Perché la Cisgiordania non si solleva – per ora

Qassam Muaddi

5 luglio 2014 – Mondoweiss

La Cisgiordania rimane stranamente calma mentre Israele porta avanti il genocidio a Gaza. Ma se la repressione israeliana ha dissuaso una rivolta nelle strade, le placche tettoniche sottostanti continuano a muoversi

Mentre la guerra infuria a Gaza e lungo il confine libanese la Cisgiordania ha occupato una posizione mediatica di secondo piano a fronte dell’incessante genocidio di Israele. A parte la proliferazione di piccole sacche di resistenza armata nei campi profughi e nei centri urbani del nord, la Cisgiordania ha mantenuto un’insolita tranquillità.

Questo silenzio è inusuale. In anni precedenti i palestinesi in Cisgiordania hanno reagito ai crimini dell’occupazione con una serie di mobilitazioni di massa, scontri quotidiani con le truppe israeliane, scioperi generali e campagne di disobbedienza civile. La prima Intifada del 1987, anche se iniziò a Gaza, fu condotta da un movimento unitario e organizzato in Cisgiordania, un ruolo che essa ha continuato a ricoprire nella seguente trentina d’anni.

Ciò include l’ “Intifada dell’Unità” nel maggio 2021, quando i palestinesi della Cisgiordania, di Gerusalemme e della Palestina del ’48 insorsero in una reazione collettiva ai tentativi di Israele di espellere le famiglie palestinesi dalle loro case nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme. L’ondata di proteste di massa in tutte le città della Cisgiordania fu più ampia che mai, raggiungendo il culmine il 18 maggio, quando uno sciopero generale venne attuato in tutta la Palestina storica, dal fiume al mare.

Tutto questo è cambiato dopo il 7 ottobre. Negli scorsi nove mesi la mobilitazione di massa è stata praticamente assente, nonostante gli orrori senza precedenti della guerra genocidaria di Israele a Gaza, che è costata la vita di oltre 37.000 palestinesi. 

Anche se la memoria degli eventi passati di rivolta popolare è ancora viva nella mente delle persone, l’attuale mancanza di mobilitazione in Cisgiordania ha portato molti a concludere che Israele la ha effettivamente neutralizzata come terreno di lotta.

Prima di ottobre: tutt’altro che neutralizzata

Scorrendo le notizie nei mesi ed anni prima del 7 ottobre un osservatore poteva pensare che la Cisgiordania fosse un fronte attivo nella guerra. Le quotidiane incursioni israeliane nelle città palestinesi e nei campi profughi si trovavano ad affrontare palestinesi che sempre più spesso usavano armi invece di pietre per far fronte alle truppe che invadevano le loro case. Gruppi locali di resistenza armata hanno iniziato a proliferare in diverse città, da Jenin a Nablus, Tulkarem, Tubas e Gerico.

Il fenomeno ha attirato analisti e giornalisti, che parlavano di una “nuova generazione di resistenza palestinese”. I mezzi di informazione occidentali riferivano della rivolta armata dei “combattenti della generazione Z della Cisgiordania” su giornali come The Economist, Wall Street Journal e Vice. Molti si sono trovati a chiedersi se ciò che avveniva in Cisgiordania si potesse definire una terza Intifada.

Questa situazione di sollevazione si stava sviluppando da almeno due anni. Nel 2021 l’evasione di sei prigionieri palestinesi dl carcere di massima sicurezza di Gilboa scatenò un’ondata di resistenza armata a Jenin, dove si erano rifugiati due degli evasi. Le forze israeliane li ricatturarono dopo uno scontro con un piccolo gruppo di uomini armati. Dopo la cattura altri giovani iniziarono ad unirsi al gruppo finché nacque la Brigata Jenin. Le fecero seguito la Fossa dei Leoni a Nablus, la Brigata Tulkarem a Tulkarem e la Brigata Tubas a Tubas. Queste città e i campi profughi adiacenti divennero rifugi per i gruppi di resistenza armata.

Contemporaneamente movimenti locali di resistenza civile crescevano in diverse località dove le terre venivano minacciate dall’espansione dei coloni, come a Kufr Qaddoum, Salfit e Nabi Saleh. In alcuni posti la resistenza civile era continuata per oltre un decennio. In altri era stata assente dopo la prima Intifada, ma ora tornava a rivivere. Uno dei casi più famosi è il villaggio di Beita a sud di Nablus, dove gli abitanti hanno manifestato contro l’avamposto dei coloni israeliani di Eyyatar sul Monte Sabih per tre anni. Le forze israeliane hanno imposto e continuano ad imporre ripetute chiusure del villaggio, pattugliando l’ingresso, facendo sistematiche incursioni, revocando i permessi di lavoro delle migliaia di capifamiglia che lavorano in Israele, arrestando e ferendo centinaia di abitanti ed uccidendo finora almeno dieci dei giovani di Beita.

Dopo ottobre: nuovi livelli di repressione

Se qualunque cosa impallidisce a confronto della campagna genocidaria a Gaza, la repressione israeliana contro la resistenza in Cisgiordania ha assunto un significato completamente differente dopo il 7 ottobre. Israele ha revocato decine di migliaia di permessi di lavoro ai palestinesi, ha bloccato decine di strade che i palestinesi utilizzavano per muoversi tra le città e i villaggi in Cisgiordania ed ha drasticamente intensificato la campagna di arresti contro i palestinesi.

Nei primi due mesi dopo il 7 ottobre Israele ha raddoppiato il numero di prigionieri palestinesi, raggiungendo oltre i 10.000 prigionieri. Il numero di detenuti amministrativi – quelli detenuti senza accuse né processo – ha raggiunto i 3.600, mentre prima della guerra erano 1.300.

Anche l’ambito degli arresti è stato ampliato, allargandosi a comprendere palestinesi di tutti i generi, compresi molti non politicamente attivi. Molti degli arrestati sono leader di comunità, giornalisti e attivisti della società civile con scarsi o deboli legami con la politica. All’interno delle prigioni rapporti sui diritti umani e testimonianze di palestinesi rilasciati hanno rivelato livelli senza precedenti di umiliazioni, violenze e torture, che di fatto estendono il genocidio dei palestinesi ai prigionieri sotto custodia israeliana.

Secondo un portavoce dell’Associazione di Sostegno ai Prigionieri Addameer, che ha chiesto di rimanere anonimo, “gli arresti israeliani prendono di mira sistematicamente membri attivi della comunità che sono in grado di mobilitarla, soprattutto quelli che hanno dei trascorsi a riguardo”, ed ha aggiunto che “questo si può vedere chiaramente negli arresti di persone che lavorano nella società civile, nel settore accademico, nei media e nell’ambito dei diritti umani.”

Fuori dalle città la violenza dei coloni israeliani si è scatenata in modo esponenziale, di fatto espellendo circa 20 comunità rurali in Cisgiordania con attacchi violenti e minacce di morte. I coloni israeliani hanno anche aumentato le aggressioni contro palestinesi in viaggio sulle strade cisgiordane, in aggiunta ai rischi di pestaggi e arresti ai posti di blocco militari israeliani.

Queste azioni israeliane negli scorsi nove mesi hanno provocato l’uccisione di 554 palestinesi e l’arresto di 9.400 in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est.

Il motivo dell’intensità della repressione israeliana non è un mistero. Essa è preventiva, con lo scopo di traumatizzare e dissuadere i palestinesi in Cisgiordania dall’aprire un secondo fronte nella battaglia “tempesta di Al-Aqsa”.

L’impatto nelle strade

Nelle città del nord di Jenin e Tulkarem l’escalation impressionante dei raid israeliani, sia nel numero che nella portata delle violenze e distruzioni, ha portato ad un aumento dell’intensità degli scontri armati con i combattenti della resistenza palestinese. Almeno sette soldati israeliani, compresi due ufficiali, sono stati uccisi dal 7 ottobre durante i raid in Cisgiordania, inclusa la morte di un ufficiale e il ferimento di 17 soldati a Jenin solo la scorsa settimana.

Eppure, mentre i gruppi armati in Cisgiordania sono riusciti finora a contrastare l’aggressione, la mobilitazione civile nella sua forma tradizionale in Cisgiordania è rimasta ampiamente assente.

Il 17 ottobre, dieci giorni dopo l’inizio del genocidio a Gaza, palestinesi in diverse città della Cisgiordania sono scesi in strada in seguito alle notizie del bombardamento israeliano dell’ospedale al-Ahli Baptist a Gaza, che ha ucciso 500 persone. A Jenin e Ramallah alcuni manifestanti hanno gridato slogan contro ciò che ritenevano l’inazione dell’Autorità Nazionale Palestinese. Le proteste si sono trasformate in scontri con la polizia palestinese e cinque manifestanti sono stati uccisi. Nelle settimane seguenti i manifestanti hanno evitato di scontrarsi con l’ANP, in quanto il loro numero diminuiva e sono state arrestate da Israele altre figure di primo piano delle proteste.

Il 30 marzo, Giornata della Terra palestinese, la città di Ramallah ha vissuto un momento speciale di risveglio. In migliaia hanno marciato nelle strade della città, comprese persone di ogni età, per circa due ore, con grida in sostegno dei palestinesi a Gaza e denunce di genocidio. Poi è finito tutto.

Dopo la marcia un manifestante ha detto a Mondoweiss che “la gente vi ha visto l’opportunità di esprimersi dopo essere stati costretti per mesi al silenzio, ecco perché il numero dei partecipanti è stato più alto rispetto ad altre marce dall’inizio della guerra ed anche perché è durata così a lungo.”

Tradizionalmente la marcia dovrebbe dirigersi all’ingresso della città (vicino alla colonia Beit El) e finire con alcuni manifestanti che si scontrano con i soldati dell’occupazione, ma questa volta tutti sapevano che ciò non sarebbe accaduto, per questo motivo la marcia ha vagato nel centro della città così a lungo”, ha detto il manifestante.

Il 15 maggio, giorno della Nakba, decine di palestinesi in maggioranza giovani hanno corso il rischio e sono andati all’entrata nord di Ramallah e al-Bireh, protestando di fronte al posto di blocco di Beit El. Parecchi sono stati feriti e un manifestante palestinese è stato ucciso.

Aysar Safi, di 20 anni, era studente al secondo anno di educazione fisica all’università Birzeit e proveniva dal campo profughi di Jalazone a nord di Ramallah. E’stato il sesto palestinese di Jalazone ad essere ucciso dalle forze israeliane dopo il 7 ottobre.

Il fratello maggiore e il padre di Aysar sono entrambi detenuti nelle carceri israeliane. Dopo il loro arresto Aysar si era occupato del negozio di alluminio del padre, lavorando e studiando contemporaneamente. Suo zio lo ha descritto come “il braccio destro di sua madre”. Intanto la madre era troppo soffocata dal lutto per poter parlare.

Aysar era molto colpito dal genocidio a Gaza e diceva che noi dovevamo fare di più qui in Cisgiordania per aiutare il nostro popolo laggiù”, ha detto a Mondoweiss un amico di Aysar. “Era sempre presente all’accoglienza dei prigionieri rilasciati e ai funerali dei martiri.”

La sua uccisione non è stata casuale. I soldati occupanti hanno mirato al suo ventre”, ha sottolineato l’amico. “Hanno usato proiettili veri, non pallottole rivestite di gomma. Intendevano mandare il messaggio che non avrebbero tollerato alcuna protesta, perché vogliono tenere la gente nella paura e mantenere passiva la Cisgiordania.”

Ma per lo storico palestinese Bilal Shalash, che studia la storia della resistenza palestinese, “La Cisgiordania è tutt’altro che passiva.”

Storicamente in Palestina c’è un modello secondo cui quando in una regione si verificano forti ondate di resistenza, al ritorno della calma si riprende in un’altra regione”, dice Shalash a Mondoweiss. “L’occupazione teme un contagio da Gaza alla Cisgiordania, specialmente a nord, ed ecco perché intensifica in modo così brutale la repressione.”

Quanto alla mobilitazione civile, Shalash ritiene che dipenda molto dalla geografia. “Non è del tutto assente”, dice. “Nei villaggi vicini al muro di annessione o alle strade dei coloni israeliani la mobilitazione di massa può variare. Alcuni villaggi hanno sviluppato il proprio movimento di massa locale negli scorsi anni o decenni e continuano le proteste settimanalmente, mentre in altri villaggi una manciata di giovani si scontra con le forze di occupazione e con i coloni quando fanno incursioni.”

Nelle città la gente spesso protesta all’interno dei propri centri urbani senza scontrarsi con l’occupazione, conseguenza della separazione spaziale dei palestinesi dagli occupanti dovuta al regime di Oslo. Ciò ha portato molti ad astenersi dal partecipare a queste azioni, sottolinea Shalash. “Non ne vedono lo scopo”, spiega. “Alcuni ancora partecipano perché vogliono mandare un messaggio all’ANP relativamente alla politica interna palestinese.”

L’ANP ha mostrato l’intenzione di reprimere un sollevamento di massa in Cisgiordania, ma Shalash pensa che vi siano limiti a quanto l’ANP possa impedire le proteste senza rischiare una più vasta reazione. “Per questo esse possono ancora verificarsi”, dice.

Inoltre la mobilitazione di massa in Palestina dipendeva in parte dal coinvolgimento della classe media, che costituiva una parte dell’intellighenzia politica e del movimento popolare. Quella stessa classe media è stata ora risucchiata in uno stile di vita consumistico e spoliticizzato, che viene mantenuto solamente dal flusso di denaro dall’estero – sia verso l’ANP che verso il settore delle ONG.

Però proprio quella stabilità adesso è compromessa da Israele. 

Con il rifiuto di Israele di terminare la guerra a Gaza e l’aumento delle tensioni in tutta la regione tutti i precedenti sintomi di stabilità in Cisgiordania sono scomparsi uno dopo l’altro. Israele non ha fatto che rispondere con sempre maggior repressione, sperando di impedire una grossa scossa di ribellione almeno a livello superficiale. Il problema è che in profondità le placche tettoniche non hanno smesso di muoversi.

Qassam Muaddi è il redattore dello staff sulla Palestina per Mondoweiss.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Le violenze che non fanno mai notizia

Adam Horowitz

23 giugno 2024 – Mondoweiss

 

Le morti quotidiane e il numero delle vittime che abbiamo conteggiato da ottobre si riferiscono solo a coloro che sono stati uccisi direttamente dall’offensiva militare israeliana. E quelli che sono stati uccisi dalla distruzione di una società? Questa è una domanda che mi ha perseguitato per mesi. Cosa è successo ai pazienti oncologici? Come hanno fatto i palestinesi con altri problemi di salute a ottenere le cure di cui hanno bisogno?

Parte della risposta è stata chiarita da una storia di Tareq Hajjaj che abbiamo pubblicato questa settimana sulle condizioni del settore medico a Gaza. I momenti di violenza più scioccanti di cui siamo stati testimoni nei passati 8 mesi, l’assedio degli ospedali, il massacro dei palestinesi che cercavano di ricevere aiuti, lo sfollamento forzato di oltre 2 milioni di persone sotto la minaccia delle armi sono solo la punta dell’iceberg della violenza a cui sono stati sottoposti i palestinesi di Gaza.

Tareq racconta la storia di Nabil Kuhail, un paziente di 3 anni affetto da leucemia che semplicemente non ha potuto ricevere le cure mediche necessarie perché gli ospedali di Gaza sono stati distrutti. “La storia di Nabil è una di tante,” scrive Tareq. “Sono innumerevoli i pazienti che lottano per avere i trattamenti per varie malattie, quelle comuni spesso più mortali di quelle serie.”

Tale distruzione della vita palestinese è la prova dell’intento genocida di Israele a Gaza. E, come Jonathan Ofir ci ha aiutato a confermare questa settimana, il sostegno per queste politiche si estende a tutto lo spettro politico israeliano, inclusi quelli spesso lodati in Occidente come i campioni più progressisti della “democrazia” israeliana.”

Naturalmente questa violenza quotidiana che i palestinesi affrontano oltre a quella riportata nei titoli dei giornali non è solo nella Striscia di Gaza. Shatha Hanaysha ci ha riferito del caso di sadismo dei soldati israeliani che hanno usato un palestinese ferito come scudo umano durante un attacco a Jenin in Cisgiordania questo fine settimana. 

Shatha racconta:

Un testimone oculare che preferisce rimanere anonimo ha detto a Mondoweiss che i soldati israeliani hanno deliberatamente maltrattato il ferito.

Sembrava che lo facessero per divertirsi,” ha detto il testimone, aggiungendo che l’uomo non era né ricercato né un combattente della resistenza, ma un civile disarmato. Ciò era evidente dal fatto che i militari israeliani non l’hanno arrestato, ma l’hanno consegnato all’ambulanza palestinese dopo che era rimasto legato sul cofano del veicolo per parecchi minuti nel caldo estivo.

Questa storia probabilmente non arriverà sulle testate internazionali ma ci dice di più sulla realtà dell’occupazione israeliana e l’apartheid che testimoniano molte relazioni sui diritti umani. 

E le minacce di violenza sembrano solo aumentare. Leggete questa relazione di Qassam Muaddi sulla crescente minaccia di un attacco israeliano su larga scala contro il Libano. Come chiarisce Qassam, probabilmente spetterà all’amministrazione Biden fermare un attacco israeliano che potrebbe avere conseguenze regionali gigantesche e devastanti. Sfortunatamente sembra che gli USA non vogliano opporsi a Israele. 

Tuttavia gli sforzi della politica statunitense continuano con molti occhi puntati sulle imminenti elezioni USA. Questa settimana Michael Arria ha delineato due importanti tentativi di sfidare lo status quo politico. 

Da quando la campagna “Uncommitted” per esprimere disapprovazione verso l’amministrazione Biden ha cominciato a comparire a sorpresa sui titoli dei giornali durante le primarie del partito Democratico la domanda è: cosa succederà dopo? Questa settimana Michael ha parlato con Lexis Zeidan, co-direttore di Listen to Michigan, per scoprirlo. Michael ha anche parlato con Usamah Andrabi, portavoce di Justice Democrats, sulla coalizione Reject AIPAC [Contro AIPAC, principale organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndt.] per un podcast di Mondoweiss. Per favore, prestategli ascolto.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gli abitanti dei kibbutz bloccano gli aiuti umanitari a Gaza.

Jonathan Ofir  

18 giugno 2024 – Mondoweiss

La complicità con il genocidio non è confinata alla destra israeliana. Membri dell’organizzazione progressista che lo scorso anno ha capeggiato le proteste contro Netanyahu ora bloccano gli aiuti umanitari a Gaza

Nel corso degli ultimi mesi i principali mezzi di informazione hanno parlato del problema degli israeliani che bloccano gli aiuti umanitari a Gaza. A marzo Clarissa Ward della CNN ha raccontato degli attivisti israeliani di estrema destra che cercano di bloccare con i propri corpi i valichi verso Gaza attraverso cui è stato trasportato l’aiuto umanitario. Ward ha respinto le affermazioni dei manifestanti secondo cui i sacchi di riso erano stati riempiti con proiettili, spiegando inutilmente che i gazawi stanno morendo di fame.

Venerdì l’amministrazione Biden ha emanato una sanzione selettiva contro la principale organizzazione che blocca gli aiuti, “Tzav 9”, che significa “Ordine 9”, un nome che allude all’ordine di mobilitazione dei riservisti dell’esercito israeliano.

Il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller ha affermato:

Per mesi singoli individui di Tzav 9 hanno ripetutamente cercato di impedire la consegna di aiuti umanitari a Gaza, compreso  il blocco di strade, a volte in modo violento, lungo il loro percorso dal Giordano a Gaza, anche in Cisgiordania… Non tollereremo azioni di sabotaggio e violenze che prendano di mira questa indispensabile assistenza umanitaria… Continueremo ad usare ogni mezzo a nostra disposizione per promuovere il fatto che vengano chiamati a risponderne quanti cercano o intraprendono tali atti odiosi e ci aspettiamo e sollecitiamo le autorità israeliane a fare altrettanto.

Ma l’idea implicitamente sostenuta qui che “Tzav 9” sia l’unico attore negativo da condannare è assolutamente fuorviante. Il blocco dell’aiuto umanitario è solo un contributo di questi attivisti, il principale responsabile dell’uso della fame come arma contro tutta la popolazione di Gaza è il governo israeliano. È un l’attore fondamentale di questo genocidio.

Nel suo reportage Clarissa Ward ha correttamente notato che un recente sondaggio dell’Israeli Democracy Institute [centro di ricerca progressista, ndt.] ha mostrato che il 68% – oltre due terzi – degli ebrei israeliani è contrario all’aiuto umanitario a Gaza. Il sondaggio in effetti ha evidenziato l’80% tra i votanti di destra (che costituiscono circa i 2/3 della popolazione). E non importa se Hamas e l’UNRWA sono esclusi dalla fornitura di aiuti, vi si oppongono comunque. In altre parole i manifestanti di “Tzav 9” sono solo la punta dell’iceberg.

Di fatto a questi attivisti di destra ora si è unito un altro gruppo significativo: gli abitanti di kibbutz che stanno anche loro bloccando con i propri corpi l’aiuto umanitario a Gaza.

In Israele la società dei kibbutz è tradizionalmente nota per il suo spirito socialista di sinistra. Ma da sempre è ed è stata funzionale all’occupazione colonialista israeliana e all’apartheid. Come ha detto recentemente il presidente del Movimento dei Kibbutz Nir Meir, “i coloni non si sbagliano. La destra ha ragione: questo è il modo per impossessarsi delle terre e la loro affermazione secondo cui in ogni posto che noi israeliani lasciamo al nostro posto verranno gli arabi è corretta. La destra ha anche ragione nel suo progetto: è con la colonizzazione e solo con essa che può essere imposta la sovranità.”

Domenica il quotidiano israeliano di centro Maariv ha informato che ora circolano video di membri di kibbutz che stanno anche loro bloccando l’aiuto umanitario. Il video mostra due uomini del kibbutz Sdeh Boker (proprio il kibbutz di Ben-Gurion) e attivisti di “Koah Kaplan” — la “Forza Kaplan”, l’organizzazione che protesta contro l’attuale governo. Prende il nome da via Kaplan a Tel-Aviv, dove si svolgono le principali manifestazioni [contro Netanyahu, ndt.]. Il video di Maariv, secondo cui sarebbe di febbraio, mostra il blocco di camion da parte di membri del kibbutz al valico di Kerem Shalom verso Gaza, e “Tsav 9” ha confermato che negli ultimi mesi “Forza Kaplan” ha fatto parte del tentativo di bloccarli.

Ecco quanto dicono nel video i due attivisti:

Sono Boaz Sapir del kibbutz Sdeh Boker, sono qui per trasmettere un chiaro messaggio… il messaggio è che non ci sono destra o sinistra, che tutti gli ostaggi ritornino, vivi.”

Sono Gilad Shavit, del kibbutz Sdeh Boker, insieme a Boaz… vengo a portare il messaggio che gli ostaggi sono di tutta la Nazione di Israele, tutta la Nazione di Israele vuole il ritorno degli ostaggi, ma per un po’ il governo lo ha dimenticato. Non è possibile, non forniremo nessuna assistenza (umanitaria) ad Hamas finché i rapiti non verranno restituiti, questo è il nostro messaggio.”

Quello stesso messaggio è stato pronunciato fin dall’inizio del genocidio dall’uomo che è stato recentemente eletto alla guida del partito Laburista israeliano, Yair Golan.

Golan è entrato nel partito laburista da sinistra, essendo stato membro del Meretz, che non è riuscito a superare la soglia di sbarramento nelle elezioni del novembre 2022. Il 13 ottobre Golan ha sostenuto addirittura che bisogna far morire di fame i gazawi:

Innanzitutto interrompere tutte le forniture di elettricità a Gaza. Penso che in questa battaglia sia vietato consentire un’operazione umanitaria. Dobbiamo dire loro: ascoltate, finché non saranno rilasciati (gli ostaggi) per quanto ci riguarda potete morire di fame. È assolutamente legittimo.”

Nel suo articolo Maariv pone l’ovvia domanda: “Il governo americano metterà in atto sanzioni contro gli attivisti della ‘Forza Kaplan’?”

Penso che sappiamo tutti la risposta. L’amministrazione Biden non sanzionerà un movimento che rappresenta la “democrazia” israeliana, dato che esso lotta apertamente contro il governo, a dimostrazione del fatto che in Israele esiste il pluralismo politico.

Biden vuole cavarsela con gesti simbolici come in marzo, quando ha sanzionato quattro coloni “che minacciano la pace, la sicurezza o la stabilità in Cisgiordania”. Il docente della Columbia University Rashid Khalidi ha sottolineato:

È un po’ come se ci fosse un furioso incendio e ci buttassero sopra un bicchier d’acqua e nello stesso tempo stessero fornendo benzina per alimentare le fiamme… Sanzionare qualche individuo che fa parte di una spinta alla colonizzazione sostenuta dal governo israeliano per 56 anni è in sé e per sé assurdo. O sanzioni chi lo ha guidato con molti miliardi di dollari, cioè il governo israeliano e le donazioni americane esentasse, o non fingere di opporti alle colonie.”

Gli USA dovrebbero impedire un genocidio, non giocare con le sanzioni contro questa o quella organizzazione. Israele nel suo complesso sta commettendo questo genocidio. Invece Biden sta solo andando dietro al frutto facile da cogliere degli attivisti di estrema destra, un atto simbolico, mentre continua la sua politica di incrollabile appoggio al genocidio israeliano.

Gli abitanti dei kibbutz, spesso additati dai democratici progressisti come il meglio della società israeliana, non sono diversi da “Tzav 9” quando si tratta di bloccare l’aiuto salvavita ai palestinesi di Gaza. E le loro parole e azioni rivelano solo quanto la società israeliana sia nel suo complesso genocidaria.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Capire la proposta di Biden per un cessate il fuoco a Gaza

Michel Plitnik

1 giugno 2024 Mondoweiss

I dettagli della proposta di Joe Biden per un cessate il fuoco a Gaza rimangono vaghi, ma un esito dello scontro è certo: Israele e gli Stati Uniti hanno perso.

Venerdì il presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è avvicinato al microfono e ha controllato l’orologio prima di iniziare il suo discorso, scherzando sul fatto che voleva assicurarsi che fosse pomeriggio. Dato che era in ritardo di quasi un’ora, qualcuno avrebbe potuto suggerirgli da dietro le quinte di aspettare fino all’inizio di Shabbat in Israele. In questo modo i ministri di estrema destra e osservanti del sabato come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir avrebbero dovuto aspettare un giorno per rispondere a un discorso che certamente non avrebbero voluto sentire.

Del discorso di Biden nemmeno il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe potuto essere molto soddisfatto, anche se doveva sapere da tempo che sarebbe avvenuto.

Biden ha usato gran parte del suo discorso per presentare quella che ha definito “una nuova proposta israeliana” per porre fine al massacro di Gaza. Da un lato il piano da lui presentato era incredibilmente simile a quello respinto da Israele all’inizio di maggio, sostenendo successivamente che Hamas, dopo averlo accettato, lo avesse “modificato”.

Questo solleva la questione del perché Israele lo dovrebbe improvvisamente adesso accettare. Parte della risposta è arrivata poco dopo il discorso di Biden, quando entrambe le camere del Congresso e l’intera leadership bipartisan hanno inviato a Netanyahu l’invito formale a parlare in una sessione congiunta del Congresso, probabilmente alla fine di agosto o all’inizio di settembre.

La politica che concerne tutto ciò è cinica, ma non ci sono dubbi sul fatto che le manifestazioni di massa negli Stati Uniti e in Europa, in tutto il mondo arabo e persino in Israele abbiano spinto tutte le parti coinvolte nei colloqui a mettere almeno un’offerta concreta sul tavolo. Tuttavia questa stessa politica potrebbe significare che nonostante tutto l’attacco di Israele continuerà.

Cosa sappiamo della proposta

Come l’accordo ipotizzato qualche settimana fa la proposta avanzata da Biden è divisa in tre fasi.

Nella Fase Uno ci sarebbe un cessate il fuoco completo per sei settimane. Israele si ritirerebbe da “tutte le aree popolate di Gaza”; Hamas e gli altri gruppi militanti rilascerebbero alcuni ostaggi tra cui donne, anziani e feriti in cambio del rilascio di “centinaia” di prigionieri palestinesi; i civili palestinesi potrebbero ovunque tornare nelle loro case a Gaza e ogni giorno entrerebbero a Gaza almeno 600 camion di aiuti umanitari.

Alcuni dettagli cruciali rimangono poco chiari. Forse il più importante è cosa significhi il ritiro di Israele da “tutte le aree popolate di Gaza”. Se Israele non si impegnerà in alcuna operazione militare, la presenza delle truppe apparirà una cosa di routine. E se i palestinesi possono tornare ovunque a Gaza, ciò lascia poca preziosa terra “spopolata” nella piccola e sovraffollata Striscia.

La Fase Due è in qualche modo aperta e i dettagli dovrebbero essere elaborati durante la Fase Uno. Biden ha affermato esplicitamente che se i negoziati non fossero completati entro sei settimane, il cessate il fuoco verrebbe prolungato fino al loro completamento.

La seconda fase vedrebbe un accordo sulla fine permanente delle ostilità, il rilascio di tutti gli ostaggi viventi detenuti a Gaza e il completo ritiro israeliano da Gaza. Dato che non sembra esserci un quadro normativo per una cessazione definitiva, la prospettiva di successo in un periodo di tempo così breve è dubbia.

La terza fase vedrebbe poi la restituzione dei corpi di tutti gli ostaggi morti e l’inizio di un massiccio sforzo di ricostruzione a Gaza da parte della comunità internazionale.

Cosa manca

Il piano così com’è stato presentato è chiaramente incompleto e solleva la domanda se ci siano ulteriori dettagli importanti da elaborare o se quei punti, alcuni dei quali molto significativi, non siano stati omessi dall’annuncio per ragioni politiche.

Forse il punto più importante che manca nella presentazione di Biden è la governance. È un mistero se Israele o gli Stati Uniti siano disposti a tollerare un governo di Hamas. L’Autorità Palestinese potrebbe avere più facilità a subentrare se Hamas accettasse questa offerta e la presentasse come una vittoria per il popolo palestinese. Ma Israele sarebbe davvero d’accordo su questo? Il popolo di Gaza sarebbe disposto ad accettare una sorta di coalizione internazionale per il controllo temporaneo di Gaza? Anche questo sembra improbabile, anche se potrebbe essere un prezzo che vale la pena pagare per porre fine alla tragedia.

Restano aperte le questioni relative ai crimini di guerra, al caso davanti alla Corte Penale Internazionale e ai suoi potenziali mandati di arresto. Se le gravi violenze a Gaza finissero è del tutto possibile che quei casi possano sparire e con essi la speranza di riconoscere la responsabilità di Stati potenti e dei loro leader che commettono crimini di guerra. Ancora una volta, è difficile immaginare che Israele metta fine al massacro per poi affrontare quelle accuse, ed è difficile immaginare che gli Stati Uniti starebbero a guardare.

C’è anche un ovvio problema di implementazione. Biden ha affermato che se Hamas violasse i termini di questa proposta dopo che fosse stata accettata, Israele potrebbe riprendere la sua campagna genocida. Questa è una minaccia che Israele avrà sempre a disposizione. 

Ma cosa succederebbe se fosse Israele a non rispettare la sua parte nell’accordo? Biden sembra aver semplicemente dato per scontato che, se Israele lo accetterà, rispetterà l’accordo. Le lezioni di Oslo non valgono nulla per il Presidente, e di nuovo manca la consapevolezza che solo la pressione esterna – che deve includere gli Stati Uniti, anche se non è necessario che siano l’unico Stato ad applicarla – può garantire che Israele ottemperi agli accordi. È una storia con un finale molto brutto che abbiamo visto ripetersi molte volte nel corso degli anni.

La politica dell’offerta

La tempistica di questa offerta suggerisce il motivo per cui sia arrivata proprio ora. Visto che Donald Trump era stato condannato per 34 reati a New York proprio il giorno prima, Biden ha fatto di tutto per trarre vantaggio dalla giornata nera di Trump anche perché, almeno inizialmente, le condanne di Trump non sembrano avergli dato una gran spinta.

Naturalmente, visto quanto è costato a Biden il sostegno al genocidio di Gaza, ogni momento è buono per concludere un accordo. La vera domanda è perché Israele all’improvviso abbia accettato la proposta.

In primo luogo è importante comprendere la prassi di Israele. La sua squadra negoziale ha lavorato con Egitto, Qatar e Stati Uniti su questo accordo, ma è improbabile che si tratti di una proposta che venga da Israele, come l’ha presentata Biden. Netanyahu ha dovuto approvare che gli Stati Uniti facessero la proposta a nome di Israele, ma ciò non significa che Israele l’abbia ufficialmente accettata. Netanyahu ha l’ultima parola e se i partiti di estrema destra minacciassero di lasciare il governo potrebbe fare marcia indietro. 

Inoltre Netanyahu non ha avuto bisogno di premere molto per respingere il cessate il fuoco che porterebbe al rilascio degli ostaggi detenuti a Gaza, come ha ripetutamente fatto sin dall’inizio. Anche se il suo governo non dovesse cadere immediatamente, correrebbe comunque un serio rischio nei processi per corruzione in corso. Continuare la carneficina a Gaza impedisce che questo accada.

L’invito del Congresso è probabilmente parte del pacchetto che Biden ha offerto a Netanyahu per portare avanti questa proposta almeno provvisoriamente. Potrebbero esserci altri incentivi che devono ancora concretizzarsi affinché Netanyahu possa aumentare la sua popolarità in Israele o perché altri partiti, come Yesh Atid [partito israeliano sionista di centro e laico, ndt.] di Yair Lapid, accettino di salvare il suo governo se i partiti di estrema destra se ne vanno. Ma Biden ha un disperato bisogno di trarre qualcosa di positivo dalla débâcle di Gaza e se trova il modo di salvare Netanyahu e far sì che ciò accada lo farà sicuramente.

Nel suo discorso Biden ha aperto la porta a Netanyahu dicendo che negli ultimi otto mesi sono stati uccisi così tanti combattenti di Hamas che non sarebbe possibile organizzare di nuovo un attacco pesante come quello del 7 ottobre. Stava chiaramente lastricando la strada che Netanyahu avrebbe potuto percorrere per rivendicare la vittoria accettando questo accordo, suggerendo che l’intenzione di Netanyahu di sconfiggere completamente Hamas sia stata soddisfatta per quanto realisticamente possibile.

Le reazioni

Eppure sia Netanyahu che Hamas sono stati cautamente positivi nelle loro risposte. Hamas ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma: “Hamas conferma la sua disponibilità ad affrontare positivamente e in modo costruttivo qualsiasi proposta basata sul cessate il fuoco permanente e sul completo ritiro [delle forze israeliane] dalla Striscia di Gaza, sulla ricostruzione [di Gaza], e il ritorno degli sfollati ai loro luoghi, insieme alla realizzazione di un vero accordo di scambio di prigionieri se l’occupazione annuncia chiaramente l’impegno a tale accordo”.

È una risposta intelligente. Esprime il fatto che stiano ancora analizzando i dettagli, alcuni dei quali non sono ancora stati resi pubblici e che non si impegneranno pubblicamente nell’accordo finché Israele non dichiarerà il suo appoggio. Il fatto è che questa proposta soddisfa in gran parte le richieste che Hamas ha ripetuto negli ultimi mesi: cessate il fuoco completo, fine delle ostilità, ritiro completo israeliano e completa libertà dei palestinesi di tornare ovunque siano stati cacciati da Gaza.

Tutte queste cose non accadrebbero necessariamente il primo giorno, ma è improbabile che Hamas trovi un accordo migliore di questo ed è certamente un accordo che gli permette di affermare realisticamente di aver resistito a tutti gli attacchi di Israele, e che loro e il popolo di Gaza sono rimasti in piedi. Israele avrà la propria narrazione e i sostenitori di ciascuna parte abbracceranno le varie versioni, ma questo è un argomento realistico che Hamas può sostenere.

Biden ha fatto allusione all’idea che questa proposta in qualche modo rimetta in pista l’idea di una soluzione a due Stati, il che è una totale assurdità. Non avrà alcun effetto su quel miraggio, metterà semplicemente fine al massacro.

Biden ha anche lasciato intendere che la cosa potrebbe portare all’accordo di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele. Anche questo è improbabile. Non è impossibile, ma richiederà una serie di altre cose per essere realizzato, inclusa l’approvazione del Senato sull’accordo e l’impegno di Israele per uno Stato palestinese, cosa che è altamente improbabile Netanyahu faccia.

In effetti se quell’accordo ne facesse in qualche modo parte sarebbe una ricetta per un disastro. Non solo perché l’idea della normalizzazione è una politica terribile per gli Stati Uniti, i palestinesi e l’intera regione, ma anche perché minaccia di suscitare la stessa disperazione che è stata un fattore significativo nella decisione di Hamas di lanciare l’attacco del 7 ottobre.

Biden non sarebbe saggio nel perseguire questa strada, anche se ne sarebbe tentato data la sua ossessione per l’idea di normalizzazione israelo-saudita e il suo desiderio di una grande vittoria in politica estera. La proposta, anche se accettata, difficilmente sarà quel genere di vittoria.

Ciò è dovuto soprattutto al fatto che l’intera proposta chiarisce come Israele e gli Stati Uniti abbiano perso. La tregua che potrebbe prendere piede è sul tavolo dallo scorso anno, in una forma o nell’altra. Molte vite palestinesi, così come alcune vite israeliane, avrebbero potuto essere salvate.

Israele ha insistito sul fatto che solo la forza delle armi avrebbe potuto liberare gli ostaggi, nonostante il fatto che non ci sia riuscito, mentre un precedente cessate il fuoco prevedeva la liberazione di quasi metà degli ostaggi. Hamas continua ad esistere e continuerà ad esistere indipendentemente dal fatto che questa proposta venga accettata o meno. La popolazione di Gaza è rimasta a Gaza, nonostante la massiccia perdita di vite umane.

Tutto ciò che Israele è riuscito a fare sono stati massacri e distruzioni, che hanno danneggiato gravemente e permanentemente la sua posizione nel mondo, non solo tra milioni e milioni di persone ma anche tra molti governi.

Tutto questo avrebbe potuto essere evitato e non ci vogliono piani complicati per farlo. Concedere semplicemente ai palestinesi i diritti e le libertà che tutti ci aspettiamo. In un mondo simile non ci sarebbe bisogno del 7 ottobre, né di odio, paura e insicurezza. Il discorso di Biden e la sua proposta non contengono alcun indizio che adesso capisca la situazione meglio di quanto la capisse il 6 ottobre.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Come i medici carcerari israeliani partecipano alla tortura dei detenuti palestinesi

Kanav Kathuria

28 maggio 2024 – Mondoweiss

I medici israeliani forniscono agli interroganti le informazioni mediche riguardanti i prigionieri per dare il via libera alla tortura, istruiscono gli interroganti su come infliggere dolore senza lasciare segni fisici e collaborano persino personalmente nell’infliggere le torture.

Quando lunedì il procuratore capo della Corte Penale Internazionale Karim Khan ha richiesto dei mandati di arresto per Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant ha scelto sorprendentemente di non includere nella sua lista dei crimini di guerra e dei crimini contro lumanità commessi da Israele la tortura o la violenza sessuale contro i prigionieri palestinesi.

Lomissione della tortura da parte di Khan è incredibile. Negli ultimi sette mesi centinaia di rapporti, testimonianze e indagini hanno fatto ulteriore luce sulla pratica brutale della tortura da parte di Israele nei confronti dei detenuti palestinesi e dei prigionieri nelle carceri delloccupazione israeliana.

Come hanno ampiamente documentato organizzazioni della società civile palestinese come lAddameer Prisoner Support, Human Rights Association, il Palestine PrisonersClub e altre, i prigionieri vengono brutalmente picchiati e maltrattati più volte al giorno, rinchiusi in celle non adatte alla vita umana, tenuti bendati con le mani legate con fascette di plastica, isolati dal mondo esterno, spogliati dei loro vestiti, puniti collettivamente attraverso la fame, attaccati da cani, aggrediti sessualmente e torturati psicologicamente. Dal 7 ottobre almeno tredici palestinesi sono stati portati alla morte in carcere in seguito alla tortura e alla negazione di cure mediche adeguate. Innumerevoli altri sono stati scoperti in fosse comuni con evidenti segni delle torture subite, esecuzioni e altri crimini contro l’umanità.

Sebbene trattata dai mezzi di informazione occidentali come un fenomeno nuovo o eccezionale, come nella recente denuncia della CNN sugli orrori praticati nel famigerato centro di detenzione di Sde Teiman, la tortura israeliana precede di molto il 7 ottobre. Luso della tortura in Israele come strumento coloniale per soggiogare e esercitare il controllo sui palestinesi è intrecciato con la sua stessa nascita come Stato. Come ha scritto nel 2010 dal carcere Walid Daqqa, icona rivoluzionaria e letteraria palestinese,

Ciò che accade nelle [carceri israeliane] non è solo detenzione e isolamento di un popolo considerato un rischio per la sicurezza di Israele, ma fa parte di uno schema generale, scientificamente pianificato e calcolato per rimodellare la coscienza palestinese”.

La tortura israeliana è quindi istituzionalizzata e sistematica portata avanti dall’esteso regime di sicurezzadello Stato e autorizzata dai suoi organi legali e giudiziari. A livello internazionale luso della tortura da parte di Israele continua a non essere oggetto di verifica, nonostante lo Stato sia firmatario della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti.

Tuttavia, nel fare luce sul labirinto di sistemi, leggi, istituzioni e persone che modellano il modo in cui Israele pratica la tortura [emerge che] una fondamentale categoria di persone coinvolte tende a sfuggire alla responsabilità: gli operatori sanitari nelle carceri e nei centri di detenzione delloccupazione israeliana. Mentre lattenzione su chi tortura generalmente ricade sugli interroganti dello Shin Bet (o lagenzia di sicurezzainterna israeliana), i medici e gli psicologi carcerari israeliani sono profondamente complici della tortura e del trattamento crudele, inumano o degradante dei palestinesi incarcerati che si suppone siano affidati alle loro cure.

Via liberaalla tortura fornito dai medici

Le norme internazionali che vietano ai medici di compiere atti di tortura sono categoriche. Ad esempio, la Dichiarazione di Tokyo del 1975 della World Medical Association – un’associazione a cui appartiene l’Israel Medical Association – afferma che un medico non deve “consentire o partecipare alla pratica della tortura… qualunque sia il reato di cui sia sospettata la vittima di tali procedure”, accusata o colpevole, e qualunque siano le convinzioni o le motivazioni della vittima… anche [nei] conflitti armati e guerre civili.” La Dichiarazione afferma inoltre che mentre i medici hanno lobbligo di diagnosticare e curare le vittime di tortura, è eticamente loro vietato condurre qualsiasi valutazione, o fornire informazioni o trattamenti, che possano facilitare o perpetuare la tortura. (enfasi aggiunta).

In altre parole: un medico può comunque essere complice della tortura anche se la sua partecipazione non è diretta. In quanto professionisti medici responsabili del benessere dei loro pazienti i medici hanno l’obbligo etico di segnalare e denunciare gli abusi di cui sono testimoni, di proteggere i loro pazienti, di garantire la riservatezza delle informazioni mediche personali dei pazienti e di astenersi da qualsiasi situazione in cui venga utilizzata o minacciata la tortura.

Le prove degli ultimi 30 anni dimostrano che regolarmente i medici israeliani non rispettano questi obblighi etici e operano in violazione del diritto internazionale. Come dettagliato nei rapporti di Human Rights Watch, Amnesty International, Physicians for Human Rights-Israel e molti, molti altri, in Israele il coinvolgimento dei medici nella tortura è sistematico e di fatto parte integrante del regime di tortura israeliano.

La complicità dei medici nella tortura si manifesta in vari modi. Come spiegato nello studio globale di Addameer del 2020, Cell 26, prima dellinizio dellinterrogatorio di un detenuto, i medici israeliani collaborano con gli interroganti dello Shin Bet per certificareo constatare che siano idonei” ad essere sottoposti a tortura. Per tutta la durata dellinterrogatorio un medico fornisce il via liberaaffinché la tortura possa continuare.

Ma lautorizzazione alla tortura va oltre un superficiale controllo sanitario. Nei loro esami, gli operatori sanitari cercano i punti deboli fisici e psicologici da sfruttare in una persona. Queste debolezze vengono condivise attivamente con gli interroganti per aiutarli a spezzare lo spirito del prigioniero.

Inoltre i medici israeliani tacciono sulle ferite che osservano durante la tortura. Invece di adempiere alle proprie responsabilità etiche con il denunciare gli abusi, i medici falsificano o si astengono dal documentare gli effetti fisici e psicologici della tortura sul corpo e sulla mente di un detenuto, privando le vittime della possibilità di utilizzare potenziali prove contro i loro torturatori.

La complicità medica nella tortura si estende oltre i singoli professionisti fino allintero sistema sanitario israeliano. I detenuti palestinesi raccontano che gli interroganti sono addestrati a metodi di abuso progettati per infliggere il massimo danno. Questa conoscenza non è innata; al contrario, secondo Cell 26, la ricerca medica è coinvolta con gli interroganti delloccupazione israeliana per armarli di tecniche e programmi di tortura specifici intesi a causare sofferenze estreme ai detenuti palestinesi lasciando minimi segni fisici.

Dal 7 ottobre le indagini e le testimonianze di sopravvissuti alla tortura, difensori e organizzazioni per i diritti umani e persino alcuni informatori israeliani hanno confermato che il coinvolgimento dei medici israeliani nella tortura è ancora in corso. Il 16 aprile un rapporto scioccante dellAgenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e lOccupazione Lavorativa (UNRWA) sulla tortura dei detenuti di Gaza ha affermato che quando tentavano di ricevere assistenza medica per la cura delle ferite causate dalle torture, i prigionieri palestinesi venivano invece picchiati più duramente dai medici della prigione.

La complicità dei medici nella tortura include anche la negligenza medica, una pratica deliberata e di lunga data nelle carceri israeliane. Un rapporto di Physicians for Human Rights-Israel [Medici per i diritti umani-Israele] pubblicato il mese scorso descrive in dettaglio le orribili condizioni di reclusione in un ospedale da campo situato presso la base militare e centro di detenzione di Sde Teiman. Secondo il rapporto, il personale medico presta assistenza a pazienti immobilizzati e bendati; esegue procedure mediche invasive senza che i pazienti ricevano sufficienti spiegazioni in anticipo o diano il loro consenso; rifiuta di prestare le cure rifiutando la somministrazione di farmaci antidolorifici e giustificando la fornitura del trattamento esclusivamente nei casi in cui ciò aiuti le forze di sicurezza a interrogare i pazienti. Inoltre, al personale medico non è richiesto di denunciare o documentare casi di violenza o tortura di cui sia stato testimone né di firmare documenti medici con il proprio nome o numero di licenza, proteggendolo da qualsiasi potenziale indagine riguardante la violazione delletica medica.

Nellindagine della CNN su Sde Teiman altri tre informatori israeliani presso il centro di detenzione hanno rivelato come le procedure mediche presso la struttura siano a volte eseguite da medici sottoqualificati, tanto che [l’ospedale da campo] si è guadagnato la reputazione di ‘paradiso per i tirocinanti’”.

Come ha detto uno degli informatori alla CNN: Mi è stato chiesto di imparare come fare delle cose sui pazienti, eseguendo procedure mediche minori che sono totalmente al di fuori della mia competenzail trovarmi soltanto lì mi sembrava di essere complice di abusi. La stessa persona ha anche assistito ad amputazioni eseguite su persone che avevano subito ferite causate dalla costrizione continuativa delle mani.

Le condizioni all’interno dellospedale da campo di Sde Teiman sono così disastrose che allinizio di aprile un medico israeliano di stanza presso la struttura ha scritto una lettera al ministro della Sanità israeliano esprimendo le sue preoccupazioni. In essa afferma che le circostanze sono così cupe che i suoi impegni fondamentali nei confronti dei pazientisono stati lasciati da parte e che le équipe mediche della struttura, così come il Ministero della Salute, stanno violando la legge israeliana sullincarcerazione dei combattenti illegali.

Quando i medici sono agenti del colonialismo

La partecipazione alla tortura dei medici professionisti coloro il cui dovere è evidentemente quello di guarire, alleviare la sofferenza e agire nel migliore interesse dei loro pazienti non è una contraddizione. Indipendentemente dalletica o dalle leggi, il personale medico israeliano opera innanzitutto come agente del regime coloniale di insediamento israeliano. Sotto il colonialismo di insediamento tutti gli aspetti della società di un colonizzatore hanno un unico scopo: favorire loppressione delle persone colonizzate.

La professione medica non è diversa. Nel suo saggio Medicina e colonialismoFrantz Fanon delinea cosa significa praticare la medicina in un contesto coloniale. Parlando dellAlgeria francese, scrive:

il medico stessoha deciso di escludersi dal cerchio protettivo che i principi e i valori della professione medica hanno intessuto attorno a luiIn una data regione, il medico si rivela talvolta come il più sanguinario dei colonizzatoricosì diventa il torturatore sotto le apparenze di un medico.

Fanon continua: Sul piano strettamente tecnico il medico europeo collabora attivamente con le forze coloniali nelle loro pratiche più spaventose e più degradanti”.

Gli ultimi 230 giorni hanno reso dolorosamente evidente che lannientamento delle infrastrutture sanitarie di Gaza è uno degli obiettivi centrali della campagna genocida di Israele. Oltre alla distruzione degli ospedali, gli operatori sanitari palestinesi vengono rapiti, torturati e uccisi a centinaia. Secondo il Ministero della Sanità di Gaza dal 7 ottobre almeno 493 operatori sanitari sono stati assassinati da Israele. Altri 200 sono stati fatti prigionieri dalle forze di occupazione israeliane. Alcuni come il dottor Adnan Al-Bursh, primario di ortopedia presso lospedale al-Shifa sono stati torturati a morte dopo mesi di prigionia.

Mentre Israele bombarda e distrugge gli ospedali i medici israeliani torturano i prigionieri palestinesi. Mentre Israele giustizia i pazienti palestinesi, i suoi medici condividono ricerche mediche per aiutare a torturare meglio i detenuti palestinesi. Nelle parole del dottor Al-Bursh: La pratica della medicina è diventata un criminee la detenzione e la tortura a morte è diventata la punizione per aver salvato vite umane”.

Mentre i medici palestinesi muoiono negli ospedali di Gaza con i loro pazienti i medici israeliani sono complici del genocidio.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Come i presidenti delle università israeliane stanno avvalorando la causa del boicottaggio

Mayssoun Sukarieh

6 maggio 2024 – Mondoweiss

La condanna da parte dei presidenti delle università israeliane delle proteste in solidarietà con Gaza negli USA sta smascherando la complicità delle università israeliane nell’occupazione, nell’apartheid e nel genocidio.

Il 26 aprile 2024 i presidenti di nove università israeliane di ricerca— Ben-Gurion, Weizmann Institute of Science, Hebrew University, the Open University, Ariel, Tel-Aviv, Haifa e Technion-Israel Institute of Technology — hanno rilasciato una dichiarazione collettiva in risposta agli accampamenti degli studenti in solidarietà con i palestinesi che stavano dilagando nei campus universitari negli Stati Uniti e altrove. La dichiarazione è una significativa condanna degli studenti manifestanti negli USA impegnati in “gravi violenze, antisemitismo [e] opinioni contrarie a Israele,” che dipinge questi studenti come “detestabili gruppi di incitatori,” che sarebbero “organizzati e sostenuti” da “organizzazioni terroristiche.” 

I presidenti affermano che “studenti israeliani ed ebrei e membri delle facoltà” presso le università statunitensi vengono minacciati “di aggressioni fisiche” dai campi di protesta. Hanno richiesto ai presidenti delle università americane di adottare “misure oltre agli strumenti convenzionali disponibili alle amministrazioni delle università” per rispondere con efficacia a queste “situazioni estreme,” e invitano studenti e docenti israeliani ed ebrei negli USA a “entrare nelle università israeliane” dove promettono loro “una casa accademica e privata accogliente.”

È importante prestare grande attenzione a questa dichiarazione per parecchi motivi. Primo, perché aiuta a evidenziare una verità fondamentale sulle università israeliane. Negli ultimi vent’anni il PACBI (la campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele) ha chiesto il boicottaggio internazionale degli istituti di istruzione superiore israeliani perché “queste istituzioni sono profondamente complici del sistema israeliano di oppressione che nega ai palestinesi i loro diritti fondamentali garantiti dal diritto internazionale,” e “sono parte integrante dell’impalcatura ideologica e istituzionale del regime israeliano di occupazione, colonialismo e apartheid contro il popolo palestinese.” Più recentemente il libro di Maya Wind del 2024 Towers of Ivory and Steel: How Israeli Universities Deny Palestinian Freedom, [Torri d’avorio e acciaio: come le università israeliane negano la libertà palestinese] ha decisamente messo in dubbio la percezione in Occidente delle “università israeliane come bastioni progressisti di pluralismo e democrazia,” sostenendo, in accordo con il PACBI, che queste università “costituiscono le colonne portanti del colonialismo d‘insediamento israeliano” e “sostengono attivamente l’occupazione militare israeliana… e l’apartheid.” 

Negli ultimi sette mesi i presidenti delle università israeliane hanno mostrato il loro forte e fazioso sostegno alla guerra dello Stato di Israele a Gaza. La loro dichiarazione del 26 aprile fa eco alla condanna di due giorni prima da parte del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu dei manifestanti universitari USA, che ha descritto come “bande antisemite” che “invocano l’annientamento di Israele,” “aggrediscono gli studenti ebrei” e “attaccano il corpo decente ebreo” in modi che “ricordano ciò che successe nelle università tedesche negli anni ‘30.” Netanyahu ha definito le proteste “immorali” e ha insistito che devono essere “fermate” e “condannate inequivocabilmente.” 

La dichiarazione dei presidenti israeliani del 26 aprile non è stato un evento isolato ma una delle varie dichiarazioni fatte dall’inizio della guerra di Israele a Gaza. Tramite tali dichiarazioni i presidenti hanno sollevato la preoccupazione che “molti campus dei college [negli USA] siano diventati terreni fertili per la proliferazione di sentimenti anti-israeliani e antisemiti.”  

Pur facendo gesti simbolici di sostegno all’importanza della libertà accademica e di parola i presidenti delle università israeliane hanno spiegato chiaramente quali discorsi siano per loro accettabili. Condannano l’espressione “dal fiume al mare” poiché “auspica l’annientamento dello Stato di Israele,” e “intifada” poiché “sostiene le attività terroristiche contro i cittadini israeliani”, così come qualsiasi esternazione in cui Israele “è rappresentato in modo fuorviante come l’oppressore.” Essi approvano “dichiarazioni chiare di solidarietà e sostegno per Israele,” che credono “siano, nella loro essenza, affermazioni umane, illuminate e progressiste di solidarietà.” 

I presidenti delle università israeliane hanno continuamente rappresentato la guerra a Gaza in termini manichei: “Non ci sono ‘brave persone in entrambi i campi,’” sostengono in una dichiarazione, e in un altra affermano che la guerra è una lotta fra “luce” e “tenebre”. I presidenti insistono che le università negli USA “devono assumersi la responsabilità delle opinioni che perpetuano,” e che “ciò che è richiesto sono azioni chiare e ferme” per “guidare lo sviluppo morale ed etico” degli studenti universitari americani cosicché possano correttamente “separare il bene dal male”.

In particolare durante la guerra i presidenti non hanno proferito una singola espressione di preoccupazione per i palestinesi. In un comunicato insistono che “non ci può essere alcun sostegno per massacri deliberati della popolazione civile,” e invocano una “posizione comune contro la barbarica violenza perpetrata contro la popolazione civile.” Ma si riferiscono all’attacco di Hamas del 7 ottobre contro Israele, non all’aggressione di sette mesi attuata da Israele a Gaza che ha portato alla morte di oltre 34.000 palestinesi, in maggioranza donne e bambini. Non ci sono stati commenti da parte dei presidenti delle università israeliane né sulla distruzione da parte dello Stato israeliano di tutte le università né sull’uccisione di decine dei loro colleghi accademici in tutta Gaza. 

Negli ultimi sette mesi i presidenti delle università israeliane hanno perciò fornito con le loro stesse parole una prova diretta a sostegno delle argomentazioni sostenute dal PACBI negli ultimi vent’anni. In nessun senso questi presidenti hanno cercato di prendere una posizione di critica o dissenso verso le azioni dello Stato israeliano o seguito un percorso di pretesa neutralità riguardo allo Stato israeliano; piuttosto quella che è stata manifestata è una fervente e costante faziosità. Per opporsi ad apartheid, occupazione e genocidio in Palestina dobbiamo opporci alle università di ricerca israeliane.

 

Neutralità istituzionale’

Un secondo tema è che queste dichiarazioni devono essere considerate insieme a quelle che sono state fatte recentemente da un numero crescente di presidenti di università negli USA e nel Regno Unito in risposta alle richieste di studenti e corpo docente di disinvestire dalle aziende implicate nell’occupazione, nell’apartheid e nel genocidio israeliani e di boicottare le istituzioni Israeliane di istruzione superiore.  

Negli ultimi sette mesi molti di questi presidenti hanno abbracciato rivendicazioni di “neutralità istituzionale.” La neutralità istituzionale, sostiene Daniel Diermeier della Vanderbilt University, “è l’impegno di un’università e dei suoi dirigenti di astenersi dal prendere posizioni pubbliche su temi controversi a meno che riguardino direttamente la missione e la funzione dell’università,” ed è “un valore fondamentale” che è “vitale” e “indispensabile” dato che “tiene le università fuori dalla politica,” pur rimanendo concentrate sulla “ricerca della conoscenza e della verità.”  

Nel Regno Unito il King’s College London ha abbracciato una politica di “imparzialità basata sui valori,” che definisce come “una questione attiva di moderazione di principio” in cui l’università e i suoi dirigenti dovranno evitare di prendere posizioni pubbliche o rilasciare dichiarazioni pubbliche su “temi sociali e geopolitici,” eccetto ove questi “impattino direttamente sulla sicurezza e l’incolumità del nostro personale e dei nostri studenti.” Poco lontano dal KCL, Michael Spence, presidente e rettore dell’University College London, insiste “che il sostegno alla libertà accademica e al dibattito richiede che un’università non adotti una posizione istituzionale in relazione a ogni dato argomento, incluso quello del conflitto armato.” 

Negli USA il presidente e rettore della Stanford University ha rilasciato una dichiarazione subito dopo l’inizio della guerra di Israele a Gaza per enfatizzare l’importanza di “mantenere la neutralità dell’università,” e di riaffermare che “è politica generale (dell’università) non rilasciare dichiarazioni su eventi di cronaca non direttamente collegati al campus.” Persino alla Columbia University la presidente Minouche Shafik ha sostenuto che l’università è devota al principio di “neutralità istituzionale,” anche quando stava chiamando, non solo una, ma due volte, il dipartimento di polizia di New York per arrestare ed espellere gli studenti che manifestavano nel campus.

Tali affermazioni di neutralità dell’università sono state aspramente criticate da manifestanti, studenti e personale che le hanno etichettate come “menzogna”, “posizione artificiosa” e “cortina fumogena” per occultare la “complicità” dell’università nella guerra di Israele a Gaza e “una posizione molto chiara che ha preso [un’università] che non intende fare nulla per fermare il genocidio.” In una risposta a Daniel Diermeier uno studente della Vanderbilt University ha citato la frase dell’arcivescovo Desmond Tutu che “se sei neutrale in situazioni di ingiustizia, hai scelto la parte dell’oppressore.” Un attivista di Students for Justice in Palestine presso la Chapman University ha invocato le parole di Elie Wiesel che “la neutralità aiuta l’oppressore, mai la vittima,” e che il “silenzio incoraggia il tormentatore, mai il tormentato.” A un open day il gruppo per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni presso il Trinity College di Dublino, in Irlanda, ha distribuito volantini che “chiedevano agli aspiranti studenti: ‘Volete frequentare un’università che è neutrale sul genocidio?’” 

Ma c’è anche una domanda fondamentale sollevata dalle ripetute dichiarazioni collettive dei presidenti delle università di ricerca in Israele. Come possono le università negli USA, nel Regno Unito e altrove continuare a promuovere e impegnarsi in collaborazioni dirette con le università israeliane che non sono affatto neutrali in relazione alla guerra a Gaza, mentre allo stesso tempo fingono di avere una posizione di neutralità istituzionale su questo stesso tema? Semplicemente le due cose non possono coesistere. 

Infine c’è una questione più ampia per tutti noi impegnati come lavoratori e studenti nel settore dell’istruzione superiore: il ruolo delle università in relazione a occupazione, apartheid e genocidio indipendentemente da dove queste università sono situate. Le università occidentali fingono una neutralità assai dubbia, anche quando la loro ricerca, insegnamento, istituzioni, finanziamenti e fondi pensione che hanno legami con corporazioni e altre istituzioni coinvolte nel sostenere occupazione, apartheid e genocidio in Palestina raccontano un’altra storia. Le università israeliane sono coinvolte in un sostegno diretto, aperto e fazioso dello Stato israeliano, perseguendo quello che la Corte Internazionale di Giustizia ha sostenuto costituisca, come minimo “un plausibile genocidio.” Ma questi non sono i soli modelli che le università possono recepire. Il modello di università pubblica ha da tempo portato avanti una visione alternativa dell’università come spazio vitale per critica e dissenso nella società contemporanea e come attore importante nella continua lotta per la giustizia sociale. Questa è “l’importanza di dire la verità al potere” che Craig Calhoun, ex presidente della London School of Economics, sostiene nella sua conferenza sulla libertà accademica e conoscenza pubblica. 

Le università non sono mai state, non sono e non dovrebbero mai essere neutrali sui temi sociali del momento,” sottolinea John Grant. O, come disse una volta il defunto Stuart Hall, in una citazione ampiamente ripetuta, “o l’università è un’istituzione critica o non è niente.” 

In conclusione questa è una lotta a sostegno del popolo della Palestina, ma è anche una battaglia per l’anima dell’università.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio) 




Tre giorni sotto attacco: i palestinesi di Tulkarem descrivono il “più violento” raid israeliano da anni

Qassam Muaddi

24 aprile 2024 – Mondoweiss

Non è la prima volta che gli occupanti assalgono Nur Shams”, dice a Mondoweiss l’abitante del campo Baraa al-Ghoul, “ma questa volta è stato diverso perché le forze di occupazione hanno impiegato una violenza senza precedenti.”

Un terrore senza precedenti” continua ad assillare i palestinesi nel campo profughi di Nur Shams a Tulkarem, due giorni dopo che l’esercito israeliano ha terminato l’invasione del campo durata 52 ore, in cui ha ucciso 14 palestinesi, almeno nove dei quali secondo gli abitanti erano civili disarmati.

Giovedì notte 18 aprile l’esercito israeliano ha annunciato di aver avviato “una vasta operazione” a Nur Shams, il campo di due chilometri quadrati adiacente alla città di Tulkarem, nel nord ovest della Cisgiordania occupata. L’invasione aveva per obbiettivo la “Brigata Tulkarem” che opera nel campo dal 2022.

Non è la prima volta che gli occupanti assalgono Nur Shams”, dice a Mondoweiss Baraa al-Ghoul, un abitante di Nur Shams. “Ma questa volta è stato diverso perché le forze di occupazione hanno impiegato una violenza senza precedenti durante il raid. Nei precedenti assalti se un carro armato arrivava a un punto senza uscita tra i vicoli del campo faceva retromarcia e cercava un’altra via di accesso. Questa volta hanno semplicemente demolito qualunque cosa si trovassero di fronte”.

I soldati aggressori si avvicinavano alle case che sospettavano nascondessero combattenti della resistenza e la prima cosa che facevano era lanciare una granata dalle finestre e dalle porte anche se dentro c’erano dei civili e senza essere certi che ci fossero dei combattenti”, racconta al-Ghoul. “L’intero campo è rimasto chiuso dentro le case, in attesa che in qualunque momento un missile penetrasse nelle case. I miei figli erano terrorizzati, consapevoli di quanto avveniva al di fuori e piangevano senza sosta”, racconta.

I soldati entravano nelle case cercando i combattenti e arrestavano uomini a caso. Il mio vicino, Rajai Sweilem di 39 anni, è stato arrestato in casa sua di fronte ai suoi quattro figli e portato fuori in strada”, ricorda al-Ghoul. “Dopo che l’esercito di occupazione si è ritirato è stato trovato a terra morto con il corpo pieno di proiettili. Era soltanto un lavoratore, niente altro.”

Oltre alle persone uccise dalle forze israeliane, due anziani sono morti durante il raid a causa delle condizioni di salute in quanto hanno loro impedito di raggiungere un centro medico.

Nasr Ghreifi, un noto e rispettato membro della comunità di poco più di settant’anni, aveva un appuntamento per la dialisi all’ospedale”, dice a Mondoweiss Hussein Ali, un altro abitante.

Non ha potuto uscire di casa per via dell’incursione e le sue condizioni sono peggiorate ancor più a causa del caldo e della completa mancanza di elettricità”, specifica Ali. “E’ morto in casa sua e il suo corpo è rimasto tra i membri della famiglia per due giorni fino al ritiro degli occupanti”, aggiunge.

Infrastrutture distrutte

Dopo il ritiro dell’esercito israeliano i media locali hanno riferito di una vasta distruzione delle infrastrutture del campo, comprese strade devastate e case parzialmente o totalmente demolite. A causa dei danni alle infrastrutture sono stati anche interrotti i servizi essenziali.

Tutte le strade del campo erano asfaltate prima che gli occupanti iniziassero il raid”, dice al-Ghoul. “Adesso per camminare sull’asfalto dobbiamo uscire dal campo. Sono state distrutte anche le tubature della rete fognaria, riportandoci alla mente come appariva il campo decenni fa”, racconta. “La gente compra l’acqua in serbatoi di 3 metri cubi trasportati da camion e l’elettricità è stata riallacciata a una parte del campo solo martedì, mentre la maggioranza delle case è tuttora senza elettricità”, aggiunge.

In totale circa 60 case di Nur Shams sono state o completamente distrutte o danneggiate dopo essere rimaste abitabili durante l’ultima invasione israeliana. L’attacco si è aggiunto alle distruzioni provocate da precedenti raid israeliani – finora 18 negli ultimi due anni.

Nur Shams, il terzo angolo del “nord”

Nel 2021 le forze israeliane hanno intensificato i raid in Cisgiordania, nelle città e nei campi profughi, specialmente nel nord, durante l’operazione ‘Spezzare l’Onda’, quando sono sorti gruppi locali di resistenza. Nel 2022 tre gruppi armati locali a Tulkarem si sono uniti sotto il nome di ‘Brigata Tulkarem’.

Il gruppo ha affrontato le forze di assalto israeliane in scontri a fuoco urbani. Il campo profughi di Nur Shams è stato preso particolarmente di mira dall’esercito israeliano, costituendo una triangolazione di conflitti armati con le forze israeliane insieme a Jenin e Nablus.

Dall’inizio dell’anno 40 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane a Tulkarem, segnando il più alto numero di vittime in qualunque città della Cisgiordania occupata fino a questo momento. Con l’ultima invasione israeliana di Tulkarem il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane o dai coloni in Cisgiordania è salito a 168 da gennaio e a 487 da ottobre 2023.

Qassam Muaddi è il redattore per la Palestina di Mondoweiss

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




A Berlino la polizia fa irruzione nella sede della conferenza mentre cresce in Germania la repressione dell’attivismo filo-palestinese

Abir Kopty

13 aprile 2024 MONDOWEISS

La polizia berlinese fa irruzione nell’edificio del Congresso per la Palestina e, tagliata l’elettricità, vieta poi l’evento di tre giorni. Gli organizzatori dicono che cresce di giorno in giorno la reazione autoritaria e antidemocratica della Germania all’attivismo filo-palestinese.

Venerdì 12 aprile con un’iniziativa prevedibile, ma comunque scioccante la polizia di Berlino ha fatto irruzione e interrotto il “Congresso per la Palestina” che stava iniziando. Il Congresso doveva essere un evento di tre giorni con ospiti da tutto il mondo fra cui, tra molti altri, Ghassan Abu-Sittah, [chirurgo palestinese, per 43 giorni a Gaza con MSF, rettore dell’università di Glasgow,cfr. qui ,ndt], Salman Abu Sitta, Noura Erakat e Ali Abunimah.

La conferenza voluta da organizzazioni palestinesi, ebraiche e internazionali per discutere il genocidio a Gaza e i crimini israeliani contro i palestinesi e fungere da tribunale nei confronti di Israele e della Germania, uno dei suoi maggiori sostenitori e fornitore di armi. 

Il fatto di essere riusciti ad essere qui e tenere questa conferenza è in sé stesso un atto di resistenza,” ha detto la giornalista palestinese Hebh Jamal nel suo discorso di apertura. 

Jamal non sapeva che il suo discorso sarebbe stato l’unico di quelli in programma per i successivi tre giorni.

 Intimidazioni governative

Jamal si riferiva alla tesa atmosfera pubblica che aveva preceduto il Congresso. Per settimane, da quando era stato annunciato l’evento, le autorità tedesche, la polizia e i media avevano lavorato per impedire che si svolgesse. 

I media tedeschi l’hanno definito, fra l’altro un “Congresso di odiatori di Israele,” una conferenza di “apologeti del terrorismo”, conducendo una campagna diffamatoria contro gli oratori. I politici hanno invocato un divieto di ingresso nel paese agli oratori della conferenza e il senato di Berlino è arrivato molto vicino a vietarla. 

In ogni caso il governo ha preso molte decisioni nelle settimane precedenti il Congresso per far pressione sugli organizzatori e per intimidirli. Case di attivisti coinvolti nella conferenza sono state perquisite ed è stato vietato un evento di raccolta fondi per il Congresso. Inoltre, secondo gli organizzatori, due sedi che dovevano ospitare l’evento l’hanno annullato per la pressione e le minacce della polizia e le autorità di Berlino hanno bloccato il conto bancario di Jewish Voice, uno degli organizzatori del Congresso, dove si dovevano raccogliere tutti i contributi. 

Il giorno di apertura della conferenza la polizia ha dispiegato 2500 poliziotti nelle vicinanze della sede e dentro la sala. 

Su 800 che avevano prenotato in anticipo i propri biglietti la polizia ha autorizzato solo 250 partecipanti. E come se questo non fosse bastato è stato vietato l’ingresso in Germania al dottor Ghassan Abu-Sittah che è stato rimpatriato nel Regno Unito. Quella sera avrebbe dovuto raccontare al Congresso ciò di cui era stato testimone a Gaza.

 Quando l’evento stava cominciando la polizia ha fatto entrare oltre una ventina di giornalisti ostili e antipalestinesi che avevano guidato la campagna di istigazione contro la conferenza anche se non erano stati accreditati dagli organizzatori del Congresso. Ha avuto le caratteristiche di un’imboscata: per giunta quei 25 erano stati inclusi nella lista ufficiale e quindi è stato impedito l’ingresso a 25 partecipanti registrati. 

Dopo l’inizio della conferenza tutti erano sollevati perché nonostante tutto “ce l’abbiamo fatta,” per quanto tesi e insicuri si sentissero gli astanti per la pesante presenza della polizia e dei membri dei media ostili che si aggiravano filmandoli. C’era una piccola sensazione di vittoria dopo i precedenti sei mesi, massacranti e spaventosi, in un paese che non considera legittime le sofferenze e la rabbia della propria comunità palestinese. 

Tuttavia questo momento di piccola vittoria non è durato a lungo. 

La polizia tedesca per quella giornata aveva una missione: interrompere l’evento. Stava solo aspettando il momento giusto. Se non ci fosse stato un momento giusto, l’avrebbero creato. 

La polizia fa irruzione e taglia la corrente

L’oratore che doveva venire dopo la giornalista Heba Jamal era il famoso studioso e scrittore palestinese Salman Abu Sitta che stava partecipando da remoto con un video preregistrato. 

Improvvisamente, a due minuti dall’inizio del video, decine di poliziotti hanno invaso il centro della sala davanti allo schermo e al palcoscenico interrompendo lo streaming. 

Mentre la polizia occupava il palcoscenico del Congresso per la Palestina per bloccare l’evento uno degli organizzatori ha urlato: “SI stanno rendendo ridicoli, lasciateli fare!”. Tutti hanno annuito. 

All’inizio i poliziotti hanno affermato che Abu Sitta aveva detto qualcosa che avrebbe incitato a violenza o odio. Quando gli organizzatori hanno chiesto di citare la frase hanno detto che dovevano controllare. Non lo sapevano.

Dopo di ciò hanno affermato che a Salman Abu Sitta era vietato svolgere “attività politica” in Germania. Per loro questo intervento da remoto era considerata una violazione. Ma Nadja Samour, l’avvocata dell’evento, ha spiegato che la polizia aveva controllato la lista dei partecipanti quella mattina e non aveva segnalato nulla a proposito di Abu Sitta. Gli organizzatori hanno offerto di non proiettare il resto del discorso di Abu Sitta, ma di andare avanti con gli altri oratori. 

La polizia voleva anche impedire la trasmissione in diretta dell’evento per un ipotetico timore che un oratore dicesse qualcosa che potesse includere l’incitamento. Quando gli organizzatori si sono schierati contro tale ipotetica assunzione la polizia ha fatto irruzione nel locale dei quadri elettrici e ha interrotto l’erogazione. La polizia ha poi deciso di vietare l’intero evento per i tre giorni e ha ordinato a tutti di evacuare il locale. 

Mentre la gente cominciava ad andarsene dalla sala la polizia ha eseguito parecchi arresti di attivisti fra cui due ebrei. Sì in Germania c’è un solo tipo di ebreo considerato legittimo: quello che non ha problemi con il genocidio commesso da Israele.  

Secondo Samour la polizia ha detto agli organizzatori che l’ordine di porre fine alla conferenza era arrivato dai “vertici” (“ganz oben”). Ha detto che non erano in grado di confermarlo ma che c’era chiaramente stata un’interruzione delle comunicazioni tra la polizia federale e quella di Berlino. Non è chiaro da dove, come e quando la decisione sia stata comunicata alla polizia sul posto. 

Crescente autoritarismo

Con un’ostentazione che riflette la posizione della maggior parte dei politici tedeschi il ministro degli interni Nancy Faeser ha accolto positivamente la chiusura del Congresso dicendo: “È un’ottima cosa che la polizia di Berlino abbia duramente represso il cosiddetto Congresso per la Palestina. Teniamo attentamente d’occhio gli ambienti islamisti.”

Qui in Germania islamofobia e opinioni antipalestinesi hanno caratterizzato il discorso pubblico sulla Palestina prima del 7 ottobre e sono solo peggiorati. La repressione e il giro di vite della polizia sono eventi normali e non arbitrari. 

Mentre gli organizzatori hanno promesso di impugnare la decisione in tribunale, hanno sottolineato che tali tattiche di repressione mirano a logorare il movimento. 

Sappiamo che il mondo ci sta guardando e che vede che la Germania, con il passare di ogni singolo giorno, sta mostrando sempre di più tendenze autoritarie antidemocratiche”, dicono gli organizzatori del Congresso.

Tante sono le energie consumate, sprecate e assorbite da questa repressione ma la cosa più importante è continuare a parlare del genocidio,” ha detto Wieland Hoban, presidente di Jewish Voice for Just Peace in the Middle East [Voce Ebraica per una Giusta Pace in Medio Oriente] e co-organizzatore del Congresso. 

Siamo fieri di essere qui oggi, questa è già una vittoria e non ci fermeranno,” ha continuato la co-organizzatrice Karin de Rigo del gruppo DIEM25 [movimento paneuropeo e progressista per democratizzare l’UE].

Per rispondere agli scioccanti eventi sabato 13 aprile, il giorno dopo dell’irruzione e della sua cancellazione da parte della polizia, gli organizzatori del Congresso hanno tenuto una conferenza stampa.

Hanno chiarito che il bando emesso dalla polizia si applica anche a qualsiasi evento alternativo organizzato per offrire una sede agli oratori, online o in presenza. 

Quello che è successo ieri dovrebbe fare il giro del mondo, la Germania dovrebbe essere svergognata e accusata,” ha detto il regista e attivista Dror Dayan alla conferenza stampa, invocando inoltre un boicottaggio culturale e accademico della Germania.

Gli organizzatori hanno puntualizzato di non aver ancora ricevuto alcun ordine scritto contenente le restrizioni date loro a voce dalla polizia. 

Il comportamento della polizia nelle settimane precedenti l’evento e durante l’evento stesso non è un comportamento da polizia, si comporta così solo la mafia,” hanno concluso gli organizzatori.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Dr. Ghassan Abu-Sittah: “Domani sarà il giorno della Palestina”

Ghassan Abu Sitta

12 aprile 2024 – Mondoweiss

Per noi, tutti noi, parte della nostra resistenza alla cancellazione del genocidio è parlare del domani a Gaza, pianificare la guarigione delle ferite della Gaza di domani. Il domani sarà nostro. Domani sarà il giorno della Palestina.

Il 12 aprile il governo tedesco ha impedito al dottor Ghassan Abu-Sittah di entrare nel Paese per parlare ad una conferenza a Berlino come testimone del genocidio di Gaza. Il giorno prima, l’11 aprile, Abu-Sittah era stato insediato come rettore dell’Università di Glasgow alla Bute Hall dopo la sua vittoria schiacciante con l’80% dei voti. Di seguito è riportata una trascrizione del discorso del dr. Abu-Sittah.

Ogni generazione deve scoprire la propria missione, compierla o tradirla, in relativo anonimato”.

Frantz Fanon, I dannati della terra

Gli studenti dell’Università di Glasgow hanno deciso di votare in memoria dei 52.000 palestinesi uccisi. In memoria di 14.000 bambini assassinati. Hanno votato in solidarietà con i 17.000 minori palestinesi rimasti orfani, i 70.000 feriti – di cui il 50% minori e dei 4-5.000 minori ai quali sono stati amputati gli arti.

Hanno votato in solidarietà con gli studenti e gli insegnanti di 360 scuole distrutte e di 12 università completamente rase al suolo. Hanno espresso solidarietà con i familiari e in ricordo di Dima Alhaj [palestinese di 29 anni, amministratrice per lOMS presso il Centro di ricostruzione degli arti a Gaza City, ndt.] una ex studentessa dell’Università di Glasgow uccisa con il suo bambino e con tutta la sua famiglia.

Allinizio del XX secolo Lenin predisse che il vero cambiamento rivoluzionario nellEuropa occidentale sarebbe dipeso dal suo stretto contatto con i movimenti di liberazione contro limperialismo e con le colonie schiaviste. Gli studenti dellUniversità di Glasgow hanno capito cosa abbiamo da perdere quando permettiamo che la nostra politica divenga disumana. Capiscono anche che ciò che vi è di importante e diverso a Gaza è che essa è il laboratorio in cui il capitale globale elabora la modalità di gestione della sovrappopolazione.

Hanno espresso solidarietà con Gaza e il suo popolo perché hanno capito che le armi che Benjamin Netanyahu usa oggi sono le armi che Narendra Modi userà domani. I quadricotteri e i droni dotati di fucili di precisione – usati in modo così subdolo ed efficiente a Gaza che una notte allospedale Al-Ahli abbiamo accolto oltre 30 civili feriti colpiti fuori dal nostro ospedale da queste creazioni tecnologiche – impiegati oggi a Gaza saranno usati domani a Mumbai, Nairobi e San Paolo. Alla fine, come il software di riconoscimento facciale sviluppato dagli israeliani, arriveranno a Easterhouse e Springburn [quartieri operai di Glasgow, ndt.].

Quindi chi hanno eletto in definitiva questi studenti? Mi chiamo Ghassan Solieman Hussain Dahashan Saqer Dahashan Ahmed Mahmoud Abu-Sittah e, a parte me, mio padre e tutti i miei antenati sono nati in Palestina, una terra che venne ceduta da uno dei rettori dell’Università di Glasgow che mi hanno preceduto. Tre decenni prima che la sua dichiarazione di quarantasei parole annunciasse il sostegno del governo britannico alla colonizzazione della Palestina, Arthur Balfour fu nominato Lord Rettore dellUniversità di Glasgow. “Un’indagine sul mondo… ci mostra un vasto numero di comunità selvagge, evidentemente ad uno stadio culturale non profondamente diverso da quello prevalente tra gli uomini preistorici”, disse Balfour durante il suo discorso in rettorato nel 1891. Sedici anni dopo, questo antisemita ideò lAliens Act del 1905 per impedire agli ebrei in fuga dai pogrom dellEuropa orientale di mettersi in salvo nel Regno Unito.

Nel 1920 mio nonno Sheikh Hussain costruì con i propri soldi una scuola nel piccolo villaggio dove viveva la mia famiglia. Lì gettò le basi per un legame che avrebbe reso leducazione centrale nella vita della mia famiglia. Il 15 maggio 1948, le forze dellHaganah [organizzazione paramilitare ebraica, ndt.] effettuarono la pulizia etnica in quel villaggio e portarono la mia famiglia, che viveva su quella terra da generazioni, in un campo profughi a Khan Younis, ora in rovina, nella Striscia di Gaza. Le memorie dellufficiale dellHaganah che aveva invaso la casa di mio nonno furono ritrovate da mio zio. In queste memorie l’ufficiale nota con incredulità come la casa fosse piena di libri e vi fosse un certificato di laurea in giurisprudenza dell’Università del Cairo appartenente a mio nonno.

Lanno dopo la Nakba mio padre si laureò in medicina allUniversità del Cairo e tornò a Gaza per lavorare nellUNRWA nelle sue cliniche appena aperte. Ma come molti della sua generazione, si trasferì nel Golfo per contribuire a costruire il sistema sanitario di quei Paesi. Nel 1963 venne a Glasgow per proseguire la sua formazione post-laurea in pediatria e si innamorò della città e della sua gente.

E così è stato che nel 1988 sono arrivato a studiare medicina all’Università di Glasgow, e qui ho scoperto cosa può fare la medicina, come una carriera in medicina ti pone a confronto con i momenti più dolorosi della vita della e come, se sei dotato della giusta visione politica, sociologica ed economica, puoi comprendere come la vita delle persone venga modellata, e molte volte distorta, da forze politiche al di fuori del loro controllo.

Ed è stato a Glasgow che ho scoperto il significato della solidarietà internazionale. Glasgow in quel periodo era piena di associazioni che organizzavano momenti di solidarietà con El Salvador, Nicaragua e Palestina. Il Comune di Glasgow è stato uno dei primi a gemellarsi con città della Cisgiordania e l’Università di Glasgow ha istituito la sua prima borsa di studio per le vittime del massacro di Sabra e Shatila. È stato proprio durante i miei anni a Glasgow che è iniziato il mio viaggio come chirurgo di guerra, prima da studente quando sono andato in Iraq in occasione della prima guerra americana nel 1991; poi nel 1993 con Mike Holmes nel Libano meridionale; poi con mia moglie a Gaza durante la Seconda Intifada; poi in occasione delle guerre intraprese dagli israeliani a Gaza nel 2009, 2012, 2014 e 2021 e della guerra di Mosul nel nord dellIraq, a Damasco durante la guerra in Siria e in occasione della guerra nello Yemen. Ma è stato solo il 9 ottobre, quando sono arrivato a Gaza, che ho visto svolgersi il genocidio.

Tutto ciò che sapevo sulle guerre è nulla rispetto a ciò che ho visto. È come paragonare unalluvione con a uno tsunami. Per 43 giorni ho visto le macchine assassine nella Striscia di Gaza fare a pezzi le vite e i corpi dei palestinesi, metà dei quali minori. Dopo il mio rientro gli studenti dellUniversità di Glasgow mi hanno chiesto di candidarmi alla nomina di rettore. Poco dopo uno dei selvaggi di Balfour ha vinto l’elezione.

Quindi cosa abbiamo imparato dal genocidio e sul genocidio negli ultimi 6 mesi? Abbiamo imparato che lo scuolicidio, leliminazione di intere istituzioni educative, sia delle infrastrutture che delle risorse umane, è una componente fondamentale della cancellazione genocida di un popolo: 12 università e 400 scuole completamente rase al suolo; 6.000 studenti, 230 insegnanti di scuola, 100 tra docenti e presidi e due rettori universitari uccisi.

Abbiamo anche imparato, e questo è qualcosa che ho scoperto quando ho lasciato Gaza, che il progetto genocidario è come un iceberg di cui Israele è solo la punta. Il resto delliceberg è costituito da un asse del genocidio. Questo è costituito dagli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania, lAustralia, il Canada e la Francia… Paesi che hanno sostenuto Israele con le armi – e continuano con le armi a sostenere il genocidio – e hanno mantenuto il sostegno politico al progetto genocida perché proseguisse. Non dovremmo lasciarci ingannare dai tentativi degli Stati Uniti di umanitarizzare il genocidio: uccidendo persone col lancio paracadutato di aiuti alimentari.

Ho anche scoperto che a far parte dell’iceberg ci sono dei facilitatori del genocidio. Piccole persone, uomini e donne, in ogni ambito dell’esistenza, in ogni istituzione. Questi facilitatori del genocidio sono di tre tipi:

    • I primi sono quelli la cui razzializzazione e la totale alterizzazione dei palestinesi li ha resi incapaci di provare qualcosa per i 14.000 minori uccisi e che rimangono incapaci di piangere per loro. Se Israele avesse ucciso 14.000 cuccioli o gattini, sarebbero stati profondamente distrutti da tale barbarie.

    • Il secondo gruppo è costituito da coloro che, secondo Hannah Arendt ne “La banalità del male”, “erano privi di qualsiasi motivazione, a parte una scrupolo eccezionale nel badare al proprio tornaconto”.

    • I terzi sono gli apatici. Come dice Arendt, il male prospera nellapatia e non può esistere senza di essa”.

Nellaprile del 1915, un anno dopo linizio della prima guerra mondiale, Rosa Luxemburg scrisse sulla società borghese tedesca. Violati, disonorati, che sguazzano nel sangue… la bestia famelica, il sabba anarchico delle streghe, una piaga per la cultura e lumanità.” Quelli di noi che hanno visto, annusato e sentito ciò che le armi da guerra fanno di proposito al corpo di un bambino, quelli di noi che hanno amputato gli arti incurabili di bambini feriti non possono mai provare altro che il massimo disprezzo per tutti coloro coinvolti nella fabbricazione, progettazione e vendita di questi strumenti brutali. Lo scopo della produzione di armi è distruggere la vita e devastare la natura. Nellindustria degli armamenti i profitti aumentano non solo come risultato delle risorse catturate durante o attraverso la guerra, ma mediante il processo di distruzione di tutta la vita, sia umana che ambientale. Lidea che ci sia la pace o un mondo non inquinato mentre il capitale cresce grazie alla guerra è ridicola. Né il commercio delle armi né quello dei combustibili fossili trovano posto allUniversità.

Allora, qual è il nostro piano, di questo selvaggio” e dei suoi complici?

In questa università faremo una campagna per il disinvestimento dalla produzione di armi e dall’industria dei combustibili fossili, sia per ridurre i rischi dell’università a seguito della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia secondo cui si tratta plausibilmente di una guerra genocida sia per l’attuale causa intentata contro la Germania dal Nicaragua per complicità in genocidio.

Il denaro insanguinato dal genocidio ricavato come profitto da queste azioni durante la guerra sarà utilizzato per creare un fondo per aiutare a ricostruire le istituzioni accademiche palestinesi. Questo fondo sarà a nome di Dima Alhaj, in ricordo di una vita stroncata da questo genocidio.

Formeremo una coalizione di organizzazioni di studenti e della società civile e di sindacati per trasformare lUniversità di Glasgow in un campus libero dalla violenza di genere.

Faremo una campagna per trovare soluzioni concrete per porre fine alla povertà studentesca allUniversità di Glasgow e per fornire alloggi a prezzi accessibili a tutti gli studenti.

Faremo una campagna per il boicottaggio di tutte le istituzioni accademiche israeliane che sono passate dalla complicità con lapartheid e la negazione dellistruzione per i palestinesi al genocidio e alla negazione della vita. Faremo una campagna per una nuova definizione di antisemitismo che non confonda lantisionismo e l’opposizione al colonialismo genocida israeliano con lantisemitismo.

Lotteremo insieme a tutte le comunità alterizzate e soggette a razzismo, compresa la comunità ebraica, la comunità rom, i musulmani, i neri e tutti i gruppi sottoposti a razzismo, contro il nemico comune del crescente fascismo di destra, ora assolto dalle sue radici antisemite da parte di un governo israeliano in cambio del sostegno alleliminazione del popolo palestinese.

Proprio questa settimana abbiamo appena visto come unistituzione finanziata dal governo tedesco ha censurato unintellettuale e filosofa ebrea, Nancy Fraser, a causa del suo sostegno al popolo palestinese. Più di un anno fa abbiamo visto il Partito Laburista sospendere Moshé Machover, un attivista ebreo antisionista, per antisemitismo.

Durante il volo ho avuto la fortuna di leggere We Are Free to Change the World[Siamo liberi di cambiare il mondo] di Lyndsey Stonebridge. Cito da questo libro: “È quando lesperienza dellimpotenza è più acuta, quando la storia sembra più cupa, che la determinazione a pensare come un essere umano, in modo creativo, coraggioso e complesso, è più importante”. 90 anni fa, nel suo Canto della solidarietà”, Bertolt Brecht si chiedeva: Di chi è il domani? E di chi è il mondo?”

Ebbene, ecco la mia risposta a lui, a voi e agli studenti dell’Università di Glasgow: è vostro il mondo per cui lottare. È vostro il domani da realizzare. Per noi, tutti noi, parte della nostra resistenza per la cancellazione del genocidio è parlare del domani di Gaza, pianificare domani la guarigione delle ferite di Gaza. Prenderemo possesso del domani. Domani sarà una giornata palestinese.

Nel 1984, quando lUniversità di Glasgow nominò Winnie Mandela suo rettore nei giorni più bui del governo di P. W. Botha sotto un brutale regime di apartheid sostenuto da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, nessuno avrebbe potuto sognare che in 40 anni uomini e donne sudafricani avrebbero potuto sostenere e difendere davanti alla Corte Internazionale di Giustizia il diritto del popolo palestinese a vivere come liberi cittadini di una libera nazione.

Uno degli obiettivi di questo genocidio è quello di lasciarci affogare nel nostro dolore. Come nota personale, voglio dedicare uno spazio per poter, io e la mia famiglia, piangere i nostri cari. Lo dedico alla memoria del nostro amato Abdelminim ucciso a 74 anni nel giorno del suo compleanno. Lo dedico alla memoria del mio collega dottor Midhat Saidam, uscito per mezz’ora per portare nella loro casa sua sorella perché stesse al sicuro con i figli e non più tornato. Lo dedico al mio amico e collega dr. Ahmad Makadmeh, giustiziato con sua moglie poco più di 10 giorni fa dall’esercito israeliano nell’ospedale di Shifa. Lo dedico al sempre sorridente dottor Haitham Abu-Hani, responsabile del pronto soccorso dell’ospedale Shifa, che mi ha sempre accolto con un sorriso e una pacca sulla spalla. Ma soprattutto lo dedichiamo alla nostra terra. Nelle parole del sempre presente Mahmoud Darwish,

Per la nostra terra, ed è un prezzo della guerra,

la libertà di morire di nostalgia e di incendio

e la nostra terra, nella sua notte insanguinata,

è un gioiello che brilla per chi è lontano, lontano

e illumina ciò che c’è fuori…

Quanto a noi, dentro,

soffochiamo di più!”

E ora voglio concludere con una speranza. Con le parole dellimmortale Bobby Sands, La nostra vendetta sarà la risata dei nostri figli”.

HASTA LA VICTORIA SIEMPRE!

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Biden non ha un legame affettivo con Israele, si tratta di politica Il New Yorker chiede: “Perché il Paese più potente nella storia dell’umanità sta sostanzialmente prendendo ordini da una Nazione che dipende da lui per gli aiuti?” e poi evita la risposta più ovvia.

Philip Weiss  

8 aprile 2024 – Mondoweiss

Il New Yorker [prestigioso settimanale statunitense, ndt.] ha chiesto ad Aaron David Miller, a lungo mediatore per la pace, perché Joe Biden stia assecondando i crimini di guerra di Israele, e Miller ha risposto che ciò è dovuto al fatto che ha un legame affettivo con Israele.

Joe Biden, unico tra i presidenti americani contemporanei, ha un rapporto affettivo con l’idea di Israele, il popolo di Israele, la sicurezza di Israele.”

Questa è la versione ufficiale. Questa settimana lo ha detto su NPR [National Public Radio, rete radiofonica USA, ndt.] anche Richard Haass, un sostenitore di Israele e decano di politica internazionale: “L’amministrazione sta cercando di equilibrare l’appoggio a Israele con i suoi dissensi sulla politica israeliana. Penso che il presidente in particolare provi un legame affettivo con Israele.”

Ed è quello che una volta Jeffrey Goldberg [giornalista e capo redattore di The Atlantic, importante rivista USA, ndt.] ha detto che Barack Obama non aveva. Gli elettori ebrei “si preoccupano riguardo al fatto che i candidati alla presidenza sentano l’importanza di Israele nelle loro kishkes, viscere.” È un’analisi falsa. Grandi politici non hanno un legame emotivo con i Paesi stranieri che ostacolano la loro politica. I politici imparano a gettare chiunque sotto l’autobus.

Biden prende questa posizione perché ha bisogno della lobby israeliana nelle elezioni del 2024. Il potere della comunità ebraica ufficiale nell’imporre l’appoggio di Biden ai crimini di guerra è una cosa che Chotiner [l’intervistatore del New Yorker, ndt.] e Miller sono incapaci di discutere.

L’intervista del New Yorker è utile come ulteriore indice della crisi di Israele nel discorso pubblico negli USA. Chotiner insiste sul carattere brutale dell’attacco israeliano: “Questo Paese che consideriamo alleato e parte dei nostri valori democratici condivisi” sta “intenzionalmente facendo morire di fame la popolazione palestinese.”

Miller è anche d’aiuto quando rileva che la posizione di Biden perché Netanyahu si dimetta non migliorerebbe le cose, perché tutto Israele appoggia le politiche genocide.

Non è che Benny Gantz, membri del gabinetto di guerra e la maggioranza dell’élite politica non siano completamente in sintonia con la strategia di guerra di Netanyahu.”

Poi Chotiner passa alla domanda fondamentale: ““Perché il Paese più potente nella storia dell’umanità sta sostanzialmente prendendo ordini da un Paese che dipende da lui per gli aiuti?”

Quando Miller risponde che si tratta di emotività, Chotiner sottolinea che lo stesso Miller non è altrettanto sensibile alle vittime palestinesi che a quelle ebraiche, e Miller lo riconosce.

Chotiner: “Mentre stavo ascoltando quello che dicevi a proposito degli orrori del 7 ottobre ho percepito nella tua voce un’emozione che non ho sentito in nessun altro momento in questa conversazione. Non voglio criticare ciò, ma mi domando se la gente che fa politica in America non abbia questa stessa commozione quando si tratta della vita di palestinesi. Pensi che sia corretto?”

Miller: “Penso che sia corretto dire, sì che… Se penso che Joe Biden abbia lo stesso profondo sentimento ed empatia per i palestinesi di Gaza che per gli israeliani? No, non ce l’ha.” Non c’è dubbio che ci sia parecchio razzismo in atto nelle istituzioni statunitensi. Basta vedere l’enorme reazione al massacro da parte di Israele di sette operatori umanitari (cittadini australiani, britannici, americani e canadesi) mentre centinaia di operatori umanitari palestinesi sono stati uccisi senza un barlume di questa indignazione.

Ma le istituzioni statunitensi hanno messo da parte il razzismo di fronte ad altri grandi movimenti politici, come quello contro l’apartheid in Sudafrica e il mutamento culturale di Black Lives Matter [movimento contro la violenza della polizia nei confronti delle minoranze negli USA, ndt.].

Ed hanno ripetutamente trattato i palestinesi come feccia.

Ci sono molte ragioni per l’esaltazione del sionismo da parte di Washington, ma la principale è il ruolo politico della lobby israeliana. Persino gli ebrei progressisti vedono la creazione di Israele come il più grande risultato del popolo ebraico nell’ultimo secolo, e hanno costruito istituzioni per appoggiare Israele e che hanno una considerevole influenza nel partito Democratico.

Miller è cresciuto in quella comunità. È membro di una facoltosa famiglia di Cleveland che ha incluso molti lobbisti filo-israeliani, tra cui il suo defunto padre. “Era un uomo di fiducia dei primi ministri e di altri dirigenti israeliani,” ha scritto il giornale ebraico di Cleveland. Il cugino di Miller, il defunto grande avvocato per i diritti umani Michael Ratner, nelle sue memorie postume del 2021 ha descritto il sentimento filo israeliano della famiglia: “In casa nostra la raccolta fondi per Israele non è mai cessata… All’epoca avevo 13 anni, la nostra famiglia aveva investito in vari progetti in Israele.”

Segui i soldi. Oggi Biden vede il genocidio a Gaza colpire gli elettori democratici, e forse persino costargli l’elezione, come ha avvertito James Carville, ma non può girare le spalle a Israele perché ha bisogno dei soldi della lobby. Lo scorso anno Biden ha avuto un incontro di tre ore alla Casa Bianca con il super donatore Haim Saban, che lo ha definito “impeccabile” sulla politica israeliana, e recentemente ha ospitato una grande raccolta fondi per Biden in California.

Quando i fratelli Koch [potente famiglia di industriali statunitensi, ndt.] influenzano la politica la si chiama corruzione, ma i media non fanno altrettanto quando lo fa Israele.

I sentimenti personali di Biden riguardo a Israele sono irrilevanti. La verità è che Biden è stato ripetutamente umiliato da Israele e si è rifiutato di fare qualcosa a questo riguardo. Nel 1982, quando era un giovane senatore, sbatté i pugni sul tavolo, fece la predica a Menachem Begin riguardo alle colonie e minacciò di tagliare l’aiuto degli USA. I suoi portavoce negarono questa vicenda quando correva per le elezioni del 2020 in modo che ciò non lo danneggiasse. Nel 2010 Netanyahu lo umiliò annunciando nuove colonie mentre l’allora vice presidente Biden atterrava in Israele. L’aperto disprezzo nei confronti della politica di Obama provocò il fatto che Biden rinviasse un incontro con Netanyahu, ma poi mise da parte il suo orgoglio e vi partecipò.

La politica è molto più importante dei sentimenti. Biden sa che i Democratici sono stati straordinariamente dipendenti dalla comunità ebraica per la raccolta fondi e quindi non possono fare niente che possa scoraggiare l’attaccamento percepito di quella comunità a Israele.

“C’è scarsa volontà tra i democratici di discutere pubblicamente un cambiamento sostanziale della politica di lungo corso verso Israele” in larga parte a causa “dell’influenza dei grandi donatori,” ha scritto nel 2019 sul New York Times Nathan Thrall [noto editorialista e scrittore statunitense di origini ebraiche, ndt.].

Delle decine di assegni personali di oltre 500.000 dollari versati al più grande PAC [Political Action Committee, che si occupa di raccogliere i fondi per le campagne elettorali, ndt.] per i Democratici nel 2018, il PAC della Maggioranza al Senato, circa tre quarti sono stati firmati da donatori ebrei. Ciò fomenta teorie cospirative antisemite e per qualcuno è l’elefante nella stanza. Benché il numero di donatori ebrei noti per dare la priorità alle politiche filo-israeliane su ogni altra questione sia piccolo, ce ne sono pochi, se non nessuno, che spingano nella direzione opposta…”

Dopo che Netanyahu umiliò Obama alla Casa Bianca nel 2011 dandogli lezioni su Gerusalemme, Ben Rhodes, il principale consigliere di Obama sulla politica estera, dovette poi prostrarsi davanti alla lobby filo-israeliana. Disse che dovette contattare per telefono “una lista di importanti donatori ebrei… per rassicurarli delle credenziali filoisraeliane di Obama.”

Una volta Tom Friedman [famoso giornalista filoisraeliano del New York Times, ndt.] spiegò la questione: “Se ho il timbro di approvazione dell’AIPAC [principale organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndt.] e tu no… Non devo fare molte telefonate per avere tutto il denaro di cui ho bisogno per correre contro di te. (Mentre) tu dovrai fare 50.000 telefonate.”

C’è una lunga storia della lobby filoisraeliana che ha danneggiato i politici che si sono messi di traverso. Clinton fece di George Bush un presidente con un solo mandato in parte correndo alla sua destra sulle colonie a cui Bush si era opposto. Come affermò Friedman, il figlio di Bush, George W., ne ricavò la lezione politica secondo cui i Repubblicani non avrebbero mai più dovuto essere contro Israele e divenne presidente con l’appoggio dei neocons, la cui intera visione del mondo era modellata sull’appoggio USA a Israele.

La convinzione secondo cui i neocons sono la ragione per cui Bush iniziò la guerra in Iraq è ampiamente sostenuta, anche da Tom Friedman, ma quando alcuni studiosi lo affermarono in un libro del 2007, The Israel Lobby, molti nella comunità ebraica ufficiale denunciarono l’idea come antisemita. “Gli ebrei sono responsabili di ogni guerra,” lo ridicolizzò Jeffrey Goldberg.

Chotiner e Miller sanno tutto ciò e non ne vogliono parlare. Se vuoi condannare le persone per una cattiva politica dovresti iniziare dal tuo stesso orticello. Questa è sempre stata la ragione per cui mi sono concentrato sulla lobby filoisraeliana, è un’istituzione nata nella mia comunità, su cui ho una particolare competenza.

Ora Chotiner ha l’obbligo di intervistare un esperto della lobby ebraica, come John Mearsheimer o Stephen Walt [autori di La Israel lobby e la politica estera americana, Mondadori, 2009], che hanno messo in pericolo la loro carriera per denunciare questa influenza. Loro risponderebbero a questa domanda fondamentale: perché una superpotenza fa tutto il possibile per agevolare il genocidio di un popolo dell’etnia sbagliata da parte di un piccolo Paese?

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)