Un’organizzazione che si occupa di diritti umani mette in guardia che Israele sta pianificando di trasformare la moschea di Bab Al-Rahma in una sinagoga

Redazione di MEMO

26 aprile 2023 – Middle East Monitor

Quds Press ha riferito che ieri il comitato islamico-cristiano a supporto di Gerusalemme e dei suoi santuari ha segnalato che l’occupazione israeliana sta pianificando di trasformare la sala delle preghiere di Bab Al-Rahma in una sinagoga ebraica.

Bab Al-Rahma è parte del complesso della moschea di Al-Aqsa. Dalla fine del mese sacro del Ramadan è stata oggetto di ripetuti attacchi israeliani.

In una dichiarazione, il comitato ha messo in guardia da una operazione israeliana già pianificata per giudaicizzare la moschea di Al-Aqsa, sottolineando che “separare la moschea Bab Al-Rahma dall’intera area della moschea di Al-Aqsa e trasformarla in una sinagoga ebraica è parte del piano.”

Il comitato ha invitato tutti i palestinesi ad “opporsi al tentativo israeliano di chiudere la moschea di Bab Al-Rahma, a restaurarla e a riportare i fedeli al suo interno”.

Nella dichiarazione, il comitato ha precisato che “ogni tentativo di cambiare lo status quo avrà conseguenze disastrose di cui sarà incolpata l’occupazione israeliana”.

Lunedì le forze di occupazione israeliane hanno fatto irruzione a Bab Al-Rahma e per la seconda volta in cinque giorni hanno interrotto la fornitura elettrica.

L’agenzia di notizie Wafa ha affermato che esse hanno arrestato due uomini palestinesi e una donna turca che stavano pregando all’interno e hanno chiesto ai guardiani della moschea di Al-Aqsa di non riparare la rete elettrica. La signora turca è stata rilasciata il giorno successivo.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La rivista Foreign Affairs conferma i fatti riguardanti l’apartheid israeliano e la supremazia ebraica

Nasim Ahmed

17 aprile 2023 – Middle East Monitor

La scorsa settimana la notevole velocità con cui il termine “apartheid” è passato dai margini al centro del dibattito israeliano-palestinese è apparsa evidente. La prestigiosa rivista statunitense Foreign Affairs, unanimemente considerata una delle più influenti riguardo alla politica internazionale e che plasma il pensiero di Washington, ha aggiunto il proprio peso a favore dell’affermazione secondo cui Israele ha imposto un regime di apartheid che discrimina sistematicamente i non-ebrei.

In un articolo intitolato “La realtà israeliana di uno Stato unico” gli autori Michael Barnett, Nathan Brown, Marc Lynch e Shibley Telhami evidenziano il cambiamento epocale in corso oggi nei circoli che guidano la politica. Descrivendo la situazione in Palestina e come Israele sia arrivato a praticare l’apartheid, affermano che quello che una volta era “indicibile” ora è “innegabile”.

Una soluzione a Stato unico non è un’eventualità del futuro, esiste già indipendentemente da quello che chiunque possa pensare,” affermano gli autori, tutti studiosi di Medio Oriente. “Tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano un solo Stato controlla l’ingresso e l’uscita di persone e cose, supervisiona la sicurezza e ha la capacità di imporre le proprie decisioni, leggi e politiche su milioni di persone senza il loro consenso.”

Israele, sostengono gli autori, “ha imposto un sistema di supremazia ebraica, in cui i non-ebrei sono strutturalmente discriminati o esclusi, in uno schema caratterizzato da più livelli: alcuni non-ebrei hanno molti, ma non tutti, i diritti degli ebrei, mentre la maggioranza dei non-ebrei vive soggetto a una dura segregazione, separazione e dominazione.” Significativamente essi affermano che questa situazione è “ovvia” per chiunque vi abbia prestato attenzione. Per varie ragioni Washington e i sostenitori di Israele hanno preferito mettere la testa nella sabbia e calunniare come antisemita chiunque abbia indicato la verità riguardo al sistema di apartheid israeliano. “Fino a poco tempo fa la situazione di uno Stato unico raramente era riconosciuta da attori importanti, e quanti dicevano la verità a voce alta sono stati ignorati o puniti per averlo fatto,” evidenzia l’articolo. “Tuttavia, con una notevole rapidità, l’indicibile si è notevolmente avvicinato al senso comune.”

Chiunque segua da vicino il dibattito sull’apartheid israeliano sarà a conoscenza di molti dei punti evidenziati dagli autori. Dal 2021 importanti organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, B’Tselem e molte altre hanno utilizzato il termine per descrivere Israele. Così hanno fatto molti accademici: secondo un recente sondaggio su studiosi del Medio Oriente membri di tre grandi associazioni accademiche, il 65% di quanti hanno risposto ha descritto la situazione in Israele e nei territori palestinesi come la “realtà di uno Stato unico con diseguaglianze simili all’apartheid.”

Oltre a ripetere fatti ben noti riguardo a come Israele ha creato un regime di supremazia ebraica, l’articolo di Foreign Affairs si distingue per l’enfasi sulle responsabilità di Washington e di altre potenze straniere per aver consentito la creazione di un regime di apartheid. Secondo gli autori, i principali alleati di Israele sono responsabili di un “pensiero magico”. Per decenni soprattutto gli USA hanno difeso l’appoggio a Israele sulla base di una pia illusione, credendo che Israele condividesse gli stessi valori dell’Occidente. “Gli Stati Uniti non hanno ‘valori condivisi’ e non dovrebbero avere ‘legami inscindibili’ con uno Stato che discrimina o prevarica su milioni di abitanti in base alla loro etnia e religione.” Gli autori sostengono che è difficile tenere insieme l’impegno nei confronti del liberalismo con l’appoggio a uno Stato che offre i benefici della democrazia agli ebrei, ma li toglie esplicitamente alla maggioranza dei suoi abitanti non-ebrei.

Mentre è diventato di moda accusare il primo ministro Benjamin Netanyahu dello spostamento di Israele verso l’apartheid, si sostiene che l’attuale situazione che garantisce la supremazia ebraica sulla Palestina storica è fortemente radicata nel pensiero e nella pratica sionista. Iniziò a conquistarsi sostenitori poco dopo l’occupazione israeliana dei territori palestinesi nel 1967. Gli autori affermano che, benché non sia ancora una “visione egemonica”, essa può essere plausibilmente descritta come condivisa dalla maggioranza della società israeliana e non più essere definita una posizione estremista. Vale la pena di tenere a mente che Netanyahu, il primo ministro israeliano più a lungo in carica, ha scritto che “Israele non è uno Stato di tutti i suoi cittadini”, ma piuttosto “del popolo ebraico, e solo questo.” Il leader del Likud è stato anche accusato di aver cancellato i palestinesi e la loro storia, un fatto che alcuni membri dell’attuale coalizione di governo appoggiano.

I sostenitori di Israele che rifiutano la situazione di uno Stato unico sono invitati a cambiare occhiali per poter vedere l’apartheid per quello che è. Gli alleati di Israele sono soliti fare una distinzione tra i territori occupati e Israele vero e proprio e a pensare che la sovranità israeliana sia limitata al territorio che controllava prima del 1967. A questo proposito gli autori sostengono che Stato e sovranità non sono la stessa cosa. “Lo Stato è definito da quello che controlla, mentre la sovranità dipende dal fatto che gli altri Stati riconoscano la legittimità di quel controllo.” L’errore consiste nel confondere le due cose senza comprendere che Israele come Stato controlla ogni palmo della Palestina, benché agli occhi della comunità internazionale lo Stato occupante non abbia diritto alla sovranità sul territorio.

Si consideri Israele attraverso le lenti di uno Stato. Ha il controllo sul territorio tra il fiume e il mare, ha il quasi totale monopolio dell’uso della forza, utilizza il proprio potere per mantenere un blocco draconiano di Gaza e controlla la Cisgiordania con un sistema di posti di blocco, il mantenimento dell’ordine pubblico e l’espansione delle colonie,” affermano gli autori, chiarendo la distinzione rispetto alla sovranità. Spiegando come Israele sia stato in grado di sfruttare la situazione, l’articolo sostiene che “non formalizzando la sovranità, Israele può essere democratico per i suoi cittadini, ma non responsabile nei confronti di milioni di suoi abitanti.” Secondo gli autori questa situazione ha consentito a molti sostenitori di Israele di continuare a fingere che tutto ciò sia temporaneo, che Israele continui a essere una democrazia e che un giorno i palestinesi eserciteranno il loro diritto all’autodeterminazione.

Per quanto le politiche USA abbiano contribuito a rafforzare la situazione dello Stato unico, la normalizzazione con gli Stati arabi in base agli accordi di Abramo ha ulteriormente cementato il sistema di apartheid israeliano. La tradizionale posizione araba era che la normalizzazione sarebbe stata offerta in cambio del completo ritiro israeliano dai territori occupati. Il punto di partenza per i negoziati era che la pace con il mondo arabo avrebbe richiesto una soluzione del problema palestinese. Gli accordi di Abramo hanno rifiutato questo assunto e in cambio hanno premiato Israele per le sue pratiche di colonialismo di insediamento. “Separare la normalizzazione con gli arabi dalla questione palestinese ha avuto un impatto notevole per il rafforzamento della situazione di uno Stato unico.”

Ammonendo i poteri autoritari del Medio Oriente, gli autori spiegano efficacemente che la questione palestinese ha una grande risonanza tra la popolazione araba. “I governanti arabi possono non interessarsi dei palestinesi, ma il loro popolo lo fa, e quei governanti non si preoccupano di altro se non di mantenere il proprio potere.” Abbandonare totalmente i palestinesi dopo più di mezzo secolo di un appoggio quanto meno a parole rappresenterebbe un rischio per la loro autorità. “I dirigenti arabi non temono di perdere le elezioni, ma ricordano fin troppo bene le rivolte arabe del 2011,” affermano gli autori, sostenendo che abbandonare la causa palestinese potrebbe innescare una rivolta popolare.

Dopo aver elencato i passi concreti che dovrebbero essere intrapresi, gli autori affermano che i decisori politici e gli analisti che ignorano la realtà dello Stato unico saranno condannati al fallimento e all’irrilevanza, non facendo molto più che fornire una cortina fumogena per il rafforzamento dello status quo. Per porre fine alla profonda complicità di Washington nel creare una situazione di Stato unico, gli USA sono invitati a prendere misure “radicali”, tra cui l’imposizione di sanzioni contro Israele e, soprattutto, che l’Occidente guardi alle sue risposte all’invasione russa dell’Ucraina come un modello per difendere le leggi internazionali e il sistema basato sulle regole che sostiene di difendere.

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il Comitato delle Chiese: l’attacco di Israele contro i cristiani è una ‘violazione’ del diritto internazionale

Redazione di MEMO

17 aprile 2023 – Middle East Monitor

Ieri l’Alto Comitato Presidenziale delle Chiese ha condannato come una “violazione” del diritto internazionale l’attacco dello Stato di Israele contro frati, ecclesiastici e altri fedeli che hanno partecipato alle celebrazioni del Sabato Santo a Gerusalemme occupata.

Ramzi Khoury, il presidente del comitato, ha affermato che “per giorni, la polizia israeliana ha minacciato di imporre una chiusura della Città Santa e ha chiesto alle chiese di ridurre il numero dei partecipanti e di quanti erano autorizzati ad accedere alla chiesa del Santo Sepolcro.”

“Da questa mattina la polizia israeliana ha trasformato la città in un accampamento militare e sono state installate delle barriere a tutte le entrate e attorno alla chiesa del Santo Sepolcro.”

Khoury ha sottolineato che Israele non tiene conto del diritto internazionale, che garantisce libertà di culto e una pratica dei rituali religiosi senza ostacoli.

Khoury ha affermato che “oggi [domenica] gli attacchi contro i cristiani avvengono nello stesso contesto degli attacchi contro i fedeli musulmani nella moschea di Al-Aqsa.”

“È diventato chiaro che il governo dell’occupazione israeliana non è preoccupato di ottenere la calma, ma invece è interessato ad accentuare la tensione e la violenza, usando tutti i mezzi a sua disposizione per provocare le reazioni emotive dei fedeli musulmani e cristiani”, ha aggiunto.

Khoury ha sollecitato la comunità internazionale e le istituzioni che si occupano di diritti umani a prendere al più presto provvedimenti contro la violazione da parte dello Stato di Israele dei luoghi santi e a porre fine ai crimini israeliani contro il popolo palestinese.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Il nuovo governatore dei coloni in Israele

Pietro Stefanini

10 aprile 2023 – Middle East Monitor

Nelle ultime settimane Bezalel Smotrich. il ministro delle Finanze israeliano, ha giustamente attirato grande attenzione per alcune delle sue dichiarazione pubbliche che si possono definire, senza voler esagerare, di carattere genocida. Per prima cosa, dopo che i coloni si sono scatenati violentemente nella Cisgiordania occupata, ha chiesto che la città palestinese di Huwara venisse “spazzata via”. Parlando poi a un evento in Francia, Smotrich ha di fatto rispolverato un vecchio mito sionista che nega l’esistenza dei palestinesi come popolo. Anche se al momento ci stiamo concentrando sulla ripresa della violenza israeliana contro i fedeli nella moschea di Al-Aqsa, è importante non perdere di vista dove probabilmente emergeranno i prossimi attacchi contro i palestinesi.

Smotrich, oltre al suo ruolo come ministro delle Finanze, occupa una posizione governativa cruciale che gli permette di mettere in pratica le sue parole. Infatti, con l’ultimo accordo di coalizione fra Sionismo Religioso [partito di estrema destra religiosa di Smotrich, ndt.] e il Likud di Netanyahu, a Smotrich era stato promesso il controllo su alcune funzioni chiave nell’amministrazione del COGAT (Coordinatore delle Attività Governative nei Territori), l’amministrazione militare-civile che governa sia i palestinesi non cittadini nei territori occupati che i coloni israeliani che abitano nell’Area C [sotto il pieno controllo israeliano, ndt.] della Cisgiordania.

Una di queste funzioni è la nomina del nuovo generale del COGAT, che normalmente ricade sotto l’autorità del capo di stato maggiore dell’esercito israeliano ed è poi approvata dal ministro della Difesa. L’accordo non solo scavalca il ministro della Difesa, Yoav Gallant, ma significa anche sottrarre parte dell’autorità all’esercito per darla invece a un ministro del governo.

Tuttavia il mese scorso, dopo una strenua opposizione da parte di Gallant, si è raggiunto un compromesso. Secondo i termini dell’accordo Smotrich avrà l’autorità di nominare un ” vicecapo civile” sottoposto al capo dell’Amministrazione Civile, un’importante unità militare nel COGAT responsabile di questioni civili che hanno enormi conseguenze sia per i palestinesi che per i coloni israeliani. Esse includono il catasto, la fondazione di colonie, demolizioni e progetti di infrastrutture. In altre parole, Smotrich, lui stesso un colono cisgiordano, nel suo nuovo ruolo supervisionerà l’implementazione del progetto coloniale israeliano in Cisgiordania e lo spossessamento continuo di milioni di palestinesi.

Il COGAT ha sempre giocato un ruolo centrale nel governo coloniale dei territori palestinesi occupati, abbinando la gestione della popolazione palestinese all’espansione per i coloni israeliani. Poco dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele installò il COGAT per gestire la vita civile dei territori palestinesi appena conquistati. Israele doveva sviluppare un’amministrazione per governare una popolazione nativa indesiderabile dopo l’adozione di misure su larga scala riguardo agli assenti per espellere un gran numero di altri palestinesi, come già fatto nel 1948. Questa era la funzione iniziale del COGAT.

Dopo decenni di incremento delle funzioni amministrative, il COGAT e l’Amministrazione Civile sono diventati responsabili, fra altre cose, del controllo dell’importazione e dell’esportazione di beni, dell’allocazione di risorse naturali e della pianificazione e costruzione delle infrastrutture civili, accordando o negando ai palestinesi permessi per entrare in Israele per lavoro, per assistenza medica o per viaggiare all’estero. Queste sono alcune delle questioni principali che al momento i funzionari del COGAT concettualizzano come politiche “umanitarie” per i palestinesi che essi confinano in enclave simili a prigioni.

Dalle mie interviste con ex membri del COGAT emerge chiaramente che essi si vedono, in una certa misura, come il governo e i rappresentanti delle necessità dei palestinesi presso altri settori dell’esercito e dello Stato israeliano e [ritengono] che, senza di loro, i palestinesi “soffrirebbero di più.”

Storicamente, la narrazione egemonica a proposito di questa unità è che essa soddisfa le necessità dei palestinesi. Per esempio, l’attuale generale del COGAT, Ghasan Alyan, è un druso la cui presunta maggiore affinità con gli arabi palestinesi, stando ai colonialisti israeliani, è vista come più comprensiva e rappresentativa dei nativi sotto il loro dominio. Ora con Smotrich verosimilmente i coloni hanno uno dei loro vicino al centro del potere.

La nomina di Smotrich al COGAT segnala la volontà di calmare una base sempre più violenta di coloni espansionisti in Cisgiordania. In realtà i coloni e le loro ONG, come Regavim, di destra e di cui Smotrich fu uno dei fondatori, spesso protestano sostenendo che il COGAT violi i loro diritti e protegga troppo gli interessi dei palestinesi perché non fa progredire gli insediamenti coloniali nelle dimensioni e alla velocità che vorrebbero.

Allo stesso tempo i coloni della Cisgiordania si sentono stigmatizzati e non alla pari con i cittadini israeliani che abitano entro i confini della Linea Verde [il confine tra Israele e Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967, ndt.] perché vivono in parte in un regime militare, quindi nominare un governatore civile in Cisgiordania significa anche migliorare il loro status. Smotrich progetta di incoraggiare ulteriormente il progetto coloniale poiché vuole “sottrarre l’Amministrazione Civile all’esercito e collocarla sotto controllo civile”, affinché i coloni “cessino di essere cittadini di seconda classe che vivono in un regime militare e inizino a ricevere la qualità dei servizi civili di cui godono tutti i cittadini di Israele.”

Con Itamar Ben-Gvir, il ministro della Sicurezza Nazionale, che recentemente si è accordato con Netanyahu per sospendere la riforma della giustizia in cambio della formazione di una sua milizia privata, i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde sono a maggior rischio di un’escalation repressiva.

Spostare i poteri civili del COGAT da un generale a un ministro del governo significa anche accelerare l’annessione de jure della Cisgiordania. Con un ministro del governo direttamente responsabile in campo civile, la distinzione già fittizia fra Israele e i suoi territori occupati militarmente viene ufficialmente cancellata. Ora Smotrich è responsabile dell’apparato amministrativo che può cacciare palestinesi dalle loro terre.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Secondo un rapporto nel 2022 lo Stato di Israele ha preso di mira 215 giornalisti in Cisgiordania e Gerusalemme

Redazione di MEMO

14 marzo 2023 – Middle East Monitor

Il Journalist Support Committee [Comitato di Supporto dei Giornalisti] (JSC) ha rivelato ieri che nel 2022 le autorità di occupazione israeliane hanno preso di mira 215 giornalisti nella Cisgiordania e a Gerusalemme occupate.

In occasione della Giornata Nazionale dei Palestinesi Feriti il JSC, con sede a Beirut, ha pubblicato ieri le cifre: “I giornalisti palestinesi sono costretti a lavorare in un contesto pericoloso, dato che sono sempre soggetti agli attacchi e alle violazioni da parte dell’occupazione israeliana” afferma il JSC.

Nelle sue quotidiane aggressioni contro i giornalisti l’occupazione israeliana usa armi vietate dal diritto internazionale.

Secondo il JSC, le forze di occupazione israeliane non proteggono i giornalisti palestinesi, dato che aprono il fuoco contro di loro anche se stanno indossando in modo visibile giubbotti antiproiettile.

Il mese di maggio ha visto il più alto numero di feriti tra i giornalisti, afferma il JSC, con 54 feriti dalle forze di occupazione in Cisgiordania e a Gerusalemme occupate, aggiungendo che essi sono presi di mira per impedirgli di documentare i crimini dello Stato di Israele.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




L’arte dei bambini palestinesi mette in luce il genocidio culturale israeliano

Ramzy Baroud

7 marzo 2023 – Middle East Monitor

Il seguente messaggio di testo racconta l’intera storia di ciò per cui le comunità filo-palestinesi di tutto il mondo stanno combattendo e contro cui combattono i filo-israeliani: “Siamo lieti di annunciare che il Chelsea e il Westminster Hospital ha rimosso un’esposizione di opere d’arte disegnate da bambini provenienti da Gaza”.

Questo è il riassunto di una notizia pubblicata sulla homepage del gruppo lobbista filo-israeliano UK Lawyers for Israel [Avvocati Britannici per Israele, ndt.] (UKLFI). L’associazione è accreditata – se credito è la parola giusta – come lo schieramento che è riuscito a convincere l’amministrazione di un ospedale nella zona ovest di Londra a rimuovere alcune opere d’arte create dai bambini rifugiati nella Striscia di Gaza sotto assedio.

Per spiegare la logica alla base della loro incessante campagna per la rimozione dell’arte dei bambini, UKLFI ha affermato che i “pazienti ebrei” in ospedale “si sentivano vulnerabili e colpevolizzati dall’esibizione”. Le poche opere d’arte raffiguravano la Cupola della Roccia nella Gerusalemme Est occupata, la bandiera palestinese e altri simboli che non dovrebbero realmente “colpevolizzare” nessuno. L’articolo dell’ UKLFI è stato successivamente modificato, con la rimozione del riassunto offensivo, sebbene sia ancora accessibile sui social media.

Per quanto ridicola possa sembrare questa storia, in realtà è l’essenza stessa della campagna anti-palestinese lanciata da Israele e dai suoi alleati in tutto il mondo. Mentre i palestinesi si battono per i diritti umani fondamentali, la libertà e la sovranità come sancito dal diritto internazionale, il campo filo-israeliano si batte per la totale cancellazione di tutto ciò che è palestinese.

Alcuni chiamano ciò genocidio o etnocidio culturale. Sebbene i palestinesi abbiano familiarità con questa pratica israeliana in Palestina sin dall’inizio dello stato di occupazione, i confini della guerra sono stati ampliati per raggiungere qualsiasi parte del mondo, specialmente nell’emisfero occidentale.

La disumanità dell’UKLFI e dei suoi alleati è abbastanza palpabile, ma l’associazione non può essere l’unica da biasimare. Quegli avvocati non sono che la continuazione di una cultura coloniale israeliana che osserva l’esistenza stessa di un popolo palestinese, inclusa l’arte dei bambini rifugiati, attraverso una visione politica, come una “minaccia esistenziale” per lo stato di occupazione.

Il rapporto tra l’esistenza stessa di un Paese e l’arte dei bambini può sembrare assurdo, – e lo è – ma ha una sua, seppur strana, logica: finché questi bambini profughi si riconosceranno come palestinesi continueranno a vedere se stessi, ed essere considerati da altri, come parte di un tutto più grande, il popolo palestinese. Questa autoconsapevolezza e il riconoscimento da parte di altri – per esempio, pazienti e personale di un ospedale di Londra – di questa identità palestinese collettiva, rende difficile, di fatto impossibile, per Israele vincere.

Per palestinesi e israeliani la vittoria significa due cose completamente diverse, che sono conciliabili. Per i palestinesi la vittoria significa libertà per il popolo palestinese e uguaglianza per tutti. Per Israele la vittoria può essere raggiunta solo attraverso la cancellazione dei palestinesi sul piano geografico, storico, culturale e sulla base di ogni altro aspetto che potrebbe costituire parte dell’identità di un popolo.

Purtroppo il Chelsea and Westminster Hospital assume ora una parte attiva in questa tragica cancellazione dei palestinesi, allo stesso modo in cui nel 2018 Virgin Airlines [compagnia aerea privata britannica, ndt.] ha ceduto alle pressioni quando ha accettato di rimuovere il “cuscus di ispirazione palestinese” dal suo menu. All’epoca questa storia sembrò un bizzarro episodio del cosiddetto “conflitto israelo-palestinese”, anche se in realtà la vicenda rappresentava il nucleo stesso di questo “conflitto”.

Per Israele la guerra in Palestina ruota attorno a tre finalità fondamentali: acquisire terra; cancellare le persone; riscrivere la storia. Il primo obiettivo è stato in gran parte raggiunto attraverso un processo di pulizia etnica e di folle colonizzazione della Palestina dal 1947-48. L’attuale governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu spera solo di portare a termine questo processo. Il secondo compito va oltre la pulizia etnica, perché anche la semplice consapevolezza della loro identità collettiva da parte dei palestinesi, ovunque si trovino, costituisce un problema. Da qui il processo attivo del genocidio culturale. E sebbene Israele sia riuscito a riscrivere la storia per molti anni, questo compito viene ora sfidato, grazie alla tenacia dei palestinesi e dei loro alleati e al potere delle reti sociali e digitali.

I palestinesi sono senza dubbio i maggiori beneficiari dello sviluppo dei media digitali. Questi hanno contribuito al decentramento delle narrazioni politiche e persino storiche. Per decenni la conoscenza da parte dell’opinione pubblica di cosa rappresentino “Israele” e “Palestina” nell’immaginario dominante è stata ampiamente controllata attraverso una specifica narrazione approvata da Israele. Coloro che deviavano da questa narrazione venivano attaccati ed emarginati, e quasi sempre accusati di “antisemitismo”. Sebbene queste tattiche siano ancora scatenate contro i critici di Israele, il risultato non è più garantito.

Ad esempio, un singolo tweet che descrive la “gioia” dell’UKLFI ha ricevuto oltre 2 milioni di visualizzazioni su Twitter. Milioni di britannici indignati e utenti di social media in tutto il mondo hanno trasformato quella che doveva essere una vicenda locale in uno degli argomenti riguardanti Palestina e Israele più discussi in tutto il mondo. Com’era prevedibile, non molti utenti dei social media hanno condiviso la “gioia” dell’ UKLFI, costringendo così il gruppo di pressione a riformulare l’articolo originale. Ancora più importante, in un solo giorno milioni di persone sono venuti a conoscenza di un argomento completamente nuovo su Palestina e Israele: la cancellazione culturale. La “vittoria” si è trasformata in un’assoluta figuraccia per la lobby filo-israeliana, forse addirittura una sconfitta.

Grazie alla crescente popolarità della causa palestinese e all’impatto dei social media, le iniziali vittorie israeliane quasi sempre gli si ritorcono contro. Un altro esempio recente è stato il licenziamento e la rapida reintegrazione dell’ex direttore di Human Rights Watch [una delle principali ong per i diritti umani, ndt.] (HRW), Kenneth Roth. A gennaio, il dottorato di Roth presso la Kennedy School dell’Università di Harvard è stata revocato a causa del rapporto di HRW che definisce Israele un regime di apartheid. Un’importante campagna avviata da piccole organizzazioni di media alternativi ha portato in pochi giorni alla reintegrazione di Roth. Questo e altri casi dimostrano che criticare Israele non determina più la fine di una carriera, come spesso accadeva in passato.

Israele continua ad impiegare tattiche obsolete per controllare il confronto e la narrazione sulla sua occupazione della Palestina. Sta fallendo perché quelle tattiche tradizionali non possono più funzionare in un mondo moderno in cui l’accesso alle informazioni è decentrato e dove nessuna censura può controllare il confronto. Per i palestinesi questa nuova realtà è un’opportunità per ampliare la loro rete di sostegno in tutto il mondo. Per Israele la missione è fragile, soprattutto quando le vittorie iniziali possono diventare in poche ore sconfitte totali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La Palestina accoglie positivamente il supporto dell’Unione Africana ai diritti palestinesi

Redazione di MEMO

21 febbraio 2023 – Middle East Monitor

Il ministero palestinese degli affairi esteri e dei cittadini residenti all’estero ha accolto positivamente le decisioni che sono state prese nella dichiarazione finale della trentaseiesima sessione del vertice dell’Unione Africana (UA), tenutosi nella capitale etiope Addis Abeba, e in particolare il paragrafo relativo alla questione palestinese.

Il ministero ha ringraziato la UA e le Nazioni africane che hanno sostenuto la Palestina e hanno rifiutato la richiesta dello Stato di Israele di avere lo Stato di osservatore nell’organizzazione.

Nella sua dichiarazione di chiusura, l’UA ha confermato il pieno supporto delle Nazioni africane al popolo palestinese, guidato dal presidente Mahmoud Abbas, nella sua legittima lotta contro l’occupazione israeliana al fine di ristabilire i propri diritti inalienabili, incluso il diritto di autodeterminazione, il ritorno dei profughi e la costituzione di uno Stato indipendente e sovrano sui confini del 4 giugno 1967 con Gerusalemme Est come capitale.

I leader africani hanno anche rinnovato la loro richiesta di avviare un credibile processo politico per porre fine all’occupazione israeliana e per smantellare il suo regime di apartheid al fine di ottenere una pace giusta, complessiva e duratura in Medioriente per supportare gli sforzi dello Stato di Palestina per ottenere lo status di membro a pieno titolo delle Nazioni Unite e perché lo Stato di Israele venga ritenuto responsabile per i suoi crimini contro il popolo palestinese.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Israele colpisce a morte un diciassettenne palestinese durante un’incursione

Redazione di MEMO

14 febbraio 2023 – Middle East Monitor

Le forze di occupazione israeliane hanno colpito a morte un ragazzo palestinese diciassettenne durante un’incursione nel campo profughi di Al-Faraa, nella citta di Tubas della Cisgiordania occupata.

Secondo l’agenzia di notizie Wafa, Mahmoud Majed Al-Aydi è stato colpito alla testa ed è stato portato in condizioni critiche in ospedale, dove è morto per le ferite ricevute.

Un numero elevato di forze israeliane di occupazione all’alba ha fatto una incursione nel campo profughi di Al-Faraa ed ha attaccato molti abitanti con proiettili e lacrimogeni, scatenando le proteste degli abitanti.

L’occupazione israeliana ha affermato che i soldati hanno sparato al ragazzo che si stava avvicinando a loro con un ordigno esplosivo mentre stavano facendo un arresto. Tuttavia non ci sono prove di quanto affermano.

Almeno cinque palestinesi sono stati feriti dopo essere stati colpiti da proiettili veri durante l’incursione e una persona è stata arrestata.

Mahmoud è il quarantottesimo palestinese ucciso dallo Stato di Israele dall’inizio dell’anno. La sua morte avviene due giorni dopo che il quattordicenne Qusai Radwan Waked è stato colpito a morte da un cecchino israeliano mentre giocava sul tetto della sua casa a Jenin.

Nei mesi scorsi c’è stato un incremento del numero delle incursioni israeliane in tutta la Cisgiordania occupata, insieme alle azioni violente dei coloni illegali che a volte hanno attaccato anche le forze israeliane.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Il direttore della CIA paragona la crescente violenza in Palestina alla seconda Intifada

Redazione di MEMO

7 febbraio 2023 – Middle East Monitor

Il direttore della CIA William Burns che è stato un diplomatico di lungo corso durante la seconda intifada, ha affermato che le condizioni nella Cisgiordania occupata hanno una ‘infelice somiglianza’ con la sollevazione palestinese degli anni 2000-2005. Le sue osservazioni arrivano alcuni giorni dopo il suo viaggio nella regione, dove ha incontrato alti dirigenti israeliani e palestinesi.

La crescente violenza in Cisgiordania e a Gerusalemme occupate è stata paragonata alla seconda Intifada dal direttore della CIA William Burns in seguito alla sua recente visita nella regione.

Venti anni fa sono stato un importante diplomatico statunitense durante la seconda Intifada e sono preoccupato – come lo sono i miei colleghi della comunità dell’intelligence – che molto di quanto stiamo vedendo oggi abbia una spiacevole somiglianza con alcune delle realtà che abbiamo visto anche allora,” ha detto Burns la settimana scorsa in una intervista alla Georgetown School of Foreign Service a Washington.

La seconda Intifada iniziò il 28 settembre 2000, quando l’allora leader dell’opposizione Ariel Sharon entrò nella moschea di Al-Aqsa con un contingente pesantemente armato delle forze di sicurezza israeliane. L’incursione provocò una forte risposta palestinese. La successiva insurrezione durò cinque anni e lasciò sul terreno più di 3000 vittime palestinesi e 1000 israeliane.

Le conversazioni che ho avuto con i dirigenti israeliani e palestinesi mi hanno lasciato abbastanza preoccupato riguardo alle prospettive anche a causa di una maggior fragilità e una maggior violenza tra israeliani e palestinesi” ha aggiunto Burns. “Parte della responsabilità della mia agenzia è di lavorare il più strettamente possibile con entrambi i servizi di sicurezza palestinesi e israeliani per prevenire il tipo di esplosioni di violenza che abbiamo visto nelle scorse settimane. Questa sta diventando una grande sfida e sono anche preoccupato riguardo a questo aspetto del quadro mediorientale.”

I commenti del direttore della CIA sono stati fatti a fronte della crescente tensione in tutti i territori palestinesi occupati in seguito ad una operazione militare israeliana la scorsa settimana nella città di Jenin in Cisgiordania, durante la quale dieci palestinesi sono stati uccisi, inclusa una donna di 67 anni. Sette israeliani sono stati uccisi successivamente in una sparatoria a Gerusalemme Est occupata.

Inoltre le forze israeliane hanno ucciso cinque uomini palestinesi e ne hanno feriti sei domenica notte durante una incursione a Gerico, nella parte orientale della Cisgiordania occupata.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Esperimento fallito: tre motivi per cui Israele teme un ampio conflitto contro Gaza 

Ramzy Baroud

6 febbraio 2023 Middle East Monitor

Sebbene le precedenti guerre di Israele contro Gaza siano spesso state giustificate da Tel Aviv come risposta ai razzi palestinesi o generalmente come azioni di autodifesa, la verità è diversa. Storicamente la relazione di Israele con Gaza è stata determinata dalla necessità di Tel Aviv di creare diversivi alla propria complicata politica, per mostrare i muscoli ai suoi nemici nella regione e per testare le sue innovazioni belliche.

Sebbene la Cisgiordania occupata, e in effetti anche altri Paesi arabi, siano stati usati come campi di prova per la macchina militare israeliana, nessun altro luogo ha permesso a Israele di sperimentare le proprie armi così a lungo come Gaza, facendo di Israele nel 2022 il decimo esportatore globale di armi.

C’è un motivo per cui Gaza è ideale per tali grandiosi, seppur tragici, esperimenti.

Gaza è il posto perfetto per raccogliere informazioni dopo che le nuove armi sono state schierate e usate sul campo di battaglia. Nella Striscia abitano, ammassati in 365 km², due milioni di palestinesi che vivono una misera esistenza, praticamente senza acqua potabile e poco cibo. Infatti, grazie alle cosiddette ‘cinture di sicurezza’ di Israele, gran parte del terreno coltivabile di Gaza che confina con Israele è off limits. I contadini sono spesso uccisi da cecchini israeliani quasi con la stessa frequenza con cui anche i pescatori di Gaza sono presi di mira se si avventurano oltre le tre miglia nautiche a loro assegnate dalla marina israeliana.

The Lab“, [Il laboratorio, N.d.T.], un premiato documentario israeliano uscito nel 2013, descrive con angosciosi dettagli come Israele abbia trasformato milioni di palestinesi in un vero e proprio laboratorio umano per testare nuove armi. Anche prima, ma soprattutto da allora, Gaza è il principale campo di prova per usare questi armamenti.

Gaza è stato ‘ il laboratorio’ anche per esperimenti politici israeliani.

Dal dicembre 2008 al gennaio 2009, quando l’allora prima ministra israeliana pro-tempore Tzipi Livni decise, parole sue, di ” andarci giù pesante”, lanciò contro Gaza una delle guerre più letali sperando che la sua avventura militare l’avrebbe aiutata a consolidare il sostegno al suo partito nella Knesset.

All’epoca Livni era a capo di Kadima [partito politico israeliano centrista, N.d.T.], fondato nel 2005 dall’ex leader del Likud Ariel Sharon. Subentratagli, Livni volle dimostrare il suo valore di personalità forte capace di dare una lezione ai palestinesi.

Sebbene il suo esperimento le avesse guadagnato un certo consenso nelle elezioni del febbraio 2009, dopo la guerra del novembre 2012 le si ritorse contro, nelle elezioni del gennaio 2013 Kadima fu quasi annientata e alla fine scomparve completamente dalla mappa politica israeliana.

Quella non è stata né la prima né l’ultima volta in cui i politici israeliani hanno cercato di usare Gaza e distrarre dalle proprie sventure politiche o per dimostrare le loro credenziali come protettori di Israele uccidendo palestinesi.

Tuttavia nessuno ha perfezionato l’uso della violenza per guadagnare consensi politici quanto l’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu. Ritornando a capo del governo più estremista nella storia di Israele, Netanyahu è ansioso di restare al potere, soprattutto perché la sua coalizione di destra ha un sostegno più solido nella Knesset di tutti gli altri cinque governi degli ultimi tre anni.

Con un elettorato di destra a favore della guerra che è molto più interessato all’espansione illegale delle colonie e alla ‘sicurezza’ che alla crescita economica o all’uguaglianza socioeconomica, Netanyahu dovrebbe, almeno tecnicamente, essere in una posizione più forte per lanciare un’altra guerra contro Gaza. Allora perché sta esitando?

Il primo febbraio un gruppo palestinese ha lanciato un razzo verso il sud di Israele causando una risposta israeliana intenzionalmente limitata.

Secondo le fazioni palestinesi della Striscia assediata il razzo fa parte della continua ribellione armata dei palestinesi della Cisgiordania. Doveva servire a dimostrare l’unità politica fra Gaza, Gerusalemme e la Cisgiordania.

La Cisgiordania sta vivendo i suoi giorni più cupi. Solo a gennaio sono stati uccisi dall’esercito israeliano 35 palestinesi, dieci dei quali sono morti a Jenin in un solo raid israeliano. Un palestinese che ha agito da solo ha reagito uccidendo sette coloni ebrei nella Gerusalemme Est occupata, la scintilla perfetta di quella che normalmente avrebbe causato una massiccia risposta israeliana.

Ma tale risposta per ora è stata limitata alla demolizione di case, arresti e tortura dei famigliari degli aggressori, assedio militare di varie città palestinesi e centinaia di attacchi individuali di coloni ebrei contro i palestinesi.

Una guerra vera e propria, specialmente a Gaza, non si è ancora concretizzata. Ma perché?

Primo, i rischi politici di attaccare Gaza con una lunga guerra, almeno per ora, prevalgono sui vantaggi. Sebbene la coalizione di Netanyahu sia relativamente stabile, le aspettative degli alleati estremisti del primo ministro sono molto alte. Una guerra con un esito incerto potrebbe essere considerato dai palestinesi come una vittoria, un’idea che da sola potrebbe mandare in pezzi la coalizione. Anche se Netanyahu potrebbe scatenare una guerra come ultima risorsa, al momento non ha bisogno di un’alternativa così rischiosa.

Secondo, la resistenza palestinese è più forte che mai. Il 26 gennaio Hamas ha dichiarato di aver usato missili terra-aria per respingere un attacco israeliano contro Gaza. Sebbene l’arsenale militare del gruppo di Gaza sia piuttosto rudimentale, quasi tutto prodotto in loco, è molto più avanzato e sofisticato se confrontato con le armi usate durante la cosiddetta “Operazione [israeliana] Piombo fuso ” nel 2008.

E infine le riserve di munizioni israeliane devono essere al loro punto più basso da molto tempo. Ora che gli USA, il maggiore fornitore di armi a Israele, ha attinto alla sua riserva di armi strategiche a causa della guerra Russia-Ucraina, Washington non sarà in grado di rifornire gli arsenali israeliani con costanti forniture di armamenti come aveva fatto l’amministrazione Obama durante la guerra del 2014. Persino più preoccupante per l’esercito israeliano, a gennaio il New York Times ha rivelato che “il Pentagono sta attingendo a una vasta, ma poco nota, scorta di forniture militari americane in Israele per andare incontro alla disperata necessità di proiettili di artiglieria in Ucraina …”

Sebbene ci sia un maggiore rischio di guerre israeliane contro Gaza rispetto al passato, un Netanyahu intrappolato e messo in difficoltà potrebbe ancora far ricorso a un tale scenario se avesse la sensazione che la sua leadership fosse in pericolo. Infatti nel maggio 2021 il leader israeliano ha fatto proprio questo. Eppure anche allora non ha potuto salvare sé stesso o il proprio governo da una sconfitta umiliante.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)