La Corte Penale Internazionale non rappresenta una “minaccia strategica” per Israele

Ramona Wadi

19 maggio 2020. MiddleEastMonitor

Da quando la Corte Penale Internazionale (CPI) ha stabilito che la Palestina è uno Stato in cui svolgere indagini sui crimini di guerra commessi da Israele contro civili palestinesi, una nuova serie di minacce è stata mossa contro l’istituzione. Il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha messo in guardia dalle conseguenze di ciò che il suo governo ritiene costituisca uno Stato palestinese. “Gli Stati Uniti ribadiscono la loro continua obiezione a qualsiasi illegittima indagine della CPI. Se la Corte continuerà per la strada presa ne trarremo le dovute conseguenze” ha detto Pompeo.

L’opposizione degli Stati Uniti a uno Stato palestinese è stata ulteriormente ribadita dal cosiddetto “accordo del secolo”, che finge di sostenere uno Stato palestinese dando invece priorità all’agenda coloniale di Israele – in cui non cè spazio per la formazione di uno Stato palestinese. L’opposizione degli Stati Uniti alle indagini della CPI, dunque, è continua e convinta.

Intanto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha bollato le possibili inchieste sui crimini di guerra come “minaccia strategica”. Intervenendo durante la prima riunione del governo e sostenendo di usare raramente l’aggettivo “strategico” che invece è la normale definizione quando si tratti dell’Iran o del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), Netanyahu ha dichiarato: “Questa è una minaccia strategica per lo Stato di Israele – ai soldati dell’esercito, ai comandanti, ai ministri, ai governi, a tutto.”

Israele ha a lungo approfittato delle eccezioni per mantenere la sua colonizzazione della Palestina e rafforzare ulteriormente la sua occupazione militare. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha beneficiato Israele di unimpunità senza precedenti e dell’accettazione delle violazioni del diritto internazionale, al punto che, rafforzato anche dal tacito silenzio della comunità internazionale, Israele sta politicizzando le indagini della CPI allo scopo di mantenere lo stato di eccezione.

Le imminenti indagini sui crimini di guerra di Israele contro il popolo palestinese non sono una minaccia strategica, ma una risposta tardiva che potrebbe offuscare temporaneamente l’immagine di Israele. La collusione fra Israele e la comunità internazionale è un grave ostacolo: non bisogna dimenticare che a livello internazionale Israele gode di un tacito sostegno che gli permette di costituire lui stesso una minaccia strategica per i palestinesi.

La retorica di Netanyahu è un diversivo. Israele non è perseguitato dalla CPI; è possibile che i suoi funzionari siano perseguiti per crimini di guerra, che è la procedura standard. La violenza di Israele ne sostiene la politica coloniale – l’una non può esistere senza l’altra. I palestinesi hanno subìto questa minaccia strategica per decenni. Il tentativo di invertire i ruoli nonostante le prove dei crimini di guerra è una manovra politica che dovrebbe ritorcersi contro Israele se solo la comunità internazionale rimuovesse la sua faziosità pro-Israele e prendesse posizione a favore della decolonizzazione.

Mentre Netanyahu tenta di stringere alleanze contro la CPI, che cosa farà la comunità internazionale? Se la CPI ha stabilito che Israele ha commesso crimini di guerra, il minimo che la comunità internazionale possa fare è sbarazzarsi della retorica dei “presunti crimini di guerra” per sostenere il diritto internazionale e decostruire l’impunità che ha protetto Israele. Se ritenere prioritarie le richieste coloniali di Israele viene prima della legislazione che regola ciò che costituisce i crimini di guerra, la comunità internazionale renderà possibili ulteriori violazioni come nuovi piani di annessione e le prossime indagini saranno eclissate da una nuova ondata di impunità tale per cui ci potrebbero volere decenni prima che siano sottoposte ad attenzione giuridica.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




100 anni di vergogna: l’annessione della Palestina è iniziata a Sanremo

Ramzy Baroud

6 MAGGIO 2020 – Mondoweiss

Cento anni fa, i rappresentanti di poche grandi potenze si incontrarono a Sanremo, una tranquilla cittadina italiana sulla riviera ligure. Insieme, segnarono il destino dei vasti territori sottratti all’Impero ottomano in seguito alla sua sconfitta nella prima guerra mondiale.

Fu il 25 aprile 1920 che la Risoluzione della Conferenza di Sanremo venne approvata dal Consiglio Supremo degli Alleati dopo la prima guerra mondiale. Furono istituiti dei protettorati occidentali in Palestina, Siria e “Mesopotamia” – Iraq. Gli ultimi due furono teoricamente stabiliti in vista di una provvisoria autonomia, mentre la Palestina fu concessa al movimento sionista perché vi realizzasse una patria per gli ebrei.

Si legge nella risoluzione: “Il Protettorato sarà responsabile dell’attuazione della dichiarazione (Balfour), redatta originariamente l’8 novembre 1917 dal governo britannico e condivisa dalle altre potenze alleate, a favore dell’istituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebreo”.

La risoluzione assegnava un maggiore riconoscimento internazionale alla decisione unilaterale della Gran Bretagna, di tre anni prima, di concedere la Palestina alla federazione sionista allo scopo di stabilirvi una patria ebraica, in cambio del sostegno sionista alla Gran Bretagna durante la Grande Guerra.

E, come nella Dichiarazione Balfour britannica, fu fatta sbrigativa menzione degli sfortunati abitanti della Palestina, la cui storica patria veniva ingiustamente confiscata e consegnata ai coloni.

L’istituzione di quello Stato ebraico, sulla base della risoluzione di Sanremo, faceva riferimento ad un vago “accordo” secondo cui “nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle esistenti comunità non ebraiche in Palestina”.

L’aggiunta di cui sopra fu semplicemente un misero tentativo di apparire politicamente equilibrati, mentre in realtà non venne mai messo in atto alcuno strumento di applicazione per garantire che l’ “accordo” fosse mai rispettato o messo in pratica.

In effetti, si potrebbe sostenere che il lungo coinvolgimento dell’Occidente nella questione israelo-palestinese abbia seguito lo stesso schema della risoluzione di Sanremo: per cui al movimento sionista (e quindi a Israele) vengono salvaguardati i suoi obiettivi politici, soggetti a condizioni inapplicabili che non vengono mai rispettate o messe in pratica.

Si noti come la stragrande maggioranza delle risoluzioni delle Nazioni Unite relative ai diritti dei palestinesi sia stata storicamente approvata dall’Assemblea generale, non dal Consiglio di Sicurezza, dove gli Stati Uniti sono una delle cinque grandi potenze che esercitano il diritto di veto, sempre pronti ad affossare qualsiasi tentativo di far rispettare il diritto internazionale.

È questa dicotomia storica che ha portato all’attuale situazione di stallo politico.

Le leadership palestinesi, una dopo l’altra, fallirono nel cambiare l’opprimente paradigma. Decenni prima dell’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, numerose delegazioni, comprese quelle che rivendicavano la rappresentanza del popolo palestinese, percorsero l’Europa, facendo appello a un governo e all’altro, patrocinando la causa palestinese e chiedendo giustizia.

Cosa è cambiato da allora?

Il 20 febbraio, l’amministrazione Donald Trump ha pubblicato la propria versione della Dichiarazione Balfour, definita “Accordo del Secolo”.

L’iniziativa americana che, ancora una volta, ha infranto il diritto internazionale, apre la strada per ulteriori annessioni coloniali israeliane della Palestina occupata. Minaccia sfacciatamente i palestinesi che, nel caso non collaborino, saranno severamente puniti. In realtà lo sono già stati, nel momento in cui Washington ha tagliato tutti i finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese e alle istituzioni internazionali che forniscono aiuti primari ai palestinesi.

Come nella Conferenza di Sanremo, nella Dichiarazione Balfour e in numerosi altri documenti, a Israele è stato chiesto, sempre in modo educato ma senza alcuna formale imposizione di tali richieste, di concedere ai palestinesi alcuni gesti simbolici di libertà e indipendenza.

Alcuni potrebbero sostenere, e giustamente, che l’Accordo del Secolo e la risoluzione della conferenza di Sanremo non sono identici nel senso che la decisione di Trump è stata unilaterale, mentre Sanremo è stato il risultato del consenso politico tra vari paesi – Gran Bretagna, Francia, Italia e altri.

È vero, ma due punti importanti devono essere presi in considerazione: in primo luogo, anche la Dichiarazione Balfour è stata una decisione unilaterale. Gli alleati del Regno Unito impiegarono tre anni per accettare e condividere la decisione illegale presa da Londra di concedere la Palestina ai sionisti. La domanda ora è: quanto tempo impiegherà l’Europa a sostenere come proprio l’Accordo del Secolo?

In secondo luogo, lo spirito di tutte queste dichiarazioni, promesse, risoluzioni e accordi è lo stesso, per cui le superpotenze decidono in virtù del loro enorme potere di riorganizzare i diritti storici delle nazioni. In qualche modo, il colonialismo del passato non è mai veramente morto.

L’Autorità Nazionale Palestinese, come le precedenti leadership palestinesi, è trattata con la proverbiale carota e bastone. Lo scorso marzo, il genero del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, Jared Kushner, ha detto ai palestinesi che se non fossero tornati ai negoziati (inesistenti) con Israele, gli Stati Uniti avrebbero sostenuto l’annessione della Cisgiordania da parte di Israele.

Ormai da quasi tre decenni e, certamente, dalla firma degli accordi di Oslo nel settembre 1993, l’ANP ha scelto la carota. Ora che gli Stati Uniti hanno deciso di cambiare del tutto le regole del gioco, l’Autorità di Mahmoud Abbas sta affrontando la sua più grave minaccia esistenziale: inchinarsi a Kushner o insistere per il ritorno a un paradigma politico morto che è stato costruito, quindi abbandonato, da Washington.

La crisi all’interno della leadership palestinese viene affrontata con assoluta chiarezza da parte di Israele. La nuova coalizione di governo israeliana, composta dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e Benny Gantz, in precedenza rivali, ha raggiunto un accordo provvisorio sul fatto che l’annessione di vaste aree della Cisgiordania e della Valle del Giordano sia solo una questione di tempo. Stanno semplicemente aspettando il cenno di assenso americano.

È improbabile che debbano aspettare a lungo, poiché il segretario di Stato, Mike Pompeo, il 22 aprile ha affermato che l’annessione dei territori palestinesi è “una decisione israeliana”.

Francamente, ha poca importanza. La Dichiarazione Balfour del 21° secolo è già stata fatta; si tratta solo di trasformarla nella nuova realtà incontestata.

Forse è giunto il momento per la leadership palestinese di capire che strisciare ai piedi di coloro che hanno ereditato la Risoluzione di Sanremo, costruendo e sostenendo la colonizzazione israeliana, non è mai e non è mai stata una risposta.

Forse è il momento per un serio ripensamento.

Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è uno studioso non residente presso il Centro di studi globali e internazionali di Orfalea, UCSB.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele comincia ad estendere la sua “annessione silenziosa” della Cisgiordania, col beneplacito dell’amministrazione Trump

Yumna Patel 

15 gennaio 2020 – Mondoweiss

Il ministro della Difesa di Israele ha annunciato mercoledì di aver approvato la creazione di sette nuove riserve naturali israeliane nell’Area C della Cisgiordania occupata.

Secondo il Jerusalem Post la mossa, che include anche l’espansione di 12 riserve naturali già esistenti, rappresenterebbe la prima approvazione di questo tipo ad essere rilasciata dalla firma degli Accordi di Oslo.

La notizia segue a ruota quella di un controverso forum di accademici e attivisti di destra la settimana scorsa a Gerusalemme dove Naftali Bennet, l’attuale ministro della Difesa, ha dichiarato alla folla che l’intera Area C della Cisgiordania occupata “appartiene a Israele”.

“Stiamo cominciando una battaglia vera, imminente per il futuro della Terra di Israele ed il futuro dell’Area C”, ha detto Bennet al Kohelet Policy Forum, facendo riferimento al 60% e più della Cisgiordania designato come sotto controllo israeliano dagli Accordi di Oslo.

Come leader del partito della “Nuova Destra”, Bennet è da lungo tempo un sostenitore del movimento dei coloni e promotore dell’annessione dei territori palestinesi occupati ad Israele. L’espressione delle sue opinioni riguardo dell’Area C non può quindi sorprendere, ma dato il sostegno dell’attuale amministrazione statunitense, sono particolarmente allarmanti.

Sostegno dagli Stati Uniti

Il Kohelet Policy Forum è stato inaugurato da un videomessaggio del Segretario di Stato [USA] Mike Pompeo che ha dichiarato che “Stiamo riconoscendo che queste colonie non sono una violazione intrinseca delle leggi internazionali. Questo è importante. Stiamo sconfessando il memorandum di Hansell del 1978 [parere giuridico di Hebert J. Hansell, consigliere del presidente Carter, che considerava illegale l’occupazione israeliana, ndtr.] che era profondamente sbagliato, e stiamo ritornando ad un più equilibrato e serio approccio alla questione come durante la presidenza Reagan.”

La posizione dell’amministrazione Trump sulla questione delle colonie ha generato un diffuso criticismo da parte della leadership e degli attivisti palestinesi, così come da parte della comunità internazionale, che a larga maggioranza considera le colonie essere il principale ostacolo per la pace nella regione.

Anche l’ambasciatore statunitense in Israele, David Friedman, si è rivolto al forum, sottolineando la nuova posizione americana, secondo la quale le circa 200 colonie presenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est non rappresentano una violazione delle leggi internazionali.

“Gli israeliani hanno il diritto di vivere in Giudea e Samaria,” ha detto Friedman, elogiando la precedente decisione del presidente degli Stati Uniti Trump di riconoscere la sovranità di Israele su Gerusalemme e sulle alture del Golan.

Pare che siano già in corso degli sforzi coordinati da parte dei governi di Netanyahyu e Trump per estendere la sovranità israeliana sulla Cisgiordania.

Nel suo discorso Bennett ha anche dichiarato come da circa un mese abbia iniziato a sviluppare piani per imporre la sovranità israeliana sul terreno, e ha lasciato intendere come abbia discusso con l’amministrazione Trump per “[spiegare] il modo in cui lo Stato di Israele farà tutto il possibile per garantire che queste aree siano parte dello Stato di Israele”.

Fatti sul terreno

La spaventosa realtà delle parole di Bennett è che la “guerra” di Israele a proposito dell’Area C rappresenta più delle semplici promesse di un politico.

All’incirca nello stesso momento in cui Bennett faceva la sua dichiarazione, il presidente dell’Autorità Palestinese della Commissione Contro il Muro e le Colonie, Walid Assaf, ha annunciato che nel 2019 sono state demolite dalle autorità israeliane circa 700 costruzioni palestinesi, di cui 300 demolizioni nella sola Gerusalemme.

Solo il giorno prima, l’Alta Corte di Giustizia israeliana aveva dato torto a un gruppo di cittadini palestinesi che chiedevano l’annullamento del piano regolatore per le colonie di Ofra, visto che tale piano include circa 5 ettari di terreni privati palestinesi.

E il giorno prima ancora, un’organizzazione di monitoraggio delle colonie, Peace Now, ha riportato che l’amministrazione civile israeliana ha annunciato piani per costruire 1936 abitazioni nelle colonie. Il gruppo ha fatto notare come “l’89% delle unità immobiliari proposte sono in colonie che gli israeliani potrebbero dover evacuare in caso di un futuro accordo di pace coi palestinesi.”.

Hanan Ashrawi, importante dirigente palestinese, ha dichiarato giovedì che Israele ha accelerato i suoi progetti per creare uno stato di “annessione de facto” della Cisgiordania: “Israele sta perseguendo una annessione silenziosa della terra palestinese per impedire in maniera definitiva il diritto fondamentale del popolo palestinese alla libertà e alla giustizia”.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Ortona)




Su un punto il diritto internazionale è chiaro: le colonie israeliane sono illegali

Richard Falk

22 novembre 2019 Middle East Eye

Nonostante l’affermazione contraria dell’amministrazione americana, non vi è alcun dubbio sull’illegalità dell’invasione coloniale di Israele

Questa settimana il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo annunciando che gli Stati Uniti hanno rivisto la propria posizione e non considerano più le colonie israeliane come una violazione del diritto internazionale.

In una delle dichiarazioni pubbliche più stupide della nostra epoca, Pompeo ha spiegato che “le discussioni su chi ha ragione e chi ha torto riguardo al diritto internazionale non condurranno alla pace”. Anzitutto è una cosa stupida perché non c’è un vero dibattito sull’illegalità delle colonie: fino a quando gli Stati Uniti non si sono espressi a loro volta in questo senso, Israele era il solo a difendere la loro legalità. . 

Inoltre il ruolo del diritto internazionale è di regolamentare il comportamento appropriato degli Stati sovrani –non di fare la pace negando la pertinenza della legge, cosa che assomiglia molto ad un incoraggiamento alla legge della giungla.

« Realtà sul terreno »

Pompeo ha tolto ogni dubbio sulla questione quando ha giustificato questo cambiamento nella posizione degli Stati Uniti ammettendo che essi “riconoscono la realtà sul terreno”. In altri termini, i comportamenti fuori dalle regole possono diventare leciti se vengono mantenuti abbastanza a lungo con la forza – una logica che non solo sfida il diritto internazionale, ma è anche contraria agli obblighi giuridici fondamentali sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite.

Soprattutto nell’ambito della pace e della sicurezza, il diritto internazionale può essere in qualche misura ambiguo. Possono essere ragionevolmente sostenute posizioni opposte, che vengono risolte o da un tribunale riconosciuto o da una prassi prolungata nel tempo.

Tuttavia l’insediamento di colonie sul territorio palestinese occupato è un esempio di questione sulla quale non è possibile presentare argomentazioni responsabili a favore della loro legalità.

L’illegalità dell’insediamento dei coloni è stata evidenziata più volte da osservatori informati come il più grande ostacolo alla pace e la dimostrazione più forte ed impudente del disprezzo israeliano nei confronti del diritto internazionale.

Dunque, Washington ha dato la sua benedizione ad Israele, permettendogli di fare in futuro ciò che vuole riguardo alle colonie – e peraltro nell’insieme della Cisgiordania occupata? Dopo tutto, se la Casa Bianca approva d’ora in poi l’annessione delle alture del Golan nel territorio sovrano siriano, la Cisgiordania potrebbe essere considerata insignificante.

La chiarezza del diritto internazionale sulla questione delle colonie israeliane deriva in parte dal fatto inusuale che esse sono state dichiarate ufficialmente illegali dalle principali fonti autorevoli di supervisione internazionale. Molti esempi emblematici dimostrano questo consenso.

Il diritto internazionale unanime

In primo luogo, l’art. 49 della Quarta Convenzione di Ginevra stabilisce che “una potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di parte della propria popolazione civile nel territorio da essa occupato.” Questa importante disposizione del diritto internazionale umanitario è universalmente intesa come divieto di insediare colonie israeliane in qualunque parte dei territori palestinesi occupati.

Se Israele rispettasse il diritto internazionale avrebbe dovuto interrompere le proprie attività di colonizzazione e smantellare ciò che è stato costruito negli anni successivi alla guerra del 1967. Al contrario Israele ha continuato a costruire colonie, a ritmo accelerato, accampando la pretestuosa giustificazione secondo cui gli israeliani devono poter vivere dove vogliono in Palestina.

Israele non considera nemmeno le zone di Gerusalemme e della Cisgiordania dove ci sono le colonie come “occupate” in senso giuridico, ma come facenti parte della “terra promessa”.

In secondo luogo, la Corte Internazionale di Giustizia nel 2004 ha ribadito con forza l’illegalità della costruzione di colonie israeliane in territorio occupato – e con una decisione approvata con 14 voti contro 1, ha dato prova di un livello di unità molto raro.

La Corte ha sottolineato che il muro di separazione era stato costruito in modo da lasciare dal lato israeliano l’80% della popolazione dei coloni, notando di passaggio che le colonie erano state insediate in violazione della legge in vigore. Israele ha rifiutato di conformarsi a questa sentenza definitiva, sottolineando il suo carattere “consultivo”.

In terzo luogo, nel dicembre 2016 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha adottato la Risoluzione 2334, stabilendo con votazione di 14 a 0 che le colonie non avevano alcuna validità giuridica. Gli Stati Uniti si sono astenuti al momento del voto. Questa Risoluzione afferma che le colonie costituiscono “una violazione flagrante del diritto internazionale ed un grave ostacolo alla realizzazione della soluzione di due Stati e ad una pace giusta, duratura e globale.” Sottolineava così esattamente l’opposto di ciò che ha sostenuto Pompeo.

Importanza geopolitica

Nessun Paese può, per decreto, influenzare lo statuto giuridico dell’attività di colonizzazione israeliana. Ciò che Pompeo ha dichiarato è un’evoluzione della posizione politica del governo americano. Essa è insignificante sul piano giuridico, ma significativa su quello geopolitico.

I portavoce di Trump hanno cercato di minimizzare questa evoluzione ricordando che Ronald Reagan, quando era presidente, una volta aveva detto in modo informale di non pensare che le colonie fossero illegali – ma, e questo spesso non viene preso in considerazione, aveva proseguito suggerendo che l’espansione della colonizzazione era d’altro canto “una inutile provocazione”.

Più pertinente era la corrispondenza tra l’ex presidente americano George W. Bush e l’ex Primo Ministro israeliano Ariel Sharon nel 2004, in cui convenivano che qualunque accordo possibile di pace con i palestinesi avrebbe consentito alle colonie lungo la frontiera di essere incorporate ad Israele.

Ancora una volta un tale accordo parallelo era privo di basi giuridiche, non rappresentando nulla più che una pacca sulle spalle geopolitica ad Israele – ma era un efficace segnale di ciò che Israele e gli Stati Uniti avrebbero preteso nei futuri negoziati di pace.

Ciò che rende diversa la dichiarazione di Pompeo è la sua posizione riguardo ad altre controverse decisioni di Trump e il suo linguaggio assolutorio, che incita Israele a procedere con l’annessione. É un altro esempio dell’eccessiva ambizione degli Stati Uniti.

Ultimo chiodo sulla bara

La resistenza palestinese resta forte, come dimostra la Grande Marcia del Ritorno lungo la barriera tra Gaza e Israele, e le iniziative di solidarietà internazionale si rafforzano – una realtà che Israele sembra ammettere, diffamando i suoi oppositori non violenti con le accuse di antisemitismo.

La nuova retorica sulle colonie segue lo schema stabilito dall’amministrazione Trump: disconoscere il consenso internazionale sulle questioni chiave riguardanti i diritti e i doveri degli Stati.

Le mosse salienti di questa tendenza nel contesto palestinese comprendono il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, l’approvazione dell’annessione israeliana delle alture del Golan ed ora l’eliminazione come non pertinente dell’illegalità delle colonie israeliane.

Questa iniziativa è stata condannata negli ambienti diplomatici come l’ultimo chiodo sulla bara della soluzione di due Stati. Essa sposta la bussola politica verso una soluzione con un solo Stato, con la probabilità del dominio ebraico e dell’assoggettamento dei palestinesi entro una struttura statale che assomiglia e si comporta sempre più come un regime di apartheid.

E’ dunque la fine della lotta palestinese? Non credo. La resistenza palestinese e il movimento mondiale di solidarietà racconteranno al mondo un’altra storia.

Richard Falk è un esperto di diritto internazionale e relazioni internazionali, che ha insegnato all’università di Princeton per 40 anni. Nel 2008 è stato anche nominato dall’ONU con un incarico di sei anni come relatore speciale sui diritti umani nei territori palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Rovesciamento della politica di Obama? La dichiarazione di Pompeo sulle colonie israeliane è un fatto già noto

Dania Akkad

19 novembre 2019 – Middle East Eye

Middle East Eye prende in esame le affermazioni del Segretario di Stato USA per separare i fatti dalle interpretazioni

Lunedì il Segretario di Stato USA Mike Pompeo ha annunciato che, dopo quello che ha descritto come un’analisi accurata, l’amministrazione Trump ritiene che le colonie israeliane costruite nella Cisgiordania occupata non siano una violazione delle leggi internazionali.

Come hanno rilevato gli osservatori, non è mai stato precisato chi abbia effettuato lo studio, quanto tempo ci sia voluto e se ci siano stati dissensi; né lo è stata l’esatta motivazione dei tempi dell’annuncio – solo due giorni prima del termine ultimo entro il quale il premier israeliano incaricato Benny Gantz doveva formare una coalizione di governo.

Nella dichiarazione durata 15 minuti, Pompeo ha proceduto a esporre il nuovo corso della politica USA riguardo alle colonie israeliane, che, ha affermato, è “il rovesciamento dell’approccio dell’amministrazione Obama” e l’allineamento a quello dell’amministrazione di Ronald Reagan.

Ma è vero? Middle East Eye riflette su questi punti ed una serie di altri presentati dal Segretario per separare i fatti dalle interpretazioni.

L’amministrazione Trump sta invertendo l’approccio di quella di Obama nei confronti delle colonie israeliane.”

Pompeo ha dato il via alla sua dichiarazione affermando che l’amministrazione Trump sta “invertendo” l’approccio dell’amministrazione Obama nei confronti delle colonie, una linea che molte agenzie di stampa USA hanno preso per buona ed hanno accolto. Ma qual è stato esattamente il punto di vista di Obama sulle colonie?

Verso la fine della sua presidenza, poche settimane prima che Trump assumesse l’incarico, la sua [di Obama, ndtr.] amministrazione si astenne – tra molti applausi – su una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedeva il blocco di tutti gli insediamenti israeliani nei territori occupati. Come dissero i suoi collaboratori al Washington Post, Obama non doveva più presentarsi alle elezioni, e non aveva quindi niente da perdere.

Cinque anni prima, ha raccontato martedì a Democracy Now [rete di notizie e commenti progressista USA, ndtr.] Noura Erakat, avvocato per i diritti umani e giurista palestinese, la storia era stata diversa. Nel febbraio 2011 l’amministrazione Obama fece uso del suo primo veto al Consiglio di Sicurezza ONU contro una risoluzione che condannava le colonie israeliane.

Sì, disse all’epoca l’ambasciatrice all’ONU Susan Rice, gli USA rifiutano “nei termini più decisi” la legittimità della continua costruzione di colonie israeliane, ma la risoluzione rischiava di “rendere più intransigenti le posizioni di entrambe le parti.”

Sicuramente l’amministrazione Obama fece sì che Israele ci pensasse due volte prima di costruire colonie. Basta vedere l’incremento nell’edificazione dopo che Trump ha assunto la presidenza, descritto come potenzialmente “la maggior valanga di costruzioni da anni.”

Ma, come evidenzia Erakat, come tutte le amministrazioni USA negli ultimi 50 anni, quella di Obama ha detto cose contraddittorie. Mentre si è astenuto sulla risoluzione del 2016, solo pochi mesi prima Obama ha accettato di concedere a Israele una cifra record di 3,8 miliardi di dollari di aiuti all’anno per dieci anni – il più grande accordo di questo tipo tra gli Usa e qualunque altro Paese.

Quindi quello che ora stiamo vedendo non è un radicale stravolgimento della politica estera USA sulla questione delle colonie e sulla Palestina, ma piuttosto il suo culmine,” ha detto Erakat martedì.

Tuttavia nel 1981 il presidente Reagan dissentì da questa conclusione e affermò di non credere che le colonie fossero intrinsecamente illegali…Dopo aver attentamente studiato ogni aspetto del dibattito giuridico, questa amministrazione è d’accordo con il presidente Reagan.”

Durante un’intervista con il New York Times nel febbraio 1981, in effetti Ronald Reagan disse di non credere che le colonie fossero illegali, ma affermò anche qualcosa di più in seguito – e le azioni della sua amministrazione furono qualcosa di completamente diverso.

Un giornalista disse che sembrava ci fosse un’accelerazione nella costruzione di colonie in Cisgiordania: “Lei è d’accordo? E, in secondo luogo, la vostra è una politica equilibrata in Medio Oriente?”, chiese il giornalista a Reagan.

Reagan disse che, mentre era in disaccordo quando l’amministrazione del suo predecessore Jimmy Carter aveva definito le colonie come illegali perché, in base a una risoluzione ONU che lasciava la Cisgiordania aperta a tutti, “non sono illegali”, egli riteneva che costruirle fosse “una pessima idea”.

Venne così citato: “Penso che forse ora con questa corsa a edificarle e il fatto di spostarsi all’interno [della Cisgiordania] nel modo in cui lo fanno sia una pessima idea, perché, se continuiamo con lo spirito di Camp David per cercare di arrivare a una pace, forse questo, in questo momento, è inutilmente provocatorio.”

Martedì un ex- consigliere giuridico del ministero degli Esteri israeliano ha detto a Times of Israel [giornale israeliano indipendente in lingua inglese, ndtr.] che, nonostante le sue considerazioni e altre dichiarazioni pubbliche di fonti ufficiali, che si rifiutarono di prendere posizioni giuridiche sulle colonie, durante la sua [di Reagan, ndtr.] amministrazione a porte chiuse i funzionari USA continuarono a dire che le colonie erano illegali.

La stessa proposta di pace di Reagan nel 1982 chiedeva il congelamento [delle costruzioni] sia nelle colonie esistenti che di nuove colonie. La proposta – presentata in una lettera – venne subito respinta da una risoluzione adottata all’unanimità dal governo del primo ministro israeliano Menachem Begin. Begin disse alla radio israeliana che era il suo “giorno più triste come primo ministro”.

La costruzione di colonie civili israeliane in Cisgiordania non è di per sé incompatibile con le leggi internazionali.”

Mentre Pompeo insiste che la legalità delle colonie israeliane è stata attentamente studiata e che, dopo aver esaminato “tutti gli aspetti della discussione giuridica”, l’amministrazione ha concluso che le colonie non sono “incompatibili con le leggi internazionali”, egli non spiega mai davvero esattamente come.

Evidenzia le differenze tra le posizioni dell’amministrazione Trump e le precedenti presidenze, sostiene che il sistema legale israeliano “offre la possibilità di opporsi alle attività di colonizzazione” (asserzioni che un palestinese potrebbe trovare gravemente fuorvianti) e afferma che prendersela con le colonie non ha contribuito agli sforzi per la pace. Ma nelle dichiarazioni di Pompeo non viene mai pienamente chiarito in che modo le colonie non violerebbero più le leggi internazionali, soprattutto le Convenzioni di Ginevra – definite dopo la Seconda Guerra Mondiale per garantire un trattamento umano ai civili durante un conflitto.

In particolare, secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, una potenza occupante “non deve deportare o trasferire parti della propria popolazione civile nel territorio che occupa.” L’Assemblea Generale dell’ONU, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e la Corte Internazionale di Giustizia hanno affermato che le colonie israeliane violano la convenzione che sia gli USA che Israele hanno ratificato. Quindi, cos’è cambiato ora?

E quali sono le conseguenze se le leggi internazionali non contano più? Martedì il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem ha affermato che il “farsesco annuncio” di Pompeo darà via libera non solo al progetto di colonizzazione illegale di Israele, ma aprirà la via ad altre violazioni dei diritti umani in tutto il mondo.

E infine – in conclusione – definire la costruzione di insediamenti civili incompatibile con le leggi internazionali non ha funzionato. Non ha fatto progredire la causa della pace.”

Forse, come ha detto Pompeo, definire le colonie come illegali non ha fatto avanzare la causa della pace. Ma indiscutibilmente non lo hanno fatto neppure il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e la sovranità israeliana sulle Alture del Golan; il taglio ai fondi destinati all’agenzia delle Nazioni Unite per l’Aiuto e il Lavoro (UNRWA), l’ente dell’ONU che fornisce aiuto a più di cinque milioni di rifugiati palestinesi; la chiusura dell’ufficio dell’OLP a Washington; il sostegno a un “accordo del secolo” che marginalizza una delle due parti per la quale è stata pensata come una soluzione.

Nel solo giorno in cui l’amministrazione Trump ha aperto la sua nuova ambasciata a Gerusalemme, il 14 maggio 2018, 68 persone di Gaza sono state uccise o hanno subito ferite letali a causa delle quali sono in seguito morte, mentre protestavano contro l’iniziativa durante la Grande Marcia del Ritorno.

È stata una giornata nera nel ricordo dei palestinesi,” ha detto a Middle East Eye il direttore dell’ospedale Al-Shifa di Gaza City, il dottor Medhat Abbas, che quel giorno ha curato circa 500 feriti.

In che modo le iniziative che l’amministrazione Trump ha preso dal giorno del suo insediamento abbiano protetto “la sicurezza e il benessere di palestinesi e israeliani,” come Pompeo invita le due parti a fare, è un’altra delle cose che non ha chiarito.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)