Il leader dei coloni in Cisgiordania da poco nominato promette di ottenere l’annessione

5 novembre 2019 – Middle East Monitor

Il Jerusalem Post [quotidiano israeliano di destra in lingua inglese, ndtr.] ha informato che il nuovo leader dalla popolazione di coloni israeliani nella Cisgiordania occupata ha promesso di lavorare per garantirsi l’annessione della maggior parte del territorio.

David ElHayani è stato eletto per guidare il consiglio di Yesha, dopo essere stato negli ultimi 11 anni a capo del consiglio regionale delle colonie, con sede nella Valle del Giordano.

Gli abitanti della Giudea e della Samaria (Cisgiordania) e della Valle del Giordano sono cittadini (israeliani) da tutti i punti di vista. Lavoriamo insieme, noi tutti, per mettere in pratica la sovranità su tutta l’Area C e nella Valle del Giordano [sotto totale ma temporaneo controllo di Israele in base agli accordi di Oslo, ndtr.] in Giudea e Samaria,” ha detto ElHayani dopo essere stato eletto.

Secondo l’articolo, “ElHayani ha anche approfittato dell’opportunità per invitare il primo ministro Benjamin Netanyahu e il capo del partito “Blu e Bianco” Benny Gantz [di centro destra e principale avversario di Netanyahu, ndtr.] a formare un governo di coalizione.

Da parte sua Netanyahu “ha telefonato a ElHayani per complimentarsi” ed ha promesso di lavorare insieme per promuovere la colonizzazione nella Cisgiordania occupata.

Tutte le colonie nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est sono illegali in base al diritto internazionale.

Il precedente capo del consiglio di Yesha, Hananel Durani, ha detto di “essere sicuro che ElHayani riuscirà ad ottenere la sovranità (annessione) e a raddoppiare il numero di coloni ebrei in Giudea e Samaria in modo da arrivare a 1.000.000 di ebrei.”

Nel contempo Sharren Haskel, deputata israeliana della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] per il Likud [partito di destra attualmente al potere, ndtr.], ha presentato un progetto di legge per chiedere che il versante est della regione della Valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata, venga formalmente annesso.

Secondo le informazioni, la proposta “permetterebbe agli abitanti palestinesi nel territorio di chiedere la cittadinanza israeliana entro dieci anni dalla sua messa in pratica, sempre che non siano stati accusati in passato di alcun delitto contro la sicurezza [di Israele] e non abbiano chiesto pubblicamente il boicottaggio contro Israele.”

Oggi esiste un ampio consenso riguardo a questa regione, in seguito al tanto sperato riconoscimento da parte del presidente statunitense della sovranità israeliana sulle Alture del Golan. È ora di fare altrettanto con la Valle del Giordano,” ha detto Haskel.

Domenica Ayelet Shaked, deputata della Knesset per il partito “Nuova Destra”, ha proposto un progetto di legge simile, focalizzato su una serie di importanti colonie in Cisgiordania.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




L’Autorità Palestinese fa il lavoro sporco per Israele: è per questo che fu creata

Asa Winstanley

30 Ottobre 2019 Middle East Monitor

Nonostante ciò che ne avrete sentito dire, l’Autorità Nazionale Palestinese non è un “governo palestinese”. Infatti, “Autorità Nazionale Palestinese” è una denominazione impropria, perché l’organismo non è dotato di autorità vera e propria e non agisce nell’ interesse della maggioranza dei palestinesi.

Innanzitutto, non è sicuramente un’istituzione democratica. Sono almeno 14 anni che non si tengono elezioni per l’Autorità Nazionale Palestinese, se escludiamo le votazioni interne.

L’ultima volta che il parlamento fittizio dell’ANP ha indetto elezioni effettivamente democratiche è stato nel 2006. Dal punto di vista dell’imperialismo USA e dei suoi alleati, però, vinse il partito sbagliato. Il Movimento Islamico di Resistenza, Hamas, vinse grazie a un programma di welfare e lotta alla corruzione, con una lista di candidati chiamata Change and Reform [Cambiamento e Riforma, ndt]. Gli elettori palestinesi votarono per Hamas vedendo in esso un cambiamento rispetto alla corruzione, ritenuta dilagante nel partito di maggioranza Fatah di Mahmoud Abbas.

Anche il fallimento della strategia del “processo di pace” del presidente dell’ANP, cioè la resa ad Israele attraverso i negoziati, ebbe un certo peso nella sorprendente sconfitta del suo partito. Eppure, invece di riflettere sul messaggio forte e chiaro inviato dagli elettori, e prepararsi a vivere all’opposizione, Fatah rifiutò di accettare il risultato delle elezioni “libere e democratiche” e di trasferire il potere ad Hamas, il nuovo governo eletto. La leadership di Fatah venne incoraggiata a questa pericolosa reazione dagli americani, dagli europei, dalla Giordania e dall’Arabia Saudita. Il risultato fu la spietata guerra civile palestinese del 2007.

Le forze armate a Gaza, guidate da Mohammed Dahlan, all’epoca influente personaggio di Fatah, erano pronte a realizzare un colpo di stato contro Hamas e i suoi combattenti. Hamas scoprì il piano ed espulse da Gaza Dahlan e i suoi uomini. Venne quindi organizzato da Abbas un colpo di stato in Cisgiordania contro il governo eletto di Hamas.

Nonostante anni di interminabili e intermittenti negoziati tra Hamas e Fatah per un “governo di unità nazionale”, da allora non ci sono state elezioni, né legislative né presidenziali. L’“Autorità Nazionale Palestinese”, quindi, non ha alcun mandato democratico. E, di fatto, non lo ha nemmeno Abbas; il suo incarico avrebbe dovuto concludersi nel 2009.

Ancor più importante, l’ANP non ha il mandato della totalità dei palestinesi, la maggior parte dei quali vivono in esilio, come rifugiati. I loro diritti non sono tutelati dall’Autorità Nazionale Palestinese. Secondo il fallimentare processo degli Accordi di Oslo, iniziato negli primi anni ‘90, il loro legittimo diritto al ritorno non è stato rispettato né tutelato.

Inoltre, anche relativamente alla limitata sfera d’influenza e alla parte di popolazione palestinese che sostiene di rappresentare nei territori occupati di Cisgiordania e Gaza – che insieme costituiscono appena il 22% della Palestina storica – l’Autorità Nazionale Palestinese agisce per far rispettare la volontà di Israele. Il settore più attivo e meglio finanziato dell’autorità è quello della sicurezza, con circa 70.000 funzionari che operano in una mezza dozzina di servizi di sicurezza.

Gli addetti alla sicurezza dell’ANP vengono addestrati da USA ed Europa, ed esistono unicamente per controllare il popolo palestinese. Il loro unico compito è prevenire la resistenza, armata o pacifica che sia, contro Israele, proteggere Israele e tutelare i leader dell’ANP. Gli ordini loro impartiti sono di farsi da parte se, sulla scena di qualsiasi evento, arriva il personale della sicurezza israeliano.

Nel 2014 Abbas definì “sacro” il coordinamento per la sicurezza tra ANP e Israele. Con il passare degli anni, però, ha più volte minacciato di porre fine a tale collaborazione con Israele, di solito quando sono stati a rischio i finanziamenti all’ANP. Eppure è rimasto fedele al suo discorso del 2004, e il coordinamento per la sicurezza tra ANP e Israele rimane ben saldo.

L’ ANP, quindi, può essere ragionevolmente considerato una marionetta, un organismo collaborazionista che esegue gli ordini dell’occupazione israeliana. Non sorprende, quindi, scoprire che sta impedendo la libertà di parola e agendo in modo autoritario e oppressivo. In questo, l’ ANP è complementare alla politica israeliana nei confronti dei palestinesi, che è sempre stata dittatoriale.

Con la sua ultima mossa autoritaria, l’ANP ha oscurato un gran numero di siti e social network palestinesi e arabi. Su richiesta del Procuratore Generale dell’ANP, il 17 ottobre la pretura di Ramallah ha ordinato il blocco di altri 59 siti web e pagine di notizie in rete.

Secondo l’ordinanza, i siti violavano la legge sui crimini informatici, approvata dall’ANP nel 2017. I gruppi per i diritti umani hanno definito la legge uno “strumento per mettere a tacere la legittima libertà di espressione e la critica alle autorità”.

La lista dei siti oscurati include Arab48, Wattan TV, Shebab News Agency, Quds News Network, Gaza Now e Metras. È da sottolineare che nessuno dei siti oscurati è israeliano.

L’Autorità Nazionale Palestinese sta nascondendo la testa sotto la sabbia, cercando di impedire la libertà di espressione e rispedendo i media nazionali in quell’oscurità in cui aveva tentato di relegarli l’occupazione israeliana, senza riuscirci”, ha dichiarato Husam Badran, portavoce di Hamas. “Il nuovo divieto può significare solo che l’ ANP e l’occupazione stanno lottando dalla stessa parte contro l’espressione nazionale palestinese, che denuncia le violazioni da parte dell’occupazione, la corruzione e il crimine”.

L’ANP si vende come strumento utile all’occupazione israeliana; riesce a fare cose che Israele non può fare. Eppure, gli israeliani considerano l’ANP sempre più irrilevante. Perché dovrebbero impiegare un subappaltatore per l’occupazione, quando possono direttamente portarla avanti loro? Questo è il dilemma in cui si trova l’ANP, da qui le periodiche e vuote minacce di chiudere la collaborazione per la sicurezza.

Tuttavia, almeno per ora, possiamo aspettarci che l’Autorità Nazionale Palestinese continuerà a fare il lavoro sporco per Israele. Dopotutto, è esattamente il motivo per cui fu creata.

Le opinioni espresse nell’articolo appartengono all’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Elena Bellini)




La Chiesa di Nelson Mandela ha aderito a un boicottaggio di Israele che dovrebbe essere imitato

Asa Winstanley

26 ottobre 2019 – Middle East Monitor

Questo mese la Chiesa di Nelson Mandela, la Chiesa metodista dell’Africa meridionale, ha aderito al movimento palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

Durante un recente convegno a Città del Capo la Chiesa ha denunciato “i continui soprusi e l’oppressione del popolo palestinese da parte di Israele e lo storico ruolo profetico giocato dalla Chiesa e dalla comunità internazionale nel combattere l’apartheid e ogni forma di discriminazione e ingiustizia.” La chiesa ha comunità anche in Namibia, Botswana, Lesotho, Swaziland e

Dando l’annuncio della clamorosa decisione, il BDS sudafricano ha evidenziato i rapporti storici della Chiesa metodista del Paese con il suo gigante della lotta di liberazione e primo presidente democraticamente eletto: Nelson Mandela.

Mandela fu allevato da una madre cristiana profondamente religiosa e durante la sua gioventù frequentò una serie di scuole metodiste.

Nella sua autobiografia del 1994, “Lungo cammino verso la libertà” [Feltrinelli, 1994], Mandela ha raccontato la natura contraddittoria del fatto di essere cresciuto, come nel suo caso, con un’educazione colonialista rivolta ai “nativi”.

Il nostro modello era l’inglese istruito,” racconta, “aspiravamo a diventare un ‘inglese nero’, come venivamo a volte chiamati con derisione. Ci veniva detto – e lo credevamo – che le migliori idee, il miglior governo e gli uomini migliori erano inglesi.”

Ma, come molte tradizioni legate agli imperi coloniali, l’eredità metodista nell’Africa meridionale conteneva in sé molte tendenze diverse, a volte contraddittorie.

Oltre che segnate da impulsi colonialisti, le chiese sudafricane erano anche luoghi di riunione per la lotta di liberazione.

A questo proposito la figura più famosa è, ovviamente, l’arcivescovo Desmond Tutu. Il più grande veterano della Chiesa anglicana contro l’apartheid è anche un fervente critico dell’apartheid israeliano, che ha descritto come persino peggiore di quello sudafricano, contro gli indigeni palestinesi.

Ma anche la Chiesa metodista ha avuto le sue figure progressiste, e si è a lungo opposta all’apartheid.

Seth Mokitimi, uno degli insegnanti di Mandela, in seguito diventò il primo presidente nero di un’importante congregazione sudafricana – una mossa che nel 1964, al culmine del regime di apartheid, richiese coraggio.

Le convinzioni religiose di Mandela lo accompagnarono oltre la sua l’infanzia. Nelle sue memorie racconta anche di essere stato “indottrinato” (un termine significativamente religioso) al comunismo dal “mio primo amico bianco”, Nat Bregman.

Quando Mandela aveva da poco superato i vent’anni, lui e Bregman lavoravano insieme a Johannesburg in uno studio legale diretto da un ebreo progressista che simpatizzava per l’African National Congress (ANC), (il cui braccio armato ovviamente Mandela contribuì in seguito a fondare).

Com’è noto, per tutta la sua vita, e soprattutto durante la Guerra Fredda, Mandela negò di essere un comunista, anche nel “processo per tradimento” a cui venne sottoposto negli anni ’60.

Ma dopo la sua morte nel 2013 sia l’ANC che il Partito comunista sudafricano confermarono (o rivelarono, a seconda del punto di vista) che effettivamente egli ne era stato membro. Infatti il partito dichiarò: “Mandela non era solo iscritto all’allora clandestino Partito comunista sudafricano, ma era anche membro del Comitato centrale del nostro partito.”

Comunque sia, nel “Lungo cammino per la liberta” Mandela scrisse che l’insistenza di Bregman perché entrasse nel partito all’epoca non lo convinse e che una delle ragioni fu la sua fede cristiana: “Ero anche molto religioso, e l’avversione del partito per la religione mi dissuase.”

L’adesione della Chiesa di Mandela al movimento BDS è quindi estremamente significativa. È il riconoscimento di come il movimento BDS sia esplicitamente modellato sul movimento per il boicottaggio contro l’apartheid sudafricano. Oltre a ciò, dimostra ancora una volta il ruolo guida che gli attivisti sudafricani stanno giocando nel movimento mondiale per la giustizia in Palestina. Quando vedono l’apartheid lo riconoscono.

La politica della Chiesa metodista dell’Africa meridionale sul boicottaggio di Israele è particolarmente positiva. Dà indicazione ai metodisti di boicottare “ogni attività che favorisca l’economia israeliana,” come ha spiegato il BDS sudafricano.

La Chiesa ha anche promosso un “boicottaggio di tutti gli operatori e viaggi turistici israeliani per i pellegrini” e invita i cristiani che visitano la Terra Santa a “cercare invece deliberatamente viaggi turistici che offrano una prospettiva palestinese alternativa.”

Queste sono misure concrete basate sui principi che possono avere un impatto su Israele. Lento ma sicuro, il BDS si sta imponendo.

Ora Israele destina una quantità imprecisata di milioni di dollari per lottare contro il BDS – un segno che questa strategia è efficace.

Dobbiamo imitare le politiche delle Chiese sudafricane a favore del BDS e adoperarci in questo senso in Occidente.

Amandla! Awethu! [Potere! Al popolo!, slogan del movimento sudafricano contro l’apartheid, ndtr.]

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La guerra alla verità: come i troll dei social media israeliani hanno conquistato Facebook

Ramzy Baroud

20 ottobre 2019,  Middle East Monitor

Il 9 ottobre la piattaforma di social media Facebook ha cancellato la pagina del nuovo e popolare sito web del Palestinian Information Center (PIC). Questa azione, avvenuta senza nemmeno contattare gli amministratori della pagina, conferma che la guerra di Facebook alle voci pro-Palestina continua senza sosta.

PIC ha quasi 5 milioni di follower su Facebook, un gruppo diversificato e ampio di palestinesi e loro sostenitori internazionali, a dimostrazione della sua popolarità e credibilità. Per i troll di Israele sui social, PIC era semplicemente troppo efficace per lasciargli divulgare il suo messaggio. Come al solito, Facebook ha obbedito.

Questo scenario, che si ripete spesso, è ora la norma: i troll dei social pro-Israele zumano su una piattaforma di media palestinesi, lavorando nel contempo in stretta collaborazione con i gestori di Facebook, per censurare il contenuto, bloccare individui o cancellare intere pagine. Semplicemente i punti di vista palestinesi su Facebook sono indesiderati e il margine di ciò che è permesso si sta rapidamente restringendo.

Sue, un’utente di Facebook, mi ha detto che è stata contattata dalla piattaforma per il suo presunto “odio verbale/bullismo” dopo aver affermato che gli “israeliani sono psicologicamente militarizzati” e che “la minaccia percepita ad opera dei palestinesi e un vero e proprio odio verso di loro (sono) tenuti vivi dal governo (israeliano).”

Sue’ naturalmente ha ragione nel suo giudizio, un’affermazione che è stata fatta molte volte, persino dallo stesso presidente israeliano. Il 14 ottobre 2014 il Presidente Reuven Rivlin ha detto che “è venuto il momento di ammettere che quella israeliana è una società malata di una malattia che ha bisogno di una cura.” Inoltre, il fatto che il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, abbia soffiato sul fuoco della paura, dell’odio e del razzismo per conquistarsi qualche voto alle elezioni israeliane ha fatto il giro dei giornali in tutto il mondo.

È poco chiaro dove esattamente ‘Sue’ abbia sbagliato e quale parte del suo commento costituisca “odio verbale” e “bullismo”. Ho chiesto ad altri di condividere le esperienze che avevano avuto con Facebook a causa dei loro discorsi pro-palestinesi. Le risposte che ho ricevuto indicano un disegno chiaro, cioè che Facebook non sta effettivamente prendendo di mira l’incitamento all’odio, ma le critiche alla guerra di Israele, all’assedio, al razzismo e all’apartheid. Per esempio, ‘José’ è stato censurato per aver scritto, in spagnolo, che “non c’è nulla di più vigliacco che attaccare o uccidere un bambino.”

Un esercito di dannati vigliacchi, assassini di bambini palestinesi, questa non è una guerra, questo è un genocidio,” ha commentato.

Derek’ è stato sospeso dall’uso di Facebook per 30 giorni, fatto avvenuto “molte volte” in passato con “accuse diverse.” Mi ha detto che “basta un certo numero di rapporti da parte dei troll che hanno dei gruppi segreti su chi prendere di mira.”

Lo stesso schema si è ripetuto con ‘Anissa’, ‘Debbie’, Erika’, ‘Layla’, ‘Olivia’, ‘Rich’, ‘Eddy’ e numerosissimi altri.

Ma chi sono questi “troll” e quali sono le radici del fatto che Facebook prenda costantemente di mira palestinesi e i loro sostenitori?

I troll

Secondo un documento ottenuto da Electronic Intifada, il governo israeliano ha finanziato con un enorme budget una “campagna globale di pressione” con l’unico scopo di influenzare l’opinione pubblica straniera e combattere il movimento palestinese di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS). Scrivendo su EI, Asa Winstanley ha descritto “un esercito di migliaia di troll” che è “parzialmente finanziato dal Ministero Israeliano per gli Affari Strategici”.

Per occultare il proprio coinvolgimento, il ministero ha ammesso di operare usando come facciata dei gruppi che ‘non vogliono rivelare il loro legame con lo Stato,’” ha scritto Winstanley.

Uno di questi gruppi di troll, che si stima includa 15.000 membri attivi, è Act.IL.

Sul sito web “Jacobin Magazine” [rivista on line della sinistra radicale americana, ndtr.], Michael Bueckert  ha descritto la funzione principale degli utenti dell’applicazione Act.IL:

Con le applicazioni su cellulari e la piattaforma online Act.IL, Israele mira a reclutare una folla di attivisti da tastiera e troll per unirsi alla loro guerra contro le più insidiose forme di violenza: i tweet pro-palestinesi e i post su Facebook.”

Act.IL è solo la punta dell’iceberg di un tentativo massiccio e centralizzato, guidato dal governo israeliano e che coinvolge legioni di sostenitori in tutto il mondo. Comunque, Israele non avrebbe mai raggiunto i propri obiettivi se Facebook non si fosse ufficialmente unita al governo israeliano nella sua “guerra” sui social contro i palestinesi.

Sembra che Sohaib Zahda, nel 2014, sia stato il primo palestinese a essere arrestato dall’esercito israeliano per un suo post sui social, seguendo una nuova strategia con cui si vuole dare un giro di vite a quello che Israele considera “incitamento all’odio”. Da allora la campagna di arresti si è allargata e ha incluso centinaia di palestinesi, la maggior parte giovani attivisti artisti, poeti e studenti.

Ma, secondo “Intercept”[sito di controinformazione e di denuncia, ndtr.], Israele ha cominciato a monitorare seriamente Facebook solo nel 2015.

Gli arresti di palestinesi per post su Facebook hanno aperto uno spiraglio su quale sia la situazione della sorveglianza in Israele, rivelando il lato oscuro dei social media,” ha scritto Alex Kane. “ Quella che una volta era vista come un’arma dei deboli è diventata il posto perfetto per stanare una resistenza potenziale.”

Israele ha rapidamente fabbricato una base legale per gli arresti (solo nel 2015 sono stati aperti 155 casi), dando in questo modo una copertura giuridica che è poi stata usata in accordi successivi con Facebook. Il Codice Penale israeliano del 1977, art. 144 D.2, è stato ripetutamente usato per contrastare un fenomeno sulle reti sociali che si è costituito molto più di recente, tutto in nome della repressione dell’ “incitamento alla violenza e al terrorismo”.

 

La strategia israeliana è cominciata con una massiccia campagna di propaganda, hasbara, che mira a creare una pressione pubblica e dei media su Facebook. Il governo israeliano ha attivato l’allora nascente armata di troll per costruire una narrazione globale centrata sull’idea presunta che Facebook sia diventata una piattaforma per idee violente, che i palestinesi stanno utilizzando sul campo.

Il team Facebook-Israele

Quando nel settembre 2016 il governo israeliano ha annunciato la sua intenzione di lavorare con Facebook per “contrastare l’istigazione all’odio”, il colosso dei social media era pronto a raggiungere un accordo, anche se ciò significava violare quella fondamentale libertà di espressione che aveva ripetutamente promesso di rispettare.

Secondo l’Associated Press, che cita funzionari israeliani di alto livello, in quel momento il governo israeliano e Facebook si sono accordati per “decidere come contrastare l’istigazione all’odio sul network dei social media.”

L’accordo è stato il risultato di due giorni di discussioni che hanno coinvolto, fra gli altri, il Ministro degli Interni israeliano, Gilad Erdan, e la Ministra della Giustizia, Ayelet Shaked.

In un comunicato l’ufficio di Erdan ha detto che, “si sono accordati con i rappresentanti di Facebook per creare dei team onde capire come monitorare nel modo migliore e rimuovere i contenuti provocatori.”

In essenza, ciò significa che ogni contenuto relativo alla Palestina e a Israele viene ora filtrato, non solo dagli editor di Facebook, ma anche dai funzionari israeliani.

Per i palestinesi il risultato è stato disastroso, dato che molte pagine, come quelle di PIC, sono state cancellate e innumerevoli utenti sono stati bannati, temporaneamente o per sempre.

La procedura che prende di mira i palestinesi e i loro sostenitori molto spesso segue lo stesso iter:

  • I troll pro-Israele si muovono in tutte le direzioni, monitorando e commentando i post palestinesi.

  • I troll riportano individui e contenuti presumibilmente offensivi al “team” di Facebook/Israele.

  • Facebook esegue le raccomandazioni relative agli account che sono stati segnalati come da censurare.

  • Gli account di pagine palestinesi e pro-palestinesi e quelli di individui singoli sono cancellati o bannati.

Anche se PIC non ha ricevuto nessun preavviso prima che il suo account molto popolare fosse cancellato, è probabile che la decisione abbia seguito lo stesso schema riportato qui sopra.

Quando i social media furono introdotti per la prima volta, molti ci videro un’opportunità per presentare idee e promuovere cause che, per una qualche ragione, erano state ignorate dai media tradizionali.

La Palestina improvvisamente trovò una piattaforma nuova e accogliente, non era influenzata da ricchi proprietari e pubblicitari pagati, ma da individui ordinari – milioni di loro.

Sembra che Israele abbia comunque trovato un modo per eludere l’influenza di Facebook sulle discussioni relative ai diritti palestinesi e all’occupazione di Israele.

Quando la denuncia dell’apartheid, la condanna degli assassini di bambini e la discussione la mentalità di paura che permea Israele diventano “incitamento all’odio” e “bullismo”, uno dovrebbe riflettere su cosa ne è della promessa di libertà e democrazia popolare fatta dai social media.

Se in anni recenti Facebook ha fatto molto di più per screditarsi, niente è più sinistro che censurare le voci di quelli che hanno il coraggio di sfidare violenza, razzismo e apartheid promossi dallo Stato, ovunque, ma specialmente in Palestina.

Romana Rubeo, scrittrice e editor italiana, ha contribuito a questo articolo.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Mirella Alessio)




L’ultima àncora di salvezza: la vera ragione dell’appello di Abbas alle elezioni

Ramzy Baroud

14 ottobre, 2019 – Middle East Monitor

L’appello alle elezioni nei territori occupati da parte del Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese [ANP] Mahmoud Abbas è uno stratagemma politico. Non ci saranno elezioni veramente democratiche sotto la leadership di Abbas. La vera domanda è: innanzitutto, perché lo ha fatto?

Il 26 settembre Abbas ha scelto la sede politica più importante al mondo, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per proporre “elezioni generali in Palestina – in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza.”

Il leader palestinese ha fatto precedere al suo annuncio una nobile enfasi sulla centralità della democrazia nei suoi pensieri. “Fin dall’inizio abbiamo creduto nella democrazia come fondamento della costruzione del nostro Stato e della nostra società”, ha detto con inconfondibile disinvoltura. Ma, a conti fatti, è stata solo Hamas a rendere impossibile la missione democratica di Abbas – non Israele, e certo non il retaggio antidemocratico, evidente e corrotto della stessa ANP.

Al suo rientro da New York Abbas ha creato una commissione il cui compito, secondo i media ufficiali palestinesi, è di svolgere consultazioni con varie fazioni palestinesi riguardo alle elezioni che ha promesso.

Hamas ha immediatamente accettato l’invito alle elezioni, pur chiedendo maggiori delucidazioni. La principale richiesta del gruppo islamico, che controlla la Striscia di Gaza assediata, è di svolgere elezioni che comprendano contemporaneamente il Consiglio Legislativo Palestinese (CLP), la presidenza dell’ANP e soprattutto il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) – la componente legislativa dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

Mentre l’OLP è caduta sotto lo stretto controllo di Abbas e di una cricca interna al suo stesso partito Fatah, le altre istituzioni hanno operato senza alcun mandato democratico e popolare per quasi 13 anni. Le ultime elezioni del CLP si sono tenute nel 2006, seguite da uno scontro tra Hamas e Fatah che ha portato all’attuale rottura politica tra i due partiti. Quanto al mandato di Abbas, anch’esso è scaduto nel 2009. Ciò significa che Abbas, che apparentemente crede “nella democrazia come fondamento della costruzione del nostro Stato”, è un presidente che regna in modo antidemocratico senza alcun mandato per governare i palestinesi.

Non è che i palestinesi rinuncino a esplicitare i propri sentimenti. Più volte hanno chiesto ad Abbas di andarsene. Ma l’ottantatreenne è deciso a rimanere al potere – per quanto si possa definire ‘potere’ sotto il giogo dell’occupazione militare israeliana.

L’opinione prevalente dopo la richiesta di Abbas di elezioni è che, date le circostanze, una simile impresa sia semplicemente impossibile. Tanto per cominciare, dopo aver ottenuto il riconoscimento degli USA di Gerusalemme come capitale, è difficile che Israele permetta ai palestinesi di includere Gerusalemme est occupata in qualunque futura votazione.

D’altro lato, è probabile che Hamas rifiuti l’inclusione di Gaza nelle elezioni se esse fossero limitate al CLP e escludessero la carica di Abbas e il CNP. Senza un voto per il CNP la riorganizzazione e la rinascita dell’OLP resterebbero fantomatiche, un’opinione condivisa da altre fazioni palestinesi.

Essendo consapevole di questi ostacoli, Abbas sa già che le possibilità di reali elezioni eque, libere e veramente inclusive sono minime. Ma la sua proposta è l’ultima, disperata mossa per fermare il crescente risentimento tra i palestinesi e la sua incapacità per decenni di utilizzare il cosiddetto processo di pace per ottenere i diritti del suo popolo a lungo negati.

Ci sono tre principali ragioni che spingono Abbas a compiere questa mossa in questo specifico momento.

Primo, la fine del processo di pace e della soluzione dei due Stati, attraverso una serie di iniziative israeliane e americane, hanno lasciato l’ANP, e soprattutto Abbas, isolati e con scarse disponibilità finanziarie. I palestinesi che hanno sostenuto simili illusioni politiche non sono più la maggioranza.

Secondo, lo scorso dicembre la corte costituzionale dell’ANP ha stabilito che il presidente avrebbe dovuto indire le elezioni entro i prossimi sei mesi, cioè entro giugno 2019. La corte, anch’essa sotto il controllo di Abbas, ha inteso fornire al leader palestinese uno strumento giuridico per sciogliere il parlamento precedentemente eletto – il cui mandato è scaduto nel 2010 – e predisporre nuove basi per la sua legittimazione politica. Tuttavia egli non ha rispettato la decisione della corte.

Terzo, e più importante, il popolo palestinese è chiaramente stufo di Abbas, della sua autorità e di tutti gli intrighi politici delle fazioni. Infatti, secondo un sondaggio dell’opinione pubblica svolto a settembre dal Centro palestinese per la Ricerca Politica e di Opinione, il 61% di tutti i palestinesi in Cisgiordania e Gaza vuole che Abbas si dimetta.

Lo stesso sondaggio indica che i palestinesi rifiutano l’intero discorso politico che è stato alla base delle strategie politiche di Abbas e della sua ANP. Inoltre, il 56% dei palestinesi è contrario alla soluzione dei due Stati; quasi il 50% ritiene che l’azione dell’attuale governo dell’ANP di Mohammed Shtayyeh sia peggiore del precedente e il 40% vuole che l’ANP venga sciolta.

Significativamente, il 72% dei palestinesi vuole che le elezioni legislative e presidenziali si svolgano in tutti i territori occupati. La stessa percentuale vuole che l’ANP interrompa la sua partecipazione all’assedio imposto alla Striscia di Gaza.

Abbas si trova ora nella posizione politica più debole da quando ha preso il potere, molti anni fa. Privo del controllo sugli esiti politici che sono decisi da Tel Aviv e Washington, ha fatto ricorso ad una vaga richiesta di elezioni che non hanno possibilità di successo.

Mentre l’esito è prevedibile, Abbas spera che, per ora, potrà ancora una volta apparire come il leader impegnato che rivolge l’attenzione al consenso internazionale e ai desideri del suo popolo.

Ci vorranno mesi di spreco di energie, di contese politiche e di un imbarazzante circo mediatico prima che l’imbroglio delle elezioni vada in pezzi, lasciando il campo ad un gioco al massacro tra Abbas ed i suoi rivali che potrebbe durare mesi, se non anni.

È difficile che questa sia la strategia che il popolo palestinese – che vive sotto una brutale occupazione ed un soffocante assedio – necessiti o desideri. La verità è che Abbas e qualunque classe politica egli rappresenti sono diventati un vero ostacolo nel cammino di una nazione che ha un disperato bisogno di unità e di una strategia politica seria. Ciò che il popolo palestinese chiede con urgenza non è una timida chiamata al voto, ma una nuova leadership, una richiesta che ha ripetutamente espresso, benché Abbas rifiuti di ascoltare.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele non ha mai avuto intenzione di rispettare né il Piano di partizione del 1947 né i confini del 1967

Thomas Suárez

10 ottobre 2019 Middle East Monitor

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva promesso che avrebbe annesso parti della Cisgiordania occupata se fosse stato rieletto alle elezioni del mese scorso, suscitando indignazione nei leader di tutto il mondo. Tuttavia, quella “promessa” di usurpare non solo la Cisgiordania ma tutta la Palestina, è una notizia vecchia di un secolo, una promessa mantenuta e comunque nessuna indignazione internazionale ha mai avuto una qualche importanza.

Un logoro capitolo del mito della creazione di Israele spiega così le sue conquiste: quando, nel novembre del 1947, le Nazioni Unite proposero di dividere la Palestina in due Stati (Risoluzione dell’Assemblea Generale 181), i fondatori di Israele accettarono l’offerta con gratitudine, mentre i palestinesi la derisero e attaccarono il nascente “Stato ebraico”.

Il risultato di questa presunta intransigenza palestinese? La “cosa fondamentale”, come affermano gli spin-doctor israeliani di CAMERA [Comitato per la correttezza di corrispondenze e analisi in Medio Oriente,ndtr.], è che se i palestinesi avessero accettato la divisione, dal 1948 ci sarebbe stato uno Stato palestinese, “e non ci sarebbe stato neppure un rifugiato palestinese”.

Questa è più che una bizzarra razionalizzazione di sette decenni di imperialismo e pulizia etnica; è un’invenzione storica. Il movimento sionista non ha mai avuto alcuna intenzione di rispettare qualsiasi accordo che gli “desse” meno dell’intera Palestina. Importanti leader come il “moderato” Chaim Weizmann e l’iconico David Ben-Gurion finsero di accettare la partizione perché consegnava loro un’arma abbastanza potente per ostacolare la divisione: lo Stato.

Quando la Gran Bretagna accettò di diventare un benefattore del sionismo, codificato con l’ambigua Dichiarazione Balfour del 1917, i suoi negoziatori sapevano benissimo che i sionisti avevano pianificato di usurpare e ripulire etnicamente la Palestina, e che al contrario le assicurazioni della Dichiarazione erano una bugia. Come lamentava Lord Curzon [politico conservatore britannico e ministro degli Esteri dal 1919 al 1924, ndtr.], i propagandisti del sionismo “hanno cantato una melodia diversa in pubblico” – una melodia che i principali media continuano a canticchiare oggi.

Nel 1919, gli attivisti come Weizmann erano già esasperati dall’incapacità della Gran Bretagna di stabilire uno Stato sionista dal Mediterraneo al fiume Giordano [cioè su tutta la Palestina storica, ndtr.] – per cominciare – e spingevano perciò verso un “piano di emigrazione globale” dei non ebrei per avere la pulizia etnica fatta e finita. La menzogna pubblica fu mantenuta; il colonnello britannico Richard Meinertzhagen assicurò Weizmann che il vero piano era “ancora taciuto al grande pubblico”. Né il pubblico fu informato quando, nello stesso anno, la commissione King-Crane degli Stati Uniti andò nella regione per scoprire da sé che “i sionisti non vedevano l’ora di una espropriazione praticamente completa degli attuali abitanti non ebrei della Palestina”. Il rapporto della Commissione venne insabbiato.

Fu nel 1937 che i disordini causati dall’espropriazione portarono gli inglesi a proporre di spartire la terra. Ben-Gurion vide il potenziale nascosto nella partizione: “A seguito dell’istituzione dello Stato”, disse all’esecutivo sionista, “aboliremo la divisione e ci espanderemo in tutta la Palestina”. Fece la stessa promessa a suo figlio Amos.

Quando Ben-Gurion, Weizmann e gli altri si incontrarono a Londra nel 1941 per discutere un piano futuro, il cinico distacco fu agghiacciante. Avrebbero gli “arabi” avuto uguali diritti nello “Stato ebraico”? Certo, ma solo dopo che non ne fosse rimasto più nessuno. La partizione sarebbe stata ragionevole? Certamente, se il confine fosse stato il fiume Giordano (che significava il 100 % della Palestina ad Israele), estensibile perfino nel regno hascemita della Giordania. Un partecipante sfidò i sionisti; l’industriale Robert Waley Cohen li accusò di seguire un’ideologia nazista.

Nel 1944, gli inglesi sapevano che l’opposizione alla spartizione si era “indurita a tutti i livelli dell’opinione pubblica ebraica [sionista]” e che le nuove risoluzioni tra i leader dei coloni ponevano “un’enfasi speciale sul rifiuto della spartizione”. Ma il fallimento della spartizione sarebbe diventato un problema palestinese. Gli inglesi sarebbero tornati a casa.

Ben-Gurion descrisse lo Stato come uno “strumento”, non il “fine”, una distinzione “particolarmente rilevante per la questione dei confini”, che sarebbero invece stati fissati “prendendo il controllo del paese con la forza delle armi”. Quasi nessun pretesto è stato accampato fuori dalle mura delle Nazioni Unite: il presidente dell’Organizzazione Sionista d’America Abba Silver condannò pubblicamente qualsiasi menzione di partizione e chiese una “linea di azione aggressiva e militante” per prendere possesso di tutta la Palestina. Le milizie dell’Agenzia Ebraica erano impegnate a fare proprio questo, stabilendo freneticamente roccaforti in aree che le Nazioni Unite avevano assegnato ai palestinesi.

“La pace del mondo”, mise in guardia il futuro primo ministro israeliano Menachem Begin alle Nazioni Unite nell’estate del 1947 – dopo che il terrorismo sionista aveva già raggiunto l’Europa e la Gran Bretagna – sarà minacciata se “la [biblica] Patria Ebraica” non fosse stata data completamente ai sionisti. “Qualunque cosa possa essere firmata o promessa” alle Nazioni Unite, avvertì il Jewish Standard, sarebbe stata annullata da “il potere e la passione che si oppongono alla partizione” per una “risoluzione senza compromessi”.

Questo fanatismo di massa per “ristabilire” un antico regno ed essere la sua ipotetica popolazione era il risultato di quello che potrebbe essere descritto come un lavaggio del cervello. Già nel 1943 l’intelligence americana aveva segnalato che il sionismo stava alimentando “uno spirito molto simile al nazismo, (per) irreggimentare la comunità (e) ricorrere alla forza” per raggiungere i propri obiettivi. Avvertimenti simili sulla morsa fascista del sionismo sugli ebrei provenivano da individui interni ad esso, tra cui J.S. Bentwich, ispettore capo delle scuole ebraiche e presidente dell’Università ebraica Judah Magnes.

Il giorno prima che fosse approvata la risoluzione 181, la CIA avvertì nuovamente che i sionisti avrebbero ignorato la divisione e “intraprenderanno una forte campagna di propaganda negli Stati Uniti e in Europa” per ottenere più territorio. Poi però, come oggi, gli americani furono mantenuti all’oscuro: “Gli americani”, ha osservato nel 1948 Kermit Roosevelt, esponente dell’intelligence statunitense, non si rendono conto “della misura in cui è stata rifiutata l’accettazione della partizione come soluzione definitiva da parte dei sionisti in Palestina”.

Ironicamente, è stato perché le Nazioni Unite non hanno mai creduto che i sionisti avrebbero onorato i confini della spartizione che hanno “dato loro” un’area di terra sproporzionatamente ampia, sperando che ciò potesse ritardare la loro inevitabile aggressione. Ma l’inchiostro era a malapena asciutto quando il sindaco di Tel Aviv, presunta capitale del nuovo Stato, annunciò che la sua città “non sarebbe mai stata la capitale ebraica”. Lo sarebbe stata Gerusalemme, una violazione diretta della risoluzione delle Nazioni Unite per la partizione, che l’aveva designata come zona internazionale. L’Agenzia Ebraica affermò anche che “un certo numero di istituzioni nazionali” sarebbero state a Gerusalemme.

Il duplice atteggiamento nei confronti della loro “vittoria” alle Nazioni Unite non fu particolarmente celato. Sia il “liberale” Haaretz che il quotidiano sionista [della destra, ndtr.] Haboker, diedero un medesimo messaggio: “I giovani dello Yishuv [l’insediamento ebraico in terra d’Israele, ndtr.] devono mantenere nei loro cuori la profonda convinzione che le frontiere non sono state fissate per l’eternità”, affermava Haboker. Indipendentemente dal tempo ci vorrà, il resto sarà “restituito all’ovile”.

Una volta garantito uno Stato israeliano, gli avvertimenti della CIA si fecero anche più infausti: gli agenti sionisti si stavano infiltrando fra il personale militare americano e dell’American Airlines. L’ex senatore americano Guy Gillette lavorava apertamente per il gruppo terroristico Irgun e spinse per il riconoscimento generale della sovranità israeliana su tutte le terre che le sue milizie potessero conquistare.

Gerusalemme rimaneva la preoccupazione più pressante di Israele. Mentre la terra sotto il dominio “arabo” avrebbe potuto essere ad un certo punto usurpata, una Gerusalemme amministrata dalle Nazioni Unite no. E così quando il mediatore delle Nazioni Unite conte Folke Bernadotte stilò un nuovo piano di pace nell’autunno del 1948, il gruppo terroristico Lehi [noto anche come Banda Stern, ndtr.] lo minacciò, opponendosi ad una “amministrazione non ebrea”. Tuttavia, nella Risoluzione 181 Bernadotte mantenne la zona internazionale e il giorno successivo il Lehi, sotto la guida del futuro primo ministro israeliano Yitzhak Shamir, lo assassinò.

Alla fine del 1948 Israele aveva rubato più di metà della terra che aveva “accettato” di lasciare ai palestinesi e si rifiutò di lasciarla. Questo fu all’origine del termine fuorviante “confini del 1967”; in verità erano la linea del cessate il fuoco. La partizione era una farsa e i negoziatori palestinesi avevano ragione a respingerla, ma la loro onestà fu, dal punto di vista machiavellico, un errore tattico su cui i sionisti contavano. In breve, Israele non ha mai avuto intenzione di rispettare né il piano di partizione del 1947 né i confini del 1967. Il cosiddetto Grande Israele in tutta la Palestina storica e oltre è sempre stato l’obiettivo del sionismo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’anti-palestinismo è il moderno maccartismo

AsaWinstanley

1 ottobre 2019Middle East Monitor

Come sanno i lettori abituali di questa rubrica, nel Regno Unito l’atmosfera maccartista contro i sostenitori dei diritti dei palestinesi sta peggiorando. Ciò è dovuto in parte al consenso della leadership del partito laburista alla campagna diffamatoria che mira a rappresentare il partito come anti-semita. L’anno scorso, l’accettazione da parte del comitato esecutivo nazionale del partito laburista della falsa “definizione operativa” di antisemitismo da parte dell‘IHRA (Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto) ha fornito al documento diffusione e approvazione immeritate, confondendo deliberatamente l’antisemitismo con le critiche ad Israele per essere quello stato razzista che così evidentemente è.

Non sorprende che l’accettazione del documento dell’IHRA abbia portato i consigli comunali che lo hanno adottato a proibire in quanto “antisemite” persino innocue manifestazioni di solidarietà con l’esistenza della Palestina. Forse l’esempio più vergognoso è stato l’anno scorso, quando il consiglio comunale di Tower Hamlets [quartiere del centro di Londra, ndtr.] ha vietato al Big Ride for Palestine [Grande Corsa per la Palestina, gara ciclistica e attività di sensibilizzazione che si svolgono a Manchester e Londra, ndtr.] l’uso dei suoi parchi pubblici e spazi aperti per la manifestazione e i comizi.

Gli organizzatori del Big Ride avevano fatto domanda di autorizzazione presso tutte le istituzioni preposte: inizialmente erano stati mandati dagli impiegati comunali da un ufficio all’altro e poi avevano ricevuto un rifiuto sulla base di un’affermazione completamente pretestuosa, cioè che il Comune non permetteva raduni “politici” nei suoi parchi pubblici. Tale affermazione è stata contraddetta dallo stesso sindaco laburista di Tower Hamlets, John Biggs, che aveva precedentemente usato proprio lo stesso parco richiesto dal Big Ride per uno dei suoi raduni elettorali.

Le email di Tower Hamlets, ottenute grazie alla legge sulla libertà di informazione, hanno rivelato che la vera ragione per il divieto era che gli impiegati comunali avevano deciso che l’evento poteva violare la falsa definizione di antisemitismo dell’IHRA. Perché? Perché il sito web del Big Ride for Palestine afferma, correttamente, che ci sono “paralleli fra l’apartheid in Sud Africa e lo Stato di Israele.”

Il Big Ride for Palestine resta una delle forme di solidarietà verso la Palestina più inoffensive e condivisibili che si possano immaginare. Non progettava un’azione diretta contro i commercianti di armi che potrebbero teoricamente rischiare l’arresto. Non coinvolgeva degli oratori discussi e sobillatori.

Era semplicemente una corsa in bici sponsorizzata per raccogliere fondi per i bambini palestinesi vittime della guerra. Più precisamente, i corridori e i loro sponsor volevano aiutare i bambini di Gaza che soffrono di disturbi da stress postraumatico e altre patologie causate dalle varie guerre israeliane sui territori palestinesi, raccogliendo fondi per comprare degli equipaggiamenti sportivi. Il fatto che Tower Hamlets abbia vietato un evento così perché potenzialmente “antisemita” rivela quanto la definizione di antisemitismo dell’IHRS sia falsa.

Se le cose vanno male da questa parte del canale della Manica, pensate alla situazione degli attivisti per i diritti dei palestinesi nel resto dell’Europa. In Francia e Germania la situazione è persino peggiore, specie in Germania.

Da quando, a maggio, la camera bassa del parlamento tedesco ha approvato una mozione (non-vincolante) di condanna del movimento BDS, questo neo-maccartismo è ulteriormente peggiorato. L’establishment letterario e culturale tedesco ha cominciato a vietare, escludere e, ironia delle ironie, boicottare figure culturali internazionali se sostengono la campagna per i diritti dei palestinesi del movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS).

Più agghiacciante ancora, alle associazioni culturali tedesco-palestinesi è vietato l’uso di spazi pubblici, a causa del loro sostegno al BDS. Questo ha conseguenze di vasto raggio dato che, sostanzialmente, tutta la società civile palestinese sostiene il movimento BDS, che è totalmente non-violento.

Due casi recenti esemplificano questa agghiacciante atmosfera politica maccartista. A giugno, il rapper afro-americano Talib Kweli, famoso per i suoi testi socialmente e politicamente impegnati, è stato escluso da un festival musicale tedesco dopo che si era rifiutato di cedere alle insistenze degli organizzatori di condannare il movimento BDS. Kweli è un sostenitore del BDS da molti anni e, cosa da ammirare, ha rifiutato la richiesta di “censurare me stesso e mentire sul BDS per soldi.”

Più di recente, una città tedesca ha revocato un premio alla scrittrice anglo-pakistana Kamila Shamsie per il suo sostegno al movimento BDS. “I membri della giuria non sapevano che l’autrice era stata un membro del movimento, dal 2014 aveva partecipato e continua a partecipare al boicottaggio del governo di Israele per le sue politiche nei confronti dei palestinesi” ha annunciato il Comune di Dortmund che assegna il premio Nelly Sachs.

Questo modo di fare della censura politica da parte della città di Dortmund nei confronti di una scrittrice importante è stato ampiamente condannato. Fra i critici ci sono Yasmin Alibhai-Brown, editorialista, Naomi Klein, scrittrice e giornalista, e la deputata pachistana Sherry Rehman.

Il blog tedesco che per primo ha attirato l’attenzione sul sostegno di Shamsie al BDS è un sito apertamente razzista. Sebbene in teoria sia di orientamento politico “liberale” quando si tratta di Israele, Ruhrbarone è apertamente anti-palestinese, arrivando addirittura a invocare il genocidio. A novembre dello scorso anno, durante un particolare attacco israeliano contro la popolazione della Striscia di Gaza, il blog Ruhrbarone  ha twittato una vignetta apertamente genocida, chiedendo, presumibilmente allo Stato sionista, di “trasformare Gaza in una Garzweiler”.

Garzweiler è una miniera di carbone a cielo aperto. La richiesta del blogger di decimare e radere al suolo il territorio palestinese assediato, abitato da 2 milioni di persone, quasi tutti civili disarmati, non avrebbe potuto avere intenti più apertamente genocidi. È da notare che gli autori del blog tedesco hanno usato l’inglese in modo da rendere ancor più comprensibili le loro intenzioni.

In Germania sembra che, quando l’obiettivo sono i palestinesi, un linguaggio violento e persino genocida sia ammissibile. Tuttavia movimenti pacifici come il BDS, che cercano di spingere Israele a cambiare le sue politiche razziste che negano ai palestinesi i diritti umani e civili più elementari, sono palesemente proibiti.

Questo, insieme al tentativo di bandire le associazioni culturali palestinesi dalla vita pubblica in Germania, rivela il razzismo insito nel tentativo di mettere oggi al bando il movimento BDS in Europa. L’anti-palestinismo, in tutte le sue forme mostruose, è davvero il maccartismo di oggi.

Le opinioni contenute in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La comunità internazionale è complice delle torture di Israele ai palestinesi

Ramona Wadi

2 ottobre 2019 – Middle East Monitor

Le torture subite dal prigioniero palestinese Samer Arabeed da parte degli agenti israeliani dello Shin Bet [servizi segreti interni, ndtr.] che lo interrogavano hanno dimostrato, ancora una volta, che il divieto di tale trattamento, sancito dalla Quarta Convenzione di Ginevra, dallo Statuto di Roma e dalla Convenzione ONU contro la Tortura, è poco più di una serie di punti di riferimento utilizzati dalle associazioni per i diritti umani come monito per i torturatori.

Arabeed è stato trasferito all’ospedale Hadassah in seguito a pesanti torture dopo essere stato arrestato per la sua presunta partecipazione in agosto ad un attacco con una bomba. Una dichiarazione dell’associazione di sostegno ai detenuti e per i diritti umani, Addameer, ha riferito che Israele ha ammesso di aver utilizzato “metodi estremi ed eccezionali durante gli interrogatori, che in realtà equivalgono a torture”.

Il ministero di Giustizia israeliano ha annunciato un’indagine per decidere se si debbano avviare procedimenti penali contro i funzionari dello Shin Bet. Le torture subite da Arabeed gli hanno provocato rottura delle costole e perdita di conoscenza. Ora la sua situazione lo mette in pericolo di vita e dipendente da un macchinario di supporto vitale. Il suo trasferimento dal carcere all’ospedale è stato comunicato in ritardo alla sua famiglia e al suo avvocato.

Lo scorso luglio il prigioniero palestinese Nasser Taqatqa è morto dopo essere stato torturato e interrogato dallo Shin Bet. Le testimonianze di ex prigionieri palestinesi confermano il fatto che negli interrogatori israeliani si utilizza sistematicamente la tortura. Nel 2013 Arafat Jaradat morì sotto tortura mentre era detenuto nel carcere di Megiddo.

Nel novembre 2018 la Corte Suprema israeliana ha emesso una sentenza favorevole alla tortura nel caso che il detenuto sia membro di “una organizzazione terroristica individuata come tale”, sia coinvolto nella resistenza armata o quando non esista altro mezzo per ottenere informazioni. Se Israele ha stabilito questa immunità, come si può sperare che il continuo riferimento alle leggi e alle convenzioni internazionali sia sufficiente per impedire la tortura dei prigionieri palestinesi?

Definendo i dettagli sulla proibizione della tortura, la comunità internazionale evitò la responsabilizzazione, allo scopo di garantire i diritti umani agli autori e un labirinto di vicoli ciechi senza uscita per le vittime. Tra questi due estremi, le organizzazioni per i diritti umani si sono fatte carico di difendere i principi al posto dei governi, ma per il loro limitato potere o, in alcuni casi, per i loro programmi parziali, non hanno potuto realizzare nessun sistema di giustizia praticabile.

Israele è assolutamente consapevole di questa discrasia e sfrutta la mancanza di responsabilizzazione per falsificare ciò che costituisce un metodo accettabile di tattiche di interrogatorio. La totale marginalizzazione dei palestinesi da parte della comunità internazionale relativamente ai loro diritti ha facilitato la costante normalizzazione della tortura da parte di Israele, in totale violazione del diritto internazionale, in assenza di una condanna collettiva.

Il risultato è una permanente separazione tra le informazioni diffuse e il tipo di azione legale che fornirebbe ai prigionieri palestinesi una possibilità di giustizia. Le organizzazioni per i diritti umani come Addameer si vedono costrette ad una collaborazione involontaria con la diplomazia, girando continuamente a vuoto per svegliare le coscienze, che è ciò che la comunità internazionale voleva in primo luogo quando non ha potuto mantenere l’assunzione di responsabilità.

Chiedere la liberazione di Arabeed non significherà la fine della feroce violenza di Israele. E’ una mossa preventiva rispetto a nuove torture, ma dietro a questa storia ve ne sono altre che sono sfuggite alla scarsa attenzione dei media che sbatte i nomi delle vittime in prima pagina, anche se per breve tempo. Addameer da sola non può ottenere giustizia per i prigionieri palestinesi. Come minimo, dovrebbe esserci un’attenzione globale collettiva per mostrare la complicità della comunità internazionale nella tortura e la sua agenda ingannevole sui diritti umani.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

Ramona Wadi

Fa parte della redazione di Middle East Monitor.

(traduzione dallo spagnolo di Cristiana Cavagna)

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Bassam al-Sayeh, Faris Baroud e il lento omicidio dei prigionieri palestinesi

Ramzy Baroud

19 settembre Middle East Monitor

Bassam Al-Sayeh è solo l’ultima vittima della malasanità nelle prigioni israeliane. Al-Sayeh, palestinese di Nablus di 47 anni, è morto l’8 settembre scorso. Prima di lui, fu Faris Baroud a morire in una prigione di Nafha il 6 di febbraio.

Nel 2011, ad al-Sayeh fu diagnosticato un cancro alle ossa e al sangue, secondo quanto riportato da Samidoun, la Rete di Solidarietà dei Prigionieri Palestinesi. Pochi anni dopo è stato arrestato dai soldati israeliani dell’occupazione. Nel 2015 una corte militare israeliana lo ha condannato all’ergastolo per il presunto concorso nell’omicidio di un ufficiale israeliano in Cisgiordania.

Le organizzazioni e gli attivisti per i diritti umani che hanno seguito il caso avevano più volte segnalato quanto la vita di al-Sayeh fosse in pericolo a causa delle condizioni di vita estremamente dure nelle carceri di Ramleh e la scarsa attenzione medica dedicata ai malati di cancro. Si poteva fare ben poco per salvargli la vita.

In una dichiarazione del 9 settembre, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha accusato Israele di essere responsabile della morte di al-Sayeh. Altri gruppi hanno evidenziato come la malasanità sia un modo usato nelle prigioni israeliane per infliggere ulteriori punizioni ai palestinesi che resistono all’occupazione israeliana  persino dopo il loro arresto e condanna.

Secondo il movimento per i diritti dei prigionieri Samidoun, “Al-Sayeh è il 221º prigioniero palestinese a perdere la vita in una prigione israeliana, dove la malasanità e gli abusi medici hanno un ruolo rilevante nella contrazione di malattie e nella morte dei prigionieri palestinesi proprio come la tortura e il maltrattamento nell’assedio”.
Il gruppo di supporto ai prigionieri Addameer, di base a Ramallah, concorda: la Corte Suprema Israeliana “ha adottato una politica di malasanità volontaria contro prigionieri e detenuti”. Nell’arco delle rivolte della Seconda Intifada tra il 2000 e il 2008, 18 prigionieri sono morti per essere stata loro negata la dovuta cura medica.

Chi non muore deve affrontare il cronicizzarsi di malattie che spesso li accompagneranno per il resto della vita. Secondo Addameer “il numero di persone malate tra i prigionieri e detenuti è salito a 1000 casi, in confronto agli 800 casi di malattia registrati nel 2013”. Duecento di questi pazienti soffrono di malattie croniche, tra cui tumori, e 85 sono disabili a vita. Faris Baroud era uno di questi malati cronici e, proprio come Bassam al-Sayeh, è morto in prigione per l’omissione delle cure.

Baroud fu arrestato il 23 marzo 1991. Una corte militare israeliana lo ha condannato a 134 anni di reclusione, accusandolo di aver ucciso un colono ebreo israeliano armato che stava prendendo parte all’occupazione di Gaza.

Alla madre di Faris, Ria, fu proibito di far visita a suo figlio nella prigione di Nafha per tutti gli ultimi 15 anni. Alla donna, ormai settantenne, fu detto che la decisione era stata presa per “questioni di sicurezza”.

Faris era il suo unico figlio: era nato nel 1968, due anni dopo l’inizio dell’occupazione militare di Gaza. Suo padre, Ahmad Mohammad Baroud, era morto quando Faris era ancora un bambino. Ria, che non si risposò mai, ha dedicato la sua vita alla crescita del figlio, con cui viveva in una piccola casa nel campo profughi di Shati’, a Gaza.

Si dice che Faris sia stato torturato e tenuto in isolamento per più di dieci anni, e che gli fossero state vietate le visite dei familiari per più di metà della sua detenzione. Prima del suo arresto soffriva già di asma, condizione che si era poi aggravata.
Anni dopo il suo il suo incarceramento, Faris sviluppò una malattia renale che peggiorò per la negligenza nelle cure e fu inasprita ulteriormente dalla sua partecipazione a vari scioperi della fame per solidarietà verso altri prigionieri.

A Faris fu negata più volte la scarcerazione, da immediatamente dopo la firma degli accordi di Oslo nel 1993 a uno scambio di prigionieri nel 2011. Ne fu poi programmato lo scarceramento, insieme ad altri 29 detenuti, nel 2013 o 2014 nell’ambito di un accordo speciale anch’esso mandato a monte dal governo israeliano.

Dal 2002, a Ria fu proibito di far visita a suo figlio. Nonostante la sua salute peggiorasse e stesse perdendo la vista per un glaucoma, Ria è famosa per non aver mancato una sola delle veglie organizzate ogni lunedì dalle famiglie dei prigionieri palestinesi di fronte agli uffici della Croce Rossa, nella famosa Jala’ Street di Gaza.

A volte era l’unica a presentarsi, con in mano sempre la stessa fotografia incorniciata di suo figlio Faris vicino al cuore. Ria Baroud è morta il 18 maggio 2017, aveva 85 anni. Aveva passato quasi un terzo della sua vita lottando per rivedere suo figlio di nuovo libero.

Subito dopo la morte della madre, la salute di Faris si aggravò, sviluppando anche una forma di glaucoma molto aggressiva che secondo quanto riferito lo aveva portato a perdere l’80% della vista. Faris muore il 6 febbraio 2019 nella prigione di Nafha nel deserto di Naqab. Aveva 51 anni.

Questi non sono che cenni a due sole storie,nell’apparentemente infinita serie di episodi di sofferenza inflitta a migliaia di palestinesi e le loro famiglie.

I diritti dei prigionieri sono protetti da leggi internazionali, in particolar modo dagli Articoli 76 e 85 della quarta Convenzione di Ginevra. A Israele non dovrebbe essere permesso di continuare indisturbato questa mistificazione dei valori morali. I gruppi internazionali e le organizzazioni che rivendicano i diritti umani dovrebbero far sentire la propria voce per Bassam, Faris e le migliaia di detenuti palestinesi che soffrono e spesso muoiono soli nelle carceri israeliane.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non rispecchiano necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Maria Monno)




Rapporto ONU su crisi economica in Palestina

L’Onu segnala il gravissimo collasso dell’economia palestinese

11 settembre 2019 – Middle East Monitor

 

Ieri la conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) ha avvertito riguardo al gravissimo collasso dell’economia palestinese a causa delle misure distruttive dell’occupazione israeliana.

In un rapporto l’UNCTAD afferma che le prestazioni dell’economia palestinese e le condizioni umanitarie hanno raggiunto nel 2018 e all’inizio del 2019 il livello minimo da sempre.  Aggiunge: “Nel territorio palestinese occupato, nel 2018 il livello di crisi dovuto al tasso di disoccupazione ha continuato ad aumentare, arrivando al 31%: al 52% a Gaza e al 18% in Cisgiordania.”

Afferma anche: “Il salario reale e la produttività del lavoro sono diminuiti. Nel 2017 il salario reale e la produttività per singolo lavoratore sono stati rispettivamente inferiori del 7% e del 9% rispetto ai livelli del 1995.”

Il reddito pro capite si è ridotto, la disoccupazione di massa è aumentata, la povertà si è accentuata e sia nella Striscia di Gaza che in Cisgiordania è aumentato il degrado ambientale causato dall’occupazione.

In conseguenza delle misure dell’occupazione israeliana, “l’economia di Gaza ha subito una contrazione del 7% ed è aumentata la povertà, gli investimenti sono praticamente scomparsi, scendendo al 3% del PIL, di cui l’88% è stato destinato alla ricostruzione delle infrastrutture distrutte durante varie pesanti operazioni militari negli ultimi 10 anni.”

Secondo la UNCTAD il rallentamento dell’economia in Cisgiordania “si spiega con la diminuzione dell’appoggio da parte dei donatori, la contrazione del settore pubblico e il deterioramento generale della sicurezza, il che ha scoraggiato le attività del settore privato.”

“La partecipazione complessiva della produzione nel valore aggiunto totale si è ridotta dal 20% all’11% del PIL tra il 1994 e il 2018, mentre la partecipazione dell’agricoltura e della pesca è diminuita da più del 12% a meno del 3%.”

“Al popolo palestinese viene negato il diritto di sfruttare le risorse di petrolio e gas naturale e pertanto lo si priva di migliaia di milioni di dollari di entrate”, aggiunge.

La UNCTAD ha ancora aggiunto: “La comunità internazionale deve aiutare il popolo palestinese a garantire il proprio diritto al petrolio e al gas nel territorio palestinese occupato e stabilire la sua legittima partecipazione alle risorse naturali, che sono proprietà collettiva di diversi Stati vicini nella regione.”

Nel contempo l’organizzazione sostiene: “Nel marzo 2019 il governo di Israele ha iniziato a ridurre di 11,5 milioni di dollari al mese le entrate di liquidità palestinese [si riferisce alle tasse che Israele riscuote e che dovrebbe poi girare all’ANP, ndtr.] … Questo impatto fiscale è aggravato dalla diminuzione dell’appoggio dei donatori.”

 

 

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)