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Israele infligge ai minori palestinesi violenze fisiche e psicologiche

Anjuman Rahman

29 ottobre 2020 – Middle East Monitor

Israele è l’unico Paese al mondo che processa regolarmente dei minori in tribunali militari, che non garantiscono minimamente un processo equo

Hanno sfondato la porta d’ingresso, sono entrati nella mia stanza, mi hanno coperto la faccia con un sacco e mi hanno portato via,” spiega Abdullah. “Hanno detto a mio padre che sarei ritornato il giorno dopo.” Ma non è tornato dalla sua famiglia fino all’anno seguente ed è stato arrestato altre sei volte.

Questo non è insolito nella Palestina occupata, dove i minori prigionieri sono una parte rilevante della narrazione palestinese. Ogni anno centinaia di minori, alcuni di 12 anni, sono detenuti e processati nel sistema giudiziario militare.

L’accusa più comune è il lancio di pietre, che l’esercito israeliano considera un “attacco alla sicurezza”. Chi è giudicato colpevole può subire fino a 20 anni di carcere, a seconda dell’età del minore.

Israele è l’unico Paese al mondo che processa abitualmente i minori in tribunali militari, che non garantiscono minimamente un processo equo. Inoltre i minori palestinesi detenuti da Israele subiscono violenze e torture sistematiche, che sono state legittimate dal potere giudiziario e dal governo.

La terribile situazione di questi ragazzi è ben documentata. La portata del problema è stata delineata dall’ONG Save the Children [associazione internazionale che si occupa di bambini e adolescenti in tutto il mondo, con sede a Londra, ndtr.] in un nuovo rapporto.

Attualmente ci sono almeno 200 minori palestinesi detenuti nelle carceri israeliane di Ofer, Damon e Megiddo. Ci sono anche minori disabili e con problemi di salute mentale. Damon e Megiddo sono sovraffollate e i minori prigionieri sono tenuti a stretto contatto tra loro in condizioni di squallore e mancanza di igiene. C’è scarsa attenzione all’aspetto sanitario.

Gli attivisti dicono che le conclusioni di Save the Children dimostrano che i minori in custodia sono trattati peggio degli animali e descrivono il loro trattamento come “spaventoso”, avvertendo che “i minori vengono torturati”. La realtà è che se degli animali fossero trattati così scoppierebbe uno scandalo nazionale e persino internazionale.

Anche le ragazze detenute subiscono un trattamento terribile. Interviste condotte da Save the Children con ex detenute rivelano che le ragazze hanno riferito di essere state arrestate prevalentemente ai posti di blocco, mentre la maggioranza dei ragazzi sono stati arrestati a casa loro. È normale per i giovani palestinesi essere presi di mira quando si trovano vicino alle colonie illegali israeliane.

Mentre la maggior parte delle punizioni sono perpetrate all’interno delle prigioni israeliane, il rapporto documenta anche che più della metà dei minori intervistati ha affermato che le violenze normalmente iniziano prima di una qualunque indagine, nel corso della quale vengono umiliati e torturati ancor di più. Nelle testimonianze raccolte dalla ONG i ragazzi hanno riferito l’uso di manette e bende per gli occhi e di violenze fisiche e verbali durante il loro arresto e trasferimento [in carcere]. Inoltre molti sono stati arrestati di notte e non gli è stato permesso di dormire prima dell’interrogatorio.

Issa* aveva 15 anni quando è stato arrestato. “Mentre venivo interrogato”, ha spiegato, “mi urlavano contro e hanno messo un fucile sul tavolo di fronte a me per spaventarmi. Hanno detto parole brutte, brutte. Non voglio pensare a quelle parole. La prigione era un posto orribile. Mettevano la sveglia a mezzanotte, alle 3 e alle 6 del mattino in modo che non potessimo mai dormire a lungo. Se non eri sveglio in quei momenti ti picchiavano. Io sono stato picchiato alcune volte con bastoni di legno. Ho ancora adesso male alla schiena a causa di un pestaggio particolarmente duro.”

Un’altra vittima è stata arrestata quando aveva 14 anni. La testimonianza di Fatima racconta come è stata aggredita dalle forze di sicurezza israeliane quando è stata arrestata ad un checkpoint militare mentre stava andando a scuola. “Hanno perquisito la mia borsa e mi hanno parlato in ebraico, una lingua che io non capisco. Mi hanno ammanettata, gettata a terra e presa a calci nella schiena.”

Quelli che non hanno avuto danni fisici permanenti sono spesso feriti psicologicamente. Quasi la metà dei minori intervistati concorda di non riuscire a tornare pienamente ad una vita normale. L’85% ha detto di essere cambiato a causa delle esperienze vissute. L’impatto della detenzione viene avvertito soprattutto quando cercano di tornare alla vita normale con i familiari.

Questi minori vulnerabili sono palesemente stressati e spezzati. Non si tratta solo del trauma per quello che gli è successo in prigione, ma anche di ciò che hanno dovuto subire prima di essere incarcerati. La brutale occupazione israeliana della Cisgiordania, l’assedio della Striscia di Gaza e la sistematica negazione dei legittimi diritti dei palestinesi hanno provocato una grave crisi molto complessa, che ha compromesso la salute psichica e fisica del popolo palestinese. I problemi emotivi sono molto diffusi.

Inoltre dal momento del loro arresto – che avviene spesso in piena notte – fino al processo in tribunale, i minori subiscono molte violazioni dei diritti, incluse violenze fisiche e verbali, coercizione e negazione della presenza di genitori o avvocati durante il loro interrogatorio. In più, quando infine vengono scarcerati, l’occupazione israeliana continua a costituire una parte brutale e costante della loro vita.

Le violazioni dei diritti umani e le dure condizioni di detenzione hanno significative conseguenze psicologiche sui minori e sulle loro famiglie. Il disordine da stress post-traumatico è frequente. “Come persona, io sono cambiato”, dice Mahmoud, arrestato quando aveva 17 anni. “La mia rabbia è aumentata e non riesco a sopportare niente.”

Minori ex detenuti riferiscono di non riuscire a fidarsi di nessuno né a costruire rapporti significativi nella “vita dopo il carcere”. Infatti mostrano scarsa attitudine relazionale e tendono ad isolarsi dal mondo esterno a causa delle proprie insicurezze e della paura “degli altri”. Gli effetti dell’incarcerazione si riscontrano anche nel continuo senso di insicurezza e molti ragazzi lasciano la scuola o faticano ad avere rapporti con i familiari a casa.

L’Autorità Nazionale Palestinese è stata più volte criticata per non aver agito per facilitare il ritorno a casa dei minori quando vengono scarcerati da Israele. Nel suo rapporto Save the Children suggerisce che l’ANP potrebbe agevolare il reinserimento degli ex detenuti nelle rispettive comunità e nel sistema educativo, per esempio modificando la prassi che non consente ai minori di proseguire l’anno scolastico dopo un certo numero di assenze. L’ONG chiede anche all’ANP di appoggiare un programma di presa di coscienza per aiutare i ragazzi a comprendere i loro diritti in ogni fase del loro percorso detentivo, compreso il diritto al silenzio, all’assistenza legale e all’educazione. Save the Children sostiene che ciò dovrebbe costituire parte integrante del curriculum scolastico.

La comunità internazionale deve intervenire e fare pressione su Israele per porre fine alle sue violazioni nei confronti dei minori palestinesi. Il diritto internazionale è esplicito riguardo a ciò che si può fare e che non si può fare rispetto ai minori che vengono arrestati. Tuttavia, come in molti altri ambiti, Israele disprezza le leggi.

La Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989 afferma che l’incarcerazione di minori deve essere “una misura estrema e per un periodo di tempo il più breve possibile”. Israele ha ratificato la Convenzione nel 1991, ma ha ricevuto le critiche dell’ONU per la sua applicazione o per non averlo fatto. È giunto certamente il momento che lo Stato si dimostri capace di agire perché l’impunità abbia immediatamente fine.

*Tutti i nomi citati sono stati modificati per proteggere l’identità delle vittime.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Proseguono gli scioperi della fame dei prigionieri

Alessandra Mincone

20 giugno 2019, Nena News

Dalla prigione di Ashqelon a quella di Damon i detenuti palestinesi, uomini e donne, portano avanti questa forma di protesta che riesce a frenare abusi e restrizioni attuate dalle autorità carcerarie israeliane

Dopo sabato 15 giugno, quando le celle della prigione centrale di Ashqelon, “Shikma”, sono state prese d’assalto dalle guardie carcerarie, più di quaranta detenuti hanno minacciato uno sciopero della fame ottenendo che numerose rivendicazioni venissero poste all’attenzione delle autorità israeliane. Tra queste, si chiede di mettere fine alle aggressioni da parte delle guardie; l’accesso all’acqua calda; il recupero di beni fondamentali per i prigionieri come cibo, indumenti, carta, penne e libri; il diritto a ricevere visite di legali e familiari; la possibilità di usufruire di cabine telefoniche, di poter godere di tempi e spazi d’aria adeguati alla luce del sole e di eliminare i ripetitori delle frequenze per i telefoni cellulari (usati dalle guardie) dannosi per la salute. Inoltre di mettere fine alla pratica dei trasferimenti eseguite in veicoli militari chiamati “bosta”, una sorta di “bara” in cui i prigionieri viaggiano piegati in strette gabbie di metallo e incatenati  braccia e gambe, persino quelli in precarie condizioni di salute, per tragitti che durano anche tre giorni.

La Società Palestinese dei Detenuti ha riscontrato un primo esito positivo dalla discussione con l’amministrazione carceraria, tanto da affermare che con lo sciopero ad Ashqelon è stato ottenuto un trattamento sanitario per quattro prigionieri gravemente malati e, inoltre, si consentirà il ritorno di un altro prigioniero a Shikma entro il 1 luglio.

Lo scorso aprile, circa 400 prigionieri avevano aderito ad uno sciopero della fame a tempo indeterminato al grido della parola “dignità”. Una protesta che nonostante abbia fallito nella trattativa con le istituzioni carcerarie, è comunque riuscita ad allargarsi ai centri di detenzione di massima sicurezza di Gilboa, Megiddo, Eshel, Ofer, Nafha e Ramon; questi ultimi due edifici formano un’unica prigione che si trova nell’area desertica a sud-est della Palestina. Nafha, denunciato come uno dei carceri più duri e severi attivo dagli anni ottanta, fu progettato per imprigionare i leader delle proteste palestinesi al fine di isolarli. I palestinesi affermano che vi vengono praticate “forme di tortura” con le quali i reclusi sono gradualmente “spinti verso la morte”. Mentre il complesso di Ramon, edificio più recente, proprio lo scorso 17 giugno è stato teatro di tensioni a causa di agguati e saccheggi da parte delle guardie penitenziarie.

Nelle prigioni israeliane la pratica dello sciopero della fame rappresenta storicamente un modello di lotta con cui i palestinesi hanno provato a contrastare l’abuso di potere esercitato quotidianamente dalle guardie. È l’esempio della prigione di Ramleh, dove nel 1953 furono imprigionati i primi palestinesi, e nel 1968 si assisté ai due primi scioperi della fame a causa degli abusi fisici, dell’esposizione costante alla pioggia e per ottenere quaderni, penne e libri nelle celle. Riguardo invece la prigione Shikma di Ashqelon, essa è conosciuta come una delle più dure sin dagli anni Settanta. Se inizialmente una parte dell’edificio di Ashqelon fu strutturato solo come centro per gli interrogatori ai detenuti (tutt’ora in vigore), in seguito fu furono costruite aree murate per imprigionare chi si opponeva all’occupazione israeliana delle terre palestinesi.

Proprio ad Ashqelon alcune indagini portate avanti da gruppi israeliani per i diritti umani – quali B’Tselem e HaMoked – dimostrano che le dinamiche di umiliazione così come i trattamenti degradanti hanno inizio proprio dalla fase dell’interrogatorio dei prigionieri: deprivazione del sonno e dei servizi igienici, isolamento ed esposizione a temperature estreme, minacce, violenze di vario genere, negazione a consultare degli assistenti legali. Tecniche che secondo Noga Kadman di B’Tslem sono orchestrate dall’intelligence israeliana, dagli uffici delle Procure e dall’intero apparato statale, con il beneplacito consenso addirittura dell’Autorità Nazionale Palestinese, al fine di estorcere delle dichiarazioni dall’interrogato completamente manovrate e distorte. Le due organizzazioni hanno congiuntamente scritto che: “hanno tutti contribuito a diversi aspetti di trattamenti abusivi, crudeli, disumani e degradanti subiti dai detenuti palestinesi a Shikma e in altri centri di detenzione”.

L’associazione per i diritti umani e il supporto ai prigionieri palestinesi, mostra sul proprio sito alcuni dati aggiornati fino a Maggio 2019. Sono 5350 i prigionieri politici nelle carceri israeliane, di cui 480 in “detenzione amministrativa” – ossia, reclusi senza processo e quindi formalmente senza aver commesso alcun reato e senza il diritto all’assistenza legale; mentre 210 sono i minori, di cui 26 al di sotto dei 16 anni.

Dal 1967 le forze israeliane hanno arrestato più di 50.000 bambini e giovanissimi. Dallo scoppio della Seconda Intifada, nell’anno 2000, sono stati imprigionati circa 16.500 bambini con un aumento vertiginoso degli arresti nel 2011. Le accuse di provocazione per il lancio di pietre contro i militari e i più recenti aquiloni incendiari (da Gaza verso il territorio meridionale israeliano), hanno prodotto pesanti abusi delle autorità israeliane contro i diritti di ragazzi e giovani a cui viene negata la libertà e possibilità a livello scolastico e sanitario.

Dal malcontento dei prigionieri e delle prigioniere, sottolinea la Rete di Solidarietà dei detenuti politici palestinesi Samidoun, si può sperare nel successo delle lotte avviate. In un comunicato dove si congratula per le proteste di Ashqelon, la Rete coglie l’occasione per lanciare un appello delle prigioniere palestinesi in vista del prossimo sciopero della fame collettivo, proclamato per il 1 luglio nel carcere di Damon. Nena News

“Canterò nella cella della mia prigione

nella stalla

sotto la sferza

tra i ceppi

nello spasimo delle catene.

Ho dentro di me milioni di usignoli

per cantare la mia canzone di lotta.”

Mahmoud Darwish