In un comunicato inviato a Palestine Chronicle Spotify spiega perché una canzone popolare di Mohammed Assaf è stata censurata

Redazione di Palestine Chronicle

21 maggio 2023 – Palestine Chronicle

In un comunicato inviato a Palestine Chronicle un’agenzia di pubbliche relazioni che rappresenta Spotify MENA [acronimo inglese per Paesi del Medio Oriente e Nord Africa, ndt.] afferma che la ragione della rimozione di una canzone popolare del famoso artista palestinese Mohammed Assaf “non è stata decisa da Spotify ma dal distributore.”

Il comunicato di Spotify, inviato tramite Publicist Inc., sostiene anche che “anticipiamo che nel prossimo futuro verrà reinserita e ci scusiamo per ogni inconveniente provocato.”

Nel breve comunicato si legge:

Spotify intende offrire sulla propria piattaforma un’ampia gamma di musiche, ma la disponibilità può variare nel tempo e a seconda dei Paesi. La rimozione di alcuni contenuti di Mohammed Assaf non è stata decisa da Spotify ma dal distributore. Anticipiamo il suo reinserimento nel prossimo futuro e ci scusiamo per qualunque inconveniente provocato.”

In precedenza Palestine Chronicle e altre fonti avevano dato notizia che Spotify e Apple Music avevano deciso di eliminare la canzone “Ana Dammi Falastini” (Il mio sangue è palestinese) di Assaf accusandolo di antisemitismo.

Secondo Roya News [rete informativa giordana, ndt.], dopo aver scoperto che la sua canzone era stata eliminata da entrambe le piattaforme, il cantante palestinese ha condiviso la sua sorpresa in una intervista con Al-Araby al-Jadeed [Il Nuovo Arabo, sito web di notizie in arabo con sede a Londra, ndt.].

Assaf avrebbe detto di aver ricevuto una mail ufficiale in cui si menzionavano accuse di antisemitismo come ragione per la cancellazione della canzone.

Assaf, nato e cresciuto a Gaza, ha sottolineato su Instagram che la canzone è stampata nel cuore di qualunque persona onesta e libera.

Secondo Doha News [blog di notizie con sede in Qatar, ndt.], “la decisione da parte del gigante dello streaming di eliminare la canzone è arrivata dopo che una petizione organizzata dalla filo-sionista “We Believe in Israel” [Noi crediamo in Israele] (WBII) e dal Consiglio dei Deputati ha raccolto circa 4.000 firme.”

Per Israele cancellare la Palestina ed escludere il popolo palestinese dalla storia della sua stessa terra è sempre stato un comportamento strategico,” ha scritto in un recente articolo il giornalista ed editorialista palestinese di Palestine Chronicle Ramzy Baorud, commentando la decisione israeliana di impedire ad Assaf di tornare in Palestina.

La cultura palestinese è stata molto utile alla lotta del popolo palestinese. Nonostante l’occupazione e l’apartheid israeliane, essa ha dato ai palestinesi un senso di continuità e coesione, legandoli tutti a un senso collettivo di identità che ruota intorno alla Palestina,” aveva scritto Baroud.

Nota di redazione: aggiungiamo all’articolo di Palestine Chronicle il testo della canzone censurata da Spotify in modo che i lettori possano verificare quanto ci sia di antisemita.

Il mio sangue è palestinese

Tenendo fede al mio giuramento, seguendo la mia religione

Mi troverai sulla mia terra

Appartengo al mio popolo, sacrifico la mia anima per lui

Il mio sangue è palestinese, palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

Siamo rimasti con te, nostra patria

Con il nostro orgoglio e identità araba

La terra di Gerusalemme ci ha chiamati

(Come) il suono della voce di mia madre che mi chiama

Palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

Tenendo fede al mio giuramento, seguendo la mia religione

Mi troverai sulla mia terra

Appartengo al mio popolo, sacrifico la mia anima per lui

Il mio sangue è palestinese, palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

Oh madre, non preoccuparti

La tua patria è un castello fortificato

A cui sacrifico la mia anima

E il mio sangue, e le mie vene.

Tenendo fede al mio giuramento, seguendo la mia religione

Mi troverai sulla mia terra

Appartengo al mio popolo, sacrifico la mia anima per lui

Il mio sangue è palestinese, palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

 Sono palestinese, figlio di una famiglia libera

Sono valoroso e vado a testa alta

Tengo fede al mio giuramento per la mia patria

Non mi sono mai piegato di fronte a nessuno

Palestinese, palestinese

Il mio sangue è palestinese.

Tenendo fede al mio giuramento, seguendo la mia religione

Mi troverai sulla mia terra

Appartengo al mio popolo, sacrifico la mia anima per lui

Il mio sangue è palestinese, palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

(traduzione dall’inglese dell’articolo e del testo della canzone di Amedeo Rossi)




Il cantante Assaf è l’ultima vittima della guerra contro la cultura palestinese

Ramzi Baroud

11 gennaio 2021- ArabNews

Perché le autorità israeliane odiano il cantante palestinese Mohammed Assaf? Avi Dichter, parlamentare della Knesset nel partito di destra Likud, ha annunciato questo mese che sarà revocato il permesso speciale di Assaf per entrare nella Cisgiordania occupata.
Assaf, originario di Gaza, ora vive con la sua famiglia negli EAU [Emirati Arabi Uniti, ndtr.]. È diventato una celebrità nel 2013 quando ha vinto il talent show “
Arab Idol”. La sua performance vincente della canzone “Raise Your Keffiyeh” ha suscitato un raro momento di unità in tutte le comunità palestinesi. Mentre pubblico, giudici e milioni di arabi ballavano con lui, Assaf ha conquistato il centro della scena a Beirut, offrendo alla cultura palestinese di dar nuovamente prova del suo valore come strumento politico che non può essere ignorato.
Da allora, Assaf ha cantato di tutto quello che è palestinese: dalla Nakba, la catastrofica perdita della patria palestinese, all’intifada e al dolore di Gaza, a ogni altro simbolo culturale palestinese.
Nato e cresciuto nella Striscia di Gaza, ha sperimentato in prima persona l’occupazione militare israeliana, parecchie guerre terribili e, naturalmente, l’assedio tuttora in corso. Entrambi i genitori sono rifugiati, la madre viene da Beit Daras [città a nord est di Gaza svuotata dei suoi abitanti dalle milizie sioniste nel 1948, ndtr.] e il padre da Beir Al-Saba [l’attuale Be’er Sheva, principale città del Negev, ndtr.]. L’abilità del giovane di andare oltre il doloroso vissuto della sua famiglia e restare ciononostante dedito ai valori culturali della sua società, merita alcune riflessioni e molte lodi.
L’annuncio di Dichter che ad Assaf sarà impedito di ritornare in patria non è così scandaloso come potrebbe sembrare. La guerra di Israele contro la cultura palestinese è vecchia quanto Israele stesso.

Negli ultimi settant’anni, Israele ha dimostrato la sua capacità di sconfiggere militarmente i palestinesi e persino interi eserciti arabi e inoltre, con l’aiuto dei suoi benefattori occidentali, è riuscito a dividere i palestinesi in gruppi rivali, spezzando nel contempo l’unita araba sulla Palestina. I palestinesi sono stati divisi geograficamente e isolati in tanti spazi ridotti nella speranza che ogni collettività avrebbe poi sviluppato aspirazioni diverse basate su priorità politiche completamente differenti. Di conseguenza i palestinesi sono stati assediati a Gaza, trattenuti in zone segregate in Cisgiordania e Gerusalemme Est, in comunità economicamente marginalizzate all’interno di Israele e dispersi nella “shatat” (diaspora).
Persino i palestinesi della diaspora, alcuni diventati più volte di seguito rifugiati, sopravvivono in contesti politici su cui hanno pochissimo controllo. I palestinesi dell’Iraq, per esempio, si sono trovati a dover fuggire all’inizio dell’invasione americana di quel Paese nel 2003; la stessa cosa è successa prima in Libano e poi in Siria.

I continui tentativi israeliani miranti a distruggere la Palestina si sono anche spostati dalla sfera fisica a quella virtuale, facendo pressioni per censurare le voci palestinesi sui social e persino rimuovendo dai menù delle linee aeree i riferimenti alla Palestina.
Naturalmente niente di tutto ciò avviene per caso, dato che i leader israeliani capiscono che la distruzione della Palestina, tangibile e presente, deve essere accompagnata dalla distruzione dell’idea palestinese, l’insieme di valori culturali e politici che garantiscono la sua coesione e continuità nelle menti di tutti i palestinesi, ovunque essi siano.
Dato che la cultura si basa su una miriade di forme di espressione, Israele ha dedicato molta energia e molte risorse a eliminare espressioni culturali palestinesi che permettono alla Palestina di esistere, nonostante le divisioni politiche, le divisioni fra arabi e la frammentazione geografica. Ci sono numerosi esempi che dimostrano ampiamente l’ossessione della dirigenza israeliana per sconfiggere la cultura palestinese. Come se l’obliterazione fisica della Palestina nel 1948 non fosse abbastanza, i politici israeliani inventano costantemente nuovi modi per rimuovere ogni rimanente simbolo di cultura palestinese e araba.
Nel 2009, per esempio, il governo di destra israeliano ha avviato il processo per cambiare i nomi dall’arabo all’ebraico su migliaia di cartelli stradali. E nel 2018 la “legge dello Stato-Nazione”, apertamente razzista, ha degradato lo status della lingua araba.
Ma questi esempi sono stati solo l’inizio della guerra israeliana contro la cultura palestinese. I fondatori di Israele erano consci dei pericoli che la cultura palestinese poneva per la sua capacità di unificare il popolo palestinese dopo la pulizia etnica di circa due terzi della popolazione dalla loro patria storica.

Una lettera ufficiale mandata a Yitzhak Gruenbaum, il primo ministro degli Interni israeliano, gli ordinava di cambiare i nomi di villaggi e regioni palestinesi recentemente spopolati con alternative in ebraico. “I nomi tradizionali devono essere sostituiti dai nuovi … dato che, in una anticipazione del rinnovamento dei nostri giorni come erano anticamente, per vivere la vita di un popolo sano con le sue radici nella terra del proprio Paese, noi dobbiamo cominciare con la fondamentale ebraicizzazione della sua carta geografica,” affermò. Subito dopo, fu creata una commissione governativa con il compito di cambiare nome a tutto ciò che era arabo palestinese.

Un’altra lettera, scritta nell’agosto 1957 da un funzionario del ministero degli Esteri israeliano, sollecitava il Dipartimento delle Antichità a velocizzare la distruzione delle case palestinesi svuotate durante la Nakba. “Le rovine dei villaggi e dei quartieri arabi o gli isolati di edifici che sono rimasti vuoti dal 1948 risvegliano connessioni sgradevoli che causano considerevole danno politico,” scrisse. “Devono essere spazzati via.”

Per Israele, cancellare dalla memoria la Palestina e strappare il popolo palestinese dalla storia della loro patria è sempre stata un’impresa di valore strategico. Spostiamoci velocemente all’oggi e la macchina ufficiale israeliana resta dedita alla stessa missione coloniale. L’accordo firmato nel 2016 fra il governo israeliano e Facebook per porre fine alla “istigazione ” palestinese online ha lo stesso obiettivo: zittire la voce del popolo palestinese.
La cultura palestinese è stata molto utile alla lotta del popolo palestinese. Nonostante l’occupazione israeliana e l’apartheid, gli ha dato un senso di continuità e coesione, tenendolo legato ad un senso collettivo di identità.
L’annuncio di Israele che vieterà a un cantante palestinese di ritornare e quindi di esibirsi per i palestinesi che vivono sotto occupazione non è, dal punto di vista israeliano, per niente scandaloso. È un altro tentativo di interrompere il flusso naturale della cultura palestinese che, nonostante la perdita della Palestina stessa, è forte e concreto, come sempre lo è stato.

  • Ramzy Baroud è giornalista e direttore di ‘The Palestine Chronicle’. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons[Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane] (Clarity Press, Atlanta).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)