A Gaza non si sfugge al terrore

Ahmed Mohammed Jnena  

24 novembre 2024 Mondoweiss

Quando a Gaza è iniziato il genocidio ho confidato in Dio e respinto del tutto la paura. Ma poi, intrappolato sotto le macerie della mia casa distrutta, ho provato un’autentica paura. E da allora non mi ha più abbandonato.

La guerra incalzava. Le bombe cadevano senza sosta, più rumorose e pesanti che mai. Per me non era una novità. Il mio quartiere, al-Shuja’iyya, è stato bombardato innumerevoli volte: 2008, 2012, 2014, 2021, e tra queste c’erano attacchi aerei periodici e lunatici, imprevedibili ma familiari. Questa era la vita a Gaza, che è stata un ciclo infinito di sopravvivenza e ricostruzione. Quindi, quando i primi attacchi aerei seguirono il 7 ottobre, pensai che fosse solo un capitolo della stessa triste storia. Mi sbagliavo.

Il numero dei morti salito a diverse migliaia, gli attacchi aerei implacabili… Il numero di sigarette di mio padre aumentava di giorno in giorno. A Gaza le sigarette non sono un lusso, sono una forma di silenziosa autopunizione o un disperato tentativo di alleviare lo stress. I fattori di stress sono ovunque, anche prima che scoppiasse la guerra. Sapevo che presto i prezzi delle sigarette sarebbero saliti alle stelle, un altro crudele paradosso nelle nostre vite.

Sono Ahmed, ho 23 anni e faccio parte di una famiglia di nove persone. Due dei miei fratelli vivono all’estero: uno è insegnante in Kuwait e ci sostiene economicamente, l’altro è in Turchia e sta cercando di emigrare in Europa per provvedere alla moglie e ai due figli. Una settimana dopo il 7 ottobre mia madre, mia sorella e quattro dei miei fratelli sono stati evacuati nella scuola UNRWA di Al-Rimal, nella parte occidentale di Gaza City. Mio padre, 64 anni, e io siamo rimasti indietro: “i lealisti”, come dicevamo scherzando.

Mio padre non aveva paura della morte. L’accettava con calma rassegnazione, a volte trovando conforto nella sua ineluttabilità. Io, d’altro canto, credevo di poter respingere del tutto la paura riponendo la mia fiducia in Dio. “La paura è un’illusione”, gli dissi una sera. Scosse la testa, la voce ferma.

“La paura è reale, figlio mio”, disse. “Anche i profeti avevano paura. Ricordi Mosè quando gli fu detto di tenere il bastone? La paura esiste tanto quanto il coraggio”.

Allora non ne ero convinto. Ma l’8 novembre ho scoperto la verità sulla paura.

Un F-16 israeliano ha ridotto la nostra casa in macerie in pochi secondi. Ero intrappolato tra due muri crollati, bloccato sul posto dal cemento implacabile. Per due strazianti ore sono rimasto solo in una soffocante oscurità, ascoltando i deboli scricchiolii della distruzione e le grida lontane. La paura mi ha afferrato, cruda e ineluttabile.

Poi l’ho sentito. La voce di mio padre mi chiamava da qualche parte tra le macerie. Era stato colpito dallo stesso attacco aereo ma mi stava cercando tra le rovine. Le sue mani, ferme nonostante il caos, mi guidarono tra le macerie dall’altra parte del muro. Quella fu l’ultima cosa che ricordo chiaramente prima che il secondo attacco aereo ne stroncasse la voce e lo uccidesse. Il mio coraggioso padre se n’era andato.

Quando fui tirato fuori dalle macerie avevo il bacino e parte della spina dorsale rotti. Quando arrivò l’ambulanza fui portato d’urgenza all’ospedale di al-Shifa. Rimasi lì per settimane a ricevere cure prima che l’esercito israeliano circondasse l’ospedale e bombardasse proprio il piano in cui mi trovavo. La morte insisteva nel seguirmi come un’ombra. Non appena l’esercito circondò l’ospedale fui trasferito con altri pazienti e dottori all’Ospedale Europeo di Khan Younis.

La mia spina dorsale e il mio bacino necessitavano di un intervento chirurgico e l’ospedale in cui mi trovavo a malapena funzionava, veniva usato principalmente come rifugio. Alla fine il Ministero della Salute rilasciò un’impegnativa che mi avrebbe consentito di essere curato in Egitto, cosa non facile da ottenere poiché si dà la priorità ai casi più gravi. Però non ha funzionato. Anche se mio fratello poteva garantire i fondi per il mio viaggio in Egitto, gli israeliani hanno presto preso il controllo del valico di Rafah e lo hanno chiuso, mettendo le cure fuori discussione.

Dovevo perseverare in questa lotta senza fine, non avevo scelta. Un doloroso passo dopo l’altro, la mia salute è migliorata e alla fine riesco a camminare. Ora vendo sapone fatto in casa per le strade di Deir al-Balah per sostenere mia madre, i miei fratelli e mia sorella, ma anche perché non ho altra scelta.

Penso che nonostante tutte queste difficoltà posso ancora farcela. Abbiamo sempre lottato a Gaza prima del 7 ottobre. Ma ciò che non riesco a gestire è la profonda paura che mi ha sconvolto quella notte.

Da quella notte la paura non mi ha più abbandonato. I miei ricordi prima dell’attacco sembrano frammenti di un sogno, sfocati e irraggiungibili. Non ricordo molto della mia vita prima di allora. Forse se tornassimo alle macerie, ai resti della nostra casa, qualche oggetto dimenticato potrebbe scatenare un ricordo. Per ora, però, vivo nel presente, portando il peso di un passato che non riesco a ricordare e una paura che non posso negare.

La paura esiste. È reale. Mio padre ha ragione. Ora ho capito.

.(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Cosa significa il licenziamento di Yoav Gallant da parte di Netanyahu per Gaza, la guerra regionale di Israele e le relazioni tra Stati Uniti e Israele

Mitchell Plitnick  

5 novembre 2024  Mondoweiss

Il licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant da parte di Benjamin Netanyahu ha rimosso anche l’ultimo minimo freno all’espansione della guerra regionale di Israele contro l’Iran e l’asse della resistenza. La pressione internazionale per fermare Israele è ora più che mai necessaria.

In una mossa che stava preparando da molti mesi il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha licenziato il suo ministro della Difesa Yoav Gallant. Sarà sostituito come ministro della Difesa dal ministro degli Esteri Yisrael Katz, che a sua volta sarà sostituito come ministro degli Esteri da Gideon Sa’ar. Sebbene Gallant fosse sulla “lista nera” di Netanyahu da molto tempo, il primo ministro è stato riluttante a sostituire il ministro della Difesa mentre Israele è impegnato in così tante importanti operazioni militari. Quindi, perché l’ha fatto solo ora?

Considerazioni di politica interna

La decisione di Netanyahu non ha nulla a che fare con preoccupazioni militari, ma con la politica interna. La coalizione è attualmente scossa dalle polemiche su un disegno di legge fortemente sostenuto dal partito United Torah Judaism [partito degli ultraortodossi, ndt.] che consentirebbe agli uomini ultra-ortodossi (noti come haredi) che si rifiutano di prestare servizio nell’esercito israeliano di continuare a ricevere i sussidi per i figli. Lo scopo di fondo del disegno di legge è aggirare le nuove leggi che richiedono che gli haredi, da tempo esentati dal servizio militare obbligatorio, prestino servizio come gli altri cittadini.

Gallant non è l’unico membro della coalizione di governo a opporsi pubblicamente a questo disegno di legge, ma è quello di più alto profilo. Bisogna certo ricordare che Gallant è uno dei pochi nella cerchia ristretta a non essere un lacché di Netanyahu. Si è già opposto pubblicamente a Netanyahu in precedenza, ma questa volta, come verrà discusso qui di seguito, Netanyahu vuole assolutamente sostituire Gallant prima che si insedi la prossima amministrazione statunitense.

Yisrael Katz, da parte sua, è decisamente l’uomo per Netanyahu, tuttavia non ha una significativa esperienza militare, e questo sarà un problema per Israele. Non è nell’esercito da oltre 45 anni e non ha mai nemmeno prestato servizio civile nel ministero della Difesa. Katz è stato nominato alla luce del sole in modo che Netanyahu abbia effettivamente il pieno controllo del ministero della Difesa, mentre il licenziamento di Gallant è stato una punizione e un chiaro avvertimento a chiunque nella coalizione di governo voglia prendere in considerazione di andare contro il primo ministro in merito ad una legge cruciale.

Problemi di sicurezza

Gallant vede il genocidio a Gaza, così come le operazioni in Libano, Siria, Yemen e Iran, come operazioni di sicurezza. Pur sapendo che avrebbe dovuto dar conto dei massicci fallimenti israeliani il 7 ottobre, non ha messo le sue preoccupazioni personali al primo posto come Netanyahu. Per Gallant, il genocidio è stata la risposta appropriata al 7 ottobre. È stato lui, ricordiamo, a fare quello sfrontato annuncio sul bloccare del tutto a Gaza il cibo, l’acqua, l’elettricità, le medicine e tutti i beni per il sostentamento vitale a coloro che ha chiamato “animali umani”.

Ma è stato sempre lui a voler porre fine alle operazioni quando ha ritenuto che Hamas fosse stata effettivamente neutralizzata. Di nuovo, non era la preoccupazione per la vita di qualche palestinese, ma perché lo riteneva la cosa migliore per Israele.

È molto meno probabile che Katz metta in discussione le decisioni di Netanyahu, e anche i prossimi cambiamenti nella leadership militare di Israele hanno avuto un ruolo in questa decisione e nella sua tempistica.

Si dice che il capo di stato maggiore Herzi Halevi, il comandante militare al vertice di Israele, si dimetterà forse già il mese prossimo. Netanyahu vorrà probabilmente sostituirlo con un certo Eyal Zamir che è stato vicino a Netanyahu per molti anni, anche nel ruolo di suo segretario militare. Zamir è attualmente il vice capo di Stato Maggiore, quindi è in buona posizione.

Un ostacolo per Netanyahu è che quando Gideon Sa’ar ha accettato di entrare nel suo governo uno dei benefici che Netanyahu gli ha concesso è stato il potere di veto sul prossimo Capo di Stato maggiore. Questo ha sicuramente giocato un ruolo chiave nella nomina a ministro degli Esteri di Sa’ar, che è uscito dal Likud per formare il suo partito dopo anni di sfide a Netanyahu. Sa’ar è stato anche estraneo alla maggior parte delle decisioni prese in merito al genocidio a Gaza, il che lo aiuterà come ministro degli Esteri tenendolo lontano dal mirino della Corte Penale Internazionale e dal potenziale rischio nel viaggiare all’estero per via dei mandati di arresto della CPI, qualora dovessero mai essere emessi.

Cosa significa nella regione

Con Gallant fuori dal gioco e Netanyahu circondato da suoi uomini l’imperativo per una maggiore pressione internazionale è ancora più intenso. Gallant, che non ha problemi a massacrare decine di migliaia di palestinesi innocenti, vedeva ancora le cose attraverso la lente della sicurezza, sebbene feroce e brutale. Netanyahu ha altre preoccupazioni. Vuole prolungare i combattimenti per continuare a ritardare il suo processo per corruzione, ma sta anche andando avanti con il suo cosiddetto “colpo di stato giudiziario”, un tentativo a cui Gallant si è opposto, ciò che è una ragione in più per evitare qualsiasi diminuzione della violenza. Nella loro prospettiva i partner della coalizione di destra vogliono vedere Israele muoversi verso una vittoria militare regionale, sconfiggere alla fine l’Iran e stabilire Israele come indiscusso egemone regionale.

Abbiamo già visto Israele adottare misure per far procedere il genocidio a Gaza, per aumentare esponenzialmente la violenza in Cisgiordania, per devastare il Libano e per cercare di stabilire un predominio sull’Iran. Gallant stava sollevando questioni di strategia a lungo termine, che davano qualche speranza di una anche minima moderazione. Ora non ci sarà più alcuna voce del genere. Ciò potrebbe significare non necessariamente un’escalation, ma rende meno probabile una de-escalation. Netanyahu vede il tempo dalla sua parte e si sente più minacciato dalla fine dei combattimenti, anche se dovessero concludersi con quella che la maggior parte degli israeliani chiamerebbe vittoria a Gaza e in Libano, che dalla loro continuazione. Uomini come Katz e Zamir non lo convinceranno a cambiare idea, quindi fino a quando riuscirà a tenersi Sa’ar Netanyahu avrà rimosso con successo quel “rinnegato” di Gallant e dovrà confrontarsi con ancor meno moderazione di prima, per quanto sia difficile da immaginare.

Cosa significa a Washington

Yoav Gallant era il principale punto di comunicazione tra l’amministrazione di Joe Biden e il governo Netanyahu. Era benvoluto a Washington e ha coltivato quel rapporto al punto che gli americani a volte si rivolgevano a lui per fare pressione su Netanyahu o semplicemente per infastidirlo. Il suo rapporto con il Segretario della Difesa Lloyd Austin era particolarmente forte. Ora è tutto finito e per il resto del loro mandato i funzionari di Biden probabilmente avranno a che fare con qualcuno molto più vicino a Netanyahu. Ron Dermer, che è tanto repubblicano quanto braccio destro di Netanyahu, probabilmente assumerà il ruolo di mediatore tra i governi americano e israeliano.

Ciò potrebbe creare qualche tensione pubblica, relativamente parlando, anche se nulla di tutto ciò si tradurrà in cambiamenti politici. Tuttavia, senza Gallant, il rapporto tra i due governi sarà un po’ più gelido.

In ogni caso la decisione di Netanyahu di licenziare Gallant è stata sicuramente presa pensando a Washington. Washington era ben lungi dall’essere il fattore principale, ma era un fattore.

Con Gallant fuori gioco Netanyahu sarà ancora meno preoccupato per le deboli parole di simpatia di Biden o per le sprezzanti risate del portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller al fallimento di Israele nel rispettare la legge americana sull’autorizzazione degli aiuti umanitari a Gaza. Ma, cosa più importante, Netanyahu parla alla prossima amministrazione, chiunque vinca oggi le elezioni.

Se dovesse vincere Donald Trump, questo è esattamente il tipo di governo con cui si sentirebbe più a suo agio. Può coltivare il suo rapporto personale con Netanyahu, trattare direttamente con lui e preoccuparsi poco degli altri soggetti. Ciò aiuterà anche Netanyahu che potrà adulare, placare o confondere Trump qualora Trump decidesse che sarebbe meglio se Israele facesse marcia indietro nella sua aggressione. La squadra di Netanyahu sarà unita nel convincere Trump che sarebbe una cattiva idea.

Se dovesse vincere Harris, troverà un governo israeliano ancora più impenetrabile di quello con cui ha avuto a che fare Biden, in cui non troverebbe nessuno come alleato nell’affrontare le questioni da un punto di vista militare o di sicurezza piuttosto che politico. Questo è soprattutto ciò che Biden aveva da Gallant, e che Harris non avrebbe.

Netanyahu capirebbe sicuramente che la pressione su Harris non farebbe che aumentare il freno per Israele e, sebbene Harris non abbia dato alcuna indicazione che si allontanerebbe anche solo un po’ dalla politica di Biden, Netanyahu è anche pienamente consapevole che non avrebbe l’entusiastica affezione a quelle politiche che aveva Biden. Di conseguenza creare una cerchia ristretta dove non c’è un “adulto nella stanza” con cui parlare (tranne forse Sa’ar, ma l’influenza di un ministro degli Esteri in questo senso è molto inferiore a quella di un ministro della Difesa) gli fornisce un ulteriore strato di isolamento contro qualsiasi minima pressione che potrebbe essere esercitata.

L’unica speranza che emerge da tutto questo torna a dove tutto è iniziato. United Torah Judaism, il partito haredi, insiste affinché la legge sui sussidi per i figli vada avanti, anche se Netanyahu l’ha tolta dall’agenda della Knesset perché non ha i voti per approvarla. Ironicamente anche Gideon Sa’ar e il suo partito New Hope si oppongono a questa legge, anche se potrebbe essere che come parte della sua nomina a ministro degli Esteri ci sia un accordo per cambiare la cosa.

Il partito ultraortodosso detiene sette seggi alla Knesset. Se questa legge non passa si rifiuterà di votare qualsiasi altra legge, il che minaccia l’intera coalizione di governo. Senza di loro la maggioranza di Netanyahu ammonta a un solo seggio, il che apre la porta a Sa’ar o a un altro leader, anche dall’interno del Likud, per balzar su e far cadere questo governo.

Ma negli ultimi quindici anni Netanyahu ha regolarmente trovato modi per risolvere problemi come questo. E con questa mossa si è probabilmente ulteriormente protetto da qualsiasi possibilità di pressione americana volta a frenare la sua aggressione a Gaza, in Libano e altrove.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Perché Israele ha messo fuori legge l’UNRWA e cosa questo potrebbe significare per i rifugiati palestinesi

Qassam Muaddi  

29 ottobre 2024 Mondoweiss 

Israele ha vietato il lavoro dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi come parte di una campagna in corso per cancellare i diritti dei rifugiati palestinesi. Il commissario generale dell’UNRWA ha affermato che la legge sacrificherà “un’intera generazione di bambini”.

Lunedì 28 ottobre la Knesset, il parlamento israeliano, ha approvato un disegno di legge che mette al bando ed espelle l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro dei rifugiati palestinesi (UNRWA) da Israele e da Gerusalemme Est. Il disegno di legge è stato presentato da due membri della Knesset, Dan Illouz, nato in Canada, del partito Likud [il partito di Netanyahu, ndt.], e Yulia Malinovski, nata in Ucraina, del partito Yisrael Beiteinu [partito nazionalista di destra, ndt.]. Era stato approvato in prima battuta dalla Commissione per la Sicurezza e gli Affari Esteri della Knesset a metà ottobre. La Knesset, che conta 120 seggi, lunedì ha votato il disegno di legge in scrutinio finale con una schiacciante maggioranza di 92 voti a favore e solo 10 contrari, trasformandolo in legge. Dovrebbe entrare in vigore tra 90 giorni.

La legge proibisce tutte le attività dell’UNRWA, incluso il provvedere servizi essenziali ai rifugiati palestinesi. Vieta inoltre a tutti i funzionari israeliani di comunicare con l’UNRWA, ordina la chiusura dei suoi uffici e revoca tutte le esenzioni fiscali, lo status diplomatico e i visti d’ingresso all’UNRWA e al suo personale. La legge proibisce specificamente le attività dell’UNRWA “nel territorio di Israele”. Le attività dell’UNRWA sono principalmente in Cisgiordania e a Gaza, e i suoi uffici principali sono a Gerusalemme Est, tutti luoghi che secondo il diritto internazionale non fanno parte del territorio di Israele. Tuttavia Israele ha annesso Gerusalemme Est nel 1981, il che rende la legge applicabile agli uffici e alle strutture dell’UNRWA che sono lì.

Comunque Israele controlla effettivamente anche la Cisgiordania e Gaza e tratta la Cisgiordania come parte del suo territorio, sebbene non l’abbia ancora ufficialmente annessa. In altre parole, cosa significhi questa legge per le principali attività dell’UNRWA in queste aree resta poco chiaro. “Se Israele decidesse di applicare questa legge in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza significherebbe che più di 2,9 milioni di palestinesi in circa 30 campi profughi non avrebbero più scuole, assistenza medica, raccolta dei rifiuti e altri servizi municipali”, ha detto a Mondoweiss Lubna Shomali, direttrice di BADIL, Centro Risorse per la Residenza Palestinese e i Diritti dei Rifugiati.

Poiché Israele continua la sua campagna per spopolare forzatamente la parte settentrionale di Gaza, e i suoi leader chiedono apertamente l’annessione ufficiale della Cisgiordania, è plausibile che Israele possa applicare il suo bando dell’UNRWA anche in quelle aree. Questa decisione porrebbe fine a gran parte del lavoro dell’UNRWA e ai servizi che ha fornito per 76 anni, e metterebbe a rischio milioni di rifugiati palestinesi.

La campagna israeliana contro l’UNRWA

La legge arriva dopo mesi di sforzi israeliani per screditare l’UNRWA, tra cui l’accusa che 12 dei suoi dipendenti avrebbero partecipato agli attacchi del 7 ottobre. Il comitato indipendente delle Nazioni Unite che ha esaminato le accuse di Israele e il capo degli affari umanitari dell’UE hanno rilevato che Israele non ha fornito alcuna prova a sostegno delle sue accuse. Tuttavia Israele ha comunque esercitato pressioni diplomatiche sui paesi membri delle Nazioni Unite affinché tagliassero i fondi all’UNRWA.

La campagna contro l’UNRWA ha toccato anche gli Stati Uniti. Nel 2018 l’amministrazione Trump ha ufficialmente tagliato i fondi statunitensi all’UNRWA come parte di una serie di mosse che hanno preso di mira elementi fondamentali della causa palestinese, tra cui il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, il riconoscimento degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e il riconoscimento dell’annessione da parte di Israele delle alture del Golan siriane occupate, tutto in contraddizione con il diritto internazionale e le antiche posizioni degli Stati Uniti. L’amministrazione Biden ha ripristinato parte dei finanziamenti tagliati da Trump ma non li ha riportati al livello precedente. Gli attacchi all’UNRWA durante l’amministrazione Trump sono apparsi come un tentativo di indebolire il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. Gli Stati Uniti hanno ripreso le affermazioni israeliane secondo cui i rifugiati palestinesi ottengono il loro status di rifugiati dall’UNRWA e quindi l’eliminazione dell’Agenzia annullerebbe anche quei diritti.

“Lo status di rifugiati è indipendente dall’esistenza dell’UNRWA e, secondo il diritto internazionale, dà ai rifugiati il ​​diritto di scegliere tra ritorno, reinsediamento o integrazione, ma finché non esercitano la libertà di scelta il loro status rimane valido e hanno diritto all’assistenza umanitaria, e questo vale per tutti i rifugiati nel mondo”, ha spiegato Shomali di BADIL a Mondoweiss. “Questo diritto è collettivo per tutti i rifugiati palestinesi perché, nel caso dei palestinesi, è collegato al loro diritto nazionale all’autodeterminazione. Ma è anche un diritto umano individuale e fondamentale che nessun compromesso politico da parte di alcuna autorità può annullare. L’UNRWA rappresenta il riconoscimento internazionale di questa realtà legale e politica, ed è per questo che Israele cerca da tanto tempo di liquidare l’UNRWA “, ha sottolineato.

In reazione al voto della Knesset il commissario generale dell’UNRWA Philippe Lazzarini ha inviato una lettera al presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Philemon Yang, chiedendo all’Assemblea di intervenire per fermare l’applicazione della legge. La lettera segnala che la legge avrebbe un impatto “pericoloso” sugli sforzi umanitari a Gaza, dove tutta la popolazione è stata sfollata e dipende dagli aiuti umanitari.

Lazzarini ha aggiunto che la situazione a Gaza è “oltre il linguaggio diplomatico”, notando che “nessun’entità altro che l’UNRWA può fornire istruzione a 660.000 ragazzi e ragazze. Un’intera generazione di bambini sarebbe sacrificata”.

In precedenza Lazzarini aveva scritto sul suo account X che la legge israeliana non è altro che una “punizione collettiva”, aggiungendo che porre fine ai servizi dell’UNRWA “non priverà i palestinesi del loro status di rifugiati”, che è protetto dalla risoluzione 194 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvata nel 1949, in cui si afferma che i rifugiati palestinesi hanno diritto al ritorno e al risarcimento.

L’UNRWA sul campo

L’UNRWA lavora attualmente in 58 campi profughi palestinesi riconosciuti nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, in Giordania, in Siria e in Libano, servendo oltre 5,9 milioni di rifugiati palestinesi. I servizi dell’UNRWA includono 706 scuole, che provvedono istruzione elementare, media e in alcuni casi superiore a oltre 660.000 bambini e adolescenti. L’UNRWA gestisce anche 147 centri medici, con una media di sette visite mediche a persona ogni anno. Questi centri offrono medicine di base a basso costo e gratuite ai residenti di basso reddito dei campi profughi. A Gaza l’UNRWA è la più grande organizzazione di assistenza umanitaria, dato che il 78% della popolazione di Gaza è composta da rifugiati del 1948 e dai loro discendenti. Durante il genocidio israeliano in corso l’agenzia ha svolto un ruolo centrale negli sforzi umanitari per assistere la popolazione di Gaza, che è stata quasi interamente sfollata; molti degli sfollati sono diventati rifugiati per la terza volta nella loro vita.

Negli ultimi mesi l’ONU ha lanciato una campagna di vaccinazione di massa dei bambini contro la diffusione della poliomielite, che ha avuto una virulenta recrudescenza a Gaza durante il genocidio in corso a causa della distruzione dei sistemi sanitari da parte di Israele. Sebbene la campagna sia stata pianificata e gestita dall’UNICEF e dall’OMS, l’esecuzione logistica della campagna è stata principalmente realizzata dagli oltre 1.200 dipendenti dell’UNRWA a Gaza, poiché l’agenzia ha il maggior numero di dipendenti ONU nella Striscia. Martedì l’UNICEF ha affermato in una dichiarazione che il bando dell’UNRWA da parte della legge israeliana appena approvata potrebbe causare “il collasso del sistema umanitario” a Gaza e mettere a rischio la vita di un gran numero di bambini.

Lunedì il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha invitato Israele ad “agire in modo coerente con i suoi obblighi ai sensi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale”, aggiungendo che “la legislazione nazionale non può alterare tali obblighi”. Amnesty International ha affermato in una dichiarazione che la legge israeliana equivale alla “criminalizzazione degli aiuti umanitari” e sabato 52 organizzazioni umanitarie internazionali hanno firmato un “appello globale per salvare l’UNRWA”. L’appello ha sottolineato che le azioni di Israele contro l’Agenzia, tra cui il voto del disegno di legge anti-UNRWA, sono “parte della strategia più ampia del governo di Israele per delegittimare l’UNRWA, screditare il suo sostegno ai rifugiati palestinesi e minare il quadro giuridico internazionale che protegge i loro diritti, incluso il diritto al ritorno”, aggiungendo che “se approvate, queste leggi avranno un impatto grave non solo sulle operazioni dell’UNRWA ma anche sui diritti dei rifugiati palestinesi”.

“I paesi membri dell’ONU devono fare pressione su Israele e se necessario sospendere tutti i rapporti economici e diplomatici per salvare l’UNRWA”, ha detto Lubna Shomali a Mondoweiss. “Se Israele riesce a vietare un’istituzione internazionale creata da una risoluzione dell’ONU, allora cosa potrebbe impedirgli di vietare le istituzioni della società civile palestinese e altre organizzazioni internazionali? Chi sarà la prossima vittima?”

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Mustafa Barghouti riflette sul futuro della lotta palestinese in un periodo di genocidio e pulizia etnica

Redazione

7 ottobre 2024 – Mondoweiss

In un’intervista con Mondoweiss, il Segretario generale del Palestinian National Initiative, il dott. Mustafa Barghouti riflette sull’importanza dell’unità nazionale palestinese, sulle sfide che la lotta palestinese deve affrontare e sul diritto di resistere.

Il dott. Mustafa Barghouti è un medico e politico palestinese, segretario generale del Palestinian National Initiative [partito politico socialdemocratico, ndt.], da lui fondato nel 2002. Barghouti è anche noto per aver fondato nel 1979 la Palestinian Medical Relief Society, che fornisce servizi medici ai palestinesi in Cisgiordania e a Gaza. Nell’anno trascorso dopo il 7 ottobre 2023 ha avuto uno spazio rilevante sia nei media in lingua inglese che in quelli in lingua araba come importante sostenitore dell’unità nazionale palestinese e dell’organizzazione di immediate elezioni democratiche come requisito urgente per affrontare la minaccia di genocidio e pulizia etnica a cui sono sottoposti i palestinesi. Nel corso dell’anno trascorso ha sostenuto con forza i diritti dei palestinesi a resistere all’occupazione e all’apartheid, a Gaza e ovunque. Mondoweiss ha discusso con il dott. Barghouti il ​​2 ottobre 2024, per riflettere sul genocidio in corso iniziato un anno fa e su cosa ha significato per la lotta palestinese.

Mondoweiss: È passato un anno intero da quando è iniziato il genocidio israeliano a Gaza e ora si è esteso a una guerra regionale che coinvolge Hezbollah e, ​​potenzialmente, l’Iran. Cosa ha pensato quando un anno fa Hamas ha lanciato il suo attacco a sorpresa? Si aspettava che la risposta israeliana sarebbe stata un genocidio come quello di cui è stato testimone?

Mustafa Barghouti: Nessuno si aspettava che il comando della seconda brigata israeliana per forza e dimensioni, [la Brigata di Gaza dell’esercito israeliano] avrebbe ceduto in quel modo. Ciò ha portato a molti fatti che, secondo me, non erano mai stati pianificati, come la cattura di civili. C’è stato un certo livello di caos. Non sapevo, ovviamente, che ci sarebbe stato un attacco del genere, ma mi aspettavo una sorta di esplosione [da Gaza], perché Israele stava ignorando qualsiasi richiesta di porre fine a questo stato di assedio. Abbiamo assistito a una situazione caratterizzata da 57 anni di continua occupazione israeliana. La pulizia etnica durava da 76 anni. L’assedio di Gaza stava diventando insopportabile. Stiamo parlando di 17 anni di assedio a Gaza che hanno portato a una situazione in cui le persone erano private quasi del tutto dell’energia elettrica, solo poche ore al giorno, il 24 percento dell’acqua era inquinata o salata, l’80 percento dei giovani laureati era disoccupato e non c’era solo un completo disastro economico ma una totale perdita di speranza. Penso che quando siamo arrivati ​​a quel momento, il 7 ottobre, sia diventato chiaro a tutti i palestinesi che Israele non aveva alcun piano per una risoluzione pacifica di questa situazione.

Il nuovo governo israeliano è un governo fascista con persone come [il ministro delle Finanze Bezalel] Smotrich e [il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar] Ben-Gvir, che sono loro stessi coloni e sono stati precedentemente accusati dal sistema giudiziario israeliano di essere membri di gruppi terroristici. Hanno dichiarato chiaramente che il piano israeliano è di riempire la Cisgiordania di coloni e insediamenti coloniali in modo che i palestinesi perdano ogni speranza di avere un proprio Stato e debbano scegliere tra andarsene, che equivale ad una pulizia etnica, vivere in uno stato di sottomissione, cioè di apartheid, o morire, il che costituisce genocidio. In realtà, questa è una politica israeliana dichiarata ufficialmente. Quindi, naturalmente, le persone si aspettavano una sorta di reazione rivolta a tirarci fuori da una situazione terribile in cui Israele stava letteralmente distruggendo la causa palestinese. Netanyahu è stato molto chiaro sui suoi piani. Ha dichiarato che l’obiettivo della normalizzazione con i Paesi arabi sarebbe stato quello di liquidare la causa palestinese.

E se ciò non bastasse, appena due settimane prima del 7 ottobre Netanyahu è comparso davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite e ha mostrato una mappa di Israele che includeva tutta la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e le alture del Golan e una mappa del nuovo Medio Oriente, che sta cercando di costruire, come ha detto, per i prossimi 50 anni.

Facciamo un balzo in avanti fino a oggi. Israele ha annunciato di aver lanciato un’invasione terrestre “limitata” del Libano meridionale. Allo stesso tempo i combattimenti a Gaza per ora hanno rallentato, ma gli attacchi aerei e i massacri contro la popolazione civile continuano regolarmente e la probabilità di un cessate il fuoco sembra ora più lontana che mai. Come pensa si evolverà la situazione, sia a Gaza che in termini di escalation regionale?

Innanzitutto, bisogna capire che Israele in realtà non ha ridotto le sue operazioni a Gaza. Continua, forse in misura minore rispetto a prima, ma hanno già distrutto quasi l’80 percento di tutte le case di Gaza, parzialmente o completamente. Hanno distrutto tutte le università. Hanno distrutto la maggior parte delle scuole. Hanno distrutto 34 ospedali su 36. Hanno stipato più di 1,7 milioni di persone in un’area che non supera i 31 Km quadrati. In media vediamo uccidere 50-100 persone ogni giorno.

E contemporaneamente stanno invadendo il Libano. Non credo a quello che dicono, che Israele effettuerà un’operazione limitata in Libano. Secondo me, cercheranno di condurre un’operazione militare di terra che seguirà due direttrici; una verso il fiume Litani, nel tentativo di spingere tutti dalla sponda meridionale a quella a nord del fiume, e forse oltre, e allo stesso tempo un’altra ala della missione militare israeliana andrà nella valle della Beqaa, nel tentativo di tagliare fuori ogni contatto tra Siria e Libano.

Secondo me Israele sta pianificando di occupare completamente il sud del Libano, e forse di più, per molto tempo e in maniera definitiva. L’unica cosa che li potrebbe fermare sarebbe l’ammontare delle perdite che potrebbero subire in seguito ai combattimenti con Hezbollah. Nient’altro li fermerà.

Questo solleva la questione: quando Biden, il Presidente francese, e altri leader occidentali si azzardano a dire che Israele ha il diritto di difendersi, significa che il diritto all’autodifesa include l’invasione di altri Paesi, il bombardamento di altre capitali e l’occupazione di terre di altri popoli? E se Israele ha il diritto di difendersi, anche i palestinesi, dato che sono sotto occupazione, hanno il diritto di difendersi? Ciò che vediamo qui è un orribile doppio standard. È scioccante vedere la Francia dichiarare di aver partecipato alla difesa di Israele dai razzi iraniani insieme agli Stati Uniti e ad alcuni altri Paesi della regione. Qualcuno di loro ha mai preso in considerazione di partecipare alla protezione di civili palestinesi innocenti quando 51.000 di loro sono già stati uccisi, compresi i 10.000 ancora dispersi sotto le macerie? Il numero di palestinesi uccisi dopo questa guerra a Gaza probabilmente supererà i 100.000 se includiamo coloro che moriranno di malattie e i feriti che moriranno per mancanza di cure mediche.

L’Iran ha già lanciato contro Israele un attacco missilistico senza precedenti, ma ha attaccato solo installazioni militari. Ciò che è interessante qui è che sia Hezbollah che Hamas stanno attaccando solo installazioni militari, mentre Israele sta bombardando una popolazione civile.

E pensa, quindi, che questa situazione potrebbe degenerare in una guerra regionale nel caso Israele non fosse disposto a ritirarsi dal Libano meridionale, se effettivamente lo occuperà?

Assolutamente. Penso che sia esattamente ciò che Netanyahu vuole. Vuole trascinare la regione in una guerra. Vuole trascinare gli Stati Uniti, o forse ha già un piano congiunto con gli Stati Uniti, perché non penso che Biden abbia bisogno di essere trascinato. C’è già dentro. È complice di questo genocidio. Penso che stia cercando di portare gli Stati Uniti in guerra in modo che attacchino o partecipino all’attacco dell’Iran. Penso che questo sia uno dei suoi obiettivi principali, distruggere le capacità nucleari dell’Iran.

E quindi che ruolo ha Gaza in tutto questo?

A mio parere, il piano originale di Netanyahu era di ripulire etnicamente Gaza. E non lo ha nascosto. Lo ha detto il secondo giorno di guerra, l’8 ottobre. Il suo portavoce militare, Richard Hecht, ha dichiarato che tutti i gazawi avrebbero dovuto essere sfrattati nel Sinai. Hanno fallito. Hanno fallito a causa della fermezza e dell’eroismo del popolo palestinese a Gaza, ma anche perché l’Egitto non ha collaborato. L’Egitto si è reso conto che se i palestinesi fossero stati spinti nel Sinai, sarebbe stato un enorme disastro per la sicurezza dell’Egitto e una minaccia per la sicurezza nazionale. Dal momento che Netanyahu non è riuscito a condurre una pulizia etnica completa, sta conducendo un genocidio a Gaza.

Ma penso che il suo obiettivo finale una volta che avrà finito con il Libano, sarà quello di cercare di sfrattare tutti dalla parte nord di Gaza e di annetterla a Israele. Questo sarebbe il piano B per una completa annessione della Striscia o la totale pulizia etnica della popolazione di Gaza. Ma ciò non significa necessariamente che avrà successo.

E in quel caso il resto di Gaza continuerebbe ad assistere a una guerra “a bassa intensità“?

Andrà avanti. Netanyahu ha già dichiarato che continuerà l’occupazione israeliana di Gaza. Vuole creare una sorta di struttura civile di collaborazionisti che lavoreranno sotto l’occupazione israeliana, come cercarono di fare con le Leghe dei villaggi in Cisgiordania durante gli anni ’80 [sotto la totale giurisdizione militare israeliana, ndt.].

Facciamo un passo indietro. I palestinesi soffrono di una profonda frammentazione politica, forse oggi più che mai. Più di recente a Pechino ci sono stati colloqui sul raggiungimento di un’unità nazionale. Qual è il significato di questi colloqui e pensa che ci sarà qualche risultato?

Ci sarà qualche risultato se l’Autorità Nazionale Palestinese accetterà di applicarne i contenuti. Finora non è successo.

Naturalmente questi colloqui sono stati significativi, sia a Mosca che a Pechino. Ho personalmente redatto entrambi gli accordi in collaborazione con altri. L‘accordo a Pechino era più chiaro, più specifico. Includeva tre passaggi molto specifici [verso l’unità nazionale]. Il primo è la formazione di un governo di consenso nazionale unificato, che sarebbe responsabile sia della Cisgiordania che di Gaza, garantendone l’unità e impedendo il piano di Netanyahu di separare le due entità l’una dall’altra. Il secondo passaggio richiederebbe un incontro della cosiddetta leadership palestinese ad interim, o leadership unificata, secondo il nostro precedente accordo al Cairo nel 2011. E il terzo passaggio comporterebbe l’incontro di tutti i leader delle fazioni palestinesi per redigere un piano di attuazione di tutte queste decisioni.

L’accordo afferma che il presidente dovrebbe avviare consultazioni immediate per formare un governo di consenso nazionale, ma sfortunatamente non lo ha fatto. Finora, l’Autorità Nazionale Palestinese non si è mossa in quella direzione. Finché non lo farà, questo accordo rimarrà sulla carta.

Lei ha sostenuto pubblicamente, in tutte le sedi, la resistenza a Gaza e in tutta la Palestina, e il ruolo che ha svolto sui media nell’ultimo anno è stato quello di sviluppare un discorso che sostenga la resistenza. Durante il genocidio a Gaza è stato sottolineato dall’Autorità Nazionale Palestinese e dai suoi sostenitori che la resistenza, in particolare la resistenza armata, porterebbe solo alla nostra distruzione e servirebbe come scusa da parte di Israele per [portare avanti] il genocidio e la pulizia etnica. Come risponde a questo?

Coloro che si oppongono alla resistenza armata si oppongono a qualsiasi forma di resistenza, non solo a quella armata. Si oppongono anche alla resistenza pacifica e non violenta. Mi conosce, sono stato un sostenitore e un attivista della resistenza non violenta per tutta la vita. Ma dico ciò che dice il diritto internazionale. Sto difendendo il diritto delle persone sotto occupazione a resistere in tutte le forme. Il diritto internazionale afferma che le persone sotto occupazione militare, ovunque si trovino, hanno il diritto di resistere all’occupazione in tutte le forme, comprese quelle militari, purché rispettino il diritto umanitario internazionale.

Israele non sta solo arrestando le persone impegnate nella resistenza armata. Sta arrestando anche le persone che si impegnano nella resistenza con discorsi e scritti e in altri tipi di resistenza pacifica.

E a proposito, Hamas ha mantenuto la resistenza non violenta per almeno cinque anni, tra il 2014 e il 2019. La risposta israeliana è consistita in dure violenze contro le marce pacifiche organizzate a Gaza e in Cisgiordania.

È molto importante, soprattutto per i nostri giovani, capire che l’oppressore, il colonizzatore, l’aggressore, cerca sempre di impedire alle persone sotto oppressione di esercitare il loro diritto di resistere all’ingiustizia. Frantz Fanon ha parlato del diritto delle persone oppresse di praticare violenza contro la violenza dell’oppressore, ma ciò che vediamo qui è una situazione ancora peggiore, in cui l’oppressore sta cercando di impedire ai palestinesi di resistere in qualsiasi forma. Se ti impegni nella resistenza militare, ti accusano di terrorismo. Se fai resistenza pacifica, ti accusano di violenza. Se fai resistenza con scritti e discorsi, ti accusano di provocazione o istigazione. Se sei uno straniero che sostiene la causa palestinese sei accusato di antisemitismo e se sei un ebreo che sostiene i diritti dei palestinesi, sei definito un ebreo che odia se stesso.

È un’intera serie di slogan ideologici e tattici utilizzati dall’establishment israeliano per negare al popolo il diritto di resistere. È solo un altro modo per disumanizzare i palestinesi. Il 7 ottobre la prima mossa israeliana è stata quella di disumanizzare Hamas e disumanizzare immediatamente i palestinesi in generale. Ecco perché Gallant ci ha chiamato animali umani. E l’obiettivo è giustificare l’uccisione di civili e di bambini. Perché, per loro, non siamo esseri umani.

Quindi la sua risposta ad alcune delle critiche da parte di palestinesi è che Israele non ha bisogno di una scusa per portare a termine ciò che sta facendo.

Ovviamente no. Il crimine peggiore al mondo è dare la colpa alla vittima. È assolutamente inaccettabile incolpare la vittima per ciò che l’aggressore le sta facendo.

E riguardo alla questione dell’unità nazionale: diciamo che domani l’Autorità Nazionale Palestinese accetti una sorta di governo di unità. Cosa significa quel governo di unità quando c’è un disaccordo fondamentale non solo su come resistere all’occupazione israeliana, ma anche se resisterle o meno?

Beh, certo, questo è un problema importante. Ma secondo me le due cause principali della divisione interna palestinese sono le seguenti:

In primo luogo, il disaccordo sul programma. L’Autorità Nazionale Palestinese e, in larga misura, i rappresentanti del Comitato Esecutivo dell’OLP, hanno creduto ad Oslo, non solo come accordo ma come approccio, il che significa che credono che il problema possa essere risolto attraverso negoziati con la parte israeliana anche quando abbiamo uno squilibrio di potere gravemente distorto a vantaggio degli interessi di Israele. Quella linea si basava su due illusioni: la prima illusione era che il movimento sionista e Israele come establishment fossero pronti per un compromesso con i palestinesi (la realtà ha dimostrato che non sono pronti per questo, come è stato dimostrato quando la Knesset israeliana ha deciso di non consentire uno Stato palestinese) e, in secondo luogo, penso che l’intera idea di un compromesso sia stata demolita quando la Knesset israeliana ha approvato la legge sullo Stato-nazione, che afferma che l’autodeterminazione nella terra della Palestina storica è esclusiva del popolo ebraico.

Quindi la linea di Oslo è fallita e Israele l’ha uccisa. E l’approccio, che faceva affidamento su un compromesso, è fallito. L’altra illusione su cui si basava questo approccio era che gli Stati Uniti potessero mediare tra palestinesi e Israele. Anche ciò è fallito perché gli Stati Uniti sono totalmente dalla parte di Israele.

Poiché questa linea è fallita, l’elemento programmatico della divisione interna è crollato. È scomparso.

Il secondo elemento della divisione interna era legato all’esistenza di una competizione per l’autorità tra Fatah e Hamas. Siamo onesti e ammettiamolo. Hamas gestiva Gaza. Fatah gestiva la Cisgiordania. Oggi non c’è più alcuna Autorità. Gaza è occupata e la Cisgiordania è completamente occupata. Quindi non c’è motivo di competizione per un’Autorità che non esiste: è un’Autorità senza autorità.

Ma c’è ancora un disaccordo fondamentale sulla strategia. Nemmeno sulla resistenza, ma sull’idea di resistenza.

Assolutamente, perché alcune persone sono ancora bloccate nel credere a Oslo e sognano ancora di recuperare ciò che è stato perso. Ma ora sono una minoranza molto piccola. Ecco perché diciamo che la strada verso l’unità inizia attraverso due fasi. La fase intermedia è trovare un modo per scendere a compromessi e creare una sorta di leadership unificata provvisoria, perché la crisi in cui ci troviamo non può aspettare e i rischi che corriamo sono troppo grandi. E la seconda fase è portare a elezioni libere e democratiche che includano i palestinesi in Palestina e fuori dalla Palestina. Solo allora la gente deciderà quale strategia adottare democraticamente.

Ovviamente, devo dirle che se avessimo avuto le elezioni nel 2021 forse non avremmo avuto questa guerra.

Si riferisce a quando il presidente in carica dell’Autorità Nazionale Palestinese ha annullato le elezioni usando Gerusalemme come scusa? La scusa era che ai palestinesi di Gerusalemme non sarebbe stato permesso dagli israeliani di partecipare perché avevano documenti di residenza permanente israeliani, corretto?

Esatto. Era una scusa, perché quando ci siamo incontrati in Egitto con tutte le fazioni palestinesi avevamo un piano per aggirare la questione, e tutti erano d’accordo con questo piano. Avremmo tenuto le elezioni a Gerusalemme senza il permesso israeliano, senza dare a Israele il potere di veto sulle nostre elezioni, e il nostro piano era di distribuire 150 urne in tutta Gerusalemme, e poi di utilizzare 20 telecamere per monitorare ogni urna. E lasciare che Israele provasse a fermarci. Sono sicuro che se avessimo adottato quel sistema il numero di giovani palestinesi che avrebbero votato a Gerusalemme sarebbe stato molto più alto del numero di palestinesi che avrebbero votato in conformità con gli accordi di Oslo, perché sarebbe stato un atto di sfida e resistenza contro le autorità israeliane. Ma sfortunatamente, le elezioni sono state annullate. Se avessimo tenuto le elezioni nessun partito avrebbe avuto la maggioranza assoluta. E a proposito, questo vale per la situazione odierna, secondo tutti i sondaggi.

Perché ora abbiamo un sistema completamente proporzionale. Se avessimo avuto un governo pluralistico, un sistema pluralistico, allora penso che questo avrebbe creato una situazione in cui il blocco o l’assedio di Gaza probabilmente avrebbero potuto essere spezzati. E forse non avremmo avuto questa guerra.

Molti hanno detto che la Cisgiordania non ha avuto un ruolo importante nel sostenere Gaza e nel resistere all’occupazione. La gente di Gaza sperava che ci sarebbe stata un’intifada popolare che avrebbe creato un fronte comune nella guerra. Qual è la sua valutazione sul ruolo della Cisgiordania e cosa pensa che le impedisca di avere un ruolo più attivo nella resistenza?

Non sono mai stato d’accordo, e non mi piace affatto nessun approccio che separi la Cisgiordania da Gaza e Gerusalemme dalla Cisgiordania. Guardi, c’è stato un tempo in cui la maggior parte delle attività di resistenza si svolgevano qui in Cisgiordania. E la gente urlava: “Dov’è Gaza? Perché Gaza non fa nulla?” C’è stato un tempo nel 2021 in cui il fulcro prevalente della lotta palestinese era a Gerusalemme, finché Gaza non è intervenuta. Quindi non sono d’accordo con questo tipo di separazione. Penso che dal 2015 la Cisgiordania stia vivendo una nuova forma di Intifada.

Le persone sono obbligate a resistere a causa dell’espansione degli insediamenti israeliani, a causa di ciò che Israele sta cercando di fare. E sfido coloro che dicono che la Cisgiordania non stia partecipando, perché l’esercito israeliano non può entrare in nessuna città, nessun villaggio, nessun centro abitato, nessun campo senza affrontare una crescente resistenza popolare. Ma in Cisgiordania le condizioni sono diverse, in termini di presenza dell’esercito israeliano e in termini di numero di persone arrestate. Stiamo parlando di circa 11.000 persone finora. E ciò ha anche a che fare con il comportamento passivo, negativo e non costruttivo dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Dobbiamo capire che gli obiettivi della lotta sono molti. In questo senso, il primo obiettivo della lotta palestinese oggi è rimanere in Palestina, essere risoluti e rimanere. Il fatto che il numero di palestinesi rimasti in Palestina anche dopo la cacciata del 70% del popolo palestinese [nella Nakba, ndt.] sia ora maggiore del numero di ebrei israeliani, è il più grande problema e il più importante punto debole del movimento sionista. Ed è per questo che credo che la questione del rimanere in Palestina sia del tutto essenziale.

E non si tratta solo di restare. Le persone qui, la presenza demografica, non sarebbero state così efficaci se non avessimo resistito. Quindi il primo traguardo è che le persone restino. Il secondo è che resistano all’ingiustizia, all’occupazione e all’apartheid. Ed è per questo che non biasimo i palestinesi del 1948 [quelli rimasti in Palestina dopo fondazione di Israele e la Nakba ndt.] se non sono così attivi sotto il regime fascista. Finché vivono in Palestina e vi rimangono.

Dopo Gaza la Cisgiordania sarà la prossima?

La Cisgiordania è l’obiettivo principale prima di Gaza. Ciò che accade a Gaza è a causa della Cisgiordania. Netanyahu vuole annettere la Cisgiordania. E non solo Netanyahu e il suo governo, ma l’establishment sionista nel suo complesso. Ma non possono annettere la Cisgiordania con tutte queste persone al suo interno. Ecco perché stanno combinando l’espansione degli insediamenti coloniali e l’annessione graduale con lo spostamento dei palestinesi, sia con la forza che creando difficili condizioni sociali ed economiche. Ed è per questo che dobbiamo capire che l’obiettivo principale di tutto questo attacco è la Cisgiordania, inclusa, ovviamente, Gerusalemme.

Netanyahu dice apertamente che sta correggendo l’errore di Ben-Gurion, ovvero il fatto che non abbia cacciato i palestinesi rimasti nel 1948 e occupato la Cisgiordania e Gaza espellendone la popolazione.

Netanyahu pensa anche di correggere l’errore di Rabin, che prese in considerazione la possibilità, o il potenziale, di un qualche tipo limitato di autogoverno palestinese.

E in terzo luogo, pensa di correggere l’errore di Sharon, che ha dovuto ritirarsi da Gaza [nel 2005]. Questa è la mentalità di Netanyahu: Si considera il più grande leader sionista dopo Jabotinsky. Il suo obiettivo principale è l’annessione totale di tutta la Palestina, e oltre. Ha sentito cosa ha detto Trump; ha appena scoperto che Israele è molto piccolo e deve espandersi.

Pensa che ci sia spazio per la speranza in mezzo a questa disperazione?

, c’è molta speranza. C’è speranza nella resilienza delle persone. C’è speranza nella resistenza delle persone. Credo nella generazione più giovane in Palestina. Penso che stiano mostrando fantastici esempi di resilienza e resistenza. Non parlo solo di resistenza militare o anche di resistenza civile. Parlo anche di questo fantastico movimento che attraversa la generazione palestinese più giovane in tutto il mondo, specialmente in Paesi come gli Stati Uniti e l’Europa, dove c’è un’intera nuova generazione di palestinesi che si è rigenerata e rimotivata.

Penso che il 7 ottobre abbia restituito motivazione ad un’intera generazione palestinese ovunque. E penso che questo apra la strada a un nuovo tipo di unità palestinese attorno a un progetto unificato che include tutti i palestinesi ovunque vivano, sia in Palestina che fuori dalla Palestina.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Cinque cose che abbiamo imparato dal 7 ottobre

Noura Erakat

8 ottobre 2024-Mondoweiss

Nota del direttore: questa è la trascrizione di un discorso pronunciato da Noura Erakat il 30 agosto 2024 a Chicago come parte di un panel intitolato “All Eyes on Palestine”, alla conferenza “Socialism” a Chicago. Viene riproposto qui come parte della serie Mondoweiss Reflections on a Genocide.

È il giorno 329. La situazione sul campo a Gaza è solo peggiorata. Un quarto di milione di palestinesi probabilmente morirà di fame, carestia e malattie. Nelle parole di Lara Elborno, ogni giorno è il giorno peggiore, e peggiore di quello a cui abbiamo già assistito. Sistematiche violenze sessuali su detenuti palestinesi, rifugiati bruciati vivi in ​​tende di plastica che li hanno soffocati prima che si sciogliessero sulla pelle, epidemia di poliomielite e ora un’incursione totale nella Cisgiordania in quella che i palestinesi hanno ripetutamente avvertito essere un progetto di pulizia etnica dal fiume al mare.

Questo orrore è amplificato dal fatto che segue tre decisioni della Corte internazionale di giustizia e una richiesta della Corte penale internazionale di mandati di arresto per il capo di Stato e il ministro della Difesa di Israele. Dopo che abbiamo completamente sfatato le bugie più razziste su atrocità che non hanno mai avuto luogo. Persino dopo che una parte solitamente silenziosa degli israeliani ha urlato a gran voce, questo genocidio coloniale continua con crescente crudeltà e un’incessante fornitura di armi che tu e io abbiamo pagato. Non ci sono più parole e certamente ancor meno c’è bisogno di esperti.

Quindi offro umilmente cinque lezioni che il genocidio a Gaza ci ha insegnato.

1. Ha esibito la permanente natura coloniale del diritto internazionale

Per quasi 11 mesi, abbiamo assistito a un genocidio coloniale e all’incapacità del diritto internazionale e delle istituzioni legali di fermarlo. Questo fallimento riflette la natura della Convenzione sul genocidio stessa, che è stata promulgata nel 1948, non perché sia ​​la prima o la peggiore campagna per l’annientamento di un popolo, ma perché è la peggiore che si sia verificata all’interno delle coste europee [nel bacino del Mediterraneo, ndt.]. L’esclusione dei popoli indigeni, africani e asiatici dall’ambito del danno riflette in parte lo sviluppo delle leggi di guerra come progetto europeo che ha deliberatamente relegato i non europei a un “altro selvaggio” non idoneo allo status di civile. La bozza finale della Convenzione sul genocidio ha rimosso la violenza coloniale dal suo ambito e ha rappresentato un’umanità eurocentrica. L’incapacità di arginare il genocidio oggi illumina il fatto che non esiste un diritto internazionale ma un diritto per l’Europa e un diritto per tutti gli altri.

Ecco perché questa battaglia è stata anche ciò che lo studioso palestinese Nimer Sultany ha descritto come “un’epica battaglia legale tra il Sud del mondo e il Nord del mondo”. Si noti come, con poche eccezioni degne di nota, gli Stati del Sud del mondo siano intervenuti presso la Corte internazionale di giustizia per sostenere il Sudafrica, mentre gli stati del Nord del mondo sono intervenuti a nome di Israele. Si noti inoltre come il defunto presidente della Namibia abbia detto alla Germania di non avere autorità per commentare cosa sia e cosa non sia genocidio e che il Nicaragua abbia intentato una causa contro la Germania per complicità nel genocidio. E sebbene il diritto internazionale non sia riuscito a fermare questo, le sentenze internazionali hanno catalizzato [il dibattito sulle ndt.] armi e le sanzioni diplomatiche.

Il fatto più significativo è che ci ha permesso di passare dal discutere della legalità delle operazioni di Israele al descriverle in blocco come illegittime. Questa guerra non è progettata per liberare i prigionieri o distruggere Hamas, ma per spopolare la Striscia di Gaza e continuare la Nakba. Il ritorno della Nakba come cornice attraverso cui comprendere la condotta di Israele dal 1948 a oggi riflette il successo dei palestinesi nell’utilizzare nuovamente il diritto internazionale al servizio della loro emancipazione anche mentre ci troviamo di fronte all’espressione più estrema del progetto eliminazionista del sionismo da generazioni.

2. Questo è un genocidio statunitense dei palestinesi

Nei primi sei giorni della campagna di Israele l’amministrazione Biden ha inviato 6.000 bombe. Questa settimana ha inviato 50.000 tonnellate di armi, cioè l’equivalente di oltre 3 bombe atomiche sganciate su una popolazione assediata a cui è stato negato un alloggio sicuro e qualsiasi mezzo necessario per sopravvivere. Gli Stati Uniti hanno abbinato questo con la concessione di immunità [a Israele ndt.] al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e con il sabotaggio diretto dei negoziati di cessate il fuoco.

Significativamente l’amministrazione Biden ha facilitato questa operazione di morte in violazione delle sue stesse leggi e della volontà popolare dei suoi elettori mostrando la crisi della cosiddetta democrazia. Peggio ancora, sta andando ulteriormente oltre per fabbricare il consenso e reprimere il dissenso. Ad esempio, con un voto bipartisan di 269-144, la Camera ha approvato un emendamento per vietare al Dipartimento di Stato di citare le statistiche del Ministero della Salute di Gaza sulle vittime palestinesi, nonostante ai giornalisti internazionali venga rifiutato l’ingresso, i giornalisti palestinesi siano presi di mira e le agenzie delle Nazioni Unite come l’UNRWA siano calunniate, non lasciando così altre fonti affidabili da citare.

Nonostante il ruolo degli Stati Uniti nel genocidio ampie fasce di americani insistono sul fatto che ci sia una differenza tra ciò che accade “qui” e “là”. Ricordiamoci [invece ndt.] di una relazione diretta evidenziata da ciò che l’artista e politico martinicano Aime Cesaire ha chiamato “effetto boomerang”. Ciò che viene dispiegato nelle geografie coloniali si manifesta all’interno della relativa metropoli. Ciò è più evidente oggi nella polizia statunitense.

Il sociologo Julian Go fa risalire la militarizzazione della polizia statunitense alla guerra ispano-americana del 1898, quando gli Stati Uniti divennero una potenza imperiale nelle Filippine, Guam, Porto Rico, Cuba, Haiti, Nicaragua e la Repubblica Dominicana, catalizzando la trasformazione dell’esercito statunitense in una forza in grado di proteggere i possedimenti coloniali, come dimostrato dai cambiamenti rivoluzionari nelle forze di polizia negli Stati Uniti, quando furono trasformate e “crearono una catena di comando gerarchica, … metodi operativi e tattici tra cui sorveglianza, mappatura, polizia preventiva, addestramento alle armi e unità di polizia a cavallo”. La polizia statunitense riflette l’esercito imperiale statunitense, come dimostrato dall’occupazione di Ferguson [quartiere nero di St. Louis dove nel 2014 si verificarono gravi incidenti a seguito dell’uccisione da parte della polizia di un ragazzo disarmato n.d.t.] e dalla repressione delle rivolte nere più in generale.

Oggi vediamo questo effetto nell’impiego di leggi antiterrorismo per reprimere il dissenso dei manifestanti contro Cop City [costruzione di un’enorme accademia di polizia vicino ad Atlanta, n.d.t.], nella censura dei libri e nell’autorizzazione all’ingresso della polizia nei campus universitari. Potrebbe essere facile descrivere i palestinesi come l’agnello sacrificale per promuovere un programma progressista, ma sarebbe una lettura totalmente errata. Siamo i canarini nella miniera di carbone e la prima linea di ciò che sta arrivando per tutti. Lasciarci morire non vi rende più sicuri.

3. Le università sono un’estensione dell’apparato coercitivo dello Stato

Abbiamo visto come le università siano la più grande fonte di repressione per studenti e docenti. Ad aprile diversi agenti di polizia si sono gettati sul professore della Washing University, Steve Tamari. È stato preso a pugni, colpito al corpo, preso a calci e trascinato per aver continuato a manifestare con i suoi studenti. La polizia gli ha rotto diverse costole e una mano e all’arrivo in ospedale il medico gli ha detto che era fortunato a essere vivo. Ciò che è diventato chiaro è che piuttosto che essere il luogo di produzione di conoscenza e di dissenso, l’università è un’estensione di un apparato coercitivo dello Stato.

Ci sono molte spiegazioni per questo, ma una di queste ha a che fare con i finanziamenti pubblici. Le università sono state soggette alle peggiori misure di austerità. Hanno compensato questa mannaia attraverso donazioni da parte di aziende, in particolare produttrici di armi, che hanno ricevuto molti sussidi pubblici. Mentre il governo taglia i finanziamenti alle università li aumenta alle industrie di armi che a loro volta finanziano le università, coinvolgendole nel complesso militare-industriale.

Nel 2020, il finanziamento USG [United State Government] a Lockheed Martin da solo ha superato tutti i finanziamenti al DOE [Dipartimento dell’Energia, n.d.t.]. Non sorprende che la spesa federale per i produttori di armi sia aumentata vertiginosamente dopo l’11 settembre. Queste aziende traggono profitto in tre modi: fornitura di armi, sicurezza privata e ricostruzione, dimostrando di trarre profitto sia dall’alimentare la guerra sia dalla gestione delle sue conseguenze.

Sono proprio queste aziende a tenere a galla le università: alla Johns Hopkins, ad esempio, negli ultimi dieci anni l’università ha ricevuto il doppio dei soldi dai contractor della difesa rispetto alle tasse universitarie. Oggi, il Pentagono alimenta un quarto delle entrate universitarie. L’università funziona di concerto con il complesso militare-industriale e dipende da questa alleanza.

4. Il sionismo non ha basi morali su cui reggersi

Anche se non siamo riusciti a fermare un genocidio abbiamo reso evidente la bancarotta morale del sionismo, anche se in realtà è proprio Israele ad averne il merito. Lo Stato e la società israeliani ci hanno detto che per sentirsi al sicuro devono spopolare la Striscia di Gaza per “finire il lavoro”. La società israeliana chiede più stupri, più uccisioni, si prendono gioco dei palestinesi che muoiono di fame e vengono fatti a pezzi, i suoi soldati si stanno esercitando ad uccidere bambini, fanno saltare in aria le moschee come annunci di nozze e indossano la biancheria intima di donne recluse come espressione della loro mascolinità. I ​​coloni sionisti americani stanno lasciando Hyde Park e Park Slope per colonizzare le terre palestinesi e poi chiedono che i palestinesi vengano uccisi a causa di quanto sia pericolosa [la loro presenza] mentre si lamentano che “gli insediamenti coloniali si fanno una cattiva reputazione”.

Il sionismo ha storicamente avuto un’influenza morale significativa tra gli americani, comprese persone che potremmo ammirare come W.E.B. DuBois che vedeva nel sionismo un modello per la liberazione delle persone oppresse. Oggi la gente non si schiera per difendere il sionismo. Al contrario, c’è una maggioranza silenziosa che teme il rischio di attacchi, molestie, doxing [raccolta e diffusione di informazioni personali con intenti malevoli, ndt.], perdita del lavoro. Il sionismo è così debole che oggi deve essere mantenuto attraverso la forza coercitiva.

L’AIPAC, che prima operava in silenzio, deve brandire rumorosamente il suo bastone punitivo. Ha versato non meno di 100 milioni di dollari nelle elezioni statunitensi. In particolare, ha speso 8,4 milioni di dollari per fermare la campagna di Cori Bush e se ne è preso il merito, dicendo che “pro-Israele è una buona politica, una buona politica, per entrambe le parti”. Ma, in particolare, i suoi annunci non hanno detto una PAROLA sulla Palestina o su Israele, si sono concentrati sui voti persi e sulla legge sulle infrastrutture. Peggio ancora, ha sostituito Bush con Wesley Ball, il procuratore che ha assolto Darren Wilson[ poliziotto imputato per l’uccisione di un afroamericano,ndt], a Ferguson dicendo che non c’erano abbastanza prove contro l’imputato e mostrando la volontà dell’AIPAC di smantellare i programmi progressisti e anti-carcerari per proteggere Israele. La loro aggressività è un’indicazione della loro debolezza.

5. Razzismo e potere: l’invisibilità e il potere dei palestinesi

Il razzismo sta facendo un lavoro enorme in questo momento per preparare il pubblico al massacro di massa dei palestinesi e per rendere invisibile il nostro potere. In linea con gli storici stereotipi islamofobi e antisemiti i palestinesi sono stati razzializzati come estranei che non possono integrarsi nella società occidentale, ma stanno invece pianificando di imporre una “Sharia strisciante”. Sono al di fuori della modernità, troppo religiosi e intrinsecamente violenti, sono una minaccia per gli altri e persino per sé stessi a causa degli stereotipi coloniali sugli uomini di colore che sono pericolosi per le loro stesse donne. È questo inquadramento razziale che fa apparire i palestinesi anche come una popolazione in eccesso che può essere sacrificata.

Questo discorso è così disumanizzante che l’indignazione per l’attacco di Israele ai civili non si è verificata, se non per la prima volta ad aprile, in occasione dell’attacco a sette operatori umanitari del World Central Kitchen. L’attacco ha finalmente spinto il comitato editoriale del Wall Street Journal a mettere in discussione la guerra di Israele, notando che non aveva “raggiunto nessuno dei suoi obiettivi di guerra, ovvero restituire tutti gli ostaggi… e scacciare con successo Hamas da Gaza” concludendo che, nonostante i guadagni tattici, una vittoria strategica era lontana.

I nostri 35.000 morti non sono stati sufficienti a far giungere a questa conclusione, né i 4 bambini prematuri che sono marciti nelle incubatrici [rimaste senza elettricità, n.t.d.], né la voce di Hind Rajab che supplicava che qualcuno la salvasse o l’immagine di ciò che restava dei corpi a Sidra Hassouna, appesi alla trave di ciò che restava della loro casa. Gli orrori di Al Shifa non sono stati sufficienti: non i 300 morti, non i corpi in decomposizione devastati e divorati da cani e gatti, non i cadaveri le cui braccia erano legate con lacci e con ferite da arma da fuoco da esecuzione, non lo sventramento del più grande ospedale del nord: le nostre vite non sono state sufficienti, non avevamo nemmeno i requisiti per una presunzione di innocenza.

E proprio mentre veniamo ridotti a nulla, il nostro potere viene apertamente negato. Come ha sottolineato Yazan Zahzah, sono stati i palestinesi e il movimento anti-genocidio a rendere chiaro che Biden non era idoneo a candidarsi e tuttavia il nostro ruolo non viene nemmeno riconosciuto. Ora l’intera elezione presidenziale potrebbe essere decisa dal campo anti-genocidio, tanto che il Partito Democratico, in un altro tentativo di gaslighting [far passare qualcuna/o per pazza/o, n.d.t.] e deviazione di responsabilità, ha descritto i nostri appelli a porre fine ai massacri come pro-Trump

È stato il nostro potere a catalizzare la petizione del Sud Africa alla Corte internazionale di giustizia e i mandati di arresto della Corte Penale internazionale. È stato il nostro potere a catalizzare una divisione tra il Nord e il Sud del mondo e a mettere in luce la natura coloniale del mondo. È stato il potere della nostra gente in Palestine Action a chiudere tre società Elbit nel Regno Unito, la prima a Cambridge. È stato il nostro potere a costringere la compagnia assicurativa francese AXA a disinvestire tutti i soldi da tutte le principali banche israeliane. Nelle parole di Rafeef Ziadah, che non poteva essere con noi stasera, i palestinesi hanno insegnato la vita al mondo, come i sei prigionieri che hanno usato dei cucchiai per uscire da una delle prigioni di massima sicurezza del mondo. Come la dottoressa Amira Al Souli che ha sfidato il fuoco dei cecchini per raccogliere il corpo di un paziente caduto. Come i giornalisti cittadini palestinesi Bisan Owda e Hind Khoudary che continuano a fare reportage sul terreno sapendo benissimo che il loro gilet da stampa è un bersaglio per i cecchini israeliani.

È il nostro popolo, che è ancora in piedi oggi nonostante 11 mesi di bombardamenti da parte di una potenza nucleare, sostenuta da una superpotenza globale e alimentata da armi provenienti da Regno Unito, Germania e Italia… è la nostra prima linea nell’organizzazione della diaspora in tutto il mondo di giovani palestinesi, prevalentemente donne con l’hijab, che sono l’epitome del femminismo e del potere in questo momento che sfidano le aspettative e stabiliscono nuovi standard.

Siamo potere. Siamo vita. Siamo vittoriose.

[Noura Saleh Erakat è un’attivista palestinese-americana, professoressa universitaria, studiosa di diritto e avvocata per i diritti umani]

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




A Gaza si accumulano i rifiuti. Le conseguenze per la salute pubblica sono disastrose.

Ahmed Abu Abdu  

25 settembre 2024 – Mondoweiss

Oltre 150.000 tonnellate di rifiuti sono accumulati dentro Gaza City. Questo è uno degli obiettivi del genocidio di Israele: far annegare nella spazzatura Gaza, una città una volta fiera di sé.

Come capo della gestione della salute e dell’ambiente del Comune di Gaza City sono responsabile del trattamento e smaltimento di ogni tipo di rifiuti, compresi quelli casalinghi, sanitari, industriali, agricoli e marini. Con una popolazione che supera le 800.000 persone la nostra città produce oltre 700 tonnellate di rifiuti al giorno. Già prima che il 7 ottobre, quasi un anno fa, iniziasse il genocidio da parte di Israele, era difficile gestire questa quantità di rifiuti in una città sotto assedio. Durante gli ultimi vent’anni l’occupazione israeliana ci ha impedito sistematicamente di importare o costruire le attrezzature necessarie, compresi camion della spazzatura o strutture per il trattamento dei rifiuti, per svolgere il nostro lavoro. Dopo che il genocidio è iniziato l’occupazione israeliana, con l’obiettivo di creare una crisi ambientale e sanitaria a Gaza, ha lanciato una guerra contro ogni nostra struttura sanitaria e i sistemi per il trattamento dei rifiuti.

Nel corso degli anni ho vissuto vari attacchi israeliani contro Gaza — nel 2008, 2012, 2014 e 2021. Ogni volta ci siamo adattati e abbiamo continuato a svolgere i nostri servizi essenziali. Ma questa guerra è diversa da tutte quelle che abbiamo visto. Non è solo un ennesimo attacco, ma un genocidio inteso a privare la nostra città della possibilità di funzionare. Ogni giorno sembra una inutile lotta contro il tempo per garantire i servizi essenziali per una città che viene sistematicamente annientata.

L’occupazione ha preso di mira le nostre squadre a Gaza est, dove è situata la nostra discarica, rendendo impossibile trasportarvi la spazzatura e obbligandoci ad ammassarla in mezzo alla città, creando condizioni pericolose per gli abitanti di Gaza.

Fin dall’inizio della guerra mi sono costantemente preoccupato della sicurezza della mia famiglia. Quando l’esercito israeliano ha ordinato l’evacuazione ho portato la mia famiglia a Khan Younis, nel sud, come ci è stato imposto. L’immagine della supplica di mia madre in lacrime perché rimanessi con loro quando ho deciso di tornare a nord mi tormenterà per sempre. Eppure mi sono sentito in obbligo di tornare a Gaza City per continuare il mio lavoro per quanti erano ancora lì. Mentre guidavo da solo di ritorno ho superato un veicolo colpito da un attacco aereo. Ho visto corpi fatti a pezzi lungo la strada e macerie ovunque. Ho accelerato nonostante la paura.

Di ritorno a Gaza ero da solo. Abbiamo lottato per salvare ciò che rimaneva del sistema di gestione dei rifiuti e per fornire servizi operativi di base per quanti erano rimasti. In mezzo a condizioni terribili ho perso oltre 8 kg in un mese. Mia madre non mi ha quasi riconosciuto quanto ci siamo parlati con una videochiamata.

Gestire rifiuti solidi durante un genocidio

Prima del genocidio il blocco ci aveva già impedito di importare gli impianti adatti, come compattatori o inceneritori. Tutto il nostro sistema era già fragile in conseguenza dell’assedio di 17 anni.

Si suppone che la gestione avvenga in tre fasi: raccolta, trasporto e smaltimento. Il blocco ci obbligava a ricorrere a soluzioni di ripiego, come l’uso di 300 carretti trainati da animali, che per anni ha funzionato in città fino a quando è iniziato il genocidio.

Il primo giorno del genocidio le forze israeliane hanno preso di mira i lavoratori della discarica, ferendone molti e distruggendo 1,5 milioni di dollari di equipaggiamento. Non ci è rimasto altro che smaltire i rifiuti nel centro della città in luoghi provvisori come il mercato di Yarmouk e gli spazi aperti nel mercato al-Feras. Queste zone, una volta animate, ora sono sommerse di rifiuti in decomposizione, rappresentando gravi pericoli per la salute dei pochi abitanti che sono rimasti.

Gestire oltre 500 lavoratori è diventato praticamente impossibile. Metà dei miei dipendenti vive nel nord di Gaza, dove nei primi giorni della guerra hanno continuato ad usare carretti. Quando i combattimenti si sono intensificati persino questo sistema non è più stato sicuro. La parte settentrionale di Gaza ha subito pesanti bombardamenti e molti lavoratori sono stati sfollati e si sono rifugiati nelle scuole.

I loro carretti sono stati parcheggiati nei pressi, ma sono stati distrutti dagli attacchi aerei. Molti lavoratori hanno perso i loro mezzi di sussistenza e di sopravvivenza. In un attacco abbiamo perso oltre 40 operatori che si erano rifugiati nel nostro principale garage. Otto missili hanno distrutto oltre 120 veicoli utilizzati per la raccolta dei rifiuti, per la gestione delle acque reflue e le forniture idriche. Metà dei miei dipendenti è stata ferita, molti non saranno più in condizione di tornare al lavoro.

Una città sommersa dai suoi rifiuti

Con più di 150.000 tonnellate di rifiuti accumulati a Gaza City le conseguenze ambientali e sanitarie sono disastrose. L’inverno si avvicina e questi cumuli di spazzatura bloccheranno i sistemi di drenaggio, portando a potenziali inondazioni in una città già devastata. Molti abitanti sfollati che vivono in rifugi provvisori dovranno affrontare l’orrore aggiuntivo di allagamenti. L’aria è densa dell’odore di spazzatura che brucia in quanto gli abitanti disperati cercano di gestire i rifiuti incendiandoli. Il fumo tossico peggiora la situazione, provocando un incremento dei disturbi respiratori. Il ministero della Salute di Gaza ha registrato oltre 250.000 casi di malattie dermatologiche dovuti all’esposizione alla spazzatura. Con rifiuti ospedalieri e pericolosi che si accumulano insieme a quelli domestici siamo sull’orlo di una catastrofica crisi sanitaria.

Il nostro sistema di gestione della spazzatura, una volta fragile ma funzionante, ora è in rovina. Oltre 150.000 tonnellate di rifiuti stanno avvelenando la città e la stagione delle piogge non farà che peggiorare la situazione. Abbiamo urgente bisogno di assistenza. Il sistema infrastrutturale di Gaza sta collassando e la sua gente è sconvolta dal peso del genocidio. Non possiamo sopportare questo per molto tempo ancora. Il mondo deve agire prima che Gaza diventi inabitabile, che la sua gente se ne vada con nient’altro che i ricordi di una città che una volta era fiera di sé e ora è sepolta sotto i suoi rifiuti.

Ahmed Abu Abdu

Ahmed Abu Abdu è un tecnico con una lunga esperienza nella gestione dei rifiuti solidi e in problemi ambientali che attualmente guida le difficoltà delle crisi umanitarie e l’impatto del cambiamento climatico. Con oltre un decennio di esperienza e un passato di gestione di rifiuti pericolosi dal Giappone, è impegnato ad affrontare le molteplici sfide che si trovano di fronte le comunità in zone di conflitto come Gaza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Per il New York Times non tutti gli americani uccisi in Palestina sono uguali

Lara-Nour Walton  

9 settembre 2024 – Mondoweiss

Quando un governo straniero e i suoi cittadini uccidono un americano ciò in genere suscita l’indignazione dei media statunitensi. Ma la recente ondata di violenza di Israele contro americani, compresa l’uccisione di Ayşenur Ezgi Eygi, ha ricevuto pochissimo spazio.

La ventiseienne americana Ayşenur Ezgi Eygi è arrivata in Palestina solo tre giorni prima che le forze israeliane le sparassero in testa. Al momento della sua morte, il 6 settembre, stava protestando pacificamente contro le colonie illegali nel villaggio di Beita, nella Cisgiordania occupata. Questa uccisione è ordinaria amministrazione. Israele ha una storia di omicidi di cittadini americani a sangue freddo. All’inizio del nuovo secolo c’è stato uno stillicidio di uccisioni ogni anno. Nel 2003 un soldato dell’esercito israeliano che guidava un Caterpillar D9 passò ripetutamente sul corpo di Rachel Corrie, cittadina statunitense che stava cercando di fermare la demolizione di una casa palestinese. Morì schiacciata.

Poi, nel 2010, il diciannovenne Furkan Doğan cadde vittima del fuoco israeliano a bordo di una nave in acque internazionali. Il cittadino americano stava tentando di consegnare aiuti umanitari alla Striscia di Gaza assediata.

Era il 2016 quando Mahmoud Shaalan, che indossava una felpa North Face e jeans, uscì per andare a trovare sua zia. Non ci arrivò, un soldato israeliano sparò a morte all’adolescente della Florida a un checkpoint in Cisgiordania.

Il 2022 è stato un anno letale, inaugurato dal brutale arresto e conseguente morte dell’americano-palestinese Omar Abdulmajeed Asaad. Il ministero della Sanità palestinese ha affermato che l’ottantenne Asaad, che era stato preso durante una retata nella sua città natale, ha avuto un attacco di cuore “provocato molto probabilmente dal pestaggio e aggravato dalla lunga costrizione e poi dall’abbandono con le manette ai polsi per varie ore in un edificio… in una notte freddissima.”

Poi, ovviamente, nel 2022 c’è stata Shireen Abu Akleh. La giornalista americana di Al Jazeera indossava un giubbotto chiaramente contrassegnato dalla scritta “STAMPA” quando è stata assassinata da un cecchino dell’esercito israeliano.

Ma, mentre Israele continua a condurre la sua guerra a Gaza, che ormai è costata la vita ad almeno 40.000 palestinesi, quello stillicidio di uccisioni di cittadini USA è improvvisamente diventato una cascata. La morte di Eygi è stata preceduta dagli omicidi di due diciassettenni americani, Mohammad Khdour e Tawfic Abdel Jabbar, e del dipendente di World Central Kitchen [ong statunitense che si occupa di aiuti alimentari, ndt.] Jacob Flickinger. Ad agosto l’insegnante americano Amado Sison è stato colpito e ferito durante la stessa protesta settimanale contro le colonie in cui è stata uccisa Eygi.

Quando un governo straniero e i suoi cittadini uccidono un americano dietro l’altro è ragionevole supporre che questo comportamento susciti un minimo di indignazione nei media statunitensi. Ma la recente ondata di violenza di Israele contro americani, compresa l’uccisione di Ayşenur Ezgi Eygi, ha ricevuto pochissimo spazio.

Fino al 6 settembre il presunto giornale di riferimento, The New York Times, non aveva pubblicato un solo articolo riguardante Khdour o Sison. I nomi di Jabbar e Flickinger insieme sono stati citati in otto articoli – quello di Jabbar in due, Flickinger in sei.

Di contro l’uccisione da parte di Hamas dell’ostaggio americano Hersh Goldberg-Polin ha attirato un’attenzione molto maggiore sui media. Dalla sua esecuzione, il primo settembre, il nome di Goldberg-Polin il 6 settembre era già apparso in 26 articoli e newsletters del New York Times.

Mentre la scarsa informazione sulla morte di palestinesi è una tendenza che ha segnato a lungo il New York Times e più in generale i grandi media, ora risulta che il solo fatto di schierarsi con la causa palestinese toglie rilevanza alla propria morte, anche se le vittime della violenza di stato di Israele sono americane.

Nella sua scarsa informazione sulle morti che hanno preceduto quella di Eygi, il New York Times ha dimenticato di evocare, anche solo una volta, la consolidata storia di uccisioni di cittadini americani da parte di Israele. Senza che venga incluso questo contesto fondamentale, come può un lettore cogliere eventualmente la portata di questo fenomeno?

Subito dopo la morte di Eygi, l’informazione del New York Times non è migliorata. Il 6 settembre il giornale ha intitolato “Donna americana colpita e uccisa durante una protesta in Cisgiordania.” Evidentemente il Times non pensa che ciò sia abbastanza degno di nota da includere nel titolo la responsabilità di Israele per l’omicidio. Di fatto un lettore avrebbe dovuto superare tre paragrafi prima di scoprire una frase esplicita che suggerisce la responsabilità dell’esercito israeliano. Avrebbe dovuto avventurarsi ancora più in basso, dopo le citazioni di Anthony Blinken sull’importanza di “raccogliere informazioni” prima di arrivare a delle conclusioni, per trovare il racconto di un testimone oculare che accusa [i soldati israeliani] dell’uccisione.

Più tardi quel giorno il Times ha pubblicato “Aysenur Eygi, l’attivista americana uccisa in Cisgiordania, è stata una organizzatrice delle proteste nei campus,” rifiutando ancora di incolpare nel titolo il fuoco israeliano.

L’approccio assolutorio del New York Times nel raccontare questa tragedia non è unico. Altri importanti mezzi d’informazione americani hanno evitato allo stesso modo di affrontare la questione del responsabile, tenendo la parola “Israele” lontano dai titoli:

  • Attivista americana colpita a morte alla testa in Cisgiordania (ABC, 9/6/24)

  • Cittadina americana uccisa durante una protesta contro i coloni in Cisgiordania (USA Today, 9/6/24)

  • Attivista americana colpita a morte nella Cisgiordania occupata (Politico, 9/6/24)

  • Donna americana, 26 anni, muore dopo essere stata colpita alla testa in Cisgiordania (New York Post, 9/6/24)

Tuttavia, data la sua diffusione e reputazione nazionale di affidabilitè, è più grave quando il New York Times non rispetta il suo dovere di utilizzare un linguaggio esplicito. Ciò è particolarmente vero quando, di fronte alla violenza israeliana verso americani, il governo USA continua a concedere carta bianca. Perché se il quarto potere, il presunto cane da guardia del governo americano, non può nemmeno chiedere a Israele di darne conto, allora chi lo farà?

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Chiarire il funzionamento della dirigenza di Hamas

Hanna Alshaikh

30 agosto 2024 – Mondoweiss

Tratteggiando una semplicistica contrapposizione tra il “moderato” Ismail Haniyeh e l’“estremista” Yahya Sinwar, i media hanno frainteso il modo in cui opera la dirigenza di Hamas. In realtà il processo decisionale di Hamas è molto più istituzionalizzato.

Dopo che Ismail Haniyeh, capo dell’Ufficio Politico di Hamas, è stato assassinato a Teheran, il Consiglio della Shura, il più alto organo consultivo del Movimento, ha rapidamente e unanimemente scelto Yahya Sinwar come suo successore. Quando è stato ucciso, Haniyeh era a capo della rappresentanza di Hamas nei negoziati per il cessate il fuoco con i mediatori e molti analisti hanno affermato che l’ascesa di Sinwar fosse il segnale di una rottura radicale con le politiche di Haniyeh e di altri esponenti di spicco dell’Ufficio Politico.

Questa analisi è in larga parte fuorviante.

Essa dimostra scarsa comprensione non solo della dirigenza del Movimento di Resistenza Islamica (Hamas), ma del più ampio Movimento nel suo insieme. Che la direzione di Sinwar costituisca una rottura con il passato è una tesi sintomatica della tendenza nell’analisi occidentale a leggere le figure dei dirigenti palestinesi attraverso dicotomie semplicistiche come “falco/colomba” o “moderato/radicale”. Queste etichette nascondono più di quanto rivelino.

A questa carenza analitica si somma la sensazionalistica fissazione per la psicologia di Sinwar. Questo approccio riduce politiche complesse a caratteri personali e presuppone che i processi decisionali di Hamas siano in larga parte riconducibili a singole personalità piuttosto che a solidi dibatti interni ed elezioni, complesse deliberazioni e consultazioni e contrappesi istituzionali.

Nonostante queste distorsioni nel dibattito generale, vale comunque la pena approfondire in quale misura il mandato di Sinwar a Capo dell’Ufficio Politico si distinguerà da quello di Haniyeh. Vi sono segni di rottura?

Sfidare l’isolamento

Per poter meglio valutare un’eventuale rottura occore considerare alcuni parallelismi nelle traiettorie di Haniyeh e Sinwar. Il primo è il più ovvio: entrambi hanno scalato i vertici della dirigenza palestinese prima e di quella di Hamas poi. Nati nei campi profughi della Striscia di Gaza nei primi anni ’60, Haniyeh e Sinwar si sono affacciati al mondo come rifugiati, condizione che comporta un’esistenza fatta di esclusione, spossessamento e marginalizzazione. A dispetto di questa condizione, entrambi si sono uniti al movimento islamico a Gaza e sono stati ulteriormente isolati e dislocati: Haniyeh fu esiliato nella città libanese di Marj al-Zouhour nel 1992, mentre Sinwar fu imprigionato nel 1988 e condannato a quattro ergastoli l’anno seguente. Queste avversità non hanno impedito ai due dirigenti né di maturare la loro preparazione politica né di giocare un ruolo nello sviluppo della stessa Hamas.

Dalle dure condizioni del suo esilio a Marj al-Zouhour, Haniyeh ha maturato esperienza nel coordinamento delle attività con i palestinesi fuori da Hamas, nella gestione dei rapporti con Hezbollah e nel confronto con gli Stati arabi e la comunità internazionale – culminata con l’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU di una risoluzione che ne chiedeva il ritorno, che avvenne l’anno successivo. Questa esperienza in diplomazia e negoziazione con altri gruppi palestinesi, Haniyeh l’avrebbe portata con sé per il resto della sua carriera. Nel 2006 Haniyeh fu il primo capo del governo palestinese democraticamente eletto. Mentre il sabotaggio di questo governo di unità nazionale portava a brutali scontri tra fazioni e all’instaurazione del blocco israeliano su Gaza, Haniyeh ha dedicato anni al perseguimento della riconciliazione e dell’unità nazionali, oltre al lavoro a livello diplomatico.

Dalla prigione Sinwar ha continuato a sviluppare le capacità di controspionaggio del Movimento, un processo che aveva avviato nel 1985 con la creazione dell’“Organizzazione per la sicurezza e la vigilanza” nota come “Majd”, con l’obbiettivo di provvedere all’addestramento in materia di sicurezza e controspionaggio e identificare sospetti collaboratori. Quando Sinwar è stato arrestato nel 1988, dopo solo un mese dall’inizio della Prima Intifada, è stato accusato di aver ucciso 12 collaboratori. Da prigioniero, Sinwar ha continuato a spendersi per il rafforzamento del controspionaggio del Movimento e a investire nelle capacità dei prigionieri palestinesi. Ha imparato l’ebraico ed è stato un avido lettore. La sua competenza ha segnato nel tempo lo sviluppo del Movimento e consolidato la sua figura di autorità del Movimento in prigione.

Un capitolo importante e più diffusamente conosciuto dell’esperienza politica di Sinwar è quello relativo al ruolo chiave che ha avuto nelle negoziazioni che hanno portato al rilascio di più di 1000 prigionieri palestinesi nel 2011, incluso lo stesso Sinwar, in cambio di Gilad Shalit, soldato israeliano catturato dai combattenti delle brigate Qassam nel 2006. Aspetto meno conosciuto del tempo che ha passato in prigione è invece l’accorta destrezza con cui ha coinvolto e radunato i palestinesi di diverse fazioni in scioperi e proteste di detenuti. Nel periodo immediatamente successivo al suo rilascio, è riuscito a utilizzare queste abilità per ottenere maggiore influenza nei negoziati con Israele e trovare punti di accordo con i palestinesi di altre fazioni.

Negoziati dopo la prigione

Nel 2012, poco dopo il suo ritorno a Gaza, Sinwar è stato eletto all’Ufficio Politico di Hamas. Solo cinque anni dopo, nel 2017, Sinwar è stato eletto successore di Haniyeh a capo della dirigenza di Gaza. I primi anni di Sinwar a Gaza sono speso ricordati come un periodo in cui Hamas ha serrato i ranghi internamente e si è impegnata in campagne pubbliche contro la collaborazione con Israele, anche se in forme piuttosto diverse rispetto ai primissimi giorni del Majd.

Fatto meno sensazionalistico e non adatto a narrazioni enfatiche, mentre era a capo della dirigenza di Gaza Sinwar si è anche impegnato in diversi negoziati complessi e tortuosi.

Nel 2017, a dieci anni dall’inizio del blocco israeliano su Gaza, la lotta quotidiana di 2 milioni di palestinesi stava per peggiorare ulteriormente a causa di una serie di decisioni di Mahmoud Abbas che avrebbero aggravato le conseguenze economiche dell’isolamento di Gaza. Nel marzo del 2017, l’Autorità Palestinese, con sede a Ramallah, aveva ridotto i salari dei propri dipendenti a Gaza fino al 30% e a giugno i salari dei prigionieri palestinesi “deportati” a Gaza nel 2011 furono completamente eliminati. Poi, con una mossa molto discussa e considerata una forma di punizione collettiva, cancellando un’esenzione fiscale Abbas di fatto ridusse i rifornimenti di carburante a Gaza, provocando una crisi energetica che ridusse la fornitura di elettricità per i palestinesi di Gaza da otto a quattro ore al giorno circa.

Con una mossa che sorprese molti osservatori, per fare fronte alle crisi provocate dai cambiamenti politici a Ramallah, Sinwar strinse un accordo con l’ex capo della Forza di sicurezza preventiva dell’Autorità Palestinese, Muhammad Dahlan. Nato come Sinwar nel campo profughi di Khan Younis, Dahlan era stato un dirigente chiave di Fatah fino al 2011, quando si trasferì negli Emirati Arabi Uniti dopo uno scontro con la dirigenza del partito. L’idea di un accordo tra Hamas e l’uomo che aveva realizzato il desiderio dell’amministrazione Bush di minare il governo di unità palestinese guidato dal neoeletto Haniyeh era inconcepibile all’inizio della divisione tra Gaza e Cisgiordania, dieci anni prima. Ragioni interne e regionali imponevano tuttavia alla dirigenza del Movimento di adattarsi, e Sinwar era pronto a negoziare.

L’accordo tra Hamas e Dahlan ebbe scarso successo, ma mise in luce due aspetti fondamentali del mandato di Sinwar come capo della dirigenza di Gaza: la capacità di colmare le divergenze con altri segmenti della politica e della società palestinesi e quella di mantenere relazioni estere equilibrate in un mutato scenario regionale. Più specificamente, attraverso i suoi stretti legami con i governi degli Emirati Arabi Uniti e dell’Egitto, Dahlan riuscì a far entrare un po’ di carburante attraverso il valico di Rafah. In un momento in cui le relazioni tra Hamas e l’Egitto erano al massimo della tensione, all’inizio del primo mandato di Sinwar, fu un fatto significativo.

Nei mesi e negli anni successivi, Sinwar è riuscito a continuare ad allentare le tensioni con l’Egitto. Servendosi dell’influenza costruita con la mobilitazione civile indipendente dei palestinesi in seguito nota come Grande Marcia del Ritorno (2018-19) e di un maldestro tentativo da parte del Mossad di infiltrare e installare apparecchiature di sorveglianza a Gaza nel novembre 2018, la dirigenza di Hamas ha ottenuto diverse concessioni che hanno attenuato l’impatto del blocco israeliano su Gaza, inclusi un allentamento delle restrizioni sui viaggi attraverso il valico di Rafah con l’Egitto, un maggior numero giornaliero di camion carichi di merci in ingresso a Gaza e denaro per pagare i salari dei funzionari pubblici.

È ampiamente riconosciuto che Sinwar abbia giocato un ruolo di primo piano nel miglioramento delle relazioni di Hamas con altri membri dell’“Asse della Resistenza” dopo che la dirigenza di Hamas lasciò Damasco nel 2012, nel pieno dell’insurrezione siriana e della guerra civile. Non altrettanto riconosciuto è il ruolo di Sinwar nel miglioramento e nella rinegoziazione delle condizioni nei rapporti di Hamas con altri attori regionali al di fuori degli alleati più stretti. Concentrare l’attenzione sui suoi legami con l’“Asse” limita il dibattito sulla guida di Sinwar entro i confini di una certa corrente ideologica, ma la sua volontà di negoziare indica un approccio agli equilibri di potere regionali più sofisticato di quanto prevedano queste etichette arbitrarie.

Sinwar e i suoi predecessori

Due concetti operativi nel lessico politico di Hamas – accumulazione e consultazione – sono fondamentali per comprendere come funziona il Movimento e come lavorano i suoi dirigenti. Qualsiasi comprensione del Movimento in generale e del ruolo di Sinwar in particolare deve tenere conto di questi fattori imprescindibili nell’evoluzione del potere e del dinamismo istituzionale di Hamas.

Con il termine “accumulazione” ci si riferisce generalmente allo sviluppo sul piano militare nel tempo. É inoltre utile considerare come accumulazione anche l’esperienza e le capacità politiche cui i dirigenti di Hamas ricorrono per gestire difficili problemi di amministrazione sotto il blocco: esigenze umanitarie sotto l’assedio, fasi di isolamento a livello regionale, fasi di costruzione e stabilizzazione di alleanze a livello regionale, riconciliazione nazionale con altre fazioni palestinesi. La costruzione delle basi del successo politico e dell’accumulazione militare richiede continuità più che rotture.

Con il termine “consultazione” ci si riferisce alle buone pratiche e alle strutture interne a Hamas. Il Movimento ha organi consultivi a diversi livelli che fungono da organi di controllo e di consulenza per la dirigenza politica. I membri sono eletti e comprendono palestinesi della Cisgiordania, di Gaza, dalla diaspora e dalle prigioni. L’organo consultivo più alto, il Consiglio Generale della Shura, nomina i membri di un organo indipendente che coordina e supervisiona l’elezione dell’Ufficio Politico per garantirne la trasparenza. Se normalmente poche informazioni su queste strutture raggiungono il pubblico, in una situazione di emergenza come l’assassinio di Ismail Haniyeh si è appreso che il Consiglio Generale della Shura può nominare un successore in circostanze eccezionali (Sinwar è stato scelto all’unanimità).

La pratica e la struttura della consultazione non sono circoscritte all’ala politica di Hamas. Anche l’ ala militare del Movimento, le Brigate Qassam, ha procedure di consultazione – infatti, Sinwar aveva operato come coordinatore tra il ramo militare e quello politico dopo essere entrato a far parte dell’ufficio politico. Zaher Jabareen, che aveva radicato le Brigate Qassam nella Cisgiordania settentrionale, ha spiegato che non è corretto rappresentare il Majd come una struttura centralizzata, poiché le decisioni sui sospetti non sono nelle mani di un individuo solo – esse sono soggette a procedure articolate in più fasi, nonché a ulteriori indagini da parte di un’“organizzazione professionale” distinta. Jabareen ha sottolineato che sono previste sanzioni severe per il personale che non gestisce correttamente un caso.

Secondo questa stessa dinamica, quando dirigenti come Sinwar o Haniyeh prendono una decisione importante, non solo giungono a quella conclusione attraverso la consultazione con figure di grande esperienza, ma ne rispondono agli elettori che si aspettano un’iniziativa, siano essi interni al Movimento o nella società in generale. Come capi della dirigenza di Gaza e dell’Ufficio Politico, Sinwar e Haniyeh hanno lavorato insieme e spesso sono apparsi in incontri pubblici con diversi corpi elettorali per costruire consenso sul tema della riconciliazione nazionale. Per loro riconciliazione nazionale non è stata solo la priorità assoluta del fare ammenda con Fatah e unire il corpo politico palestinese, ma significava anche colmare altre forme di divisioni politiche, nonché questioni sociali e socioeconomiche a Gaza. Tutto questo per prepararsi all’imminente battaglia, per accumulare forza militare, sostegno popolare e l’unità politica necessari. Sembra che la consultazione proceda sia dall’alto verso il basso che dal basso verso l’alto.

Diverse dichiarazioni di Sinwar e di due fra i suoi predecessori mostrano come l’accumulazione di forza e risultati abbia promosso la continuità in ogni nuova fase. Khaled Meshaal aveva delineato le priorità del suo ultimo mandato in un’intervista del maggio 2013: resistenza, concentrazione su Gerusalemme come cuore della causa palestinese, liberazione dei prigionieri, lotta per il diritto al ritorno e promozione del ruolo della diaspora nella lotta, riconciliazione nazionale tra le fazioni palestinesi per unire e raccogliere il corpo politico palestinese in sostegno alla resistenza, coinvolgimento dei paesi arabi e musulmani, coinvolgimento della comunità internazionale sia a livello ufficiale che a livello popolare, rafforzamento istituzionale interno a Hamas, espansione del suo potere e apertura verso altre formazioni palestinesi e verso altri arabi e musulmani in generale.

Il commento di Meshaal sui prigionieri balza agli occhi. Li aveva definiti come “l’orgoglio del nostro popolo”. Quando gli è stato chiesto di entrare nei dettagli circa il piano per ottenerne la liberazione e se questo prevedesse la cattura di altri soldati israeliani, Meshaal ha preferito tacere. Due mesi più tardi, il rovesciamento del governo Morsi in Egitto avrebbe determinato un cambiamento nelle operazioni di Hamas, cosa che probabilmente ha indotto la dirigenza dell’Ufficio Politico ad alcuni ripensamenti. Nonostante le difficoltà che tutto ciò ha implicato per Hamas, soltanto un anno dopo, nel corso della guerra di 51 giorni di Israele contro Gaza del 2014, in almeno cinque occasioni le brigate Qassam sono entrate in Israele, puntando alle sue basi militari, e hanno catturato i corpi di due soldati. Oggi questa accumulazione e questa continuità sono riscontrabili nelle dichiarazioni dei dirigenti di Hamas che spiegano che lo scopo dell’operazione del 7 ottobre era quello di catturare soldati israeliani in vista di uno scambio di prigionieri.

All’inizio del suo ultimo mandato, Meshaal aveva pubblicamente smentito insieme ad Haniyeh le voci di tensioni tra loro. Queste voci sono perdurate negli anni, mentre non si è prestata sufficiente attenzione alla corrispondenza fra i due dirigenti, che coerentemente dimostra priorità condivise.

La prospettiva comune, la comunicazione e le priorità condivise sono continuate con Haniyeh a capo dell’Ufficio Politico. In seguito alla guerra del 2021 di Israele contro Gaza, che i palestinesi chiamano “la battaglia della spada di Gerusalemme” – in occasione della quale ebbe luogo un sollevamento noto come “Intifada dell’Unità” che si diffuse da Gerusalemme alla Cisgiordania, fino ai palestinesi con cittadinanza israeliana e alle comunità dei rifugiati in Libano e Giordania – Ismail Haniyeh pronunciò un discorso della vittoria che sottolineava il ruolo centrale nel Movimento della continuità e dell’accumulazione.

Haniyeh descrisse la battaglia come una “vittoria strategica” e dichiarò che ciò che sarebbe avvenuto dopo non sarebbe stato “come ciò che è avvenuto prima”, aggiungendo che “è una vittoria divina, una vittoria strategica, una vittoria complessa” sui piani della scena nazionale palestinese, dalla nazione araba e musulmana, sul piano delle masse globali e su quello della comunità internazionale. Il discorso sottolineava l’importanza per questa vittoria dell’accumulazione di forze e della dedizione a priorità e obbiettivi riconducibili a epoche precedenti del Movimento. Preannunciava anche grandi cambiamenti futuri.

Prima del 7 ottobre, Sinwar tenne un discorso in occasione del quale ebbe a dire:

Nell’arco di alcuni mesi, io stimo non più di un anno, obbligheremo l’occupazione ad affrontare due opzioni: o li obbligheremo ad applicare la legge internazionale, rispettare le risoluzioni internazionali, ritirarsi dalla Cisgiordania e da Gerusalemme, smantellare le colonie, liberare i prigionieri e garantire il ritorno ai rifugiati, ottenendo l’istituzione di uno Stato palestinese sulle terre occupate nel 1967, inclusa Gerusalemme, o metteremo questa occupazione in contraddizione e contrasto con l’intero ordine internazionale, la isoleremo in modo radicale e potente, e metteremo fine alla sua integrazione nella regione e nel mondo intero, affrontando lo stato di collasso che si è verificato su tutti i fronti di resistenza negli ultimi anni”.

Alla luce di ciò, vale la pena chiedersi se Sinwar sia davvero così imprevedibile come sostengono gli opinionisti. Le sue dichiarazioni mettono in dubbio anche la lettura dell’ascesa di Sinwar come una rottura totale con il passato del Movimento.

Hamas come mediatore

La personalità di Yahya Sinwar è stata rappresentata in modo sensazionalistico dai media occidentali (e anche arabi). In generale, queste discussioni su Hamas sono spesso basate su voci, insinuazioni e affermazioni prive di fondamento che tendono a mettere in evidenza i disaccordi tra i componenti della sua dirigenza, etichettando i dirigenti sulla falsariga dell’opposizione tra “moderati che favoriscono la diplomazia e i negoziati” e “falchi militanti”. Esaminando gli aspetti delle carriere di Sinwar e Haniyeh dovrebbe risultare più chiaro che, sebbene le personalità e le specificità del percorso di ciascun dirigente abbiano un impatto sul loro processo decisionale, si tratta solo di una parte del modo in cui questi dirigenti, e il Movimento in generale, prendono le decisioni.

Nel corso degli anni, Hamas ha dimostrato di saper sfruttare le diverse esperienze dei suoi leader per rafforzare le proprie capacità sul piano militare, politico, diplomatico e popolare. Radicato nei principi di consultazione e accumulazione, Hamas è allo stesso tempo un Movimento orizzontale e un Movimento di istituzioni. Istituzioni efficaci come il Consiglio della Shura hanno aiutato il Movimento a superare momenti di incertezza, come l’assassinio di Ismail Haniyeh.

Questo è l’ultimo esempio di come Hamas abbia dimostrato livelli di dinamismo e flessibilità istituzionale senza precedenti rispetto alla storia della creazione di istituzioni tra le fazioni palestinesi.
In questo contesto, quelle che potrebbero apparire come differenze significative tra i dirigenti possono diventare una fonte di forza per il Movimento, permettendogli di bilanciare le richieste, a volte contrastanti, di vari elettorati, soprattutto mentre gestisce il processo decisionale tra gli alti livelli di sorveglianza, la costante minaccia di assassinio e di incarcerazione dei suoi dirigenti e i continui assalti alle sue strutture e istituzioni.

Con ciò non si vuole negare che a volte possano esserci divergenze tra i dirigenti del Movimento. Questo è un fattore in gioco sin dalla fondazione dell’organizzazione nel 1987. Tuttavia, Hamas è anche un Movimento di istituzioni, procedure e strumenti di controllo. La regola generale è stata la consultazione, l’accumulazione e il bilanciamento delle esigenze dei vari gruppi. La comunicazione della dirigenza ne ha dato prova pubblicamente e con coerenza nel tempo, non solo durante la guerra genocida in corso, ma per tutti i suoi 37 anni di storia.

In seguito all’operazione “al-Aqsa Flood” del 7 ottobre 2023 e al susseguente genocidio a Gaza, sono stati sollevati ulteriori interrogativi su Hamas in generale e sulla personalità di Yahya Sinwar in particolare. Molti ancora parlano di Sinwar come dell’imprevedibile mente dietro all’operazione, insistendo su una narrazione in cui Sinwar ha avuto da solo il potere di condurre un’operazione senza precedenti contro Israele, con tutte le complesse implicazioni locali, regionali e internazionali che ne deriverebbero. Non è perché si voglia fare un favore ad Hamas – non si tratta di uno stratagemma per dare la colpa a una “mela marcia” e favorire il ritorno al governo di un Hamas “demilitarizzato”. Per alcuni sedicenti esperti, il ricorso a questa spiegazione è dovuto a una scarsa comprensione del Movimento. Per altri permette di fornire una copertura ai fallimenti militari di Israele nel caso in cui catturi Sinwar e sostituisca questo risultato alla “vittoria totale”. Se Sinwar è Hamas e Hamas è Sinwar, allora l’eliminazione dell’uno comporterebbe quella del secondo.

In realtà, ciò che pensiamo di sapere sulla pianificazione e sull’esecuzione dell’offensiva del 7 ottobre – e sulla successiva operazione di Hamas di fronte alla guerra genocida di Israele – è probabilmente una goccia nell’oceano. Ma le prove pubblicamente disponibili ci dicono che Yahya Sinwar non è poi così imprevedibile. Egli, come i suoi predecessori, è stato piuttosto trasparente e chiaro sulla direzione in cui l’organizzazione era diretta. I segnali erano evidenti da almeno due anni, sia a livello ufficiale che di base. Le grandi potenze sono rimaste scioccate perché hanno sottovalutato e ignorato il Movimento, non perché siano state ingannate. La narrazione intorno a Sinwar fornisce anche una copertura agli “esperti” per spiegare la loro conoscenza superficiale del Movimento nel migliore dei casi o l’analisi insincera nel peggiore.

Quello che gli analisti avrebbero dovuto sapere è che Hamas è un Movimento di istituzioni e, come qualsiasi altro movimento di massa, riunisce diverse correnti e orientamenti politici che possono essere in disaccordo sulla tattica, ma non sulla strategia. Il governo dell’organizzazione è stato improntato alla continuità, nonostante la frammentazione geografica e le diverse scuole di pensiero su come procedere. Ci sono stati momenti di acceso dibattito e disaccordo, ma non sono un segreto e a volte si sono svolti pubblicamente. Questo è coerente con le dinamiche di un’organizzazione con elezioni interne solide e competitive.

Pochissime delle notizie attribuite a “fonti anonime vicine a Hamas” sui disaccordi interni a Hamas o sulla ristrutturazione del Movimento da parte di Sinwar sono fondate. Forse le operazioni del Movimento cambieranno a causa della guerra in corso ed è possibile che le sue istituzioni si trasformino di conseguenza. Tuttavia, fino a quando non saranno disponibili prove concrete, gli analisti farebbero bene a basare le loro riflessioni sulla vasta mole di scritti, discorsi e interviste che fanno luce su aspetti inutilmente mistificati di Hamas e della sua dirigenza. Non ci sono prove credibili che suggeriscano che Sinwar abbia completamente rivisto la struttura del Movimento e accentrato il potere attorno a sé. Tuttavia, ci sono molte prove che Sinwar non è solo un prodotto del Movimento, ma uno che ha trascorso decenni a costruirlo ed è improbabile che abbia ignorato le persone con cui è cresciuto politicamente e i processi che ha contribuito a stabilire.

Un giorno, dopo la fine di questa guerra genocida, è possibile che emergano nuovi dettagli che cambieranno la comprensione di Hamas e contraddiranno le ipotesi che circolano ora. Quando ciò accadrà, sarà opportuno collocare le nuove prove nel loro giusto contesto storico e chiedere uno standard più elevato agli “esperti” che non hanno fatto i loro compiti a casa.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)




Il nuovo status quo dopo l’attacco israeliano contro il nord della Cisgiordania

Qassam Muaddi

30 agosto 2024 – Mondoweiss

La vecchia politica israeliana di contenimento della resistenza armata in Cisgiordania è finita. Ora i palestinesi si stanno chiedendo se la guerra contro Gaza si sia estesa alla Cisgiordania.

La continua offensiva militare israeliana contro le città di Jenin, Tulkarem e Tubas, nel nord della Cisgiordania, è ora entrata nel suo terzo giorno. L’esercito israeliano ha insistito nel descriverla come l’invasione più vasta della Cisgiordania dall’operazione “Scudo di Difesa” nel 2002, un messaggio destinato soprattutto all’opinione pubblica israeliana e forse anche inteso a terrorizzare i palestinesi come una forma di guerra psicologica – il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha affermato che Israele dovrebbe fare i conti con la Cisgiordania nello stesso modo in cui lo sta facendo con Gaza, anche “evacuando temporaneamente” gli abitanti.

Le attuali dimensioni dell’operazione “Campi Estivi”, come Israele l’ha denominata, finora non è stata delle dimensioni dell’invasione della Cisgiordania di 22 anni fa, ma in ogni caso i palestinesi si chiedono: questo è l’inizio per noi di quello che sta toccando a Gaza?

Fin dalle prime ore dell’occupazione le forze israeliane hanno isolato Jenin e assediato il suo ospedale pubblico, mentre altre forze hanno fatto irruzione nei campi profughi di Nur Shams a Tulkarem e di al-Fara’a a Tubas. Per molti aspetti non si è trattato di uno spettacolo inconsueto in questi campi anche prima del 7 ottobre. La repressione israeliana contro la resistenza armata nel nord della Cisgiordania e altrove è progressivamente aumentata dalla fine del 2021.

La nascita della Brigata Jenin, seguita da quella delle Brigate di Tubas e Tulkarem e del Covo dei Leoni a Nablus, di breve durata, hanno sfidato seriamente i tentativi israeliani di conservare la stabilità in Cisgiordania mentre espandeva il suo progetto di colonizzazione.

Le aree di Jenin, Tubas, Tulkarem e Nablus sono diventate sempre più difficili da attaccare per le forze israeliane, obbligando Israele a militarizzare ulteriormente queste zone e a far ricorso ad attacchi aerei e ai blindati.

Ciò ha cambiato il contesto della sicurezza in Cisgiordania per un intero anno prima del 7 ottobre.

Un’estensione della guerra a Gaza?

Dal 7 ottobre Israele ha incrementato le sue incursioni nelle città del nord della Cisgiordania, soprattutto nei campi profughi che sono serviti come rifugio per i gruppi della resistenza. La strategia israeliana è stata prevenire l’ulteriore sviluppo di attività armate palestinesi in risposta all’operazione Inondazione al-Aqsa e per neutralizzare la Cisgiordania come fronte aggiuntivo della guerra contro Gaza. Mentre la Cisgiordania nel suo complesso è stata largamente pacificata, il nord era rimasto un campo di battaglia attivo. Invece di essere scoraggiati, a Tulkarem, Jenin e altrove i gruppi della resistenza hanno incrementato le loro capacità, soprattutto in termini di produzione di ordigni artigianali. Poi la resistenza armata ha iniziato a diffondersi nelle zone rurali del nord della Cisgiordania, segnando un incremento della presenza di gruppi armati.

Con il passare dei mesi la retorica degli alleati di Netanyahu, come il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, hanno chiesto sempre più insistentemente un’azione decisiva in Cisgiordania, per estendervi la guerra totale contro Gaza. Ciò è stato accompagnato da un aumento dell’espansione delle colonie e delle misure per l’annessione, con Smotrich e Ben-Gvir che spingevano in questa direzione con il sostegno della loro base popolare dei coloni militanti.

Tuttavia il continuo impegno di Israele a Gaza e la sua impossibilità di dichiarare una vittoria militare decisiva contro Hamas ha reso più difficile aprire nuovo fronte di guerra la Cisgiordania, soprattutto con un secondo fronte aperto contro Hezbollah lungo il confine meridionale del Libano.

Nel contempo negli ultimi mesi la guerra a Gaza si è trasformata in una guerra di attrito, aumentando le pressioni interne ed esterne su Netanyahu per porvi fine. È qui che entra in gioco l’attacco contro la Cisgiordania.

Mentre si prevede che Israele esaurisca e riduca le operazioni a Gaza, ora si attende che estenda le operazioni in Cisgiordania per prolungare il più possibile lo stato di guerra, dato che gli interessi di Netanyahu sono in linea con la continuazione dello scenario di tensione. Se è così, ciò significa che l’attacco in Cisgiordania è solo nelle sue fasi iniziali; quando le forze israeliane si ritireranno da Gaza saranno libere di intensificare la pressione in Cisgiordania.

Oltretutto la Cisgiordania è di importanza strategica per Israele, dato il suo tentativo di annettere vaste zone dell’Area C, che comprende oltre il 60% della sua estensione. Questo piano è il fulcro del progetto politico della destra israeliana, che attualmente domina anche la politica di Israele. In più la vicinanza geografica della Cisgiordania con il centro di Israele e la porosità del muro di separazione rendono intollerabile per Israele l’idea di un progetto di resistenza armata in Cisgiordania.

Cambiamento di strategia

Le ultime operazioni israeliane in Cisgiordania hanno già ucciso 17 palestinesi, tra cui due gemelli adolescenti. Ha distrutto più infrastrutture nelle città prese di mira, mentre decine di abitanti sono stati arrestati. Mentre questa situazione diventa gradualmente lo status quo in Cisgiordania, quello che emerge è un cambiamento nella strategia israeliana. Avremmo già potuto rendercene conto dal 7 ottobre, ma le ultime operazioni in Cisgiordania lo hanno messo chiaramente a fuoco: è il passaggio da una politica di contenimento a una di attacco intensificato.

Per anni Israele ha seguito la politica di evitare gravi disordini e conservare la stabilità impegnandosi in ridotte incursioni in Cisgiordania, soprattutto scatenando grandi campagne di arresti che, in molti casi, sono stati per loro natura preventivi. Dal 7 ottobre questa politica ha lasciato il posto a quella di terrorizzare la popolazione palestinese nel suo complesso: non è solo una campagna per prevenire la rivolta contro i gruppi della resistenza armata, ma una guerra contro la società palestinese in Cisgiordania come mezzo per scoraggiarla dal resistere.

Indipendentemente dal fatto che la guerra in Cisgiordania sia un’estensione di quella contro Gaza, ciò che è chiaro è che stiamo entrando in una nuova fase della politica israeliana nei confronti della Cisgiordania. Anche se la guerra a Gaza finisse domani, la Cisgiordania ora diventerà la nuova arena dell’escalation e dell’espansione annessionista della colonizzazione nel futuro immediato. Il vecchio status quo di una stabilità artificiosa è stato distrutto e non c’è ritorno al passato. Ciò favorisce sia le ambizioni di colonizzazione israeliane, ma è anche a suo discapito, in quanto ciò rischia di provocare un’esplosione in Cisgiordania e nell’intera regione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Incubo a Sde Teiman: la storia mai raccontata di Ibrahim Salem

Yousef M. Aljamal

20 agosto 2024 – Mondoweiss

Ibrahim Salem è stato arrestato dalle forze israeliane a Gaza e trattenuto per 8 mesi, di cui 52 giorni nell’ormai famigerato centro di tortura di Sde Teiman. Salem racconta le torture che ha subito, tra cui abusi fisici, fame e scosse elettriche.

Le forze israeliane hanno arrestato Ibrahim Salem, 35 anni, nel dicembre 2023 presso l’ospedale Kamal Edwan di Jabalia, nella Striscia di Gaza. Era lì con i suoi figli, che si trovavano in terapia intensiva dopo che un attacco aereo israeliano aveva preso di mira la sua casa di famiglia, uccidendo alcuni dei suoi fratelli, nipoti e pronipoti. Dopo il suo arresto è stato spogliato e tenuto nudo per due giorni in una fossa sotterranea in un luogo sconosciuto e poi trasferito nella prigione del Negev. Dopo essersi lamentato con i suoi carcerieri sul motivo per cui era stato arrestato, è stato trasferito al centro di detenzione di Sde Teiman, dove per 52 giorni ha vissuto “un incubo” fatto tra l’altro di torture, scosse elettriche, percosse, umiliazioni e stupri.

La Cnn ha pubblicato una sua foto diventata virale, in cui compare in piedi con le mani sulla testa come punizione, il che è accaduto dopo aver discusso con un soldato israeliano sul perché avesse lasciato che un uomo anziano si urinasse addosso invece di permettergli di usare il bagno.

Quella che segue è un’intervista esclusiva condotta con Ibrahim Salem l’11 agosto 2024 da Yousef Aljamal, che lavora per il Palestine Activism Program dell’American Friends Service Committee [società religiosa di quaccheri che si batte per la giustizia sociale e i diritti umani, ndt].

Grazie per aver accettato questa intervista. Per favore, si presenti e descriva come è stato arrestato.

Mi chiamo Ibrahim Atef Salem, sono nato nel campo profughi di Jabalia nel 1989. Sono stato arrestato l’11 dicembre presso l’ospedale Kamal Adwan. Ho scelto di non evacuare verso il sud [dopo l’ottobre 2023]. Due giorni prima del mio arresto, la mia casa è stata bombardata in pieno tra le 7:30 e le 8 del mattino mentre le mie sorelle e i miei figli dormivano. Una delle mie sorelle, Ahlam, è stata uccisa e i miei figli sono rimasti feriti. Quando sono stato in grado di cercare i miei figli, li ho trovati in condizioni terribili. Mio figlio Waseem era ferito ed era in coma a causa di una commozione cerebrale. Mia figlia Nana aveva molte ferite, tra cui una frattura completa del cranio. Naturalmente, anche lei era in coma. Mia figlia Fatima, mia moglie e un’altra sorella erano rimaste ferite, ero con loro in ospedale. Dopo sono riuscito a seppellire mia sorella e i nostri parenti nel cortile dell’ospedale.

Il giorno dopo l’esercito israeliano è venuto all’ospedale e ha ordinato a tutti gli uomini di scendere al piano di sotto. Loro sono scesi, ma io no. Dopo due, due ore e mezza, i soldati sono saliti. Mi hanno chiesto cosa stessi facendo. Ho raccontato loro la mia storia e ho mostrato il referto medico in mio possesso. Prima che l’esercito ordinasse agli uomini di scendere, il medico aveva scritto un referto sulle condizioni dei miei figli, che attestava che non era loro permesso di muoversi e che avevano bisogno di cure. Il soldato ha detto: “Non muoverti”, e ha chiamato un altro soldato. Quando ha letto il referto, ha detto: “Prendetelo”. Mi hanno preso, non so perché; mi hanno preso, e questo è tutto. Dopo di che, siamo scesi. Ho camminato per un po’ con altri uomini, e un soldato ci ha detto: “Fermatevi, toglietevi i vestiti e metteteli a terra”. E’ stato l’inizio della persecuzione, l’inizio dell’umiliazione psicologica che mi tormenta [ancora oggi]..

Ci hanno fatti spogliare e ci hanno portato in un posto sconosciuto, dove ci hanno lasciato nudi per due giorni. Di mattina ci hanno portato al campo di prigionia, che faceva parte di una caserma militare. Restammo lì al freddo e sotto la pioggia, completamente nudi.

Come venivano eseguite le torture in prigione, quanto duravano e quante ore le era concesso di dormire?

Non potevamo dormire. Ad esempio, nel campo di detenzione di Sde Teiman ci lasciavano dormire a mezzanotte e ci davano coperte inutili che non riscaldavano i nostri corpi. Erano sporche e piene di insetti. Alle 4 del mattino, e a volte prima a seconda dell’umore dei soldati, venivamo svegliati da picchiettii, rumori, urla e saltellii sulle lamiere, che ci strappavano al sonno facendoci sobbalzare. Chi si svegliava tardi veniva punito.

In che modo vi punivano?

C’erano diversi tipi di tortura. Essere in prigione di per sé è una tortura perché ti costringono a inginocchiarti dalle 4 del mattino fino a mezzanotte. Questa è tortura. Se ti siedi sul sedere o sul fianco, ti tirano fuori immediatamente e ti tengono sospeso. Devi stare in ginocchio. Tenere qualcuno in ginocchio per 20 ore è una tortura.

C’era anche la tortura psicologica, con cui i soldati maledicevano e umiliavano me, mia madre e mia sorella. Ci facevano maledire le nostre sorelle, ci facevano maledire le nostre madri, ci facevano maledire noi stessi e le nostre mogli. Una volta, mentre ero sotto interrogatorio, l’ufficiale mi ha detto: “Ibrahim, mi dispiace, ma ho delle brutte notizie da darti”. Gli ho risposto: “Dimmi”. Mi ha detto che mio figlio Waseem era morto. Che Dio abbia pietà di lui [piangendo].

Una volta, durante la tortura e l’interrogatorio, un soldato mi ha chiesto con atteggiamento molto ostile dove fossero i miei figli e dove mi avessero arrestato. Gli dissi che ero stato portato via da Kamal Adwan. Mi ha domandato cosa stessi facendo lì e gli ho risposto che stavo seppellendo mia sorella. Poi mi ha chiesto dove avevo seppellito mia sorella e io risposi che era a Kamal Adwan. Voleva sapere il luogo esatto, così gli mostrai dove l’avevo sepolta. Allora mi ha mostrato una foto di una ruspa che trasportava i cadaveri. E’venuto fuori che le ruspe avevano scavato l’intera area e portato via i corpi.

Mi ha chiesto: “Quanti corpi c’erano?” Sei, ho risposto. Poi mi ha mostrato una foto in cui c’erano tre corpi sulla lama della ruspa e tre a terra. Ho indicato i corpi sulla ruspa e ho detto: “Quei tre sono mia sorella e i suoi due figli. Li ho seppelliti io e li riconosco”. Ho domandato: “Cosa volete da questi corpi? Perché li avete presi?” Ho pianto a lungo. Poi ha detto: “Voi siete dei bastardi e dei bugiardi. Come puoi piangere su un cadavere mentre quando ti ho detto che tuo figlio era morto, non hai reagito?” Gli ho risposto: “Questo cadavere ha una sua santità e sacralità per noi, il che significa che è proibito anche solo toccarlo”.

Quanto spazio avevi per muoverti in prigione?

A Sde Teiman non c’è spazio. Non mi era nemmeno permesso di andare in bagno; le guardie continuavano a tergiversare quando glielo chiedevo. Nel Negev c’è solo una pausa e potevo muovermi solo durante quel lasso di tempo. Uscivo alle 13:30 per la pausa. Normalmente, nelle prigioni [dei centri di detenzione israeliani], ci sono tre pause: una al mattino, una al pomeriggio e una alla sera.

Ci concedevano una pausa di un’ora alle 13:30, il momento più caldo e peggiore della giornata, e non ci permettevano di stare lontani dal sole anche se non avevamo l’energia per camminare. Se non camminavamo, venivamo puniti. Dovevamo camminare per tutto il campo di detenzione, circa un dunam (1.000 metri quadrati), con tende sparse ovunque. Abbiamo finito per camminare in un’area di circa 200 metri.

In che modo le guardie carcerarie trattavano i prigionieri palestinesi?

Era orribile. Nella prigione del Negev, durante la nostra pausa di un’ora, se le guardie vedevano due persone andare in bagno o fare qualsiasi cosa mentre loro si trovavano nella torre di guardia, urinavano in una bottiglia e ce la rovesciavano addosso. Ci fermavano e ce la rovesciavano addosso. Ci dicevano di sollevare la testa e di guardarli, e nel momento in cui li guardavamo, ci rovesciavano addosso l’urina e ci insultavano. Se qualcuno li insultava o semplicemente chiedeva perché lo stessero facendo ci punivano ordinandoci di rimanere in piedi per più di due o tre ore, a seconda di quanto fossimo fortunati.

Com’era la qualità del cibo che vi veniva dato?

Non c’era quasi cibo. Non ne vedevamo quasi mai. Alcuni prigionieri riuscivano a prendere del cibo dal carceriere. Impedivamo ai prigionieri che avevano del cibo di avvicinarsi a noi perché spesso era disgustoso. A volte il cibo arrivava con mozziconi di sigaretta dentro. Le ciotole in cui veniva servito il cibo sembravano non essere state lavate da mesi. A un certo punto, abbiamo chiesto di lavarle noi stessi, ma i soldati si sono rifiutati e si sono scagliati contro di noi per questo.

Come comunicava con la famiglia? Come aveva le loro notizie?

Non avevo contatti con la mia famiglia e non sapevo nulla di loro [mentre ero in prigione]. Quando sono stato rilasciato e sono sceso dall’autobus a Khan Younis, ho chiesto: “Dove siamo?” Mi hanno risposto: “Sei al confine tra Khan Younis e Deir al-Balah, nella zona di Khan Younis”. Ho detto: “Sono del nord; non ci sto a far niente qui. Perché mi avete portato a Khan Younis?” Ho chiesto se potevo andare a nord e il soldato ha detto: “No, c’è un posto di blocco lungo la strada; non puoi andarci”.

Gli ho detto che non volevo scendere dall’autobus lì. Come avrei potuto vedere i miei figli? Volevo vedere i miei figli e la mia casa. Allora il soldato accanto a me mi ha dato un pugno sull’orecchio e ha detto: “Scendi qui, non sono affari miei”. Appena sceso dall’autobus, ho chiamato la mia famiglia e mia moglie. Ho chiesto prima dei bambini. Mia moglie mi ha detto che Waseem era uscito dal coma il mese prima, il che significava che era rimasto in coma per oltre sei mesi. Ho ringraziato Dio e gli ho chiesto come stava. Ha detto: “Grazie a Dio, sta bene, ma ha bisogno di cure e di un intervento chirurgico. Nana sta bene, Fatima sta bene, grazie a Dio, ma anche loro hanno bisogno di un intervento chirurgico”.

Le ho detto: “passami uno dei miei fratelli con cui parlare, chiunque si trovi nelle vicinanze”. Poi ho chiesto a mio padre: “Papà, voglio chiederti una cosa”. Ha detto di sì e gli ho chiesto dei corpi dei miei fratelli, Ahlam e Muhammad. Ha detto: “Figlio mio, i soldati israeliani li hanno presi da Kamal Adwan”. Mi sono ricordato di quando il carceriere mi aveva mostrato le foto e l’incubo è diventato realtà. Per me era un incubo; ne avevo davvero paura.

Hai avuto modo di conoscere in prigione qualcuno e di apprendere le sue vicende?

Certo, ho avuto modo di conoscere alcuni prigionieri. Abbiamo parlato mentre eravamo nel Negev, dove vivevamo insieme e conversavamo. Nella caserma di Sde Teiman ho fatto delle conoscenze ma eravamo bendati, quindi non potevamo vederci.

Ognuno ha la sua storia. La mia foto diventata virale, in cui venivo torturato, costretto a stare in piedi per sei ore con le mani sulla testa solo perché avevo protestato contro un carceriere che ha costretto un anziano palestinese a farsi la pipì addosso. La scena catturata nella foto non era nulla in confronto alle altre punizioni che abbiamo subito. Ovviamente c’è indignazione per questo – le persone dovrebbero essere indignate – ma ci sono cose più gravi che sono successe. Ad esempio, gli insulti che abbiamo sopportato, ci hanno privato della nostra dignità! Stare seduti in ginocchio per 20 ore, non è forse una punizione più grande? Le scosse elettriche che abbiamo sopportato, il freddo che ci ha quasi reso inabili.

Sono stato interrogato forse 10 o 12 volte, mi venivano poste le stesse domande e venivano ripetute ogni volta le stesse cose. Ogni volta che andavo all’interrogatorio i soldati israeliani mi facevano spogliare e poi rivestire. Quando entri nella stanza, devi toglierti i vestiti e quando torni nella stanza, devi toglierli di nuovo. Non è un insulto e una vergogna?

C’erano soldatesse che ci colpivano sulle parti sensibili del corpo, e altri prigionieri si rifiutavano di parlarne, forse per imbarazzo. Una volta, un tizio si è seduto accanto a me e si è aperto. Gli ho chiesto: “Cosa ti è successo?” Lui ha risposto: “Dovresti chiedere cosa non mi è successo! Mi è successo di tutto; mi hanno fatto di tutto”. Questo mi è bastato per capire cosa aveva passato.

Cosa ha causato la debolezza fisica nel tuo corpo?

Mancanza di cibo, torture e percosse: c’erano molte torture. Ho le costole rotte, i denti rotti. Cosa pensi che abbiamo mangiato? Non ci portavano nemmeno abbastanza cibo. Al Negev il cibo che arrivava veniva distribuito tra 150 persone. Giuro su Dio che la porzione destinata a 150 persone non sarebbe stata sufficiente per sole cinque persone. Ma abbiamo dovuto dividerla tra di noi.

Abbiamo saputo che in prigione sei stato portato nel reparto clinico. Perché?

Un giorno mi si sono rotte le costole a causa delle percosse e delle torture. Anche dopo avermi rotto le costole, le guardie mi colpivano volutamente lì. Inoltre prima di essere arrestato avevo subito un’operazione al rene e la ferita era visibile. Quando mi spogliavo, vedevano la ferita e mi colpivano lì apposta. Un giorno mi hanno colpito molto forte con un bastone: è stato atroce. Ero esausto, molto stanco; sono rimasto così per due o tre giorni, incapace di alzarmi o di fare qualsiasi cosa, e urinavo sangue. Il sergente ha detto a una guardia che ero in condizioni talmente pessime che se fossi rimasto lì, sarei potuto morire o sarebbe potuto succedermi qualcosa di terribile.

Dopo circa tre giorni hanno accettato di portarmi in clinica. Al mio arrivo, il medico mi ha detto che avevo bisogno di un intervento chirurgico e che avrebbero eseguito una procedura endoscopica per valutare le mie condizioni. Mi hanno fatto la procedura endoscopica, o almeno così la chiamavano. Non lo so nemmeno per certo perché persino il medico mi picchiava e mi umiliava. Quando ho fatto delle domande al medico, lui non ha risposto.

Ho lasciato il reparto due giorni dopo e sono stato portato dentro per l’interrogatorio. Mi chiedevo: “Cosa ho fatto? Sono un civile, un barbiere. Qual è la mia colpa? Per favore, spiegatemelo così posso capire. Perché tutte queste torture, umiliazioni e percosse? Perché sono stato imprigionato per così tanto tempo? Qual è la mia accusa?” Alla fine, il giudice non è riuscito a trovare alcuna accusa contro di me. Tutti gli altri con me sono stati accusati di essere “combattenti illegali”, ma non mi è mai stato detto quale fosse la mia accusa.

Ibrahim Salem ora vive in una tenda a Khan Younis. Soffre di un grave disturbo post-traumatico da stress (PTSD) ed evita di stare vicino alle recinzioni. Il suo corpo è smagrito. Ha vissuto un incubo che è stato fotografato e fatto trapelare, lasciando i suoi familiari sopravvissuti a svegliarsi un giorno con una foto di lui che veniva torturato a Sde Teiman. Ibrahim vuole saperne di più sulle sue condizioni di salute e sapere quale intervento gli hanno eseguito i dottori israeliani. Il sogno di Ibrahim è di potersi riunire ai suoi figli nel nord di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)