Dove sono finite le masse arabe?

Amira Abo el-Fetouh

10 febbraio 2020 – Middle East Monitor

Donald Trump ha fatto scoppiare una bomba con il suo “accordo del secolo”, che elimina ciò che rimane della Palestina storica e liquida completamente la causa palestinese. I Paesi arabi avrebbero dovuto ribellarsi all’unanimità contro di esso. Le masse arabe avrebbero dovuto scendere in piazza a milioni come reazione naturale all’accordo. Non è successo, nemmeno nei territori palestinesi occupati in Cisgiordania. Quelli che sono scesi in strada, un po’ timidamente, lo hanno fatto in Giordania, Algeria e Marocco.

Che cosa è successo al popolo arabo? Dove sono finite le masse? Si sono affievoliti i loro sentimenti verso la principale causa araba, la Palestina? Abbiamo assistito a manifestazioni di massa negli anni passati, quando, ad esempio, Ariel Sharon profanò la moschea di Al-Aqsa; quando Mohammad Al-Durra, 12 anni, fu ucciso; quando lo sceicco Ahmed Yassin, Abdel Aziz Al-Rantisi e altri furono trasformati in martiri. Le masse sono scese in piazza anche durante i frequenti attacchi israeliani contro i palestinesi nella Striscia di Gaza.

La recente debole risposta ricorda la reazione alla decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale “indivisa” dello Stato di Israele. All’epoca lo stesso presidente degli Stati Uniti dichiarò di essersi aspettato una reazione maggiore dagli arabi. Sono sicuro che sia stata la mancanza di una reazione infuriata che lo ha incoraggiato a fare tante altre mosse ingiuste a favore del nemico sionista, che avrebbero dovuto provocare gli arabi – ma gli era stato assicurato che, come Nazione unita, sono moribondi. Tali mosse includono il via libera a Israele per annettere le alture del Golan siriano e gli insediamenti sionisti illegali, oltre al taglio delle donazioni statunitensi all’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro [per i rifugiati palestinesi in Medio Oriente, ndtr.] (UNRWA), tutte preludio al malaugurato accordo.

Invece di scendere in strada, le masse arabe apparentemente si accontentano di dichiarare la loro rabbia attraverso i social media, senza dubbio perché sono essi stessi oppressi da dittatori che governano con il pugno di ferro e non consentono alcun tipo di dissenso pubblico. Quando hanno preso il controllo della situazione, durante e dopo le rivoluzioni delle primavere arabe, le bandiere palestinesi sventolavano nelle piazze in solidarietà con il popolo palestinese.

In Egitto, ad esempio, dopo la rivoluzione un uomo scalò il muro del grattacielo dove al 12 ° piano si trova l’ambasciata israeliana e tirò giù la bandiera israeliana, che fu poi gettata a terra e bruciata; l’atto fu applaudito dai presenti. Al confronto è ben diverso il destino del giovane che qualche mese fa ha alzato una bandiera palestinese mentre guardava una partita di calcio. É stato arrestato e mandato a processo.

Questo è ciò che è accaduto al popolo arabo, e chiarisce perché Israele abbia cospirato contro le primavere arabe con i suoi agenti nella regione, in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, in modo che leader nazionali controllati da Israele possano essere suoi subordinati a guardia dei confini. Nel suo discorso alla cosiddetta Lega araba il presidente del coordinamento della sicurezza con Israele, Mahmoud Abbas, ha ammesso il proprio tradimento. Ha detto di aver dato agli israeliani informazioni che potevano solo sognare di avere, ma che ora ha smesso e che dovranno difendersi da soli. Ha anche detto di credere che i palestinesi non abbiano bisogno di armi, e che cercherà di rendere lo Stato palestinese un’entità demilitarizzata. È un dato di fatto che i sovrani arabi vedano Israele come un’ancora di salvezza, per cui si affrettano a compiacerlo in ogni modo per garantirsi di rimanere sui propri troni.

È quindi vergognoso che il presidente del Consiglio militare di transizione in Sudan, Abdel Fattah Al-Burhan, abbia incontrato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in Uganda dopo l’annuncio dell’accordo della vergogna di Trump e abbia annunciato di aver accettato di normalizzare le relazioni con lo Stato sionista. Incredibilmente, ha affermato che la sua visita a Entebbe andrà a beneficio del popolo palestinese.

Dopo il viaggio di Al-Burhan – un tradimento sia per la nostra religione che per il popolo arabo – possiamo dire senza esagerazione che l’intera Valle del Nilo è ora sotto il dominio israeliano. Così si conclude l’assedio arabo totale del popolo palestinese, a cui viene ora chiesto di rinunciare a tutto all’interno del documento di resa mascherato da “piano di pace”.

Tuttavia, questo non accadrà. L’eroico popolo palestinese non si arrenderà mai e non abbandonerà mai la lotta. I palestinesi hanno già iniziato con azioni individuali, ma vogliamo che mettano in atto una rivolta collettiva guidata da una leadership unita che faccia tremare la terra sotto i piedi dei sionisti. Vogliamo una resistenza unita e un ritorno alla lotta del passato. La terra storica della Palestina, dal fiume al mare [cioè dal Giordano al Mediterraneo, ndtr.], sarà recuperata solo attraverso ogni tipo di legittima resistenza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Lo scrittore ospite: Testimonianza al Tribunale Russell sulla Palestina: Apartheid nei Territori palestinesi occupati

John Dugard

29 gennaio 2014 – Middle East Monitor

Nel novembre 2011 il Tribunale Russell sulla Palestina [fondato nel 1966 da Bertrand Russell per indagare sui crimini commessi in Vietnam; il Tribunale Russell sulla Palestina è stato istituito nel marzo del 2009 per promuovere e sostenere iniziative per i diritti del popolo palestinese, ndtr.] terrà una sessione a Città del Capo [Sudafrica, ndtr.] sulla questione se Israele sia o meno colpevole di aver commesso il crimine internazionale di apartheid nel trattamento dei palestinesi. Ho accettato di testimoniare davanti al Tribunale. In questo articolo spiegherò perché credo che il Tribunale Russell abbia un ruolo da svolgere nel promuovere l’attribuzione di responsabilità in Medio Oriente. Descriverò anche la natura della mia testimonianza.

Israele ha violato molte regole fondamentali del diritto internazionale. Si è impadronito della terra palestinese costruendo colonie nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est e costruendo un muro di sicurezza all’interno del territorio palestinese. Ha violato i diritti umani fondamentali dei palestinesi attraverso un regime repressivo di occupazione che ignora le regole contenute nei trattati internazionali in materia di diritti umani e gli strumenti del diritto internazionale umanitario. Si è rifiutato di riconoscere la sua responsabilità nei confronti di diversi milioni di rifugiati palestinesi in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e nella diaspora.

Tuttavia non esiste un tribunale internazionale in grado di valutare la responsabilità di Israele e di perseguirlo penalmente per i suoi crimini. La Corte internazionale di Giustizia ha espresso un eccellente parere consultivo sull’argomento, ma le Nazioni Unite non possono attuarlo a causa dell’opposizione degli Stati Uniti. Alla Corte Penale Internazionale è stato chiesto di indagare sulla condotta di Israele nel corso dell’operazione Piombo Fuso, ma per quasi tre anni il pubblico ministero della CPI ha rifiutato di rispondere a questa richiesta, probabilmente a causa dell’opposizione degli Stati Uniti e della UE [solo nel dicembre 2020 la procuratrice della CPI ha chiesto di aprire un’indagine contro Israele per presunti crimini di guerra nei territori palestinesi, ndtr.] Ai tribunali nazionali nell’esercizio della loro giurisdizione a livello internazionale è stato impedito dall’intervento dei loro governi di procedere penalmente verso politici e soldati israeliani per i loro crimini. Pertanto non esiste un tribunale competente in grado di pronunciarsi sulla condotta di Israele o di procedere penalmente.

L’opinione pubblica internazionale, indignata per l’assenza di un intervento penale nei confronti di Israele per i suoi crimini, non ha quindi a disposizione una soluzione giudiziaria. È qui che entra in gioco il Tribunale Russell per la Palestina. Esso cerca di dare spazio all’opinione pubblica internazionale esaminando le azioni di Israele attraverso un processo simile a quello di un tribunale. Testimoni depongono sull’illegalità della condotta di Israele davanti a una giuria di personalità illustri che rappresentano l’opinione pubblica di molti Paesi.

La sessione del Tribunale Russell di Città del Capo si concentrerà sulla domanda se le politiche e le pratiche di Israele nei territori palestinesi occupati possano o meno rappresentare un crimine di apartheid ai sensi della Convenzione internazionale del 1973 sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid [testo adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 3068 (XXVIII) del 30 novembre 1973 ed entrato in vigore il 18 luglio 1976, ndtr.]. Gli avvocati presenteranno argomentazioni sul campo di applicazione della suddetta Convenzione e i testimoni deporranno sull’apartheid in Sudafrica e sui comportamenti di Israele nei territori occupati. Verranno effettuati dei confronti e saranno prese in esame le somiglianze.

La mia testimonianza si concentrerà sulle somiglianze tra i sistemi sudafricano e israeliano in base alla mia conoscenza personale e la mia esperienza dell’apartheid e alla condotta di Israele nella Palestina occupata. Non tenterò di confrontare l’apartheid con il trattamento degli israeliani arabi all’interno di Israele. Non rivendico alcuna competenza in materia.

Nella mia testimonianza esporrò prima la mia esperienza e poi passerò al mio pensiero sulle affinità o somiglianze nei due sistemi.

La mia vita in Sudafrica

Ho trascorso gran parte della mia vita adulta in Sudafrica come testimone dell’apartheid. Mi sono opposto all’apartheid, come comune cittadino, avvocato, studioso e responsabile di ONG. Ho avuto una vasta esperienza e conoscenza dei tre pilastri della condizione dell’apartheid: discriminazione razziale, repressione e frammentazione territoriale.

Scrivendo proficuamente sull’apartheid, ho pubblicato un importante lavoro sull’argomento, Human Rights and the South African Legal Order [Diritti umani e ordinamento giuridico sudafricano] (1978), che fornisce il resoconto più completo pubblicato finora sulla struttura giuridica dell’apartheid. Nel libro prendo in esame le ingiustizie dell’apartheid e metto a confronto l’apartheid con le norme internazionali sui diritti umani.

Ho partecipato attivamente al lavoro di ONG contrarie all’apartheid, come il South African Institute of Race Relations [Istituto sudafricano per le relazioni razziali] e Lawyers for Human Rights [Avvocati per i diritti umani]. Dal 1978 al 1990 sono stato direttore del Center for Applied Legal Studies [Centro per gli studi legali applicati, ndtr.] (CALS) presso l’Università del Witwatersrand, che si occupava di patrocini e contenziosi nel campo dei diritti umani. Come avvocato ho rappresentato famosi oppositori dell’apartheid, come Robert Sobukwe e l’arcivescovo Desmond Tutu, e vittime non note del sistema; ho portato avanti campagne legali contro lo sfratto di persone di colore dai quartieri riservati esclusivamente ai bianchi in seguito alla Group Areas Act [insieme di tre provvedimenti del parlamento del Sudafrica emanati sotto il governo dell’apartheid. I provvedimenti assegnavano gruppi razziali a diverse zone residenziali e commerciali nelle aree urbane sulla base di un sistema di apartheid urbano, ndtr.] e contro le famigerate “pass laws” [leggi che hanno istituito una specie di passaporto interno progettato per separare la popolazione, gestire l’urbanizzazione e allocare il lavoro migrante con logiche segreganti, ndtr.] che hanno fatto diventare un reato la presenza di neri nelle cosiddette “aree bianche” senza un documento che lo consentisse. Queste campagne hanno assunto la forma di una difesa legale gratuita per tutti gli arrestati, il che ha reso i sistemi ingovernabili. Attraverso il Center for Applied Legal Studies mi sono impegnato in sfide legali contro l’attuazione delle leggi sulla sicurezza e sull’emergenza, che hanno reso possibili le detenzioni senza processo, gli arresti domiciliari e, in pratica, le torture. Ho anche combattuto l’istituzione dei Bantustan, nei miei scritti, nei tribunali e attraverso interventi pubblici. Se ero esperto di qualcosa, questo erano le leggi dell’ apartheid.

Il mio incontro con Israele e Palestina

Ho visitato Israele e la Palestina ripetutamente dopo il 1982. Nel 1984 ho fatto uno studio comparato sulla posizione israeliana e sudafricana nei confronti del diritto internazionale e nel 1988 ho partecipato a una conferenza organizzata da Al Haq [organizzazione palestinese indipendente per i diritti umani che monitora e documenta le violazioni dei diritti umani di tutte le parti del conflitto israelo-palestinese, ndtr.] a Gerusalemme est durante la Prima Intifada. I quaccheri mi hanno chiesto nel 1992 di revisionare un progetto di assistenza legale a Gerusalemme est durante il quale ho viaggiato molto in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Nel 2001 sono stato nominato presidente di una commissione d’inchiesta istituita dalla Commissione per i diritti umani [organo dell’ONU istituito nel 1946, ndtr.] per indagare sulle violazioni dei diritti umani durante la seconda Intifada. Nel 2001 sono stato nominato relatore speciale della Commissione per i diritti umani (in seguito Consiglio dei diritti umani) sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO). In tale veste visitavo i TPO due volte all’anno e presentavo un rapporto alla Commissione e al terzo comitato dell’Assemblea generale sia per iscritto che verbalmente. Il mio rapporto del 2003, che ha messo in guardia la comunità internazionale sull’annessione di fatto da parte di Israele della terra palestinese con il pretesto del “Muro”, ha portato alla richiesta di un parere consultivo alla Corte Internazionale di Giustizia ed è stato ampiamente citato dalla Corte nel suo Parere consultivo del 2004. Il mio mandato è scaduto nel 2008. Nel febbraio 2009, tuttavia, ho guidato una missione conoscitiva istituita dalla Lega degli Stati Arabi per indagare e riferire sulle violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario nel corso dell’operazione israeliana “Piombo fuso” contro Gaza.

Dalla mia prima visita in Israele / Palestina sono stato colpito dalle somiglianze tra l’apartheid in Sudafrica e le pratiche e le politiche di Israele nei territori palestinesi occupati. Queste somiglianze sono apparse più evidenti man mano che mi sono informato meglio sulla situazione. Come relatore speciale, mi sono deliberatamente astenuto dal fare simili confronti fino al 2005, poiché temevo che avrebbero impedito a molti governi occidentali di prendere sul serio le mie relazioni. Tuttavia, dopo il 2005, ho deciso che non potevo in buona coscienza astenermi dal fare tali confronti.

Osservazioni personali

Naturalmente i regimi di apartheid e di occupazione sono molto diversi, in quanto il Sud Africa dell’apartheid praticava discriminazioni contro la propria gente; ha cercato di frammentare il Paese in un Sudafrica bianco e bantustan neri per evitare di estendere il diritto di voto ai sudafricani neri. Le sue leggi sulla sicurezza sono state usate per reprimere brutalmente l’opposizione all’apartheid. Israele, invece, è una potenza occupante che controlla un territorio straniero e il suo popolo sotto un regime la cui natura è riconosciuta dal diritto umanitario internazionale come una forma di occupazione bellica. In pratica, tuttavia, c’è poca differenza. Entrambi i regimi erano e sono caratterizzati da discriminazione, repressione e frammentazione territoriale. La differenza principale è che il regime dell’apartheid era più onesto: le leggi sull’apartheid sono state legalmente approvate in Parlamento ed erano chiare a tutti, mentre le leggi che governano i palestinesi nei TPO sono contenute in oscuri decreti militari e hanno perpetuato regolamenti di emergenza praticamente inaccessibili. Nel Sudafrica dell’apartheid cartelli rozzi e razzisti indicavano quali servizi fossero riservati ad uso esclusivo dei bianchi. Nell’OPT non esistono tali cartelli, ma le Forze di Difesa israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] (IDF) assicurano in molte aree ai coloni i loro diritti esclusivi. In nessun settore ciò è evidente quanto nel caso dell'”apartheid stradale”. In Cisgiordania le strade in buone condizioni sono riservate all’uso esclusivo dei coloni senza che alcun segnale indichi tale prerogativa, ma l’IDF assicura che i palestinesi non utilizzino queste autostrade. (Per inciso, va sottolineato che l’apartheid in Sudafrica non si è mai esteso alle strade!)

Nel mio lavoro di commissario (2001) e relatore speciale (2001-2008) ho assistito ad ogni aspetto dell’occupazione dei TPO; la mia posizione era molto privilegiata. Accompagnato e sotto la guida di un autista palestinese e in compagnia di leader della comunità palestinese ed esperti delle Nazioni Unite, ho viaggiato molto in Cisgiordania e Gaza, visitando ogni città, molti villaggi, fattorie, scuole, ospedali, università e fabbriche. Nel corso degli anni ho anche visitato colonie come Ariel, Ma’ale Adummim, Betar Illit e Kirya Arba, che assomigliano ai sobborghi di lusso sudafricani di Sandton e Constantia con le loro belle case, supermercati, scuole e ospedali.

Ho visto gli umilianti posti di controllo, con lunghe file di palestinesi che aspettavano pazientemente sotto il sole e la pioggia che i soldati dell’IDF esaminassero i loro documenti di viaggio. Inevitabilmente ciò ha riportato alla memoria le lunghe file negli “uffici per il pass” dell’apartheid e il trattamento dei sudafricani neri da parte di agenti di polizia e burocrati. Ho visitato case che erano state distrutte dall’IDF per “ragioni amministrative” (cioè, erano state costruite senza un permesso della potenza occupante israeliana, quando i permessi di costruzione non sono praticamente mai concessi). Mi sono tornati alla mente i ricordi delle case demolite nel Sud Africa dell’apartheid nelle “aree nere” di un tempo, [perché] riservate all’esclusiva presenza abitativa da parte di bianchi. Ho visitato la maggior parte del muro che si estende lungo il lato ovest della Palestina, ho visitato fattorie che erano state confiscate per la costruzione del muro e ho parlato con gli agricoltori che avevano perso i loro mezzi di sostentamento. Ho anche parlato con i proprietari di fabbriche i cui locali erano stati distrutti dalle IDF come “danno collaterale” nel corso delle loro incursioni e con i pescatori di Gaza a cui non era permesso pescare per ragioni di “sicurezza”.

Nel 2003 ho visitato Jenin poco dopo la devastazione da parte dell’IDF e ho visto le case rase al suolo dai bulldozer. Ho visto i danni causati alle infrastrutture di Rafah dai bulldozer Caterpillar costruiti appositamente allo scopo di distruggere strade e case; ho parlato con le famiglie in un campo profughi vicino a Nablus le cui case erano state saccheggiate e vandalizzate dai soldati israeliani con la compagnia di cani aggressivi; ho parlato con gli adulti e i più giovani che erano stati torturati dalle IDF; e ho visitato gli ospedali per incontrare coloro che erano stati feriti dall’IDF. Ho visitato scuole che erano state distrutte dalle IDF, con squallidi graffiti anti-palestinesi scritti sui muri; ho parlato con bambini traumatizzati i cui amici erano stati uccisi dal fuoco a casaccio dalle IDF e che venivano curati da psicologi; sono stato esposto agli assalti dei coloni a Hebron e ho visitato le comunità a sud di Hebron, che vivevano nella paura degli stessi coloni illegali. Ho visto ulivi distrutti dai coloni e ho viaggiato attraverso la Valle del Giordano osservando campi beduini distrutti (che mi hanno ricordato ancora la distruzione dei “settori neri” nel Sudafrica dell’apartheid) e posti di controllo progettati per servire gli interessi dei coloni. Ho incontrato membri delle IDF nei posti di controllo e nei valichi di frontiera e ho avuto un forte senso di déjà vu: avevo già visto quel genere di individui in una vita precedente.

Durante la visita in Palestina, ho soggiornato a Gerusalemme est occupata. Lì ho visto insediamenti coloniali israeliani nel cuore della Città Vecchia e ho visitato case che erano state distrutte da Israele o individuate per la distruzione (ad esempio a Silwan). Ho parlato con famiglie che erano state separate dai misteri amministrativi dell’occupazione israeliana che permetteva ad alcuni palestinesi di vivere a Gerusalemme, ma confinava altri in Cisgiordania. Ho ricordato le leggi dell’apartheid che separavano le famiglie in questo modo.

Ho avuto un’esperienza di prima mano della “frammentazione territoriale” della Palestina, ovvero il sequestro, la confisca e l’appropriazione della terra palestinese da parte di Israele. Ho esplorato la terra annessa de facto da Israele tra la Linea Verde (il confine generalmente accettato del 1948/49 tra Israele e Palestina) e il Muro; ho visto e visitato gli insediamenti tentacolari che hanno sottratto ampi tratti di terra palestinese in Cisgiordania e Gerusalemme est; ho visto le vaste aree di terra dichiarate zone militari israeliane nella Valle del Giordano e altrove.

Tutto ciò che dirò delle mie indagini a Gaza nel febbraio 2009, poco dopo l’Operazione Piombo Fuso, è che credo che la Striscia di Gaza si trova ancora sotto occupazione e l’operazione Piombo Fuso sia stata un’operazione di polizia progettata per punire collettivamente una popolazione sotto occupazione che si ribella, visione condivisa dal cosiddetto rapporto Goldstone commissionato dal Consiglio dei diritti umani. Sono rimasto sconvolto e rattristato da ciò che ho visto. Non ho dubbi sul fatto che sia stato un atto di punizione collettiva in cui le IDF hanno attaccato intenzionalmente civili e obiettivi civili. Le prove non hanno fornito spiegazioni diverse.

Un commento finale basato sulla mia esperienza personale. C’era un elemento positivo nel regime dell’apartheid, sebbene motivato dall’ideologia dello sviluppo separato, che mirava a rendere i Bantustan degli Stati vivibili. Sebbene non legalmente obbligato a farlo, il regime dell’apartheid ha costruito scuole, ospedali e buone strade per i neri sudafricani. Ha costruito industrie nei Bantustan per fornire lavoro ai neri. Israele non arriva minimamente a farlo per i palestinesi. Sebbene per legge, ai sensi delle Convenzioni di Ginevra del 1949, sia tenuto a soddisfare i bisogni materiali delle persone sotto occupazione, lascia questa responsabilità ai donatori stranieri e alle agenzie internazionali. Israele pratica nei TPO il peggior tipo di colonialismo. La terra e l’acqua sono sfruttate da una comunità di coloni aggressivi che non si preoccupano del benessere del popolo palestinese, tutto ciò con la benedizione del governo dello Stato di Israele.

I comportamenti di Israele nei TPO assomigliano a quelli dell’apartheid. Sebbene ci siano differenze, queste sono compensate dalle somiglianze. Qual è, ed era, peggio, l’apartheid o l’occupazione israeliana della Palestina? Sarebbe un errore, da parte mia, dare un giudizio. Come bianco sudafricano non potevo condividere il dolore intenso e l’umiliazione dell’apartheid con i miei compagni sudafricani neri. Ho capito la loro rabbia e frustrazione e ho cercato di identificarmi con loro e di oppormi al sistema che li ha relegati allo status di sub-umani. Allo stesso modo, non riesco a sentire pienamente il dolore e l’umiliazione che i palestinesi provano sotto l’occupazione di Israele. Ma osservo il sistema al quale sono sottoposti e provo lo stesso senso di rabbia che ho provato nel Sudafrica dell’apartheid.

Al Tribunale Russell gli avvocati e i giurati esamineranno, discuteranno e terranno delle conclusioni riguardo la questione se il comportamento di Israele nei TPO rientri o meno nei comportamenti penalmente perseguibili in base alla Convenzione internazionale del 1973 sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid. Questo è importante per determinare la responsabilità di Israele. Ma per me c’è una domanda più grande che si pone dinnanzi al giudizio morale della gente nel mondo, e in particolare degli occidentali. Come possono coloro, sia ebrei che gentili, che si sono opposti così energicamente all’apartheid per motivi morali rifiutarsi di opporsi a un sistema simile imposto da Israele alla popolazione palestinese?

John Duggard è presidente del comitato indipendente di accertamento dei fatti di Gaza; ed ex relatore speciale del Consiglio per diritti umani sui diritti umani in Palestina.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dal’inglese di Aldo Lotta)




La Russia sta utilizzando la religione per rafforzare la propria influenza tra i palestinesi

Adnan Abu Amer

 1 febbraio 2020 – Middle East Monitor

Questa settimana il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha ricevuto il suo collega russo Vladimir Putin a Betlemme e non a Ramallah. La scelta della sede ha dato all’incontro un carattere inequivocabilmente cristiano, un fattore che è stato utilizzato recentemente dalla Russia nei suoi rapporti internazionali.

Lo scorso mese Putin si è incontrato con il patriarca della Chiesa greco-ortodossa di Gerusalemme, Teofilo III, per discutere delle difficoltà che i cristiani devono affrontare in Medio Oriente. Ha manifestato il suo appoggio per la salvaguardia delle proprietà della Chiesa ortodossa nella città e la protezione dei cristiani della regione. In novembre la Russia ha annunciato l’intenzione di proteggere i cristiani del Medio Oriente dopo che Putin ha incontrato il patriarca di Mosca con una delegazione dell’Autorità Nazionale Palestinese.

La politica estera “religiosa” è significativa anche perché Israele si prepara a concedere alla Russia la proprietà di una chiesa a Gerusalemme come parte di un accordo per il rilascio di una donna israeliana arrestata a Mosca. L’edificio si trova nel complesso russo della Città Vecchia occupata. La chiesa di Sant’Aleksandr Nevsky e altri immobili vennero venduti nel XIX secolo allo zar Alessandro III.

I rapporti russo-palestinesi si sono di recente sviluppati a vari livelli politici ed economici. Ciò che rappresenta una novità è la loro dimensione religiosa, che fornisce ai russi un ulteriore punto di vista riguardo alle questioni palestinesi.

L’interesse di Putin per i tentativi di conservare e sostenere le proprietà ortodosse a Gerusalemme pare essere in parte dovuto all’intenzione di evitare che coloni ebrei li comprino o li occupino. Il patriarca ha ringraziato il presidente russo per il suo sostegno e la donazione del 2016 per il restauro della chiesa della Natività a Betlemme.

Guarda caso questa settimana la Corte Suprema israeliana ha ribaltato una decisione presa lo scorso giugno per la vendita di una proprietà del patriarcato della Chiesa greco-ortodossa nella Città Vecchia di Gerusalemme all’associazione dei coloni Ateret Cohanim. I palestinesi sono preoccupati di simili transazioni commerciali perché la Chiesa ortodossa ha il principale portafoglio immobiliare in Palestina, secondo solo ai beni religiosi islamici. Abbas non si è scontrato con la Chiesa per la vendita delle sue proprietà ai coloni, nonostante le proteste dei cristiani arabi, probabilmente per il fatto che per tali vendite è necessario l’avvallo russo. Tuttavia la Chiesa non sembra essere troppo preoccupata di disporre delle sue proprietà in questo modo.

I palestinesi parlano di complicità con le autorità occupanti da parte di alcune personalità ortodosse che concedono le proprietà ai coloni per ricavarne un guadagno personale. Altri parlano di una vera e propria corruzione all’interno della leadership della Chiesa. Anche la Russia potrebbe non essere estranea alle transazioni immobiliari con gruppi di coloni.

Turisti cristiani russi visitano la Palestina per visitare le chiese ortodosse, le proprietà storiche e i resti archeologici a Gerusalemme, Hebron, Gerico e Betlemme. Ciò potrebbe spiegare il crescente interesse di Putin, anche se l’ANP non ha la capacità di bloccare la perdita di proprietà cristiane a favore dei coloni perché Israele impone la propria sovranità su Gerusalemme.

Fonti della chiesa palestinese mostrano che l’1% dei palestinesi nei territori occupati sono cristiani. Si tratta di circa 450.000 persone distribuite in Cisgiordania, Gerusalemme est e Israele. Di questi il 51% sono appartenenti alla Chiesa greco-ortodossa e il resto è distribuito tra sette denominazioni, le più importanti delle quali sono la cattolica romana e protestanti.

Le ragioni principali del terribile calo del numero dei palestinesi cristiani che vivono nella culla della Cristianità sono la loro emigrazione a causa della continua occupazione israeliana, la cattiva situazione economica e il desiderio di vivere in un Paese sicuro. Lo scorso anno Putin ha detto che la situazione dei cristiani in Medio Oriente è “catastrofica” e il leader russo ha descritto il suo intervento militare in Siria nel 2015 come una guerra santa per proteggervi i cristiani.

Ciò significa che la Russa sta tornando alle sue radici cristiane precedenti al comunismo? Almeno in Palestina la religione sembra essere utilizzata per rafforzare l’influenza di Mosca.

A ottobre Putin ha manifestato il proprio parere negativo riguardante l’“accordo del secolo” statunitense ed ha affermato di aver proposto negoziati tra israeliani e palestinesi a Mosca, ma senza successo. Ciò è stato visto dai palestinesi come un appoggio nei loro confronti di fronte alle pressioni USA perché accettassero l’accordo.

La posizione russa è che la causa della violenza nella regione è dovuta al fatto di non aver risolto la questione palestinese. Tuttavia la Russia ha stretti rapporti con Israele, dove vive un milione e mezzo di ebrei sovietici/russi.

Il sostegno dei palestinesi per le recenti posizioni della Russia non significa che essi siano interessati a passare dalla mediazione esclusivamente statunitense a quella russa. Vogliono una mediazione internazionale e la posizione di Putin sull’“accordo” incoraggia i palestinesi a continuare a rifiutarlo. Ciò isola ancor più gli USA e incrementa la sua ostilità verso i legittimi diritti dei palestinesi.

È evidente il desiderio della Russia di riempire il vuoto lasciato da Washington in Medio Oriente e il suo uso della questione palestinese per aumentare la propria influenza. I palestinesi possono trarre vantaggio dalla polarizzazione tra Washington e Mosca, spingendo quest’ultima a schierarsi con la loro causa. Tuttavia i russi hanno posizioni relativamente equidistanti, dato che condividono anche interessi strategici con Israele.

Comunque i palestinesi hanno accolto positivamente la collaborazione con i russi, senza voltare le spalle agli americani. Sperano che entrambi siano più equilibrati quando si tratta dei diritti dei palestinesi. I contatti con la Russia implicano che il mondo non è governato esclusivamente dagli USA e contribuiscono a conservare la visibilità dei palestinesi a livello internazionale. Tali contatti possono anche contribuire a contrastare l’“accordo del secolo” reso pubblico questa settimana a Washington.

Oltretutto la Russia, a differenza degli americani, è uno dei pochi Paesi al mondo ad avere rapporti con tutte le principali fazioni palestinesi, il che dovrebbe renderla più rappresentativa nel cercare di mediare. Tuttavia Israele non vuole far riferimento a nessun altro Paese che non siano gli USA dalla sua parte, il che può bloccare o rallentare i progressi di Mosca a questo proposito.

Secondo i palestinesi la Russia sta estromettendo gli USA dal dossier palestinese utilizzando la sua alleanza con potenze regionali in contrasto con Washington, come Iran e Turchia. Mosca punta anche sui suoi successi politici e militari in Siria, che l’hanno incoraggiata a intervenire altrove.

Come membro del consiglio di Sicurezza dell’ONU con diritto di veto, il coinvolgimento positivo della Russia nella vicenda palestinese può contribuire a trovare un equilibrio di fronte alla parzialità degli USA a favore di Israele. È un’ulteriore ragione per cui Israele vuole trattare solo attraverso Washington.

Tuttavia per il momento il ruolo della Russia si limita a ricevere delegazioni politiche e a fare dichiarazioni diplomatiche, senza trasformarle in azioni concrete. Mentre c’è una chiara dimensione cristiana della politica estera russa sul conflitto israelo-palestinese, questa è presente anche nell’appoggio americano a Israele, soprattutto la forte influenza degli evangelici sionisti che sostengono sempre e comunque Israele.

Pertanto, data l’ovvia influenza degli ebrei, dei cristiani ortodossi e dei cristiani evangelici, non c’è da stupirsi che il mondo rifiuti qualunque tentativo palestinese di legare il conflitto con Israele alle proprie credenze ideologiche basate sull’Islam.

Le opinion esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La Cisgiordania era ed è ancora il principale campo di battaglia di Israele

Adnan Abu Amer

24 gennaio 2020 – Middle East Monitor

Circoli israeliani hanno accusato Hamas di continuare ad aggravare il conflitto contro l’esercito e i coloni in Cisgiordania al fine di destabilizzare la sicurezza interna. Questo si è trasformato in crescenti tensioni da parte di Israele, soprattutto in quanto uno dei motivi degli accresciuti timori israeliani è quello di una lotta per la successione di Mahmoud Abbas alla presidenza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Alla luce di tali timori il servizio di sicurezza [interno] Shin Bet ha annunciato di aver sventato nel 2019 560 importanti operazioni, compresi sei attentati kamikaze, quattro rapimenti di soldati e coloni e oltre 300 uccisioni. L’esercito ha neutralizzato circa 12 cellule armate palestinesi, che avevano programmato di condurre operazioni violente usando esplosivi.

Questi dati israeliani confermano che col passare del tempo le tensioni in Cisgiordania stanno aumentando e che l’opinione prevalente è che un’operazione armata, simile a quella di agosto nella colonia Dolev vicino a Ramallah, in cui è stata uccisa una colona israeliana con un ordigno esplosivo, può avere un buon esito dopo che la cellula che ha condotto l’operazione è riuscita a eludere il sistema di controllo israeliano. Comunque l’identificazione da parte dello Shin Bet della cellula che ha eseguito l’operazione ha svelato una vasta infrastruttura militare.

L’esercito israeliano e i suoi servizi segreti si concentrano su ciò che definiscono l’importante ruolo ricoperto all’interno di Hamas dalla sua struttura in Cisgiordania, che è responsabile della direzione delle operazioni in Cisgiordania. Sta operando su più vasta scala e con maggiore intensità per destabilizzare la sicurezza e per prendere di mira soldati e coloni. Vale la pena sottolineare che alcune delle recenti decisioni prese a livello politico israeliano relativamente ai palestinesi non fanno che gettare benzina sul fuoco, scatenando ulteriori tensioni.

Quindi lo stato di allerta dell’esercito israeliano in Cisgiordania è recentemente aumentato in previsione della possibilità di un improvviso allontanamento di Abbas dalla scena politica. La ragione è che la lotta per la successione potrebbe portare ad una resistenza popolare che sconfini in resistenza armata, dato che la maggioranza dei candidati alla successione ha iniziato ad accumulare armi, sollevando gravi preoccupazioni in Israele.

Il principale fattore che influirà sulla situazione della sicurezza in Cisgiordania restano le elezioni israeliane e la parallela diffusione di messaggi provocatori da parte dei politici israeliani riguardo al futuro della Cisgiordania. Questi includono l’annessione della Valle del Giordano, di importanti blocchi di colonie, il divieto di costruzione per i palestinesi in area C ed altre decisioni arbitrarie.

Tutti questi orientamenti politici e comportamenti israeliani sul campo non faranno che esacerbare le tensioni per la sicurezza in Cisgiordania, suscitando reazioni negative tra i palestinesi, ed hanno un effetto dannoso sul coordinamento per la sicurezza con l’Autorità Nazionale Palestinese, che contribuisce ampiamente alla stabilità dell’esercito e dei coloni. Questo richiede che Israele sia preparato ad ogni sorpresa che possa verificarsi in Cisgiordania.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Come dovremmo interpretare la partecipazione di Hamas al funerale del generale iraniano?

Ahmed Al-Burai

11 gennaio 2020 – Middle East Monitor

Il comandante militare iraniano assassinato, Qasem Soleimani, è stato portato al suo ultimo riposo sulle spalle di un’enorme folla che ha riempito le strade di Teheran, la capitale iraniana. Gli oratori hanno salutato il generale come eroe nazionale iraniano e “martire di Gerusalemme”.

È stato Ismail Haniyeh, ex primo ministro palestinese e leader del movimento di resistenza islamica Hamas, a chiamare il generale ucciso “martire di Gerusalemme”. Nel suo discorso agli iraniani che partecipavano al funerale, il leader palestinese ha promesso che i palestinesi seguiranno le orme di Soleimani: “Contrastare il progetto sionista e l’influenza degli Stati Uniti”.

Il suo discorso ha fatto infuriare siriani, iracheni e persino gli attivisti palestinesi, che annoverano l’Iran fra i nemici e considerano il generale defunto il braccio armato che ha gettato nel caos sia l’Iraq che la Siria, uccidendo e cacciando senza pietà milioni di persone.

Eroe nazionale o sostenitore dei tiranni?

Qualcuno ha considerato il discorso di Haniyeh ipocrita e piuttosto offensivo per i sentimenti di milioni di siriani e iracheni, che considerano Soleimani un assassino, sostenitore sia del regime siriano che di quello iracheno nello spietato assassinio della propria gente.

Per loro, Soleimani è persino più sanguinario dell’occupazione israeliana. Sostengono che Israele può anche aver ucciso migliaia di palestinesi ed esiliati milioni, ma i regimi e le milizie sostenuti dall’Iran hanno ucciso centinaia di migliaia di persone ed espulso decine di milioni, torturandone altre decine di migliaia.

Questo gruppo di persone manifesta tolleranza zero nei confronti della glorificazione e venerazione professata da Haniyeh per il generale iraniano, che secondo loro non merita la medaglia di “martire di Gerusalemme” sul petto. Considerano che dargli un tale onore sia una provocazione per i sentimenti di milioni di musulmani e arabi in Nazioni che hanno subito le politiche oppressive del regime iraniano e dei suoi vassalli in Siria, Iraq, Yemen e Libano.

Né il pragmatismo politico, né l’isolamento regionale e internazionale del gruppo di resistenza palestinese danno ai suoi leader la scusa o il diritto di assolvere il generale ucciso, sostengono i critici del discorso di Haniyeh.

All’opposto di questa opinione c’è un gruppo che considera Hamas una fazione apostata, che non ha il diritto di rivendicare l’appartenenza al fronte sunnita. Questo gruppo è guidato da studiosi dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, che sono non solo espliciti nel loro antagonismo e animosità nei confronti di Hamas, ma anche nella loro amicizia e vicinanza con Israele.

Altri considerano la mossa di Hamas politicamente ottusa, in quanto irrita le Nazioni sunnite e le sposta da professare simpatia per la causa palestinese a maledirne i rappresentanti, che si sarebbero rivelati persone senza scrupoli con indosso maschere “islamiche”.

Tuttavia, c’è un terzo gruppo che considera i rapporti di Hamas con l’Iran tattici e preventivi, poiché derivano da condizioni senza alternative. Questo gruppo sostiene che la maggior parte dei Paesi sunniti non solo ha abbandonato la causa palestinese, ma è piuttosto coinvolta e complice nelle cospirazioni per liquidarla e negare i diritti dei palestinesi.

Relazioni in prospettiva

Per mettere le cose in prospettiva, dobbiamo tornare indietro nel tempo, agli attacchi dell’11 settembre 2001. All’indomani del discorso di George W. Bush, “O con noi o con i terroristi”, quasi tutti i Paesi che sostenevano il popolo palestinese furono terrorizzati all’idea di essere etichettati come sostenitori del terrorismo, in particolare l’Arabia Saudita, che aveva 19 cittadini tra i dirottatori e gli autori dell’attacco terroristico. Di conseguenza, tutte le organizzazioni di beneficenza che inondavano i territori palestinesi di aiuti umanitari si bloccarono e cessarono tutte le attività. Più tardi, quando Hamas vinse le elezioni del 2006, le cose peggiorarono e l’assedio e il boicottaggio raddoppiarono.

L’unico Paese che non si umiliò né si vergognò di sostenere la causa palestinese fu l’Iran, che continuò ad appoggiare apertamente dal punto di vista finanziario e logistico i gruppi palestinesi. Tuttavia, quando scoppiò la rivoluzione siriana nel marzo 2011, si scatenò un grave conflitto tra Hamas e l’Iran. Hamas considerava la rivolta siriana un’estensione dell’ondata delle “Primavere arabe”, scatenate dalla rivoluzione tunisina dei gelsomini, un’ondata di proteste pubbliche contro le deplorevoli condizioni di vita.

Si disse che la leadership di Hamas esortasse il regime siriano ad arginare le proteste negoziando le richieste del popolo, senza fare ricorso alla violenza. Tuttavia, sia il regime siriano che i suoi principali sostenitori a Teheran considerarono le richieste del popolo come una cospirazione di USA e Israele per rovesciare il regime siriano e distruggere il cosiddetto “asse della resistenza” che raggruppa sciiti iracheni, Siria, Libano e il movimento di resistenza a Gaza.

Questi punti di vista divergenti deteriorarono le relazioni tra Hamas e l’Iran. Alla fine, la leadership di Hamas lasciò la Siria alla fine del 2012 e si trasferì in Qatar. Con l’ascesa dei Fratelli Musulmani in Egitto, l’Iran e il regime siriano pensarono che Hamas si fosse completamente allontanato dalla loro orbita, per trovare una potenza sunnita al Cairo e ad Istanbul che li sostituisse. Da allora le relazioni politiche tra le due parti non sono state particolarmente buone.

Nel maggio 2017, in seguito all’elezione dell’attuale leadership di Hamas, le relazioni sono nuovamente migliorate. Ciò è coinciso con la crisi diplomatica del Qatar, iniziata nel giugno 2017. L’Arabia Saudita ha intrapreso una severa repressione dei sostenitori di Hamas in Arabia Saudita, arrestando decine di medici, ingegneri e commercianti palestinesi in tutto il Paese, con il pretesto del riavvicinamento di Hamas all’Iran, rivale regionale di lunga data di Riyad. Hamas ha affermato che i prigionieri stavano raccogliendo donazioni per enti di beneficenza palestinesi e non erano stati accusati di attentare alla sicurezza.

Matrimonio avventato o collaborazione strategica?

La leadership di Hamas ribadisce pubblicamente che l’Iran è tra i pochi Paesi che hanno continuato a sostenere la resistenza palestinese e che Hamas difenderà gli interessi dell’Iran. Queste dichiarazioni potrebbero aver alimentato i timori dell’Arabia Saudita rispetto alla lealtà di Hamas nei confronti dell’asse iraniano.

Hamas sembra pensare che l’Iran abbia inequivocabilmente sostenuto la causa palestinese, indipendentemente dalle sue motivazioni, e meriti di essere ripagato con fedeltà e gratitudine per il suo sostegno.

Si potrebbe accusare l’Iran di sfruttare Hamas in quanto sunnita, per pubblicizzare la politica non discriminatoria dell’Iran. In un certo senso, l’Iran si presenta come se non sostenesse esclusivamente i gruppi sciiti, ma anche un gruppo sunnita a Gaza, ciò che apparentemente smentirebbe qualsiasi accusa allIran di fanatismo settario sciita.

I leader di Hamas non sono mai stati daccordo con la politica iraniana in Siria o Iraq – politica decisamente catastrofica e gravemente dannosa in misura proporzionale per tutte le parti. Tuttavia non sarebbe politicamente prudente criticare in continuo tale politica, quando è chiaro il punto di vista di base e di principio.

La posizione di Hamas rispetto all’Iran è molto più delicata e complicata di quella turca, che si sta muovendo con equilibrio e una strategia di successo nelle sue relazioni con l’Iran e la Russia.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Sostenere la Palestina: come combattere l’uso improprio di “anti-semitismo” da parte di Israele

Ramzy Baroud

1 gennaio 2020 – Middle East Monitor

In un discorso tenuto nel nord dell’Inghilterra nel marzo 2018, ho proposto che la migliore risposta alle false accuse di antisemitismo, che spesso vengono scagliate contro comunità e intellettuali pro-palestinesi di tutto il mondo, fosse quella di avvicinarsi ancora di più alla narrazione palestinese.

In effetti, la mia proposta non voleva essere in alcun modo una risposta dettata dal sentimento.

“La rivendicazione della narrazione palestinese” è stato negli ultimi anni il filo conduttore nella maggior parte dei miei discorsi pubblici e dei miei scritti. Tutti i miei libri e gran parte dei miei studi e delle ricerche accademiche si sono fortemente concentrati sulle posizioni del popolo palestinese – i suoi diritti, la storia, la cultura e le aspirazioni politiche – al centro di ogni vera comprensione della lotta palestinese contro il colonialismo e l’apartheid israeliani.

È vero, non c’era nulla di particolarmente originale nel mio discorso nell’Inghilterra settentrionale. Avevo già tenuto una versione di quel discorso in altre parti del Regno Unito, in Europa e altrove. Ma ciò che ha reso memorabile quell’evento è una conversazione che ho avuto con un appassionato attivista, che si è presentato come consigliere dell’ufficio del capo del Partito laburista britannico, Jeremy Corbyn.

Sebbene l’attivista fosse d’accordo con me sulla necessità di sostenere la narrazione palestinese, ha insistito sul fatto che il modo migliore per Corbyn di allontanare le accuse antisemite, che hanno perseguitato la sua leadership fin dal primo giorno, è che il partito Laburista emettesse una condanna radicale e decisiva dell’antisemitismo, in modo che Corbyn potesse mettere a tacere i suoi critici e fosse finalmente in grado di concentrarsi sul tema impellente dei diritti dei palestinesi.

Io ero dubbioso. Ho spiegato all’acceso attivista molto sicuro di sé che la manipolazione sionista e l’uso improprio dell’antisemitismo sono dei fenomeni che hanno preceduto Corbyn di molti decenni e che saranno sempre presenti finché il governo israeliano avrà la necessità di distogliere l’attenzione dai suoi crimini di guerra contro i palestinesi e di reprimere la solidarietà filo-palestinese in tutto il mondo.

Gli ho spiegato che, mentre il razzismo anti-ebraico è un fenomeno reale che deve essere affrontato, l’ “antisemitismo”, come definito da Israele e dai suoi alleati sionisti, non è una questione morale che debba essere risolta con un comunicato stampa, non importa quanto incisivo. Piuttosto è una cortina di fumo, con l’obiettivo finale di distrarre dalla vera questione, che è il crimine dell’ occupazione militare, del razzismo e dell’apartheid in Palestina.

In altre parole, nessuna mole di parole, discussioni o autodifese può verosimilmente convincere i sionisti che le richieste della fine dell’occupazione militare israeliana in Palestina o dello smantellamento del regime di apartheid israeliano o qualsiasi critica aperta alle politiche del governo della destra israeliana non siano, in effetti, atti di antisemitismo.

Ahimè, l’attivista insisteva sul fatto che una solida dichiarazione che chiarisse la posizione del partito Laburista sull’antisemitismo avrebbe finalmente assolto Corbyn e protetto la sua eredità contro la macchia immeritata.

Il resto è storia. Il partito Laburista è andato a caccia delle streghe per individuare i “veri” antisemiti tra i suoi membri. L’ epurazione senza precedenti ha colpito molte brave persone che hanno dedicato anni al servizio delle loro comunità e alla difesa dei diritti umani in Palestina e altrove.

La dichiarazione per porre fine a tutte le dichiarazioni è stata seguita da molte altre. Numerosi articoli sono stati scritti e discussioni sono state fatte in difesa di Corbyn – senza risultati. Solo pochi giorni prima che i laburisti perdessero le elezioni generali a dicembre il Simon Wiesenthal Centre [Centro Simon Wiestenthal, ONG con sede a Los Angeles intitolata al famoso cacciatore di nazisti. Fondata nel 1977 per combattere l’antisemitismo, si propone di difendere i diritti umani “affrontando l’antisemitismo, l’odio e il terrorismo, promuovendo i diritti umani e la dignità, stando a fianco di Israele, difendendo gli ebrei in tutto il mondo e insegnando le lezioni dell’Olocausto per le future generazioni”, ndtr.] ha proclamato Corbyn, uno dei leader più sinceri e ben intenzionati della Gran Bretagna nell’era contemporanea, il “maggiore antisemita del 2019″. Questo a proposito dell’impegno dei sionisti.

Non importa se il partito di Corbyn abbia perso le elezioni in parte a causa delle diffamazioni sioniste e accuse infondate di antisemitismo. Ciò che conta davvero per me come intellettuale palestinese che ha sperato che la leadership di Corbyn potesse costituire un cambiamento di paradigma riguardo l’atteggiamento del paese nei confronti di Israele e Palestina, è il fatto che i sionisti siano effettivamente riusciti a mantenere il dibattito focalizzato sulle priorità israeliane e sulle sensibilità sioniste. Mi rattrista il fatto che, mentre la Palestina avrebbe dovuto occupare il centro della scena, almeno durante gli anni della leadership di Corbyn, sia rimasta in realtà marginale, denotando ancora una volta come la solidarietà con la Palestina sia diventata un ostacolo politico per chiunque speri di vincere un’elezione – nel Regno Unito e ovunque in Occidente.

Trovo sconcertante, anzi inquietante, che Israele, direttamente o meno, sia in grado di determinare la natura di qualsiasi discussione sulla Palestina in Occidente, non solo all’interno delle tipiche piattaforme tradizionali, ma anche dei circoli filo-palestinesi. Ad esempio, ho ascoltato ripetutamente attivisti che si chiedevano se la soluzione dello Stato unico fosse mai possibile, per il fatto che “Israele semplicemente non l’accetterebbe mai”.

Sfido spesso il mio pubblico a fondare la loro solidarietà con la Palestina sull’ amore, sul sostegno e sull’ammirazione reali per il popolo palestinese, per la sua storia, per la sua lotta anti-colonialista e per le migliaia di eroi ed eroine che hanno sacrificato la propria vita perché il loro popolo possa vivere in libertà.

Quanti di noi sanno fare i nomi dei migliori poeti, artisti, femministe, calciatori, cantanti e storici della Palestina? Che reale familiarità possediamo con la geografia palestinese, con le complessità della sua politica e con la ricchezza della sua cultura?

Anche all’interno di piattaforme che sono solidali con la lotta palestinese, c’è una paura intrinseca che tale simpatia possa essere fraintesa come antisemitismo, fino al punto che le voci palestinesi vengono spesso trascurate, se non completamente sostituite da voci ebraiche antisioniste. Vedo che ciò accade abbastanza spesso anche nei media mediorientali che si presume sostengano la causa palestinese.

Questo fenomeno è in gran parte collegato alla Palestina e solo alla Palestina. Mentre la lotta anti-apartheid in Sudafrica e la lotta per i diritti civili negli Stati Uniti – come nel caso di molti autentici movimenti di liberazione anti-coloniale nel mondo – hanno utilizzato strategicamente l’intersezionalità per collegarsi con altri gruppi, a livello locale, nazionale o internazionale, i movimenti in sé si reggevano su voci nere come realmente rappresentative delle lotte dei loro popoli.

Storicamente i palestinesi non sono sempre stati emarginati all’interno del loro stesso discorso. Una volta l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) [Fondata a Gerusalemme nel 1964 con l’obiettivo di liberare la Palestina, nel 1993 ha riconosciuto lo Stato di Israele. Attualmente gode dello status permanente di “osservatore” presso l’Assemblea generale dell’ONU, ndtr.] nonostante le sue numerose carenze, indicava una posizione politica unitaria palestinese che serviva da cartina di tornasole per qualsiasi individuo, gruppo o governo in merito alla sua posizione sui diritti e sulla libertà dei palestinesi.

Gli accordi di Oslo hanno posto fine a tutto ciò – hanno frammentato il discorso palestinese così come hanno diviso il popolo palestinese. Da allora, il messaggio proveniente dalla Palestina è diventato confuso, frazionato e spesso autolesionistico. Il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) ha fatto un lavoro straordinario nel portare un po’ di chiarezza nel tentativo di articolare un discorso palestinese universale.

Tuttavia, il BDS deve ancora proporre una strategia politica centralizzata che venga trasmessa attraverso un organo palestinese eletto democraticamente. Finché l’OLP persisterà nella sua inerzia e con l’assenza di un’alternativa veramente democratica, è probabile che la crisi del discorso politico palestinese continui.

Allo stesso tempo, ai sionisti non deve essere permesso di determinare la natura della nostra solidarietà con il popolo palestinese. Mentre la vera solidarietà palestinese richiede il completo rifiuto di tutte le forme di razzismo, incluso l’antisemitismo, il campo filoisraeliano deve essere completamente escluso da qualsiasi conversazione relativa ai valori e alla moralità di ciò che significa essere “pro-Palestina”.

L’ essere anti-sionisti non è sempre lo stesso dell’essere pro-Palestina, in quanto il primo [atteggiamento] deriva dal rifiuto delle idee razziste e sioniste e il secondo implica una reale connessione e un legame con la Palestina e il suo popolo.

Essere pro-Palestina significa anche rispettare la centralità della voce palestinese, perché senza la narrazione palestinese non può esserci solidarietà reale e significativa, e anche perché, alla fine, saranno palestinesi stessi a liberarsi.

“Non sono un liberatore”, ha detto il leggendario rivoluzionario sudamericano Ernesto Che Guevara. “I liberatori non esistono. Le persone si liberano da sole”.

Perché i palestinesi “si liberino” dovranno rivendicare la loro centralità nella lotta per i diritti dei palestinesi ovunque, per esprimere chiaramente il proprio discorso e per essere i fautori della propria libertà. Nient’altro sarà sufficiente.

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Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Sulla via di Gaza: La Freedom Flotilla salperà ancora

Ramzy Baroud

23 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Che cosa è Gaza per noi se non un missile israeliano, un razzo rudimentale, una casa demolita, un bambino ferito che viene portato via dai suoi coetanei sotto una grandinata di pallottole? Ogni giorno, Gaza ci viene presentata sotto forma di un’immagine di sangue o un video drammatico, nessuno dei quali può davvero cogliere la realtà quotidiana della Striscia – la sua formidabile risolutezza, gli atti quotidiani di resistenza e il genere di sofferenza che non potrebbe mai essere realmente compreso attraverso un’abituale occhiata ad un post dei social media.

Finalmente la procuratrice capo della Corte Penale Internazionale (CPI) Fatou Bensouda, ha dichiarato la propria “convinzione” che “in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza sono stati commessi, o vengono commessi, crimini di guerra”. Appena è stata fatta la dichiarazione della CPI il 20 dicembre, le organizzazioni filo palestinesi hanno vissuto un raro momento di gioia. Alla fine Israele verrà messo sotto accusa, pagando potenzialmente per i continui bagni di sangue nella isolata ed assediata Striscia di Gaza, per l’occupazione militare e l’apartheid in Cisgiordania e per molto altro ancora.

Però potrebbero volerci anni perché la CPI inizi le sue procedure legali ed emetta la sentenza. Inoltre non ci sono garanzie politiche che una sentenza della CPI che incrimina Israele sarà mai rispettata, tanto meno applicata.

Nel frattempo l’assedio di Gaza continua, per essere interrotto solo da una guerra massiccia, come quella del 2014, o da una meno devastante, simile all’ultimo attacco di Israele in novembre. E ad ogni guerra vengono prodotte ulteriori terribili statistiche, altre vite vengono stroncate ed altre storie dolorose vengono nuovamente raccontate.

Per anni le associazioni della società civile in tutto il mondo hanno faticosamente lavorato per destabilizzare questo orrendo status quo. Hanno organizzato e svolto veglie, scritto lettere ai propri rappresentanti politici e via dicendo. Non è servito a niente. Frustrato dall’inazione dei governi, nell’agosto 2008 un piccolo gruppo di attivisti è salpato per Gaza su una piccola imbarcazione, riuscendo in ciò che le Nazioni Unite non sono riuscite a fare: hanno spezzato, seppur fugacemente, l’assedio israeliano dell’impoverita Striscia.

Questa azione simbolica del movimento ‘Liberare Gaza’ ha avuto un enorme impatto. Ha inviato un chiaro messaggio ai palestinesi nella Palestina occupata: che il loro destino non è determinato solo dal governo israeliano e dalla macchina militare; che ci sono altri soggetti capaci di sfidare il tremendo silenzio della comunità internazionale; che non tutti gli occidentali sono complici come i propri governi delle interminabili sofferenze del popolo palestinese.

Da allora molte altre missioni di solidarietà hanno tentato di seguire questo esempio, giungendo attraverso il mare a bordo di flottiglie o attraverso il deserto del Sinai con grandi convogli. Alcune sono riuscite a raggiungere Gaza, distribuendo medicinali ed altri prodotti. Tuttavia in maggioranza sono state respinte o hanno avuto le loro navi sequestrate in acque internazionali da parte della marina israeliana.

Il risultato di tutto ciò è stato aver scritto un nuovo capitolo della solidarietà con il popolo palestinese che è andato oltre le occasionali manifestazioni e le classiche firme su una petizione.

La seconda Intifada palestinese, la rivolta del 2002, aveva già ridefinito il ruolo dell’“attivista” in Palestina. La creazione dell’“International Solidarity Movement” (ISM) ha permesso a migliaia di attivisti internazionali da tutto il mondo di partecipare all’“azione diretta” in Palestina – ricoprendo così, seppur simbolicamente, il ruolo tipicamente svolto da una forza di protezione delle Nazioni Unite.

Gli attivisti dell’ISM tuttavia usavano i mezzi non violenti di testimonianza del rifiuto della società civile dell’occupazione israeliana. Prevedibilmente, Israele non ha rispettato il fatto che molti di questi attivisti provenissero da Paesi considerati “amici” in base agli standard di Tel Aviv. Le uccisioni di cittadini come l’americana Rachel Corrie e il britannico Tom Hurndall a Gaza, rispettivamente nel 2003 e 2004, è stata solo un prodromo della violenza israeliana che sarebbe seguita.

Nel maggio 2010 la marina israeliana ha attaccato la Freedom Flotilla formata dalla nave di proprietà turca ‘MV Mavi Marmara’ ed altre, uccidendo dieci operatori umanitari disarmati e ferendone almeno altri 50. Come nei casi di Rachel e Tom, non vi è stata una vera attribuzione di responsabilità per l’attacco israeliano alle navi della solidarietà.

Occorre capire che la violenza israeliana non è casuale né è solo un riflesso del noto disprezzo israeliano per il diritto internazionale ed umanitario. Con ogni episodio di violenza Israele spera di dissuadere i soggetti esterni dall’occuparsi degli “affari israeliani”. Eppure, di volta in volta il movimento di solidarietà ritorna con un messaggio di sfida, ribadendo che nessun Paese, nemmeno Israele, ha il diritto di commettere impunemente crimini di guerra.

Dopo un recente incontro nella città olandese di Rotterdam, la coalizione internazionale della Freedom Flotilla, che consta di molti gruppi internazionali, ha deciso di salpare ancora una volta per Gaza. La missione di solidarietà è prevista per l’estate del 2020 e, come nella maggior parte dei 35 tentativi precedenti, è probabile che la Flotilla venga intercettata dalla marina israeliana. Ma probabilmente seguirà un altro tentativo, ed altri ancora, fino a quando l’assedio di Gaza sarà completamente tolto. È diventato chiaro che lo scopo di queste missioni umanitarie non è di consegnare un po’ di farmaci ai circa due milioni di gazawi sotto assedio, ma di sfidare la narrazione israeliana che ha riportato l’occupazione e l’isolamento dei palestinesi allo status quo precedente, cioè un “affare israeliano”.

Secondo l’ufficio delle Nazioni Unite nella Palestina occupata, il tasso di povertà a Gaza sembra si stia incrementando alla velocità allarmante del 2% all’anno. Alla fine del 2017 il 53% della popolazione di Gaza viveva in stato di povertà, e due terzi di essa in “povertà assoluta”. Questo terribile dato include oltre 400.000 bambini.

Una fotografia, un video, un grafico o un post sui social media non potranno mai trasmettere la sofferenza di 400.000 bambini che soffrono la fame ogni giorno della loro vita, affinché il governo israeliano possa soddisfare i suoi scopi militari e politici a Gaza. Certo, Gaza non è soltanto un missile israeliano, una casa demolita ed un bimbo ferito. È una nazione intera che sta soffrendo e resistendo, nel quasi totale isolamento dal resto del mondo.

La vera solidarietà dovrebbe avere l’obbiettivo di costringere Israele a porre fine alla protratta occupazione e all’assedio del popolo palestinese, navigando in alto mare, se necessario. Per fortuna i bravi attivisti della Freedom Flotilla stanno facendo proprio questo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il sionismo fa affidamento sul suprematismo bianco

Asa Winstanley

20 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Un obiettivo strategico a lungo termine del movimento sionista è stato quello di fomentare il settarismo in Palestina e in tutta l’area. È un classico trucco delle strategie imperialiste: dividi e governa.

Ciò ha ovviamente avuto in una certa misura successo. La falsa divisione della regione in “arabi contro ebrei” è stato un importante risultato del movimento colonialista di insediamento sionista. La realtà, tuttavia, è che, fino alla nascita del movimento sionista, in Palestina come in altri Paesi del mondo arabo gli ebrei di lingua araba hanno vissuto quasi sempre in pace con i loro vicini musulmani e cristiani.

Il sionismo è sempre stato un movimento razzista, colonialista, che si affida all’aiuto del suprematismo bianco occidentale (e quindi dell’antisemitismo) per avere successo. Il movimento sionista tedesco, per esempio, andò incontro ad un fallimento quasi totale nel [tentativo di] persuadere gli ebrei tedeschi a lasciare il loro Paese d’origine e trasferirsi in Palestina come coloni sionisti. Questo storia di insuccessi subì una inversione quando il movimento sionista in Germania iniziò a ricevere il sostegno dello Stato. Esso in effetti collaborò negli anni ’30 con il regime nazista di Hitler .

In seguito alla presa del potere dei nazisti nel 1933, il governo tedesco ferocemente antisemita fece dell’emigrazione ebraica una delle sue massime priorità. Inizialmente ciò non venne compiuto attraverso le deportazioni forzate, che giunsero più tardi. L’ eliminazione fisica degli ebrei europei nei campi di sterminio nazisti durante l’Olocausto iniziò nel 1941.

È un fatto storico ben documentato (anche se a volte tabù) che negli anni ’30 il movimento sionista si unì al governo nazista per dare alla popolazione ebraica tedesca una serie di incentivi perché lasciasse la Germania e andasse in Palestina. Il più noto di questi incentivi fu l’accordo di trasferimento, o Haavara. In base a questo accordo, gli ebrei tedeschi che accettavano di lasciare il loro Paese potevano recuperare una parte del proprio patrimonio finanziario sotto forma di proventi dalla vendita di prodotti tedeschi, ma solo dopo aver raggiunto la Palestina [accordo di Haavara (trasferimento) del 1933, siglato tra Hitler e i movimenti sionisti, grazie al quale gli ebrei forzatamente emigrati in Palestinaavrebbero recuperato almeno in parte le somme lasciate in Germania grazie all’esportazione di prodotti tedeschi destinati alle comunità ebraiche già insediate nel Mandato britannico”, ndtr.].

Ma si andò oltre l’accordo di trasferimento. Dozzine di centri di riqualificazione o di “rieducazione” vennero istituiti in tutta la Germania per preparare i partecipanti alla loro nuova vita da coloni in Palestina. Questi centri erano gestiti dall’ala giovanile della Federazione sionista tedesca ed erano anche tenuti sotto stretto controllo nazista dalla notoriamente antisemita Schutzstaffel, le SS.

La propaganda sionista (consentita e persino incoraggiata dai nazisti) affermava che gli ebrei tedeschi non erano realmente tedeschi, ma erano solo ebrei che vivevano in Germania. Ciò si sposava perfettamente con la propaganda nazista velenosamente antisemita. I nazisti spogliarono sistematicamente tutti gli ebrei dei loro diritti, spingendoli a lasciare la Germania. Fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, gli sforzi nazisti per rimuovere gli ebrei tedeschi dalla Germania e inviarli in Palestina continuarono con la collusione attiva dei gruppi sionisti. Le SS furono persino coinvolte in alcuni tentativi di condurre illegalmente ebrei dall’Europa in Palestina sotto il naso delle autorità di occupazione del Mandato Britannico [in base agli accordi Sykes-Picot del 1916, dopo la sconfitta dell’Impero ottomano nella prima guerra mondiale, il Regno Unito governò sulla Palestina dal 1920 e il 1948, ndtr.].

Le leggi antisemite di Norimberga dei nazisti nel 1935 perseguitarono in diversi modi gli ebrei tedeschi e li privarono del diritto di voto. Ai sensi dell’articolo 4 di tale ordinamento legislativo, tuttavia, l’unica bandiera che gli ebrei erano autorizzati a sventolare era [quella con] “i colori ebraici”; la stessa bandiera divenne in seguito la bandiera nazionale di Israele [la bandiera israeliana ha due strisce blu con una stella di David blu su uno sfondo bianco, ndtr.].

Un’altra fonte del suprematismo bianco su cui il sionismo fece affidamento per il sostegno finanziario, logistico e politico fu quella avvalorata dall’Impero britannico. Per 31 anni, a partire dal 1917, la Gran Bretagna occupò militarmente la Palestina, sfidando la volontà della sua popolazione originaria, che voleva uno Stato democratico e non settario. Ancor prima di invadere con successo la Palestina, nel corso della prima guerra mondiale l’Impero britannico aveva già preso la decisione politica di consegnare la Palestina al movimento sionista.

La famigerata Dichiarazione di Balfour del governo britannico del 1917 decretò che la Palestina sarebbe diventata “il focolare nazionale per il popolo ebraico”, nonostante all’epoca soltanto una piccola minoranza della popolazione di quel Paese fosse ebrea. La stragrande maggioranza degli abitanti erano musulmani e cristiani di lingua araba.

L’impero britannico prese la sua decisione in parte per motivi di fanatismo religioso – il sionismo cristiano – e in parte per le solite ragioni geopolitiche nell’interesse dell’impero. La Palestina era considerata un importante crocevia internazionale, parte della rete di comunicazione e commercio britannico con i suoi possedimenti imperiali in India.

Ovviamente, il sostegno dell’impero al movimento sionista è diminuito ed è cessato nel corso degli anni, con l’avvio da parte delle milizie sioniste di una guerra aperta contro la Gran Bretagna nel periodo precedente al 1948 e la creazione dello Stato di Israele in Palestina. Questo faceva parte della loro guerra contro la popolazione palestinese nativa.

Tuttavia, la realtà essenziale della storia è che l’Impero britannico sostanzialmente consegnò la Palestina al movimento sionista a spese della popolazione autoctona. Come Lord Arthur Balfour stesso ammise in privato nel 1919: “In Palestina, non abbiamo nessuna intenzione di seguire una modalità di consultazione dei desideri degli attuali abitanti del Paese … Le quattro grandi potenze si affidano al sionismo e il sionismo, sia esso giusto o sbagliato, buono o cattivo, è radicato nella tradizione millenaria, nei bisogni attuali, nelle speranze future con un’importanza molto più profonda dei desideri e dei pregiudizi di 700.000 arabi che ora abitano quella terra antica ”.

Tale aperto razzismo era tipico dell’Impero britannico. E mostra perché Hitler non ebbe mai dei problemi con i territori d’oltremare sotto il controllo della Gran Bretagna. Cercò invece di persuadere il governo britannico ad accettare “sfere di influenza” reciprocamente vantaggiose, prima di tentare di imporle quando la Gran Bretagna rifiutò di accettare il dominio tedesco nell’Europa continentale.

Ovviamente oggi il movimento sionista si affida principalmente al sostegno dell’impero americano. L’ultima manifestazione di come esso faccia anche affidamento sul suprematismo bianco è data dall’amore aperto ed esplicito tra Israele e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, nonostante il suo aperto razzismo, compreso l’antisemitismo, così come dal corteggiamento del primo ministro Benjamin Netanyahu verso i governi di estrema destra in Europa e altrove. Il sionismo e lo Stato sionista di Israele fanno affidamento sul suprematismo bianco.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Dalla benedizione alla maledizione: come la Risoluzione dell’ONU 2334 ha accelerato la colonizzazione della Cisgiordania

Ramzy Baroud

17 dicembre 2019Middle East Monitor

Tre anni fa il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la Risoluzione 2334. Con 14 voti a favore ed un’astensione, la risoluzione è stata come un terremoto politico. Certamente è stata la prima volta in molti anni che l’istituzione internazionale ha condannato esplicitamente Israele per le sue politiche di colonizzazione illegale nei Territori Palestinesi Occupati. A differenza dei precedenti tentativi di imputare ad Israele le sue responsabilità, questa volta gli americani non hanno fatto nulla per proteggere il loro più stretto alleato.

Tuttavia ciò che è accaduto da allora ha testimoniato il fallimento dell’ONU nel mettere in campo significativi meccanismi che possano costringere chi viola il diritto internazionale, come Israele, a rispettare il consenso internazionale. In qualche modo la 2334, pur sostenendo apparentemente i diritti dei palestinesi, si è trasformata in una delle più dannose decisioni mai adottate dall’istituzione internazionale.

Immediatamente dopo l’adozione della 2334 il 23 dicembre 2016, Israele si è fatto beffe del mondo intero annunciando per due volte nel mese di gennaio progetti di costruzione di migliaia di nuove case nelle colonie ebraiche illegali della Cisgiordania occupata.

All’epoca il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’allora Ministro della Difesa Avigdor Lieberman hanno motivato la provocatoria iniziativa come “una risposta alle necessità abitative” all’interno delle colonie. Niente poteva essere più lontano dalla verità, come hanno dimostrato i successivi tre anni.

Ora è risultato evidente che l’espansione delle colonie faceva parte di una più ampia strategia volta ad eliminare ogni possibilità di creare uno Stato palestinese contiguo e praticabile e a sbarrare la strada alla cosiddetta “formula terra in cambio di pace”, anch’essa tracciata in anni di mediazione americana e di “processo di pace”.

La strategia israeliana è stata un totale successo. Grazie alla mano libera concessa dall’amministrazione Trump alla coalizione di governo di destra in Israele, i politici israeliani adesso stanno apertamente progettando ciò che un tempo era quasi impensabile: l’annessione unilaterale di importanti blocchi di colonie ebraiche in Cisgiordania insieme a vaste aree della Valle del Giordano.

Negli ultimi tre anni Washington ha chiuso un occhio sui sinistri piani di Israele. Peggio ancora, ha abbracciato in pieno e avallato il discorso politico israeliano, prendendo al contempo tutte le misure necessarie a fornire una copertura alle azioni israeliane. La dichiarazione del Segretario di Stato USA Mike Pompeo del 18 novembre, secondo cui le colonie ebraiche “non violano il diritto internazionale” è solo una di tante posizioni analoghe adottate da Washington per spianare la strada alla sfrontatezza e alla violazione del diritto internazionale da parte di Israele.

Retrospettivamente, il Presidente Obama ha avuto l’opportunità di fare di più che non semplicemente astenersi dal votare contro una Risoluzione ONU – che comunque mancava di qualunque meccanismo di applicazione – usando il generoso aiuto finanziario USA ad Israele come carta di scambio. In quel modo avrebbe potuto potenzialmente costringere Netanyahu a congelare del tutto l’espansione delle colonie. Purtroppo Obama ha fatto l’esatto contrario, finanziando l’esercito israeliano e ogni guerra israeliana contro Gaza. Invece la sua mossa tardiva ha aperto la porta all’amministrazione Trump per scatenare una guerra crudele contro i palestinesi e anche contro il diritto internazionale.

Sembra che l’incarico biennale dell’ambasciatrice USA all’ONU, Nikky Hailey, sia stato prevalentemente dedicato a rettificare il presunto “tradimento” dell’amministrazione Obama verso Israele. In nome della difesa di Israele contro un immaginario “antisemitismo” globale, gli Stati Uniti hanno rotto i loro rapporti con diverse organizzazioni dell’ONU, isolando alla fine la stessa Washington dal resto del mondo.

Con l’ONU considerata il nemico comune sia da Washington che da Tel Aviv, il diritto internazionale è stato reso irrilevante. Gradualmente il governo USA ha rafforzato il proprio scudo protettivo intorno a Israele, rendendo così insignificanti la Risoluzione 2334 e molte altre risoluzioni ONU. In altri termini, gli Stati Uniti sono riusciti a trasformare il consenso internazionale sull’illegalità dell’occupazione israeliana della Palestina in un’opportunità per Tel Aviv di disconoscere ogni impegno non solo nei confronti dell’ONU, ma anche della cosiddetta soluzione dei due Stati e del “processo di pace”.

Mentre Israele accelerava senza impedimenti i suoi progetti di colonizzazione, gli USA assicuravano che la leadership palestinese non avesse la possibilità di contrastarli, neanche simbolicamente, attraverso le varie istituzioni internazionali e le piattaforme politiche e legali disponibili. Questo è stato architettato attraverso sistematiche guerre economiche, che hanno visto il taglio di tutti gli aiuti all’Autorità Nazionale Palestinese nell’agosto 2018, seguito una settimana dopo dall’interruzione di tutti i finanziamenti all’agenzia dell’ONU responsabile dell’assistenza ai rifugiati palestinesi, l’UNRWA.

La guerra di USA e Israele ai palestinesi è stata organizzata su due fronti. Uno si concentrava sull’accaparramento di ulteriore terra palestinese, sulla costruzione di nuove colonie e l’espansione di quelle esistenti, come premessa agli imminenti passi verso l’annessione della maggior parte della Cisgiordania. L’altro fronte riguardava l’incessante pressione dell’amministrazione USA sui palestinesi con mezzi politici e finanziari.

Tre anni dopo la Risoluzione 2334 ci troviamo con un nuovo status quo. Sono finiti i tempi del tradizionale “piano di pace” americano e del suo complementare elaborato discorso centrato sulla soluzione di due Stati ed altre fantasie. Adesso Israele sta formulando in proprio la sua “visione” per un futuro che è destinato a soddisfare le aspettative dell’instabile, e sempre più di destra, elettorato del Paese. Quanto agli USA, il loro ruolo è stato ridimensionato a quello di sostenitori, indifferenti a questioni così irrilevanti come il diritto internazionale, i diritti umani, la giustizia, la pace o persino la stabilità della regione.

Poco dopo essere stato nominato nuovo Ministro della Difesa israeliano il 9 novembre, Naftali Bennett ha preso la pericolosa e conseguente decisione di costruire una nuova colonia ebraica nella città palestinese occupata di Al-Khalil (Hebron). Naturalmente i coloni ebrei hanno esultato perché vedranno finalmente la demolizione del vecchio mercato di Hebron, che è più antico dello stesso Israele, e la possibilità di una nuova espansione coloniale e di ulteriori annessioni nella città.

Al tempo stesso i palestinesi rabbrividiscono, perché un’iniziativa contro Hebron è la prova finale che Israele ormai sta agendo in Palestina senza alcun timore di ripercussioni politiche o giuridiche. Non solo la Risoluzione 2334 non è riuscita a rendere Israele responsabile, ma in qualche modo ha facilitato una maggiore espansione israeliana in Cisgiordania, spianando la strada all’annessione che sicuramente ne seguirà.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Le proteste della Grande marcia del Ritorno sono state controproducenti?

Motasem Dalloul

2 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Le proteste della Grande marcia del Ritorno sono state controproducenti?

Motasem Dalloul

2 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Lo scorso è stato il terzo venerdì consecutivo in cui nella Striscia di Gaza non ci si sono state le proteste della Grande Marcia del Ritorno e la Rottura dell’Assedio che, fino a questa interruzione, si erano svolte ogni settimana dal 30 marzo 2018.

Il Comitato per la Grande Marcia del Ritorno ha detto che lo scorso venerdì le proteste sono state annullate per motivi di sicurezza per non dare alle forze di occupazione israeliane l’opportunità di uccidere altri manifestanti. Questa è praticamente la stessa dichiarazione, parola per parola, che era stata rilasciata il venerdì precedente. Tutte le fazioni palestinesi che fanno parte del Comitato sostengono che le proteste avrebbero potuto ricominciare in qualsiasi momento se necessario.

Secondo un membro di Hamas, il movimento palestinese di resistenza islamica, che è la fazione più presente nelle proteste, il loro obiettivo principale è stato quasi raggiunto. “Guardate all’assedio imposto a Gaza” ha spiegato Khalil Al-Hayya “Israele ha aperto i varchi, ha annullato molte restrizioni commerciali, aumentato l’approvvigionamento elettrico, permesso gli scambi con l’Egitto, ha consentito che arrivassero i finanziamenti del Qatar, esteso la zona di pesca e molte altre cose.”

Ha aggiunto che, come conseguenza delle proteste che hanno dimostrato che Israele osteggia quella legittima rivendicazione, la questione del diritto al ritorno dei palestinesi è di nuovo all’ordine del giorno a livello internazionale. “Abbiamo anche raggiunto altri risultati, come il rafforzamento dell’unità nazionale che si è concretizzata con il Centro di coordinamento militare che include l’ala militare di tutte le fazioni palestinesi.”

Il periodo di calma relativa delle passate tre settimane fa pensare che le fazioni di Gaza vogliano un accordo con Israele grazie al quale i palestinesi possano godere di una certa stabilità economica e sociale. Si dice che i funzionari israeliani a ogni livello condividano questa idea.

La dirigenza di Hamas a Gaza, guidata da Yahya Sinwar, sta mostrando grande interesse nel raggiungere un accordo a lungo termine con Israele” ha scritto Amos Harel su Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] l’altra settimana. “Lo Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] appoggia ampie misure di aiuto a Gaza in cambio di garanzie di pace … [ma] la decisione finale spetta ai politici.”

Harel sembrava temere che Israele possa perdere questa opportunità quando ha spiegato che i politici israeliani sono al momento “impelagati in una crisi legale e politica incentrata sui tre atti di accusa contro il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, e anche sulle gravi difficoltà nel formare un nuovo governo.“La rapida conclusione delle ultime consultazioni durate due giorni (e durante le quali 36 palestinesi sono stati uccisi negli attacchi israeliani), ha offerto a Israele la rara opportunità di fare dei progressi e forse di sfruttare la possibilità che era stata persa cinque anni fa dopo il conflitto del 2014.”

Sabato l’emittente israeliana Channel 12 ha dichiarato che il Ministro della Difesa Naftali Bennett [del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.] ha ordinato all’esercito israeliano di condurre uno studio di fattibilità per un porto su un’isola artificiale sulla costa di Gaza per facilitare i commerci dentro e fuori l’enclave. Secondo il Times of Israel [giornale israeliano indipendente in lingua inglese, ndtr.] Bennett ha anche dato ordine al Capo di stato maggiore di effettuare uno studio di sicurezza per esaminare la possibilità di avere, sulla stessa isola, anche un aeroporto.

Questa idea è partita da Yisrael Katz [del partito di destra Likud, ndtr.] nel 2017, quando era Ministro dei Trasporti e dei Servizi Segreti, ma è stata osteggiata da altri ministri e non ha raggiunto il livello di discussioni governative. Oggi Katz è il Ministro degli Esteri israeliano e il Times of Israel ha riferito che ha detto di aver avuto il via libera per stabilire dei gruppi di lavoro congiunti fra il suo ministero, quello della Difesa e il Consiglio di Sicurezza Nazionale. “Per anni ho promosso l’iniziativa dell’isola galleggiante” ha twittato sabato. Ha sostenuto che questa è l’unica soluzione per Gaza.

Questa settimana ho incontrato il Ministro della Difesa Bennett che, a differenza del suo predecessore (Avigdor Lieberman [di un partito di estrema destra nazionalista, ndtr.] che era fra i ministri che si erano opposti all’idea nel 2017), ha dato il suo sostegno per promuovere l’iniziativa. Ho aggiornato il Primo Ministro Netanyahu e spero si possa iniziare presto.”

Il capogruppo di Fatah nel parlamento palestinese, Azzam Al-Ahmad, ha criticato l’idea del porto e dell’aeroporto e si è anche opposto a tutte le altre misure per alleggerire l’assedio imposto a Gaza da Israele, a meno che non siano coordinate dall’Autorità Nazionale Palestinese dominata dal suo partito. Se non ci fosse tale coordinamento, ha detto sabato ai media palestinesi, “si rafforzerebbe la divisione fra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, che sono le due parti del futuro Stato indipendente di Palestina.”

Rifqaa Abdul-Kader, una ricercatrice che vive a Gaza, ha criticato le affermazioni del funzionario di Fatah. “Ogni misura per migliorare la vita dei palestinesi a Gaza è ben accolta, inclusi un eventuale porto e aeroporto. L’ANP deve tacere quando ci sono informazioni su tali soluzioni.”

Parlando a MEMO, ha detto che la gente a Gaza è stata sottoposta a un duro assedio israeliano e ha subito molti attacchi dell’esercito israeliano con migliaia di morti e feriti. “Nessuno Stato o ente ufficiale al mondo, inclusa l’ANP, ha fatto qualcosa per aiutarli o per fermare le misure israeliane contro di loro” ha spiegato. “Invece di respingere le soluzioni per Gaza, l’ANP dovrebbe togliere le sanzioni imposte all’enclave assediata e pagare i salari a migliaia di dipendenti pubblici, pagare i costi amministrativi e operativi dei ministeri, inclusi i ministeri dell’Istruzione e della Salute, sbloccare i pagamenti annuali delle istituzioni educative a Gaza e accordarsi per indire le elezioni.”

Tuttavia Fawzi Mansour, un analista politico, insinua che Israele non ha delle “intenzioni innocenti” a proposito delle “possibili” misure relative ad alleggerire il blocco imposto a Gaza. “Tramite il porto e l’aeroporto Israele potrebbe progettare di rinforzare la completa separazione fra Gaza e la Cisgiordania” afferma.

Un risultato delle proteste della Grande Marcia del Ritorno che le fazioni palestinesi descrivono come una conquista è il futuro insediamento dell’ospedale americano nel nord della Striscia di Gaza. L’ospedale avrà due ingressi: uno per dare accesso dal lato israeliano del confine nominale, controllato dai servizi di sicurezza israeliani, e l’altro sul lato di Gaza, controllato dai servizi di sicurezza palestinesi del territorio.

Secondo Hussein Al-Sheikh, il Ministro degli Affari Civili dell’ANP, questo ospedale è “una base americana che verrà costruita a Gaza e Hamas non ha il diritto di raggiungere un accordo con nessuna delle parti in relazione all’insediamento di tale struttura.” Ha sostenuto che questa è una delle conseguenze negative delle proteste a Gaza. Invece Mai Kila, il Ministro della Salute dell’ANP, ha accettato che ci sia un ospedale ma ha detto che dovrebbe essere gestito dal suo ministero.

Hazim Qasim, il portavoce di Hamas, ha detto a MEMO che le affermazioni dell’ANP sono completamente false. L’ospedale non è stato accettato solo da Hamas, ha spiegato, ma da tutte le fazioni palestinesi. Ha aggiunto che le fazioni, e non solo Hamas, dirigeranno insieme l’attività di questo ospedale e ciò garantirà che “non ci sia un costo politico.” Il rappresentante di Hamas ha anche chiesto all’ANP di togliere le sanzioni da essa imposte a Gaza invece di “demonizzare ogni conquista che la resistenza ha ottenuto per i palestinesi assediati a Gaza.”

Pur facendo notare che le affermazioni critiche sulle caratteristiche dell’ospedale americano potrebbero non essere completamente false, Hossam Al-Dajani, accademico palestinese e analista politico, ha confutato l’affermazione che sarà altro che una base delle forze di sicurezza USA per aiutare Israele. “Sono sicuro che è solo un ospedale,” ha detto sabato sera a Al Jazeera in arabo, “ma se ha altri scopi, la resistenza palestinese di Gaza terrà d’occhio i lavori per garantire che non svolga altro che attività umanitarie.”

E quindi, se uno dei risultati della Grande Marcia del Ritorno sarà la presenza americana a Gaza, significa che le proteste si sono ritorte contro i palestinesi? Hamas crede di no.

Le proteste hanno dimostrato che la resistenza popolare controllata da fazioni palestinesi forti e unite, a questo stadio, è più efficace e meno costosa di altre forme di resistenza” ha detto il portavoce del movimento. “Resteranno uno strumento nelle mani della resistenza palestinese da usare quando necessario.”

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Mirella Alessio)