Cosa vogliono i palestinesi dalla comunità internazionale?

Haidar Eid

21 novembre 2018, Middle East Monitor

Due giorni prima dell’attacco criminale di Israele nella Striscia di Gaza avevo scritto un articolo in cui cercavo di spiegare esattamente cosa vogliono i palestinesi, in particolare quelli di Gaza, dalla comunità internazionale. Ho sostenuto che mentre intraprendiamo il nostro lungo cammino verso la libertà, siamo giunti alla conclusione che non possiamo più fare affidamento sui governi; che solo la società civile è in grado di mobilitarsi per l’applicazione del diritto internazionale e per la fine dell’inaudita impunità israeliana.

Ci ispiriamo al movimento anti-apartheid. La mobilitazione della società civile è stata efficace alla fine degli anni ’80 contro il regime di apartheid del Sudafrica bianco, e può fare la stessa cosa a sostegno di una giusta pace in Palestina. Niente può davvero costringere Israele a rispettare il diritto internazionale tranne le persone di coscienza e la società civile.

Affermavo anche che senza l’intervento della comunità internazionale, che è stata efficace contro l’apartheid in Sudafrica, Israele continuerà a perpetrare i suoi crimini di guerra e contro l’umanità. Questo è esattamente ciò che è successo solo due giorni dopo quell’articolo, quando l’apartheid israeliano ha lanciato un massiccio attacco violando – come nel 2009, 2012 e 2014 – un cessate il fuoco non dichiarato con i gruppi di resistenza palestinesi a Gaza, mediato dall’Egitto.

In effetti, a Gaza non ci interessa più la sterile opposizione al processo di normalizzazione avviato dal trattato di Camp David e dagli accordi di Oslo, e consolidato dagli Sceicchi del Golfo. Piuttosto, siamo interessati a elaborare il tipo di reazione che potrebbe effettivamente sconfiggere i diversi livelli del sistema di oppressione sionista: occupazione, pulizia etnica e apartheid. Nel momento in cui la comunità internazionale – società civile e governi – deciderà di agire così come ha fatto contro il sistema di apartheid in Sudafrica, Israele dovrà rimettersi alla voce della ragione – rappresentata dall’appello del 2005 per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS ), sostenuto da oltre 170 organizzazioni della società civile e approvato da quasi tutte le forze politiche influenti nella Palestina storica e nella diaspora.

La domanda urgente, quindi, è quanto a lungo il mondo tollererà il palese razzismo costituzionale di Israele? Sappiamo per certo che ci sono voluti trent’anni perché la comunità internazionale ascoltasse la chiamata dei popoli oppressi del Sud Africa. Quanto tempo dovranno aspettare i popoli oppressi della Palestina?

I recenti successi del BDS sono ciò che chiediamo dal 2005. Per i palestinesi nella Striscia di Gaza è difficile capire come, nonostante la politica di pulizia etnica di Israele e gli ultimi crimini di guerra commessi contro di noi, nonostante i crimini di guerra continuamente documentati da importanti organizzazioni per i diritti umani, e nonostante la colonizzazione israeliana e l’apartheid, per alcune onorate società e istituzioni internazionali gli affari con Israele rimangano normali “as usual”.

Non è chiarissimo a quelle società, dopo tutti questi anni e dopo le migliaia di rapporti da parte delle principali organizzazioni per i diritti umani, che a milioni di palestinesi vengono negati i diritti fondamentali all’istruzione, alla libera circolazione, al lavoro e alle prestazioni sanitarie? Siamo privati di una vita normale a causa degli oltre 600 posti di blocco militari israeliani nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme, dell’assedio medievale di Gaza e della discriminazione ufficiale dell’apartheid verso i cittadini palestinesi nella stessa Israele. Per dirla senza mezzi termini, siamo discriminati perché non siamo ebrei, così come i neri sudafricani venivano discriminati semplicemente perché non erano bianchi

La tendenza sta cambiando: Israele sta perdendo su due fronti di guerra

Nelle carceri israeliane sono detenuti migliaia di palestinesi condannati da tribunali militari; centinaia di loro sono detenuti senza accusa né processo. Tutte le attendibili organizzazioni internazionali per i diritti umani hanno riferito dettagliatamente in che modo le forze israeliane prendano di mira deliberatamente studenti e istituzioni educative palestinesi, incluse le scuole gestite dall’ONU. Gli studiosi e i ricercatori non dovrebbero essere avvezzi a maneggiare tali rapporti?

Consideriamo nostro diritto aspettarci che le persone di coscienza si uniscano a noi nella lotta contro l’apartheid di Israele, boicottando il regime razzista e militarizzato e le istituzioni che lo fanno prosperare. I palestinesi sono un popolo oppresso senza Stato. Sempre di più facciamo affidamento sul diritto internazionale e sulla solidarietà, per la nostra stessa sopravvivenza.

Ciò che vogliamo, quindi, è l’applicazione del diritto internazionale per porre fine all’occupazione militare israeliana nelle terre arabe occupate nel 1967, per combattere la colonizzazione e l’apartheid di Israele sancite dalle leggi contro la popolazione indigena della Palestina dal 1948, e per consentire il ritorno legittimo dei rifugiati palestinesi vittime di una pulizia etnica quando nelle loro terre fu creato Israele. È una richiesta di por fine allo Stato di Israele? Il boicottaggio dell’apartheid significava porre fine al Sud Africa come nazione, o porre fine alle peggiori forme di razzismo di Stato?

Israele è uno Stato di insediamento coloniale e di apartheid, e gli strumenti usati contro l’apartheid in Sudafrica possono essere modello per la nostra lotta contro l’apartheid di Israele. Trasformare Israele da Stato etno-religioso e di apartheid in un’istituzione autenticamente democratica dovrebbe essere l’obiettivo di ogni persona che crede nella democrazia liberale.

Con le pressioni della comunità internazionale, attraverso una campagna BDS sul modello della Campagna contro l’Apartheid che ha posto fine al razzismo in Sud Africa, crediamo che si possa convincere Israele a liberarsi delle sue strutture di oppressione. Ciò di cui abbiamo urgente bisogno è un embargo sulle armi a Israele per fermare il continuo spargimento di sangue a Gaza.

La campagna BDS tende a ripristinare i diritti democratici del popolo palestinese. Crediamo che le lotte del popolo palestinese nella stessa Israele, nei territori occupati dal 1967 – la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est – così come nella Diaspora siano una cosa sola. Questo è il motivo per cui crediamo che un approccio alternativo basato sui diritti, anziché sull’apparente “pace” di Oslo basata sulla normalizzazione, possa rappresentare per tutti i palestinesi una soluzione che garantisce la pace con giustizia, vale a dire con il diritto al ritorno e all’uguaglianza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Luciana Galliano)




La “Grande Marcia del Ritorno” ha raggiunto i suoi obiettivi?

Motasem Dalloul

8 novembre 2018, Middle East Monitor

Sono passati 32 fine settimana da quando i palestinesi della Striscia di Gaza hanno lanciato massicce proteste chiedendo la rimozione del blocco israeliano e il diritto a tornare alle loro case, da cui sono stati espulsi nel 1948 per far posto alla creazione dello Stato di Israele.

Nell’arco di otto mesi tre ministeri palestinesi hanno annunciato una serie di sussidi che comprendono aiuti urgenti per un ammontare di 5 milioni di dollari da destinare a 50.000 famiglie, 200 dollari al mese per 5.000 famiglie di palestinesi uccisi o gravemente feriti durante la “Grande Marcia del Ritorno”, il pagamento del 60% dei salari di luglio per i dipendenti pubblici e la creazione di 10.000 posti di lavoro destinati ai laureati.

Nel contempo l’ambasciatore del Qatar a Gaza, Mohammed Al-Emadi, martedì ha annunciato che sta per visitare la Striscia assediata per seguire progetti che il suo governo sta finanziando e iniziarne di nuovi. Ciò avviene solo una settimana dopo che il petrolio qatariota ha iniziato ad essere immesso nell’unica centrale elettrica di Gaza, consentendo alla Striscia di avere più ore di elettricità al giorno. Fonti ufficiali hanno detto che ne arriverà dell’altro.

L’analista politico Naji Al-Zaza, vicino ai responsabili politici di Hamas, ha affermato: “Gli accordi per porre fine all’assedio hanno dato come risultato salari per 43.000 dipendenti, lavoro per 10.000 laureati, 5 milioni di dollari per 50.000 famiglie, 200 dollari mensili per le famiglie dei martiri e dei feriti, l’estensione della zona di pesca da 3 a 12 miglia e presto ce ne saranno altri.”

L’ex membro del comitato politico di Hamas e giornalista Mustafa Al-Sawwaf ha confermato che questo è “il primo passo a cui ne seguiranno altri.”

Sul terreno, il “Comitato Popolare per la Grande Marcia del Ritorno e La Fine dell’Assedio” ha già preso iniziative per ridurre le proprie attività. Ciò è risultato evidente nei suoi ordini ai manifestanti perché non si avvicinino alla barriera o non trasformino in violente le manifestazioni pacifiche.

Ciò ha dato come risultato un basso numero di vittime lo scorso venerdì. Fonti mediche di Gaza hanno informato di soli 32 feriti, compresi 25 [causati da] gas lacrimogeni e sette con ferite lievi da pallottole vere o ricoperte di gomma. Martedì sera il Canale 14 della televisione israeliana ha detto: “Sono passati sette giorni senza che da Gaza vengano lanciati palloni e aquiloni incendiari.”

L’analista israeliano di questioni arabe Zvi Bar’el ha affermato che la “Grande Marcia del Ritorno” ha mostrato che Israele ha imposto l’assedio per obbligare i palestinesi a ribellarsi contro Hamas, e invece loro si sono espressi contro l’occupazione, obbligando Israele a iniziare colloqui per una tregua.

Fatah ha comunque detto che i risultati sono parte della messa in pratica del piano americano noto come l’“accordo del secolo”. L’alto dirigente di Fatah Azzam Al-Ahmad ha detto ad una radio locale che “queste intese forniscono una chiarissima spinta all’accordo del secolo americano…Ciò dimostra che Hamas e le cosiddette fazioni della resistenza a Gaza non stanno più lottando contro Israele, ma stanno al suo fianco nella sua guerra contro la legittima rappresentante dei palestinesi – l’OLP.”

L’importante dirigente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [storico gruppo marxista della resistenza armata, ndtr.] a Gaza Rabah Muhanna ha messo in guardia “tutte le fazioni palestinesi dal cadere nella trappola dell’‘accordo del secolo’. L’occupazione israeliana e i governi arabi stanno cercando di utilizzare queste misure, annunciate la scorsa notte, per dividere Gaza dalla Cisgiordania e affossare gli obiettivi dei palestinesi prima di far approvare l’‘accordo del secolo’,” ha sottolineato.

Nel contempo il capo della Jihad Islamica Khaled Al-Batsh ha detto: “Queste agevolazioni sono frutto dei sacrifici del popolo palestinese a Gaza.” Ha ribadito che la resistenza palestinese, compreso il suo movimento, “non rinuncerà mai al tentativo di raggiungere tutte le aspirazioni dei palestinesi.”

Parlando a MEMO [Middle East Monitor, ndtr.] Ali Hussein, un abitante disoccupato di Gaza, ha detto: “Accettiamo tutte queste misure che alleviano la nostra situazione in quanto crediamo che si tratti del primo passo per rompere l’assedio israeliano. Mille miglia iniziano con un singolo passo, ma cosa ne è delle garanzie per essere sicuri che Israele rispetterà i suoi impegni?”

“Le garanzie,” ha detto a MEMO il dottor Salah Abdel-Ati [dirigente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina a Gaza e uno dei responsabili della Grande Marcia del Ritorno, ndtr.], “sono date dall’assicurazione di Egitto e ONU che Israele deve mantenere le sue promesse.”

Il membro del comitato palestinese incaricato di rompere l’assedio ha detto che il blocco israeliano contro la Striscia di Gaza è un “crimine e una forma di punizione collettiva e prima o poi deve essere totalmente eliminato.”

I palestinesi, ha sottolineato, “non rimarranno schiavi delle politiche israeliane,” evidenziando che troveranno nuovi modi per obbligare l’occupante a rimanere fedele ai suoi impegni.

“Le proteste della Grande Marcia del Ritorno hanno riportato in cima all’agenda internazionale il problema dei rifugiati palestinesi e del loro diritto a tornare alle loro case e hanno spinto un gran numero di istituzioni internazionali a prendere decisioni a favore dell’UNRWA [agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi, ndtr.], la cui esistenza significa la sostenibilità della questione dei rifugiati.”

La “Grande Marcia del Ritorno” continuerà come previsto, ha detto Abdel-Ati, cercando di raggiungere pacificamente “maggiori risultati” e di far sapere all’occupante e ai mediatori che “mai rinunceremo o torneremo indietro.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dare lavoro al nemico: la storia dei lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane

Middle East Monitor

Editore: Zed Books

Data di pubblicazione: 15 July 2017

Autore: Matthew Vickery

Recensione di: Mustafa Fatih Yavuz

Chi fa ricerca e discute del conflitto tra Palestina e Israele scoprirà che persino l’argomento più specifico è stato ben indagato. Tuttavia temi quali la soluzione dei due Stati, le questioni riguardanti la sicurezza, lo status di Gerusalemme e persino i rifugiati palestinesi riflettono discussioni dell’élite che non fanno riferimento a quelli che rimangono ai margini del discorso – le vittime dell’occupazione. Questi sono i lavoratori palestinesi che non hanno altra alternativa che lavorare nelle colonie israeliane in Cisgiordania a causa degli alti tassi di disoccupazione e delle restrizioni israeliane.

Quando ero a Tel Aviv ho chiesto dei palestinesi a una delle mie amiche che si definisce sionista. Mi ha risposto in modo generico: “A me vanno bene, e costruiscono la mia strada, lavorano per me.” Anche se la risposta mi ha deluso per il suo tono altezzoso, c’era una realtà nascosta dietro di essa. L’espansione delle colonie israeliane e della popolazione ebraica ha raggiunto più di 600.00 [abitanti] dal 1967, ed anche la conseguente involuzione economica palestinese è cresciuta in questo periodo. Ci sono 37.000 palestinesi in Cisgiordania obbligati a guadagnarsi da vivere lavorando in quelle colonie a causa dello sviluppo agricolo ed economico degli insediamenti. Ma quelle storie di palestinesi sono state per lo più ignorate, e quel che è peggio i lavoratori sono stati etichettati dai loro connazionali come “traditori” o “parte del problema”.

Invece il libro di Matthew Vickery offre indicazioni in merito alla loro vita quotidiana, alle principali difficoltà che devono affrontare, a come i coloni li trattano e alle loro condizioni di vita. In quanto giornalista, Vickery sceglie una narrazione non accademica per far entrare il lettore nelle storie dei lavoratori palestinesi. Ha realizzato una serie di interviste con lavoratori palestinesi in Cisgiordania ed ha utilizzato queste interviste come base per il suo libro. Poiché credono che quello che fanno sia sbagliato, lavorare per la gente che sta rubando la loro terra è diventata una vergogna per loro e non ne parlano facilmente.

Il libro di Vickery è diviso in due parti principali, in cui intende mostrare come i coloni abbiano dato lavoro ai palestinesi e come il loro impiego diventi sfruttamento. Nella prima parte il lettore viene introdotto alle varie discussioni riguardo allo status giuridico ed ai sentimenti dei palestinesi che lavorano nelle colonie – vergogna, disperazione, umiliazione ed alienazione. Vickery evidenzia soprattutto le cattive condizioni di lavoro, come il fatto di essere pagati sotto il salario minimo e lo status giuridico dei palestinesi. In base alla legge israeliana, ogni lavoratore nelle colonie ha diritto a un minimo di 214,62 shekel (circa 50 €) al giorno. Ma i palestinesi che non possono avere dalla polizia israeliana un permesso di lavoro sono pagati 140 shekel (circa 33 €) e anche meno.

Lo status giuridico dei palestinesi che lavorano nelle colonie è in realtà incerto. Secondo Vickery la loro condizione dovrebbe essere equiparata a quella dei lavoratori all’interno di Israele nel 2007. Tuttavia ciò non è mai stato applicato. Egli fornisce un interessante aneddoto dall’interno di una commissione della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] nel 2013: “Il ministero dell’Economia ha detto che, quando si tratta di salute e controlli sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, non svolge alcuna attività nelle colonie perché non sa quali leggi applicare.”

Vickery dedica un capitolo ai mediatori di queste questioni di lavoro. I palestinesi vengono assunti attraverso caporali che fanno da intermediari tra i coloni e la forza lavoro palestinese. L’autore non evita di descrivere questi caporali palestinesi come strumenti per sfruttare la manodopera palestinese facendo riferimento a un’altra fonte: “Gli intermediari sono aggressivi, motivati dal denaro e non hanno nessun problema nello sfruttare i loro stessi connazionali.”

Con i dati da fonti affidabili utilizzati nella seconda sezione è ben descritto come Israele sfrutta la manodopera palestinese controllando la popolazione, realizzando colonie ebraiche e limitando gli investimenti palestinesi in Cisgiordania. L’autore pone il lettore nella prospettiva economica dell’occupazione. La segregazione nel mercato del lavoro e lo strangolamento dell’economia palestinese diventano lo strumento principale per controllare i palestinesi e non lasciar loro altre possibilità se non lavorare nelle colonie come operai di serie B. Dato che l’argomento riguarda soprattutto i “lavoratori”, l’autore evidenzia l’impostazione marxista e ne mette alla prova l’ideologia. Utilizza il [concetto di] “esercito industriale di riserva” per confrontare questa nozione con la situazione dei lavoratori palestinesi e scopre che la definizione marxista non è sufficiente per descrivere il rapporto tra lavoratori palestinesi e coloni ebrei capitalisti.

È evidente che la classe operaia israeliana e quella palestinese non sono la stessa cosa, divise semplicemente dallo sfruttamento capitalista. L’importanza di comprenderlo è che risulta possibile ridefinire e utilizzare i concetti marxisti riguardo ad Israele e all’occupazione dei territori palestinesi.” Vickery sostiene anche che i palestinesi che vivono nell’Area C della Cisgiordania [in base agli accordi di Oslo, sotto totale controllo temporaneo di Israele, ndtr.], sottoposti all’occupazione israeliana, sono in realtà lavoratori forzati. L’autore cita un certo numero di fonti che definiscono il lavoro forzato e sostiene che i palestinesi sono in realtà indirettamente lavoratori forzati a causa del fatto di non avere alternative.

Nella grande maggioranza dei casi i lavoratori palestinesi delle colonie in Cisgiordania non sono liberi nella scelta dell’impiego. Sono stati di fatto integrati nel settore attraverso politiche del governo israeliano riguardo ai lavoratori palestinesi, al regime dei permessi, al controllo del mercato e dell’economia palestinesi e alle restrizioni nella libertà di movimento all’interno della Cisgiordania.” scrive Vickery.

Le storie dei lavoratori palestinesi nelle colonie sono veramente molto tristi e non rare per la società palestinese in generale. Le persone sono in realtà abbandonate dalla loro amministrazione, dal loro popolo, dall’attenzione internazionale e lasciate nelle mani del loro aguzzino. Sono davvero, come afferma uno dei titoli dei capitoli del libro, i “miserabili della Terra Santa.” Questo saggio sarà una buona lettura per quanti sono curiosi riguardo la situazione dei lavoratori in Cisgiordania e a come i coloni, in quanto datori di lavoro, trattano i loro dipendenti palestinesi. Forse i lettori possono trovare storie simili a quelle dei palestinesi nei lavoratori in altre parti del mondo. Forse questa occupazione non è stata architettata attraverso la potenza dell’esercito e dei rapporti diplomatici ma del capitale. Chi lo sa?

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gaza è il terreno per testare l’industria bellica israeliana

Nabil Salem

26 settembre 2018, Middle East Monitor

Ogni giorno il governo di Israele ci presenta ulteriori prove del fatto che rappresenta e adotta un approccio aggressivo che non si preoccupa della pace, né è disposto a rispettare le leggi e le convenzioni internazionali. Fornisce anche prove del fatto che scatena guerre per il gusto di farle e per soddisfare il suo sfrenato desiderio di aggressione ed espansione, al servizio dei suoi criminali obiettivi contro gli arabi in generale e il popolo palestinese in particolare.

Benché i dirigenti israeliani abbiano generalmente nascosto gli obiettivi delle loro violente guerre sotto vari pretesti, come azioni preventive e con altre giustificazioni che cercano di proporre al mondo, è degno di nota che, nonostante le loro varie denominazioni operative, queste guerre non siano altro che quello che Israele sta facendo o pensando in merito. Ci sono guerre per altre ragioni che dimostrano la decadenza morale della classe dirigente israeliana e il livello di criminalità e di brutalità a cui è arrivata.

In un articolo dello scrittore israeliano Rogel Alpher su Haaretz, egli spiega perché Israele potrebbe scatenare un’altra guerra contro la gente di Gaza. Mentre lo Stato occupante cerca sempre di giustificare le sue aggressioni come “autodifesa”, Alpher rivela che una nuova guerra è necessaria in modo che l’industria bellica israeliana e l’esercito possano testare sul campo nuove armi e munizioni contro cavie vive. Ciò è disgustoso. Benché egli menzioni anche che tra le ragioni che potrebbero portare Israele alla guerra ci siano dispute interne e le imminenti elezioni, il fatto che si possa persino parlare di testare nuovi armamenti in questo modo è in sé criminale e potenzialmente una flagrante violazione di ogni moralità e di leggi e convenzioni internazionali. Ciò riconferma anche quello che è stato rivelato dal regista israeliano Yotam Feldman nel suo film del 2013, “The lab” [Il laboratorio], per cui non si tratta di qualcosa di veramente nuovo.

Se prendiamo in considerazione l’ingiusto assedio imposto dall’occupazione israeliana su più di due milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza, che ha trasformato l’enclave nella più grande prigione del mondo, il collaudo di armamenti israeliani nel territorio aggiunge una nuova e vergognosa dimensione ai continui crimini contro il popolo palestinese. Possiamo anche aggiungere l’uso per parecchi anni di armi vietate a livello internazionale da parte di Israele.

Sarebbe necessario molto tempo e molta fatica per elencare tutti i crimini commessi dagli israeliani contro i palestinesi da prima del 1948 [data della nascita dello Stato di Israele, ndtr.] fino ad oggi. Lo stesso Stato di Israele venne fondato su massacri di civili palestinesi da parte delle bande terroristiche sioniste. Da allora sono stati commessi crimini incalcolabili, compresi omicidi extragiudiziari, deportazioni, detenzioni arbitrarie, l’assedio e altre restrizioni ingiustificabili al movimento, colonie illegali e politiche e pratiche discriminatorie, comprese leggi apertamente razziste.

Non c’è bisogno di dire che Israele non sarebbe mai stato in grado di commettere tutti questi crimini senza l’appoggio illimitato e incondizionato di molti poteri coloniali, soprattutto degli USA, e il deliberato disprezzo per l’opinione pubblica e le leggi internazionali. Sfortunatamente sembra che tali limiti giuridici vengano usati unicamente quando fa comodo ai vincitori della Seconda Guerra Mondiale e ad altri poteri nucleari. Essi non hanno intenzione di ristabilire i diritti dei popoli oppressi, ma di giustificare la persecuzione o l’ingiustizia in base a falsi slogan e pretesti.

Di conseguenza è logico dire che Israele non smetterà di commettere i suoi crimini, ma li incrementerà finché non ci sarà una potenza araba pronta a bloccarli o una seria volontà di contenere e limitare il suo ruolo criminale nella nostra regione. Lo Stato coloniale non solo minaccia la pace e la sicurezza in Medio Oriente, ma anche quella in tutto il mondo. Il fatto di testare i suoi armamenti su obiettivi viventi nella Striscia di Gaza assediata è una chiara dimostrazione del fatto che Israele non si fermerà davanti a niente per raggiungere i propri scopi ed obiettivi.

Questo articolo è comparso per la prima volta in arabo sul “Palestinian Information Centre” [agenzia di notizie considerata vicina ad Hamas, ndtr.] il 26 settembre 2018.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Come i tribunali spagnoli diventano terreno di scontro per i tentativi di Israele contro il BDS

Rebecca Stead

22 settembre 2018,Middle East Monitor

Il 4 settembre una corte distrettuale spagnola ha annullato una mozione di appoggio al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS). La risoluzione era stata portata avanti dal consiglio comunale di Ayamonte, una piccola città sul confine con il Portogallo e chiedeva il bando di ogni rapporto con imprese o organizzazioni israeliane.

A fine agosto due Comuni spagnoli, Villarrobledo e Sagunto, hanno revocato il sostegno al BDS pochi mesi dopo aver dichiarato le loro città “spazio libero dall’apartheid israeliano.” Sono solo due di circa 60 città e cittadine spagnole che hanno manifestato il proprio appoggio al movimento BDS negli ultimi due anni. Tra queste Valencia – la terza città più grande della Spagna – che si è unita al BDS facendo riferimento alle atrocità commesse da Israele contro i palestinesi che all’inizio di quest’anno hanno partecipato alla “Grande Marcia del Ritorno” nella Striscia di Gaza assediata.

Quindi, perché questo voltafaccia? Un filo rosso che unisce i tre casi succitati è ACOM, o “Acción y Comunicación sobre Oriente Medio” (Azione e Comunicazione sul Medio Oriente). ACOM si definisce un’“organizzazione a-confessionale e indipendente che intende intensificare i rapporti politici tra la Spagna e Israele lavorando con i governi, i partiti politici, i media e la società civile.” Eppure, lungi dall’agire come un’organizzazione indipendente, ACOM è stata in prima fila nei tentativi di Israele per contrastare l’appoggio al BDS, coinvolgendo nel farlo i tribunali spagnoli in un braccio di ferro.

Nel caso di Ayamonte, ACOM ha presentato una causa legale presso il tribunale distrettuale perché la risoluzione BDS del consiglio comunale venisse annullata. Villarrobledo e Sagunto sono state minacciate di azioni legali se non avessero rinunciato al loro appoggio al movimento di boicottaggio. Parlando di Sagunto, il presidente di ACOM Ángel Mas ha detto che “continueremo a impedire al movimento estremista BDS di infiltrarsi nelle istituzioni di tutti i cittadini spagnoli e di distruggere la natura democratica, pluralistica ed aperta delle nostre istituzioni.” Secondo “Times of Israel” [giornale indipendente israeliano in inglese, ndtr.] utilizzando questa strategia ACOM ha bloccato almeno 26 iniziative di consigli locali e Comuni spagnoli per promuovere una posizione a favore del BDS. Il “Jerusalem Post” [giornale di destra israeliano, ndtr.] stima che questo numero potrebbe salire a 35.

ACOM non fa nessun tentativo di nascondere il proprio progetto filo-israeliano. Il suo sito web propone di “smontare il razzismo del BDS” e cita uno strano miscuglio di “fatti su Israele”, compreso che il 20% della popolazione di Israele è araba e che non c’è stato nessun riconoscimento da parte di Hamas del diritto all’esistenza di Israele. Se si possono trarre conclusioni su un’organizzazione in base agli amici che ha, i suoi stretti legami con l’ “Anti-Defamation League” [Lega contro la Diffamazione, organizzazione della lobby filoisraeliana, ndtr.] negli USA, il “Palestine Media Watch” [Osservatorio dei Media Palestinesi] (PMW), una ONG con sede in Israele che controlla gli “incitamenti alla violenza” da parte dei mezzi di comunicazione palestinesi, e “Ong Monitor”, un gruppo con sede a Gerusalemme noto per criticare con veemenza solo le Ong di sinistra e filo-palestinesi, la dicono lunga sul programma di ACOM.

L’organizzazione ha anche stretti rapporti con il sistema politico israeliano. Nel 2017 il membro del parlamento israeliano Yair Lapid, del partito “Yesh Atid” [partito di centro, all’opposizione, ndtr.] si è unito ad una delegazione di ACOM e di “Ong Monitor” presso il parlamento spagnolo per presentare un rapporto congiunto su Ong che “portano avanti campagne politiche ostili ad Israele.” Lapid è stato a lungo in rapporto con la politica di colonizzazione del governo israeliano, e nel luglio 2017 ha partecipato a una cerimonia nella colonia illegale di Netiv HaAvot, a sud di Betlemme, persino dopo che la Corte Suprema israeliana aveva ordinato la demolizione dell’avamposto e l’evacuazione dei suoi abitanti illegali. Nel maggio 2018 Lapid ha affermato che, in base al futuro “Accordo del Secolo” del presidente USA Donald Trump, la cittadina di Abu Dis sostituirà Gerusalemme come capitale di un futuro Stato palestinese.

Questi legami con le Ong di destra e con l’elite politica israeliana hanno collocato ACOM in prima linea nella guerra di Israele contro il BDS. Sul piano interno, la spinta ha portato Israele a vietare a vari attivisti del BDS, compresa Ana Sanchez Mera, che sarebbe affiliata al Comitato Nazionale [palestinese] del BDS (BNC) e attiva nelle iniziative del BDS spagnolo, l’ingresso nel Paese. Eppure che quest’ultima battaglia si stia giocando nei tribunali spagnoli, un luogo a dir poco improbabile, dimostra che questo braccio di ferro va ben oltre i confini dello Stato ebraico. In questo modo i tribunali spagnoli sono diventati sotto molti aspetti un microcosmo di una più ampia lotta per l’opinione pubblica, una guerra per le pubbliche relazioni combattuta in un mondo torbido di Ong e di programmi solo parzialmente occulti.

Eppure nel marzo 2018 al presidente di ACOM Ángel Mas è stato dato un assaggio della sua stessa medicina. Il “Comitato di Solidarietà con la Causa Araba”, una Ong che riceve finanziamenti da molti Comuni spagnoli, ha presentato una denuncia di 70 pagine contro Mas. L’iniziativa ha rappresentato la prima volta che un ente filo-israeliano è stato chiamato in tribunale in Spagna per le sue attività. Mas ha detto di essere “sorpreso e contrariato” per la decisione del giudice di esaminare la denuncia, definendo la mossa “un tentativo futile di abusare del sistema giudiziario spagnolo con la propaganda.” Mas ha aggiunto: “Avendo subito durissime sconfitte in tribunale, il movimento BDS spagnolo sta cambiando metodi. Sta prendendo di mira singoli individui con una campagna di menzogne (…) Non avrà successo.”

Questi costanti andirivieni giuridici non mostrano alcun segno di diminuzione. Proprio questa settimana ACOM ha pubblicato un comunicato stampa vantandosi di un’azione legale pendente contro il consiglio comunale di Pamplona, nel nord della Spagna. La denuncia lo accusa di discriminazione contro israeliani ed ebrei spagnoli per la mancata istituzione di una piattaforma di rappresentanti israeliani e per l’appoggio al boicottaggio militare [di Israele], due punti fondamentali del movimento BDS. Con questi precedenti, i tentativi di ACOM e, per estensione, di Israele per distruggere la campagna di boicottaggio in Spagna hanno sempre più spinta e forza. Benché movimenti filo-BDS come CSAC abbiano iniziato a giocare lo stesso gioco di ACOM, questi tentativi rimangono ancora indietro sia per quantità che per impatto. Se il BDS desidera conservare slancio e influenza, dovrà mettere più forza in questo prolungato braccio di ferro.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Israele escogita l’ “assicurazione BDS” per proteggere ‘Eurovisione’

Asa Winstanley

17 agosto 2018 , Middle East Monitor

Non c’è forse miglior barometro per misurare fin dove Israele può arrivare nel diffamare, attaccare e sabotare il movimento internazionale per i diritti dei palestinesi del suo atteggiamento verso il BDS.

Ricordiamoci che il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni non è altro che un tentativo di rendere Israele responsabile in base ai principi del diritto internazionale e ai fondamentali diritti umani, laddove i governi nazionali per decenni hanno rifiutato di farlo.

Il BDS invita ad un boicottaggio totale di Israele fino a quando non concederà i tre principali diritti umani dei palestinesi, che sta attualmente violando: libertà, eguaglianza e [diritto al] ritorno.

I palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza (insieme ai siriani delle Alture del Golan) vivono sotto un’occupazione militare illegale, che entra ora nel 52mo anno. Perciò i palestinesi chiedono libertà.

I palestinesi cittadini di Israele – mentre godono di alcuni simbolici diritti civili – non hanno eguaglianza, essendoci più di 65 leggi (e continuano ad aumentare) che li discriminano per la colpa di non essere ebrei. Perciò i palestinesi chiedono eguaglianza.

E i rifugiati palestinesi in tutto il mondo vivono in campi profughi dispersi e ormai consolidati, privati della loro patria dopo che i loro avi sono stati espulsi con i fucili puntati dalle milizie sioniste che hanno costituito l’esercito israeliano. A differenza che in ogni altro conflitto nel mondo, sono privati del loro diritto fondamentale (sia in base al diritto internazionale che ai principi etici basilari) di tornare nella loro patria. Perciò i palestinesi chiedono il diritto al ritorno.

Queste tre richieste sono riportate nell’appello del BDS del 2005, il documento fondativo del movimento, che è promosso dalla totalità della società civile palestinese.

I diritti umani basati sul diritto internazionale non sono merce di scambio da barattare con la pretesa di essere “ragionevoli” o “realisti”. I diritti dei palestinesi, come i diritti di tutti gli esseri umani, sono inalienabili e non possono essere ceduti da nessun traditore o leader politico di alcuna fazione.

Il movimento BDS ha messo Israele sulla difensiva.

C’è tutto un “ministero” del governo ora dedicato solamente a combattere il BDS – in ciò che definisce una “guerra”. Utilizzando il comune eufemismo israeliano per assassinio, il ministro spia di Israele Yisrael Katz nel 2016 ha minacciato “l’eliminazione civile” del cofondatore del movimento BDS Omar Barghouti. L’anno seguente Barghouti ha ricevuto il divieto di viaggiare ed è stato vittima di una causa legale per un’“evasione fiscale” inventata ad arte.

Questo cosiddetto ministero – il ministero degli Affari Strategici – è diventato in effetti un nuovo ramo delle agenzie di spionaggio israeliane. È guidato dall’ex ufficiale di alto rango dell’intelligence militare Sima Vaknin-Gil, e la maggior parte del suo staff proviene da diverse agenzie di spionaggio israeliane.

È impegnato non solo nel “monitoraggio” del movimento globale BDS, ma in attività di sabotaggio. Il giornalista veterano dell’intelligence israeliana Yossi Melman le ha definite “operazioni segrete”.

La natura globale di questa minaccia significa che Israele è impegnato in attività sovversive in territorio straniero, incluso il Regno Unito, molto probabilmente in violazione delle leggi locali.

Israele interferisce apertamente nei sistemi elettorali degli Stati Uniti e del Regno Unito ad un livello che supera di gran lunga qualunque cosa di cui la Russia sia mai stata accusata, per non parlare dell’ attendibilità dimostrata.

La campagna segreta di sabotaggio ha diversi fronti, compreso il partito Laburista di Jeremy Corbyn, ma l’obiettivo principale nel mondo è il movimento BDS. A differenza di precedenti “minacce strategiche” al sistema israeliano di razzismo e occupazione, il ministero degli Affari Strategici comprende che il BDS non ha un’unica leadership che possa essere “decapitata”, come è stato con i molti leader palestinesi – sia della lotta armata che di quella senza armi – che ha assassinato in passato.

Perciò si impegna invece in una campagna di sabotaggio ad ampio raggio, che prende di mira questo movimento globale guidato dai palestinesi.

Il fatto che il governo sembra aver escogitato una sorta di “assicurazione BDS” per proteggere il programmato festival musicale “Eurovisione”, che dovrebbe svolgersi in Israele il prossimo anno è un sintomo piuttosto divertente di quanto gli strateghi israeliani temano il movimento BDS.

A giugno gli attivisti BDS contro l’ “Eurovisione” [gara canora internazionale, che si svolge nel Paese vincitore dell’edizione precedente, nel 2018 Israele, ndtr.] israeliana hanno rivendicato la loro prima vittoria. Avendo clamorosamente politicizzato la competizione, la ministra della Cultura di Israele (ed ultra razzista) Miri Regev è stata costretta ad un’umiliante marcia indietro.

Regev aveva sostenuto che “Eurovisione” dovesse svolgersi a Gerusalemme, o non tenersi affatto. Ha preso questa posizione nel tentativo di accrescere la legittimità dell’illegittima pretesa di Israele che Gerusalemme sia la sua capitale.

Il problema ovviamente è che, nonostante il molto controverso spostamento da parte di Trump dell’ambasciata USA nella città all’inizio di quest’anno, nessun Paese europeo riconosce la pretesa di Israele e per tal motivo tutti mantengono le proprie ambasciate a Tel Aviv.

La stampa israeliana ha riferito che lei ha dovuto fare marcia indietro a causa della reazione negativa e che Tel Aviv viene ora considerata come la sede del pacchiano festival pop. Gli attivisti BDS hanno invitato a mantenere alta la pressione finché esso non venga definitivamente annullato.

Anche se nel passato gli artefici della propaganda israeliana hanno cercato di mostrare pubblicamente di ignorare il BDS e ridurlo ad un elemento irrilevante, quel tempo è molto lontano.

Questa “assicurazione BDS” è un segnale di quanto grave sia considerata la minaccia del BDS all’occupazione israeliana. Questa settimana il quotidiano di Tel Aviv Haaretz ha riferito che l’emittente pubblica è in trattativa con il ministero israeliano delle Finanze sui termini di un massiccio prestito di 13,5 milioni di dollari per coprire i costi dello svolgimento del festival.

Secondo il quotidiano, “il ministero delle Finanze si impegnerebbe a coprire l’ammontare del prestito se il festival alla fine non si tenesse in Israele, a causa di circostanze attenuanti come un terremoto, una guerra o un boicottaggio organizzato dal BDS, Movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni.”

A quanto pare le condizioni finali non sono state ancora concordate, ma questo genere di “assicurazione BDS” è probabilmente un segnale di come andranno le cose.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Un ‘tradimento nazionale’ da parte di Fatah…o di Hamas?

Ramona Wadi

16 agosto 2018, Middle East Monitor


Ieri, quando è entrato in vigore il cessate il fuoco tra Hamas e Israele, mediato dall’ONU e dall’Egitto, Ramallah è sbottata in una litania di furibondi commenti. L’ importante dirigente di Fatah Azzam Al-Ahmad è stato così citato dall’agenzia di informazioni Wafa: “La tregua tra Hamas e Israele di alcuni giorni fa è un tradimento del popolo palestinese e della sua causa nazionale.” La dirigenza palestinese, ha dichiarato, “non ha tempo per simili inutili pagliacciate.”

Il cessate il fuoco è soltanto un cessate il fuoco. La retorica ostile di Israele prosegue, in particolare da parte del ministro della Difesa Avigdor Lieberman, che ha ribadito che è imminente una nuova ripresa di violenze contro Gaza. Se si eliminano le sottigliezze diplomatiche, come occorrerebbe fare per ridurre la confusione riguardo alle intenzioni, è chiaro che né Hamas né Israele hanno concordato nulla che sia fuori dall’ordinario. Hamas ha solo chiesto l’adempimento delle condizioni che hanno portato alla conclusione dell’operazione “Margine Protettivo” nel 2014. Questo non è un tradimento nazionale, e neppure una pagliacciata, come sostenuto da Al-Ahmad. È una dimostrazione di quanto Hamas continui ad incontrare vincoli sia nella resistenza che nella diplomazia. Parte della colpa ricade sull’Autorità Nazionale Palestinese e sulla sua disponibilità ad appoggiare la pregiudizievole posizione internazionale che mira alla completa colonizzazione della Palestina.

Il tradimento nazionale di cui i dirigenti di Fatah dovrebbero parlare è, senza dubbio, l’accettazione degli Accordi di Oslo, che si sono dimostrati una grottesca pagliacciata per i palestinesi – per dirla in sintesi, un bagno di sangue che ha lacerato la terra e il popolo attraverso i compromessi su Gerusalemme, l’espansione delle colonie, il coordinamento sulla sicurezza con Israele, il mercanteggiamento sui prigionieri palestinesi, lo sfruttamento della resilienza e resistenza palestinese, il trascurare l’importanza del diritto al ritorno dei palestinesi e la collaborazione con la comunità internazionale nel mantenere la retorica compromissoria dei due Stati e spogliare i palestinesi del loro diritto alla Palestina storica.

Nel momento in cui Hamas si opponeva strenuamente agli Accordi di Oslo, Fatah era impegnata a celebrare il suo status compromissorio. Durante i periodi in cui Israele ha usato Gaza come terreno di sperimentazione per i suoi armamenti, l’ANP invitava i palestinesi ad abbandonare la resistenza. Quando Gaza cercava i mezzi per alleviare le proprie sofferenze dopo l’operazione “Margine Protettivo”, ed anche negli anni seguenti, l’ANP applicava la linea statunitense di costringere Hamas a rinunciare al suo governo dell’enclave. L’ANP ha anche accettato e contribuito alla frammentazione dell’identità palestinese tra Gaza e la Cisgiordania occupata, contrapponendo la resistenza armata a quella nonviolenta come prerogative di differenti entità, piuttosto che come strumenti complementari attraverso cui i palestinesi possono costruire la propria lotta anticoloniale.

Se Fatah può criticare Hamas riguardo ad un frettoloso accordo, non è forse tempo che l’ANP si guardi allo specchio e si faccia un’autocritica per aver accettato le condizioni che hanno lasciato i palestinesi senza opzioni politiche? I palestinesi non si fanno illusioni sulla sostanza dell’accordo. L’impegno del popolo palestinese alla resistenza rimane intatto. Perché Hamas sia accusato di tradimento nazionale, deve abbassarsi alle tattiche utilizzate dall’ANP. Se questo accadesse, sarà il popolo palestinese a parlare di tradimento nazionale. Non dimentichiamo che i palestinesi già sanno che cosa sia un tradimento nazionale – gli Accordi di Oslo e le loro conseguenze coloniali.

Suona ironico che Fatah dica di non avere tempo per “inutili pagliacciate”, quando la sua struttura non è altro che una gerarchia di patetici intrattenitori.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La crisi dell’UNRWA ha sia conseguenze che soluzioni

Essam Yousef

10 agosto 2018, Middle East Monitor

Dalla sua nascita nel 1949 la United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East [Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente] (UNRWA) è stata sul punto di andare in pezzi ad ogni momento a causa del suo legame con fattori politici, giuridici e umanitari relativi alla causa palestinese. La situazione politica ha spianato la strada affinché giocasse il ruolo di “carta di pressione politica”, non da ultimo perché riguarda direttamente le vite dei rifugiati del problema più complicato nella storia contemporanea.

L’agenzia è stata fondata in base alla risoluzione 302 dell’Assemblea Generale dell’ONU, connessa alla risoluzione 194 approvata un anno prima, relativa al diritto al ritorno dei profughi palestinesi alla loro terra. Quest’ultima risoluzione ha aggiunto una dimensione politica alla decisione di fondare l’UNRWA, soprattutto nei termini di un contributo positivo al ritorno dei rifugiati alle loro case, da cui erano stati espulsi con la forza – qualcuno l’ha chiamata una “pulizia etnica” – dalla creazione dello Stato di Israele.

Tra le raccomandazioni dell’Assemblea Generale dell’ONU c’era l’incarico all’UNRWA di dare assistenza ai rifugiati finché si fosse trovata una soluzione permanente alla loro causa. Questo appoggio includeva programmi di aiuto per educazione e salute, opportunità di lavoro, programmi di assistenza e servizi sociali.

Riguardo alle questioni politiche e giuridiche, l’Assemblea Generale ha affrontato periodicamente il problema dei rifugiati palestinesi come punto all’ordine del giorno. Inoltre ha frequentemente ripetuto e riconosciuto “l’inalienabile diritto dei rifugiati a tornare alle proprie case e al risarcimento per le proprietà perse a causa dell’occupazione e dell’espulsione.” Tuttavia la mancanza di ogni volontà internazionale di obbligare lo Stato israeliano occupante a mettere in pratica le condizioni delle risoluzioni dell’ONU ha fatto sì che sia tuttora un problema in sospeso in attesa di essere risolto, nonostante il fatto che la stessa adesione di Israele all’ONU fosse e rimanga condizionata al fatto di consentire ai rifugiati il ritorno alle proprie case.

Le condizioni in base alle quali l’agenzia è stata creata e i suoi limiti – dovuti al fatto che il suo finanziamento è quasi totalmente dipendente dalle donazioni volontarie da parte degli Stati membri dell’ONU, per la maggior parte dagli USA e dall’Europa, seguiti dai Paesi del Golfo come l’Arabia saudita – rendono più facile capire l’attuale riduzione dei servizi dell’UNRWA per i rifugiati. Le donazioni possono essere – e pare siano – negate per ragioni politiche, il che rende la vita ancora più difficile a milioni di rifugiati palestinesi che dipendono dall’UNRWA in Cisgiordania e nella Striscia Gaza occupate, in Giordania, in Siria e in Libano.

L’ONU non solo delibera e poi emana risoluzioni, ma controlla anche i meccanismi necessari per la loro messa in pratica tranne, a quanto pare, quando queste decisioni sono a favore del popolo palestinese e dei suoi legittimi diritti, compreso quello al ritorno. Ciò non a causa dell’egemonia militare di Israele in Medio Oriente. È molto più importante il fatto che il suo principale benefattore e protettore, gli USA, sia anche il principale Stato che muove i fili all’ONU, dove esercita un grado di influenza sproporzionato. L’America e i suoi alleati sono i veri garanti nel mantenere l’esistenza, l’espansione coloniale e la sicurezza di Israele.

Perché, allora, l’ONU ha creato l’UNRWA e continua così da decenni, se non ha mai avuto nessuna concreta intenzione o capacità di far tornare i rifugiati palestinesi alla loro terra, e quindi di porre fine alla necessità fondamentale dell’esistenza dell’agenzia? Credo che i Paesi occidentali, il cui senso di colpa dopo l’Olocausto porta a far finta di niente riguardo al disprezzo di Israele per leggi e convenzioni internazionali, temano anche lo scandalo che li sommergerebbe se i rifugiati palestinesi fossero lasciati a cavarsela da soli nei Paesi che li ospitano, per i quali rappresentano già un grave peso. Questo peso si accrescerebbe in modo notevolissimo se non ci fosse l’UNRWA a fornire una rete di protezione economica, medica ed educativa. In parte questo spiega anche perché l’Occidente ha creato e finanzia l’Autorità Nazionale Palestinese – che non ha assolutamente nessuna reale autorità – come entità pseudo-nazionale che agisce a favore delle autorità occupanti e non degli stessi palestinesi.

A ciò vanno aggiunti i tentativi degli Stati che controllano l’ONU di rinviare ogni serio tentativo di risolvere il problema dei rifugiati, concedendo a Israele altro tempo per creare “fatti sul terreno” – colonie illegali su terra palestinese rubata – e quindi predeterminare l’eventuale risultato del farsesco “processo di pace”. Come diretta conseguenza di ciò, le priorità sono passate dal consentire ai rifugiati di tornare alle loro case, come loro diritto, alla ricerca di modi per integrarli nei rispettivi Paesi che li ospitano. Sono anche state ventilate delle compensazioni per la perdita del diritto al ritorno. La mancanza di potere degli arabi nella regione ha consentito alle superpotenze di controllare l’UNRWA e la sua impostazione, perché queste ultime sono importanti Paesi donatori dell’agenzia e nessun programma di aiuto umanitario per i rifugiati può essere attuato senza il loro sostegno economico. L’aiuto degli arabi e dei musulmani all’UNRWA è estremamente ridotto rispetto a quello di USA ed Europa.

Ovviamente l’UNRWA è stata creata dopo la “dichiarazione d’indipendenza” dello Stato di Israele. La risoluzione che l’ha istituita era stata ideata per rafforzare la nuova situazione e include articoli che si riferiscono a “prendere misure efficaci il prima possibile per porre fine all’aiuto internazionale”. Ciò è risultato evidente dalle politiche che ha adottato, compreso il fatto di destinare la maggior parte del bilancio all’integrazione dei rifugiati in comunità diasporiche piuttosto che a fornire loro assistenza.

Tuttavia il tracollo dei servizi dell’UNRWA, iniziato anni fa, si è di recente accentuato, dato che il principale Stato donatore, gli USA, ha tagliato i propri finanziamenti all’agenzia. Nel 2017 gli USA donavano 157 milioni di dollari al bilancio del principale programma dell’UNRWA, ma quest’anno li hanno ridotti a soli 60 milioni. Ciò ha avuto un effetto disastroso sulla crisi umanitaria che i rifugiati devono affrontare nei territori palestinesi e nei campi della diaspora.

Il disastro umanitario ha iniziato a manifestarsi già quando l’UNRWA ha annunciato di non essere in grado di accettare studenti nelle sue scuole per l’anno scolastico 2018/19 a causa della mancanza di fondi sufficienti. Ciò è stato preceduto dalla sospensione del Programma Alimentare Mondiale di aiuto alimentare a 92.000 palestinesi in condizione di povertà estrema nella Striscia di Gaza; di nuovo, questo è dovuto alla mancanza di finanziamenti sufficienti da parte della comunità internazionale.

Una delle conseguenze della difficile situazione finanziaria dell’UNRWA è stato il licenziamento all’inizio di quest’anno di decine di dipendenti che lavoravano per l’agenzia in Giordania. Gran parte del bilancio dell’UNRWA è destinato ai salari, e molti dei suoi dipendenti sono loro stessi rifugiati, per cui le loro entrate sono una parte fondamentale dell’economia dei rifugiati. La riduzione del personale in Giordania ha colpito gli addetti alle pulizie ed i custodi di scuole e centri di salute gestiti dall’UNRWA in ogni campo di rifugiati palestinesi – sono 10 – nel Regno hascemita, che è la patria “temporanea” di 2 milioni di rifugiati palestinesi registrati.

Recentemente l’agenzia ha licenziato anche 1.000 dipendenti nella Striscia di Gaza. Secondo gli stessi dati dell’UNRWA, essa si appresterebbe a licenziare altro personale se la crisi finanziaria dovesse continuare, oltre al taglio di programmi regolari come i campi estivi ed altre attività per i bambini.

Fin dall’elezione di Donald Trump a presidente, Washington ha adottato un atteggiamento estremamente ostile verso l’UNRWA. La natura dei cambiamenti riguardanti l’agenzia riflette le politiche dell’amministrazione Trump in merito ai rifugiati palestinesi e al complessivo conflitto arabo-israeliano in Medio Oriente. In generale, la nuova posizione degli USA è persino più allineata con la posizione e gli interessi di Israele di prima, mentre quest’ultimo vorrebbe che l’UNRWA venisse chiusa per cancellare del tutto i rifugiati palestinesi dall’agenda politica internazionale.

Recentemente la posizione dell’America è stata espressa esplicitamente nell’entusiasmo dell’amministrazione Trump verso Israele e il suo espansionismo colonialista a spese del popolo della Palestina e della sua causa. La questione dei rifugiati è stata tenuta ben lontana da quelli che sono stati presentati come “negoziati”, ma che in realtà sono semplicemente il fatto che ai palestinesi viene detto cosa fare, o altrimenti… In ogni caso, “o altrimenti” è in genere il risultato finale. Siamo ora nella fase in cui gli USA dicono che l’UNRWA è “dannosa per i rifugiati palestinesi e che il suo mandato è controproducente.” Davvero sorprendente.

È ingenuo fraintendere la natura della situazione che devono affrontare 5.3 milioni di rifugiati palestinesi sparsi tra Cisgiordania, Striscia di Gaza, Giordania, Siria e Libano. Hanno crescenti necessità relative alla salute, all’educazione e ad altri servizi mentre sappiamo tutti benissimo il livello dei problemi economici e di sicurezza dei Paesi ospitanti.

È difficile immaginare come centinaia di migliaia di famiglie private della rete di protezione dell’UNRWA potranno sopravvivere. Quale destino attende le decine di migliaia di dipendenti dell’UNRWA che si troveranno senza lavoro e senza fonti di reddito?

Non ho dubbi che le conseguenze politiche e di instabilità di una simile impennata di miseria e disillusione nel processo di pace siano state prese in considerazione nelle capitali regionali e in Occidente. Il Medio Oriente è già nel caos, ma può andare ancora peggio, a meno che non si faccia qualcosa per arginare i tagli ai finanziamenti dell’UNRWA. Lo spettro di un incremento dell’estremismo e del terrorismo è molto concreto, e la causa non saranno la religione o la radicalizzazione, ma la scarsa disponibilità dell’Occidente – guidato dall’America – a finanziare in modo adeguato l’UNRWA e a fare sforzi sinceri per risolvere il problema palestinese in base alla volontà espressa dalla comunità internazionale attraverso le risoluzioni dell’ONU.

I funzionari dell’UNRWA sono ben consapevoli del cupo panorama che gli si sta profilando ed hanno lanciato appelli e campagne per ridurre il deficit di bilancio dell’agenzia. Sanno più di chiunque altro – con la possibile eccezione degli stessi rifugiati – quanto sia importante che l’UNRWA sia in grado di rispettare i suoi obblighi umanitari, morali e giuridici per milioni di palestinesi. I Paesi arabi e islamici devono dimostrarsi all’altezza della situazione e prendere le misure necessarie per evitare un disastro, destinando all’UNRWA donazioni che siano al livello delle dimensioni, della complessità e della natura della crisi dei rifugiati.

Le organizzazioni umanitarie e di beneficienza nel mondo arabo e islamico possono anche giocare un ruolo chiave intervenendo nei settori in cui l’UNRWA non è in grado di portare aiuto. Possono contribuire a rafforzare la rete di sicurezza sociale nei campi profughi, soprattutto in più di 700 scuole dell’UNRWA responsabili di mezzo milione di alunni palestinesi. Anche i circa 150 importanti centri di salute possono essere sostenuti dal volontariato, così come progetti di aiuto, sistemi di micro-credito per promuovere l’economia e aiuto umanitario. Tuttavia per fare concretamente ciò i governi devono smettere di politicizzare l’aiuto umanitario ed alleggerire la pressione sugli enti di beneficienza, soprattutto quelli che operano in aree ad alto rischio, come i territori palestinesi occupati.

In pratica è necessario preparare alternative a lungo termine per la situazione di crisi economica e politica dell’UNRWA. Il progetto di una “Organizzazione Araba e Islamica”, per esempio, potrebbe essere responsabile delle questioni politiche ed amministrative dei rifugiati palestinesi, compresa l’erogazione di aiuto finanziario in ogni settore, come educazioni e salute, così come di supporto umanitario, evitando quindi che Paesi donatori controllino e politicizzino l’aiuto che forniscono ai palestinesi e ai Paesi che ospitano rifugiati.

Peraltro non dobbiamo ignorare il sostegno politico necessario a proteggere i punti fermi palestinesi, soprattutto il diritto al ritorno dei rifugiati. Dobbiamo essere in grado di sfidare gli schemi che intendono annientare la causa palestinese. Sarà una priorità di una simile “Organizzazione Araba e Islamica” essere basata sulla religione, con una fede ferma e duratura nei diritti del popolo palestinese, come il diritto al ritorno dei rifugiati ed al risarcimento, oltre ad appoggiare il loro diritto a costruire uno Stato indipendente con Gerusalemme come capitale.

Se c’è la volontà politica ciò non è irragionevole, perché il sostegno popolare sta solo aspettando che si prenda una simile iniziativa. L’UNRWA e il popolo della Palestina hanno dovuto dipendere per troppo tempo da Stati che hanno trasformato la crisi umanitaria in un rimpallo di responsabilità politica; è tempo che ciò finisca. Gli USA e i loro alleati devono smettere di giocare con la vita della gente in questo modo pernicioso; anche le vite dei palestinesi sono importanti [riferimento al movimento per i diritti degli afroamericani “Black lives matter”, ndtr.].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Uno o due stati, Israele ha il potere di manipolare il compromesso palestinese

Ramona Wadi

12 luglio 2018, middleeastmonitor.com

In seguito alla dichiarazione del 2016 del Quartetto sul Medio Oriente che ha reso obsoleto il compromesso dei due stati, la comunità internazionale, compresi i rappresentanti del Quartetto, non è riuscita a trovare altre strategie. La diplomazia internazionale ha deciso di estendere la farsa del far vedere di star lavorando per l’impossibile.

Ci sono altre narrazioni che contribuiscono a questa illusione. Da un lato, l’Autorità Nazionale Palestinese ha ripetutamente sollecitato l’attuazione del paradigma dei due stati, mettendo la leadership in linea con gli obiettivi internazionali e, contemporaneamente, in contrasto con le aspirazioni palestinesi. Nel frattempo, Israele è diventato irremovibile nel suo rifiuto di consentire lo scenario dei due stati.

Nel giro di pochi giorni, il ministro della Scienza e della Tecnologia Ofir Akunis, così come il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat, hanno confermato il loro rifiuto a prendere in considerazione l’opzione dei due stati. Come riporta Israel National News, Akunis ha sottolineato: “Durante l’era Obama e Kerry ho detto che non ci sarebbe stata una soluzione a due stati e ho orientato in tal senso l’opinione pubblica in Israele, negli Stati Uniti e in Europa”. Ha affermato che i sostenitori dei due stati cercherebbero di “distruggere l’esistenza di Israele” attraverso “l’istituzione di uno Stato palestinese terrorista “.

In un’intervista con la BBC, Barkat ha respinto l’idea dei due stati e ha proposto un sistema in cui ai palestinesi sarebbe concessa parziale autonomia, mentre Israele sarebbe rimasto “saldamente responsabile della sicurezza e della difesa”. Israele, ha aggiunto, è “l’unica democrazia – una vera democrazia in Medio Oriente.

Una parte di questa equazione viene costantemente omessa. Sia che la comunità internazionale, Israele e l’ANP parlino di uno o di due stati, il risultato finale è comunque un sistema oppressivo per i palestinesi. Questo perché la sola narrativa e il solo risultato che venga preso seriamente in considerazione è la sopravvivenza di Israele come entità coloniale. Attualmente, vi è una discrepanza per cui la soluzione dei due stati è ancora oggetto di discussione da parte della comunità internazionale, con solo l’ANP ad essere veramente interessato ad una soluzione, mentre Israele sta apertamente rifiutandola per creare prospettive di maggiore espansione coloniale.

C’è dell’ironia nel fatto che mentre Israele sta rafforzando la sua netta opposizione alla possibilità di due stati, la leadership palestinese propenda in tal senso. La persistente richiesta di negoziati da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese per creare uno stato frammentato sul territorio, del tutto privo di contiguità, ostruisce la strada all’emergere delle crescenti richieste palestinesi di uno stato decolonizzato. Quindi, la narrazione prevalente di un solo stato è quella del “Grande Israele”, e intanto l’ANP si mette contro alle richieste di decolonizzazione della gente. Sostiene anche una situazione per cui i Paesi che appoggiano la Palestina non hanno altra opzione diplomatica che sostenere strategie che possono solo contribuire all’eliminazione di ciò che rimane della terra palestinese. Ciò fa anche sì che il sostegno diplomatico internazionale alla Palestina sia sintonizzato solo con l’ANP per quel che riguarda le richieste internazionali, mentre la gente è dimenticata.

Quindi, se il compromesso dei due stati verrà alla fine completamente abbandonato, le uniche narrazioni che la comunità internazionale prenderà in considerazione saranno quelle provenienti da Israele. Dunque, proprio come l’attuale presunta soluzione è progettata per dare a Israele il maggior tempo possibile per implementare la sua espansione, qualsiasi altro paradigma futuro legittimerà semplicemente le ulteriori violazioni che Israele commette nel suo tentativo di colonizzare l’intero territorio che un tempo era la Palestina storica.

(Traduzione di Luciana Galliano)




L’”accordo del secolo” non è nuovo e la dirigenza dell’ANP non è una vittima

Ramzy Baroud

Middle East Monitor – 3 luglio 2018

L’”accordo del secolo” di Donald Trump fallirà. I palestinesi non scambieranno la loro lotta di settant’anni per la libertà con i soldi di Jared Kushner [genero di Trump e suo consigliere per il Medio oriente, ndtr.], né Israele accetterà che esista neppure uno Stato palestinese demilitarizzato in Cisgiordania.

È probabile che la sequenza di questo precoce fallimento si svolga in questo modo: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah probabilmente rifiuterà l’accordo una volta che verranno rivelati tutti i dettagli del piano dell’amministrazione USA; è probabile che Israele non sveli la sua decisione fin tanto che il rifiuto dei palestinesi verrà sfruttato a fondo dai media USA filoisraeliani.

La realtà è che, data la massiccia crescita della Destra e delle forze ultra-nazionaliste in Israele, uno Stato palestinese indipendente anche solo sull’1% della Palestina storica non sarebbe accettabile dalle attuali posizioni politiche dominanti in Israele.

C’è qualcos’altro da prendere in considerazione: la turbolenta carriera del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu come dirigente di lungo corso è messa duramente alla prova da accuse di corruzione e da una serie di inchieste di polizia. La sua posizione è troppo debole per garantire anche solo la sua sopravvivenza fino alle prossime elezioni politiche, figuriamoci per sostenere un “accordo del secolo”.

Tuttavia si prevede che il leader israeliano in difficoltà stia al gioco per conquistarsi ulteriormente i favori dei suoi alleati americani, distolga l’attenzione dell’opinione pubblica israeliana dalla sua corruzione e incolpi i palestinesi del fallimento politico che ciò sicuramente determinerà.

Si ripetono il Camp David II di Bill Clinton e la “Road Map per la Pace” di W. Bush. Entrambe le iniziative, per quanto inique per i palestinesi, non vennero mai accettate in primo luogo da Israele, eppure in molti libri di storia si è scritto che l’ingrata dirigenza palestinese silurò i tentativi di pace di USA e Israele. Netanyahu è intenzionato a mantenere questa concezione sbagliata.tan

Il leader israeliano, che ha ricevuto l’estremo regalo americano dello spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, sa quanto importante sia questo “accordo” per l’amministrazione Trump. Prima di assumere la carica di presidente, il primo novembre 2016 Trump ha parlato fin dall’inizio del suo “accordo definitivo” in un’intervista con il Wall Street Journal. Non ha esposto dettagli, oltre all’affermazione di essere in grado “di fare…l’accordo impossibile … per il bene dell’umanità.”

Da allora ci siamo basati su sporadiche indiscrezioni, a partire dal novembre 2017 fino a poco tempo fa. Abbiamo appreso che su una piccola parte della Cisgiordania verrebbe fondato uno Stato palestinese demilitarizzato, senza Gerusalemme est occupata come sua capitale; che Israele si terrebbe tutta Gerusalemme e si annetterebbe le colonie ebraiche illegali e prenderebbe persino il controllo della valle del Giordano, e via di seguito.

I palestinesi avrebbero ancora una “Gerusalemme”, anche se inventata, in cui il quartiere di Abu Dis verrebbe semplicemente chiamato “Gerusalemme”

Nonostante il clamore, niente di tutto ciò è realmente innovativo. L’”accordo del secolo” promette di essere un rimaneggiamento di precedenti proposte americane che erano al servizio di necessità ed interessi israeliani. Considerazioni del genero di Trump, Jared Kushner, in un’intervista con il giornale palestinese “Al-Quds”, confermano questa opinione. Ha sostenuto che il popolo palestinese è “meno interessato ai punti affrontati nelle discussioni politiche di quanto lo sia a cercare il modo in cui un accordo darà a loro e alle loro future generazioni nuove opportunità, più lavoro e meglio pagato.”

Dove lo abbiamo già sentito dire? Ah, sì, la cosiddetta “pace economica” di Netanyahu, che ha spacciato per oltre un decennio. Certamente l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha dimostrato che la sua volontà politica è una merce che può essere comprata e venduta, ma aspettarsi che il popolo palestinese faccia altrettanto è un’illusione senza precedenti storici.

Al contrario, l’ANP è diventata un ostacolo per la libertà palestinese. Un recente sondaggio realizzato dal “Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca” ha indicato che la maggioranza dei palestinesi attribuisce prevalentemente la colpa a Israele e all’ANP per l’assedio di Gaza, e che per lo più pensa che l’ANP sia “diventata un peso per il popolo palestinese.”

Non è affatto sorprendente che a marzo 2018 il 68% di tutti i palestinesi volesse che il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas desse le dimissioni.

Mentre a Israele va attribuita la maggior parte della colpa per la sua pluridecennale occupazione militare, le successive guerre e gli assedi letali, anche gli USA sono responsabili di appoggiare e finanziare l’impresa israeliana di colonizzazione. Tuttavia l’ANP non più giocare il ruolo della vittima indifesa.

Ciò che rende l’”accordo del secolo” particolarmente pericoloso è il fatto che non ci si può fidare dell’ANP. Ha giocato così bene e così a lungo il suo ruolo, assegnatogli da Israele e dagli USA. La politica dell’ANP è servita come braccio locale nella sottomissione dei palestinesi, ostacolandone le proteste e garantendo il fallimento di qualunque iniziativa politica che non ruotasse intorno alla glorificazione di Abbas e dei suoi scagnozzi.

Non è certo un buon risultato quando la maggior parte della politica estera dell’ANP negli ultimi anni si è occupata di garantire il totale isolamento economico e politico dell’impoverita Gaza, invece di unificare il popolo palestinese attorno a una lotta collettiva per porre fine alla terribile occupazione israeliana.

Che i funzionari dell’ANP condannino l’”accordo del secolo” come una violazione dei diritti dei palestinesi, mentre loro per primi hanno fatto poco per rispettare questi diritti, è una concreta definizione di ipocrisia. Non c’è da stupirsi che Kushner pensi che gli USA possano semplicemente comprare i palestinesi con i soldi in un “(tipo di) accordo da cambia le tue fiches, rischia tutto, prendere o lasciare”, come ha detto Robert Fisk [famoso giornalista inglese contrario alle politiche israeliane, ndtr.]

Cosa può fare ora l’ANP? È intrappolata nella sua stessa imprudenza. Da una parte, lo sponsor finanziario dell’ANP a Washington ha chiuso il rubinetto dei soldi, mentre dall’altra il popolo palestinese ha perso l’ultima briciola di rispetto verso la sua cosiddetta “dirigenza”.

L’”accordo del secolo” di Trump potrebbe inavvertitamente rimescolare le carte portando a un’“indispensabile resa dei conti per tutte le altre parti coinvolte,” ha sostenuto Anders Persson [ricercatore ed editorialista danese, ndtr.]. Una opzione a disposizione del popolo palestinese è l’espansione del modello delle mobilitazioni popolari che si è evidenziato presso la barriera tra Gaza e Israele per molte settimane.

Gli effetti negativi di USA-ANP e l’imminente disgregazione dello status quo potrebbe essere l’opportunità di cui il popolo palestinese ha bisogno per scatenare la propria forza attraverso una mobilitazione di massa e una resistenza popolare in patria, accompagnata da un ruolo attivo delle comunità palestinesi nella diaspora.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)