e inviato lettere ai sostenitori istituzionali in cui si affermava che DCIP avesse forti “legami” con un “certo gruppo terroristico”. Secondo DCIP, si era trattato di “una campagna di disinformazione politica e mediatica ben organizzata” iniziata nel 2018.

Secondo DCIP, UKLfI fa parte di una rete di gruppi israeliani e dei loro soci a livello mondiale “con il sostegno del Ministero degli Affari Strategici israeliano” che ha condotto “campagne di diffamazione articolate e mirate per delegittimare le organizzazioni umanitarie e per i diritti umani” in Palestina.

Anche se non è chiara l’importanza del ruolo di UKLfI in questa rete, il fine del Ministero degli Affari Strategici di Israele è chiarissimo. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha incaricato personalmente il Ministero di guidare i simpatizzanti filo-israeliani e di creare gruppi anonimi segreti per attaccare gli attivisti filo-palestinesi, spesso con l’aiuto di consulenti politici professionali. Dal varo del ministero, Israele ha stabilito uno stanziamento di guerra di un milione di dollari e un esercito stimato in 15.000 troll per attaccare i gruppi pro-palestinesi.

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Il mese scorso, il DCIP ha affermato di essere stato bersaglio di una feroce campagna di diffamazione da parte dell’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Danny Danon, del Ministero israeliano per gli Affari Strategici, della ONG Monitor [filo-israeliana di Gerusalemme, analizza l’attività internazionale delle ONG contrarie all’occupazione, ndtr.] e di UKLfI. Tutto è stato fatto, ha affermato DCIP, per impedire al loro gruppo per i diritti umani di fornire prove al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a New York. Brad Parker, consigliere capo del DCIP per la politica e la difesa, ha descritto la campagna in un lungo articolo intitolato: “Dovevo parlare di bambini palestinesi alle Nazioni Unite. Israele me lo ha impedito”.

La vittoria legale del DCIP all’Alta Corte è una delle tante vittorie simili contro la lobby filo-israeliana e anti-palestinese. A febbraio, il britannico Jewish Chronicle [il più antico giornale ebraico al mondo, ndtr.] è stato costretto a scusarsi con un’attivista laburista per averla ingiustamente accusata di presunto “antisemitismo”. Electronic Intifada  ha riferito che la proprietà del quotidiano ha ammesso sul suo sito web di aver pubblicato “accuse contro la signora Audrey White” totalmente “false”.

La condanna per diffamazione a quanto pare è giunta quando in dicembre il garante della stampa britannica ha sentenziato che il giornale filo-israeliano di destra, che aveva pubblicato quattro articoli su White, era stato “estremamente fuorviante” e aveva anche posto ostacoli “inaccettabili” alle indagini.

L’anno scorso, il Jewish Chronicle ha presentato le proprie scuse al consiglio di amministrazione di Interpal, organizzazione benefica britannica che fornisce aiuti umanitari e allo sviluppo per i palestinesi in difficoltà, e ha anche accettato di risarcire i danni. Sempre l’anno scorso Associated Newspapers, editore del Daily Mail e di MailOnline, ha pubblicato le sue profonde scuse e pagato 120.000 sterline [circa 132.000 euro] di danni sempre all’amministrazione di Interpal, accollandosi le spese legali delle cause per diffamazione. A febbraio, “ai sensi del paragrafo 15 (2) della Legge sulla Diffamazione del 1996”, UKLfI ha pubblicato sul suo sito web una dichiarazione del Consiglio di Amministrazione di Interpal.

Il Jewish Chronicle è stato uno dei principali attori nella rete israeliana di gruppi anti-palestinesi. Nel 2014 si è scusato e ha pagato ingenti danni a Human Appeal International [organizzazione benefica di sviluppo e soccorso britannica, ndtr.] dopo averlo accusato di essere un ente inserito nella lista nera negli Stati Uniti e aver falsamente affermato che avesse appoggiato gli attentati suicidi. Nello stesso anno il Jewish Chronicle ha dovuto scusarsi con il direttore della Campagna di Solidarietà con la Palestina [organizzazione britannica solidale con il popolo palestinese].

Il pagamento di ingenti somme per danni avrebbe spinto il Jewish Chronicle verso la rovina finanziaria. L’anno scorso è stato riferito che per evitare la chiusura il giornale avrebbe chiesto alle “persone attente alla comunità” un’importante iniezione di denaro. A febbraio, la testata settimanale ha annunciato la propria fusione con Jewish News [quotidiano e sito web ebraici molto noti in Gran Bretagna] “per garantire il futuro finanziario di entrambi i giornali”. Secondo Electronic Intifada, il gruppo che possiede il giornale e il sito web Jewish Chronicle opera con una perdita di oltre 2 milioni di dollari l’anno, mentre il Jewish News avrebbe un passivo di oltre 1,9 milioni di dollari.

Nel frattempo, negli Stati Uniti un negozio di alimentari pro-BDS ha ottenuto un’importante vittoria in tribunale contro i legali di Israele per la sua decisione di boicottare i prodotti israeliani per motivi morali. La vittoria di questo suo sostegno alla campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni [BDS] è stata vissuta come un’imbarazzante sconfitta dai legali di Israele nella decennale causa di denuncia dell’Olympia Food Co-op [cooperativa no profit di Washington che vende alimenti e prodotti naturali, ndtr.]

Come nel caso del DCIP, gli avvocati che agiscono per conto della Olympia Food Co-op hanno affermato che la causa contro il negozio era parte di un ampio e crescente schema di attivismo per reprimere chiunque sostenga i diritti dei palestinesi. Il Centro per i Diritti Costituzionali [organizzazione progressista di patrocinio legale senza scopo di lucro con sede a New York, ndtr.], che ha rappresentato l’Olympia Food Co-op durante i 10 anni di battaglia legale, ha denunciato la campagna di eliminazione delle voci filo-palestinesi come un’ “eccezione palestinese” alla libertà di parola.

Un altro caso che sottolinea come il ricorso alla giustizia possa dare frutti è quello dell’organizzazione britannica riconosciuta dall’ONU che sostiene i profughi palestinesi. Nel 2019 un tribunale britannico ha ordinato a World-Check, una consociata di Reuters, di pagare un risarcimento a Majed Al-Zeer, presidente del Palestinian Return Center (RPC) [Centro per il Ritorno dei Palestinesi, gruppo londinese di patrocinio storico, politico e giuridico dei rifugiati palestinesi, ndtr.], per aver inserito nel suo database mondiale online l’organizzazione fra i gruppi terroristici. Secondo Al-Zeer, il lavoro della RPC nel denunciare le colpe di Israele per la difficile situazione dei rifugiati e la sua responsabilità legale alla luce del diritto internazionale avrebbero messo l’associazione nel mirino del governo israeliano.

Mentre Israele rafforza ulteriormente la sua occupazione e assoggetta sei milioni di persone a un sistema oppressivo, è probabile che l’attacco ai gruppi per i diritti umani da parte della sua rete di organizzazioni della società civile si espanderà. Invece di chiedere la fine della brutale occupazione della Palestina da parte di Israele e della repressione dei diritti dei palestinesi, i gruppi filoisraeliani diventeranno ancora più fanatici e frenetici nel loro tentativo di mettere a tacere ed eliminare il legittimo lavoro per i diritti umani. Dopo la vittoria del DCIP presso l’Alta Corte di Londra, si vede l’opportunità di sfidare la lobby anti-palestinese dove sa che non può vincere: in un tribunale.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)