Il vaccino per il COVID-19: un’altra brutta faccia dell’apartheid israeliano

Yumna Patel

28 DICEMBRE 2020 – Mondoweiss

La distribuzione del vaccino per il COVID-19 illustra perfettamente il sistema dell’apartheid di Israele.

Quasi 400.000 israeliani sono già stati vaccinati contro il coronavirus e nelle prossime settimane altre decine di migliaia sono in procinto di esserlo.

Israele è stato uno dei primi Paesi al mondo ad iniziare a distribuire il vaccino per il COVID-19 alla sua popolazione e, secondo Our World in Data [Il nostro mondo in cifre, ndtr.], edito dall’Università di Oxford, è attualmente il secondo al mondo per numero di vaccinazioni pro capite.

Secondo i media israeliani il ministero della Sanità di Israele intende vaccinare già nel corso di questa settimana 100.000 israeliani al giorno e il primo ministro Benjamin Netanyahu si è spinto a sostenere che Israele sarà fuori pericolo “entro poche settimane”.

 

Il mese scorso Israele si è assicurato 8 milioni di dosi del vaccino Pfizer, sufficienti a coprire quasi la metà della popolazione di 9 milioni di israeliani, poiché ogni persona necessita di due dosi. Tra coloro che hanno il diritto di ricevere il vaccino dal governo israeliano ci sono i quasi 2 milioni di cittadini palestinesi di Israele.

Tuttavia, gli oltre 5 milioni di palestinesi che vivono sotto il controllo dell’occupazione israeliana nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza, non sono autorizzati a ricevere il vaccino.

Le disparità tra i palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana e i cittadini israeliani sono costanti, semplicemente un dato di fatto della vita quotidiana in Israele e Palestina – le leggi che favoriscono gli israeliani rispetto ai palestinesi e i sistemi che discriminano fortemente questi ultimi sono all’ordine del giorno e ampiamente documentati.

Il sistema di apartheid in base al quale Israele opera all’interno del territorio occupato, tuttavia, non potrebbe essere meglio dimostrato come nel caso del vaccino per il COVID-19: chi ottiene o no il vaccino è una semplice questione di nazionalità.

Dobbiamo in primo luogo essere molto chiari: con l’occupazione militare in Cisgiordania e con l’effettivo controllo israeliano di Gaza Israele è legalmente obbligato dal diritto internazionale a provvedere alla loro [dei palestinesi] assistenza sanitaria”, ha riferito a Mondoweiss la dott.ssa Yara Hawari, analista capo redattrice di Al -Shabaka: The Palestinian Policy Network [organo di informazione che sostiene il dibattito sui diritti e l’autodeterminazione dei palestinesi, ndtr.].

Israele è legalmente obbligato a fornire quel vaccino ai palestinesi sotto occupazione. Sappiamo che [Israele] non lo ha fatto”, dice, aggiungendo che Israele attribuisce tale responsabilità all’ANP [Autorità Nazionale Palestinese] quale fornitore dei servizi per i palestinesi.

Ciò costituisce una preoccupazione concreta“, riferisce Hawari a Mondoweiss. “Sappiamo che, se assegnato alla sola ANP, probabilmente sarà un processo molto lento.

Il “de-sviluppo” del sistema sanitario palestinese

A differenza del governo israeliano, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) non è stata in grado di garantire la quantità di vaccini necessaria per trattare gli oltre 3 milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e i 2 milioni di palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza.

Mentre i funzionari dell’ANP hanno sostenuto di attendersi l’inizio dell’acquisizione dei vaccini nel corso delle prossime due settimane tramite l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), hanno [anche] affermato che potrebbero passare mesi prima che il vaccino venga distribuito alla popolazione.

Ancora non si conosce il tipo e la quantità di vaccini che i palestinesi riceveranno, poiché per la fornitura essi fanno molto affidamento sulle donazioni internazionali, e il governo palestinese non ha la capacità infrastrutturale per conservare vaccini come quello Pfizer alle basse temperature richieste.

Nel frattempo, i palestinesi continuano a vivere tra periodi interminabili di isolamento, mentre il virus imperversa in tutti i Territori Palestinesi Occupati, con tassi giornalieri di infezione dell’ordine delle migliaia e tassi di mortalità giornaliera a doppia cifra.

Hawari sostiene che l’incapacità dell’Autorità Palestinese di procurarsi e immagazzinare i vaccini, insieme al suo precario sistema sanitario, è una conseguenza dei decenni di danni che l’occupazione israeliana ha arrecato alle infrastrutture palestinesi.

“C’è questo ricorrente luogo comune secondo cui la ragione per cui il sistema sanitario palestinese o altri servizi come l’istruzione sono inefficienti e non stanno facendo il loro lavoro sarebbe legata all’incompetenza da parte del popolo palestinese o della sua cultura – questa opinione secondo cui essi sarebbero stupidi e non in grado di governare “, dice Hawari.

“Ovviamente non è così. Il regime israeliano ha sistematicamente preso di mira il sistema sanitario palestinese e ha contribuito al suo de-sviluppo“, afferma. “I palestinesi sono stati costretti a fare affidamento ad aiuti esterni e gli è stato impedito di essere autosufficienti da parte dell’occupazione [israeliana], con la compiacenza della comunità internazionale.

L’esempio più lampante di ciò, afferma Hawari, è Gaza, dove il sistema sanitario è da anni sull’orlo del collasso e non è stato in grado di resistere ad anni di bombardamenti e offensive israeliane.

Da anni gli ospedali di Gaza non sono in grado di occuparsi di ferimenti e malattie. Non potevano farcela prima del COVID, e ora il COVID ha esasperato la situazione rendendola dieci volte peggiore “.

L’apartheid in funzione

Mentre i palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana in Cisgiordania e Gaza non riceveranno vaccini dal governo israeliano, le centinaia di migliaia di coloni israeliani che vivono illegalmente in Cisgiordania vengono vaccinati ogni giorno.

Gli attivisti palestinesi e i loro sostenitori hanno lanciato l’allarme per la forte disparità tra chi viene vaccinato e chi no, affermando che questo non è altro che apartheid.

Quando si parla di cose come il vaccino per il COVID-19, “sembra esserci una falsa distinzione tra Israele e Palestina”, dice Hawari. “In realtà si tratta di un’unica entità in cui le persone [che si trovano] all’interno di quello spazio vengono trattate in modo diseguale.”

“Esiste un’enorme quantità di rapporti reciproci tra le popolazioni, ma livelli di potere totalmente squilibrati”, prosegue Hawari, indicando le decine di migliaia di lavoratori palestinesi che lavorano ogni giorno all’interno di Israele e delle colonie.

“L’economia israeliana fa affidamento su quella [forza lavoro]. Riceveranno anche il vaccino?” domanda. “In caso contrario ciò rappresenterebbe un rischio per Israele. Siamo popolazioni totalmente interconnesse, come avviene nelle popolazioni coloniali “.

È necessario fornire il vaccino a tutti e non dovrebbe esserci un’eccezione per la Palestina. Qualcuno lo ha detto perfettamente: non saremo al sicuro finché tutti non avranno accesso al vaccino. Questo non è un virus che conosce confini”.

Per quanto alcuni funzionari israeliani abbiano ventilato la possibilità di fornire in caso di necessità alcuni vaccini all’Autorità Nazionale Palestinese, Hawari ammonisce di non lasciarsi ingannare dalle false manifestazioni di generosità di Israele, affermando: “Sappiamo che presenteranno tale mossa come un grande atto di benevolenza e di cooperazione internazionale, ma essi non soddisferanno nemmeno i requisiti minimi previsti dal diritto internazionale”.

Hawari sottolinea il fatto che nel bel mezzo della pandemia i palestinesi hanno “visto molto poco dal regime israeliano in termini di aiuti e sostegno ai palestinesi e alla loro lotta contro il virus. E quando finalmente si sono coordinati per consentire forniture provenienti da donazioni internazionali, ciò è stato elogiato come una meravigliosa forma di cooperazione, quando è il minimo che gli si possa chiedere”.

“Abbiamo visto Israele fare ciò per decenni – Israele viene costantemente elogiato per aver permesso ai malati di cancro di Gaza di recarsi a Tel Aviv per il trattamento, ma fondamentalmente – dice – essi stanno imponendo l’assedio che impedisce a centinaia di abitanti di Gaza di ottenere le cure necessarie”.

“È un girare intorno molto abile su qualcosa che dovrebbero fare, ma che non fanno.”

Oltre alle domande sul destino dei palestinesi dei TPO riguardo l’arrivo del vaccino, attivisti palestinesi e organizzazioni per i diritti hanno espresso preoccupazione per la potenziale emarginazione delle comunità palestinesi in Israele in occasione della pratica della vaccinazione.

All’inizio della pandemia organizzazioni come Adalah [Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, ndtr.] hanno criticato il governo israeliano per aver emarginato le comunità palestinesi in luoghi come Gerusalemme est, dove gli ambulatori per i test sul coronavirus erano scarsi o addirittura inesistenti.

Hawari è certa che “assisteremo di nuovo a quei comportamenti” durante la procedura delle vaccinazioni.

“È ancora presto e il vaccino è appena uscito, ma se osserviamo la programmazione, [Israele] li distribuirà [i vaccini] negli ambulatori. E sappiamo che, naturalmente, nei villaggi e nelle città palestinesi del ’48 [cioè in territorio israeliano, ndtr.] il sistema sanitario è privato, quindi ci sono meno ambulatori e operatori sanitari, per cui – afferma – in quelle aree le procedure saranno più lente”.

“Sarà facile per il governo israeliano ignorarlo e dire ‘ogni cittadino israeliano è trattato allo stesso modo’, ma se guardiamo alla geografia, quelle comunità palestinesi sono state volontariamente ignorate riguardo le strutture sanitarie, gli ambulatori, e altre istituzioni essenziali”.

La Palestina e il sud del mondo

Mentre decine di Paesi in tutto il mondo, come Israele, Stati Uniti, Regno Unito e Paesi dell’UE iniziano a distribuire i loro vaccini alla popolazione, luoghi come la Palestina e altri Paesi del “Sud del mondo” sono rimasti indietro.

Anche prima che i vaccini arrivassero sul mercato, le Nazioni ricche hanno cominciato a fare scorta dei più promettenti vaccini contro il coronavirus. Secondo organizzazioni come Amnesty International e Oxfam si stima che, nonostante ospitino solo il 14% della popolazione mondiale, le Nazioni ricche abbiano già acquistato il 54% delle scorte totali dei vaccini più promettenti al mondo.

Amnesty International ha affermato che entro la fine del 2021 le Nazioni più ricche avranno acquistato dosi di vaccino sufficienti per “vaccinare l’intera popolazione tre volte”, mentre circa 70 Paesi poveri “saranno in grado di vaccinare contro il COVID-19 solo una persona su dieci”.

“Ciò che sta accadendo a livello globale è fortemente esplicativo delle disuguaglianze strutturali che esistono in tutto il mondo”, afferma Hawari. “Luoghi come Gaza, dove è persino difficile mantenere i requisiti sanitari di base e il distanziamento sociale, dovrebbero avere la priorità al fine di prevenire la diffusione. Ma ovviamente non avranno la priorità a causa del predominio delle strutture di oppressione”.

“Il COVID ha messo in evidenza in tutto il mondo sistemi di disuguaglianza“, continua Hawari, e afferma di ritenere “quasi impossibile avere all’interno di questi sistemi giustizia e parità in campo sanitario”.

“Un passo nella giusta direzione, in particolare per quanto riguarda la Palestina, sarebbe che i palestinesi ricevessero immediatamente il vaccino, perché vivono un’esistenza precaria e costituiscono una comunità vulnerabile”, sostiene Hawari. “Questa priorità non dovrebbe essere esclusiva dei palestinesi, ma anche di altri Paesi del Sud del mondo. L’accesso all’assistenza sanitaria non dovrebbe dipendere dal fatto che sia o meno possibile permetterselo”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Khalida Jarrar riesce a far uscire una lettera per Palestine Writes

Khalida Jarrar

9 dicembre 2020 – MondoWeiss

La prigioniera politica Khalida Jarrar condivide il ruolo fondamentale che la letteratura gioca per i prigionieri palestinesi che lottano per conservare la propria umanità e rimanere in contatto con il mondo esterno.

Nota redazionale: la seguente lettera è stata letta durante la tavola rotonda finale del festival di letteratura Palestine Writes [La Palestina Scrive, tenutosi in forma virtuale dal 2 al 6 dicembre, ndtr.]

Dal carcere israeliano di Damon, situato sulla cima del monte Carmelo ad Haifa, invio a voi i miei saluti da parte mia e delle mie 40 compagne palestinesi combattenti per la libertà nelle prigioni israeliane. Inviamo il nostro saluto e il dovuto rispetto a tutti gli scrittori, studiosi, intellettuali e artisti che dicono la verità e chiedono libertà e giustizia per tutti e che difendono il diritto del popolo all’autodeterminazione e ad opporsi alla dominazione colonialista e razzista.

In quest’occasione consentitemi di inviare il nostro saluto e sostegno anche a tutti gli scrittori, studiosi, intellettuali e artisti arabi che rifiutano la normalizzazione con il sistema del colonialismo di insediamento israeliano e che non accettano gli accordi di normalizzazione di Emirati, Bahrein e Sudan con l’entità sionista. È una posizione come questa che rappresenta i veri legami tra il nostro popolo e il mondo arabo e rende interiormente più forti noi detenuti. Benché siamo tenuti fisicamente prigionieri dietro a cancelli e sbarre, le nostre anime rimangono libere e fluttuano nei cieli della Palestina e del mondo. Indipendentemente dalla durezza delle pratiche dell’occupazione israeliana e dell’imposizione di misure punitive, la nostra voce libera continuerà a parlare apertamente a favore del nostro popolo che ha sofferto terribili catastrofi, espulsioni, occupazione e arresti. Continuerà anche a far sapere al mondo la forte volontà palestinese, che rifiuterà senza sosta e sfiderà il colonialismo in tutte le sue forme. Lavoriamo per instaurare e rafforzare i valori umani e cerchiamo di ottenere la liberazione sociale ed economica che unisce i popoli liberi del mondo.

Salutiamo i partecipanti a questo dibattito conclusivo: la compagna Angela Davis, la collega e amica Hanan Ashrawi, Richard Falk, la cara Susan Abulhawa e Bill V. Mullen.

Riguardo al nostro contributo a questa conferenza, vorremmo cercare di portarvi le nostre esperienze attuali con la letteratura e la cultura mentre siamo nelle prigioni israeliane. L’elemento più importante a questo proposito sono i libri. Essi costituiscono le fondamenta della vita in carcere. Conservano l’equilibrio psicologico e morale dei combattenti per la libertà che vedono la propria detenzione come parte della resistenza generale contro l’occupazione colonialista della Palestina. I libri giocano anche un ruolo in ogni lotta individuale del carcerato tra lui e le autorità carcerarie. In altre parole, la lotta diventa una sfida per i prigionieri palestinesi in quanto i carcerieri cercano di spogliarci della nostra umanità e di tenerci isolati dal resto del mondo. La sfida dei detenuti è trasformare la nostra incarcerazione in una condizione di “rivoluzione culturale” attraverso la lettura, l’educazione e il dibattito letterario.

I detenuti politici palestinesi devono affrontare molti ostacoli per poter avere accesso ai libri. Per esempio, quando sono portati da un membro della famiglia talvolta essi non ci arrivano in quanto vengono sottoposti a meccanismi di stretto controllo e sequestri. In teoria a ogni carcerata è concesso di ricevere due libri al mese. Tuttavia questi libri sono soggetti a “esami di controllo” in cui, il più delle volte, sono rifiutati dall’amministrazione penitenziaria con il pretesto che si tratta di libri che incitano all’odio. Privare i detenuti della possibilità di avere libri viene utilizzato come punizione quando ai carcerati viene vietato di riceverli per due o tre mesi, come mi è capitato nel 2017.

Anche la modesta biblioteca a disposizione dei prigionieri è soggetta a continue ispezioni in quanto le guardie carcerarie confiscano qualunque libro che possa essere stato portato dentro il carcere senza che lo sapessero. Ciò obbliga i detenuti a inventarsi sistemi creativi per proteggere i libri che probabilmente potrebbero essere sequestrati. Impedire che i libri vengano presi dalle autorità della prigione costituisce uno degli impegni più importanti per i detenuti.

In questa prospettiva, nonostante le stringenti limitazioni, le detenute palestinesi sono riuscite a far entrare di soppiatto un certo numero di libri importanti. Per esempio, oltre a qualche libro di filosofia e di storia, molti dei lavori di Ghassan Kanafani [scrittore, giornalista e dirigente politico palestinese, ndtr.], Ibrahim Nasrallah [scrittore e poeta palestinese, ndtr.] e di Suzan Abu-Alhawa [scrittrice e attivista palestinese, ndtr.] sono tra quelli che sono riusciti ad entrare e sono studiati dai prigionieri. Il romanzo di Maxim Gorky “La madre” è diventato di conforto per le prigioniere che sono private dell’amore delle loro madri. I lavori di Domitila Chúngara [lavoratrice boliviana e attivista, ndtr.], Abd-Arahman Munif [scrittore giordano, ndtr.], Al-Taher Wattar [scrittore algerino, ndtr.], Ahlam Mustaghanmi [scrittrice algerina, ndtr.], Mahmoud Darwish [grande poeta palestinese, ndtr.], “Le quaranta porte” [Rizzoli, 2011, ndtr.] di Elif Shafak [scrittrice turca, ndtr.], “I miserabili” di Victor Hugo, Nawal El Saadawi [scrittrice e psichiatra egiziana, ndtr.], Sahar Khalifeh [scrittrice palestinese, ndtr.], Edward Said [famoso intellettuale palestinese, ndtr.], Angela Davis [famosa intellettuale e militante afro-americana, ndtr.] e Albert Camus [scrittore francese, ndtr.] sono tra i libri più apprezzati che sono sfuggiti ai controlli e sono stati introdotti di nascosto con successo.

Tuttavia libri come “Scritto sotto la forca” [Red Star Press, 2015] di Julius Fučík [giornalista e militante antinazista cecoslovacco, ndtr.] e i “Quaderni dal carcere” di Gramsci non hanno mai potuto sfuggire alle misure e restrizioni carcerarie. Di fatto a nessuno dei libri di Gramsci è stato consentito di entrare nelle prigioni a causa di quella che sembra essere una particolare presa di posizione da parte delle autorità dell’occupazione nei confronti di Gramsci.

Parte positiva delle nostre vite, alcuni libri scritti da prigionieri nelle carceri, uno dei quali parla della esperienza di incarcerazione e di interrogatorio nelle prigioni israeliane, intitolato “You are Not Alone” [Non sei solo], sono riusciti ad arrivare di nascosto fino a noi. Quello che sto cercando di dire, cari artisti e scrittori, è che i vostri libri esposti nelle librerie di tutto il mondo sono sottoposti a persecuzione e confisca da parte delle autorità carcerarie dell’occupazione israeliana se cerchiamo di avervi accesso: i vostri libri qui vengono arrestati come avviene al nostro popolo.

La disponibilità di libri non è l’unica lotta che devono affrontare i prigionieri palestinesi nelle prigioni israeliane. Cercherò di darvi una rapida immagine delle nostre vite, ma ricordate che il nostro Desiderio richiede da noi di rimanere forti come l’acciaio.

Le autorità carcerarie israeliane impongono giornalmente misure oppressive, come dimostrano l’applicazione di politiche di separazione attraverso l’isolamento. Ci privano anche delle visite dei familiari, vietano l’ingresso a libri di cultura e letteratura e proibiscono assolutamente i libri scolastici. Vietano anche di cantare in qualunque modo. Sono vietate sia canzoni rivoluzionarie che non impegnate.

Inoltre non ci viene consentito di comprare più dell’unica radio a nostra disposizione. La radio è un’importante fonte di informazione che ci tiene legate con l’esterno diffondendo le notizie dal mondo. Ma per noi la radio è più di questo… È uno strumento che ci mette in comunicazione con le nostre famiglie ed amici, in quanto essi chiamano e inviano messaggi attraverso vari programmi radiofonici palestinesi.

Le autorità carcerarie israeliane non ci consentono neppure una qualunque forma di assemblea o riunione. Puniscono in continuazione le carcerate riducendo i prodotti che possono essere ottenuti allo “spaccio”, l’unico “negozio” a disposizione.

I prigionieri vengono continuamente sorvegliati attraverso il controllo delle telecamere di sicurezza che circondano ogni angolo della prigione, compreso il piazzale (Al-Forah). Questo spazio è dove alle prigioniere viene concesso di stare all’aria aperta per cinque ore non consecutive al giorno fuori dalle loro celle e finestre con le sbarre. Anche le nostre stanze sono sottoposte a ispezioni severe e provocatorie ad ogni ora del giorno e della notte alla ricerca di qualunque pezzo di carta con scritto sopra qualcosa. Potete immaginare quanto sia stato difficile per me farvi arrivare questo messaggio.

Quanto sopra ed altro ci obbliga ad architettare sistemi per contrastare queste prassi. Alcuni dettagli e oggetti possono sembrare banali fuori dalla prigione, ma hanno una grande importanza per noi prigioniere. Per esempio, penne e carta sono importanti, e i libri sono considerati un tesoro. Tutto questo costituisce uno strumento utilizzato come parte della nostra sopravvivenza e lotta contro l’occupazione, ed anche per il nostro miglioramento.

Come aspetto positivo abbiamo scoperto che molte prigioniere, nonostante le difficoltà menzionate, soprattutto quelle che scontano una condanna pesante, hanno arricchito la letteratura pubblicando romanzi, che spero attireranno l’attenzione degli scrittori arabi e internazionali. In aggiunta il movimento dei carcerati ha pubblicato alcuni studi e ricerche che fanno luce sulla situazione delle condizioni delle prigioni israeliane. Io stessa nel 2016, mentre ero in prigione, ho condotto uno studio sulla “Condizione delle prigioniere nelle prigioni israeliane”. Esso si concentra sugli effetti e le violazioni contro donne e minori palestinesi richiusi nelle prigioni. Nel 2019 ho preparato un altro documento, “Educazione nelle prigioni israeliane”, pubblicato nel libro di Ramzy Baroud su educazione e detenute intitolato “These Chains Will be Broken” [Queste catene saranno spezzate].

Sfortunatamente, a causa del mio attuale nuovo arresto, non ho visto la versione pubblicata del libro. Nel documento citato ho presentato gli ostacoli che la formazione deve affrontare in prigione, uno dei quali è l’insistenza israeliana nell’impedirci di portare avanti un qualunque percorso formativo in carcere. Il loro intento è chiaramente isolare i detenuti, donne e uomini, e spezzarci, trasformandoci in individui senza speranza o progetti per un futuro dignitoso. D’altra parte i prigionieri fanno il possibile per contrastare i tentativi delle autorità carcerarie attraverso nuovi sistemi creativi per conquistarsi il diritto alla formazione.

Ora stiamo cercando di iniziare l’educazione universitaria per il primo ciclo di detenute, come seconda fase della nostra lotta per rivendicare il diritto alla formazione. Ciò segnerà la prima volta nella storia in cui detenute palestinesi, soprattutto quelle con pesanti condanne, saranno in grado di ottenere un titolo universitario dal carcere. Su questo aspetto nel prossimo futuro sarà disponibile un aggiornamento, riguardante anche le difficoltà incontrate.

Una parte del programma di formazione universitaria si basa sull’integrazione di esperienze educative palestinesi, arabe e internazionali attraverso la letteratura della resistenza. Il programma includerà anche ricerche e studi scientifici alla nostra portata in carcere, nel tentativo di approfondire le capacità di analisi delle detenute e di identificare le loro aspirazioni per il futuro.

Tutta questa iniziativa intende stimolare e rafforzare l’autostima delle detenute incoraggiandole a considerare la prigione come un luogo per lo sviluppo creativo, culturale e umano. Speriamo che l’iniziativa rafforzi le convinzioni e capacità delle carcerate di creare un cambiamento nella società una volta che verranno liberate.

Questa iniziativa intende contribuire alla complessiva lotta di liberazione contro l’apartheid israeliano e la disparità di genere rafforzando le detenute per favorire la loro educazione e il loro ingresso nel mondo del lavoro quando saranno rilasciate.

Voglio sottolineare che durante la preparazione di questa dichiarazione abbiamo tenuto due sessioni per detenute iscritte all’università. I due corsi di formazione erano rispettivamente in inglese e in arabo.

Ciò che ha suscitato la mia attenzione è stato che, durante il primo corso in inglese, ho chiesto che ogni detenuta compilasse una simulazione di domanda per l’università specificando il campo di studi che intende seguire. Vorrei condividere alcune delle richieste che ho ricevuto:

Shorouq: detenuta di Gerusalemme condannata a 16 anni e che finora ne ha scontati 6. È stata arrestata mentre frequentava una specializzazione in “Turismo” all’università di Betlemme. Il sogno di Shorouq è diventare guida turistica. Ha scelto la specializzazione in turismo perché vuole sensibilizzare il mondo sui luoghi storici in Palestina. È particolarmente interessata ad accompagnare visite a Gerusalemme a causa di annessione, furto, violazioni e stravolgimento del paesaggio continuamente imposti alla città dall’occupazione israeliana.

Maysoun: detenuta di Betlemme condannata a 15 anni di prigione e che ne ha scontati finora 6. È stata arrestata mentre frequentava una specializzazione in letteratura all’università. Maysoun è un’accanita lettrice anche in prigione. Ama la letteratura. Descrive la letteratura come un metodo per costruirsi un futuro. Secondo lei la letteratura richiede che il lettore pensi e si ponga molte domande relative a un particolare argomento sollevato dal romanzo o dall’opera letteraria in questione. Pensa che ciò porti a un pensiero critico e allo sviluppo culturale.

Ruba: Ruba è una studentessa al terzo anno di sociologia che frequentava l’università di Birzeit. È stata arrestata tre mesi fa ed è ancora in attesa di giudizio. Ruba desidera ed è pronta a continuare i suoi studi al suo rilascio. Secondo lei la ragione per cui ha scelto sociologia come specializzazione è lo sviluppo della sua formazione universitaria e analitica sulle strutture sociali e di classe nella società e sul loro impatto sulle donne.

Nel mio tentativo di comprendere i motivi che stanno dietro le aspirazioni e i sogni di queste donne ho deciso di discutere con loro i problemi in modo più approfondito. Ho scoperto che il comune denominatore tra loro è la ribellione contro l’oppressione e le limitazioni imposte, un deciso rifiuto delle politiche dell’occupazione per impedire l’educazione delle prigioniere, una forza interiore per sfidare il controllo utilizzato contro le detenute inteso ad isolarle e trasformarle in donne disperate senza sogni o progetti per il futuro.

Altri motivi includono la resistenza contro il progetto dell’occupazione di cancellare l’identità e la storia palestinesi. Queste donne vogliono anche rompere con professioni stereotipate e di genere che la società destina alle donne. Per questo scelgono specializzazioni come turismo, letteratura, sociologia e teoria critica.

Per il secondo corso in lingua araba ci siamo concentrate sull’autobiografia e abbiamo lavorato sui diversi metodi per stilare un’autobiografia. Le detenute sono state divise in gruppi che hanno discusso diverse biografie, tra cui quella della dirigente sindacale e femminista boliviana Domitila Chúngara, “Chiedo la parola”, che parla delle esperienze e delle lotte dei minatori in Bolivia. Inoltre abbiamo studiato le biografie e autobiografie di affermati scrittori arabi come “Al-Ayyam” [Il libro dei giorni, Zanzibar, 1999, ndtr.] di Taha Hussein [scrittrice egiziana, ndtr.] e “I Was Born There, I Was Born Here” [Sono nato là, sono nato qua] di Mourid Barghouti [scrittore palestinese, ndtr.].

Il corso ha incluso anche un’analisi di testi letterari come quello del poeta palestinese Mahmoud Darwish intitolato “Incertezza del ritornato”, che è un discorso fatto da Darwish all’università di Birzeit durante i festeggiamenti per la liberazione del sud del Libano nel 2000.

I corsi di formazione, le presentazioni e discussioni hanno arricchito la consapevolezza delle detenute e le hanno incoraggiate a continuare a leggere libri e romanzi. Abbiamo trasformato la prigione in una scuola di cultura in cui le carcerate apprendono altre esperienze e in cui annulliamo i tentativi dell’occupazione di isolarci dal resto del mondo.

In conclusione, la nostra lotta per la liberazione dentro le carceri inizia con la protezione della letteratura di resistenza. Facciamo giungere le nostre voci e storie mentre le scriviamo in circostanze molto difficili. Quando siamo incarcerate il prezzo che paghiamo a volte è pesante, soprattutto quando la nostra punizione sono l’isolamento o il divieto delle visite dei familiari.

Un caso emblematico è il prezzo pagato dal detenuto Waleed Daqa, messo in isolamento per aver fatto uscire clandestinamente dalla prigione il suo romanzo perché venisse pubblicato. Ciò costituisce un’ulteriore sfida che dobbiamo affrontare nel contesto dei “Due Desideri”, quella dei combattenti per la libertà e quella dei colonizzatori, come espresso dalla combattente per la libertà Domitila Chúngara in “Chiedo la parola”.

Anche noi, donne palestinesi prigioniere diciamo “lasciateci parlare… lasciateci sognare… lasciateci sentire libere!” Grazie per avermi ascoltata e per avermi dato la possibilità di partecipare a questa conferenza.

Khalida Jarrar, prigioniera politica,

Prigione di Damon, 17 ottobre 2020.

Khalida Jarrar

Khalida Jarrar è una femminista ed attivista per i diritti umani e fa parte del Consiglio Legislativo Palestinese [il parlamento dell’Autorità Nazionale Palestinese, in cui rappresenta il partito marxista Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ndtr.]. Vive a Ramallah, ma è stata tenuta in detenzione amministrativa [incarcerazione senza imputazione e senza condanna rinnovabile a tempo indefinito, ndtr.] da Israele in vari periodi dal luglio 2015.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Siete pionieri sionisti” –Una ministra israeliana di centro saluta così i coloni messianici

Jonathan Ofir  

1 dicembre 2020 – MondoWeiss

La pluridecennale impresa coloniale di Israele consiste nella creazione di “fatti sul campo”. I fatti si presentano tipicamente come “avamposti” costruiti da zelanti fedeli senza un’autorizzazione, sia su terreni sequestrati dai militari per lo Stato, sia semplicemente su terreni privati palestinesi. La questione è quindi come legalizzare retroattivamente il furto e come inquadrarlo. Si tende a pensare che questa attività sia principalmente un progetto della destra, ma storicamente è stata praticata sia dalla destra che dalla sinistra, in modo più o meno esplicito.

Questa settimana, una ministra centrista ha intenzionalmente sganciato una bomba. Domenica, la ministra israeliana della Diaspora Omer Yankelevich, del partito Blu e Bianco di Benny Gantz si è rivolta ai coloni durante un “Forum delle colonie”. L’ ha fatto a conferma dell’iniziativa del ministro della Difesa Gantz e del suo collega di partito Michael Biton (ministro degli Affari Strategici) di legalizzare retroattivamente 1.700 unità abitative dei coloni, considerate illegali anche dalle indulgenti leggi di Israele (che sfidano il diritto internazionale).

Yankelevitch ha invocato l'”unità” suprematista ebraica riguardo alle colonie, dicendo che “è tempo di porre fine ai discorsi di divisione e odio nei confronti dei coloni”. Condividendo il video del discorso, il giornalista Neri Zilber ha detto che l’affermazione è un tradimento. “I [parlamentari di] Blu e Bianchi sono stati votati con più di un milione di voti di centrosinistra”.

Ma davvero quei milioni di elettori sono contrari? Il quotidiano israeliano Yediot Aharonot aveva già denunciato tre settimane fa la possibilità di tale mossa, che i coloni stavano ovviamente aspettando, una mossa che Peace Now [movimento israeliano contrario all’occupazione, ndtr.] ha definito “la realizzazione di una politica da coloni messianici”. E contemporaneamente Oded Ravivi, capo del consiglio regionale dei coloni di Efrat, ha detto che “l’insediamento di ebrei in Giudea e Samaria ha ottenuto il consenso”.

La giornalista Mairav Zonszein ha commentato le dichiarazioni di Yankelevitch, scrivendo su Twitter: “Non un ministro qualsiasi, ma Omer Yankelevich, ministra degli Affari della Diaspora, che sovrintende ai rapporti con gli ebrei americani, i quali in genere si oppongono alle colonie.”

Gli ebrei americani sono una cosa. Gli ebrei israeliani un’altra.

Yankelevich ha detto senza mezzi termini che Gantz sostiene in pieno l’iniziativa di Biton di legalizzare le case illegali dei coloni.

In passato, simili palesi iniziative promozionali della legalizzazione dell’illegale venivano dalla destra di Benjamin Netanyahu, ad esempio dall’ex ministra della Giustizia Ayelet Shaked, che nel 2017 promosse la “legge di regolarizzazione”, che analogamente forniva copertura giuridica alla legalizzazione retroattiva di circa 4.000 case illegali di coloni.

Con la sua dichiarazione, Yankelevich ha in sostanza detto che un partito di centro, Blu e Bianco, stava superando Netanyahu a destra, e andando persino oltre Shaked, poiché in particolare questa “legalizzazione” verrebbe messa in pratica anche prima che venga approvata una specifica legge in merito a quelle case. Yediot riferisce che l’intenzione è quella di approvare la mozione che viene chiamata “regolarizzazione del mercato”, che “consente all’acquirente di acquisire diritti sulla proprietà se è dimostrato che l’acquisto è stato fatto in buona fede”.

Già, “buona fede” è un termine usato spesso dai promotori di questi atti. I coloni dell’avamposto sono chiamati collettivamente “il giovane insediamento”, come li ha chiamati anche Yankelevich, piuttosto che colonialisti ladri di terre. Le affermazioni di Yankelevich sono diventate un grosso problema per Gantz, che vorrebbe almeno apparire come un centrista. Così lunedì c’è stata una discussione nel partito se questa posizione rappresenti effettivamente la linea del partito. Gantz ha detto di no, e che Yankelevich stava travisando (come riportato da Walla [portale web di una società di telecomunicazioni israeliana, ndtr.]):

Il capo di Blu e Bianco Benny Gantz ha chiarito oggi (lunedì) di non appoggiare la mozione di regolarizzazione degli avamposti, e ha preso le distanze dalle dichiarazioni della ministra della Diaspora Omer Yankelevich che ieri al raduno di protesta ha detto che Gantz li sostiene. Durante la riunione del partito Blu e Bianco Gantz ha detto: Non sosteniamo gli avamposti illegali e non importa chi vi risieda, che quella persona sia un pilota o un medico, non ha il permesso di insediarsi in aree illegali’ ”.

Tuttavia, Gantz ha sottolineato che questo non significa che si opponga alle colonie in generale, né in toto alla “regolarizzazione”. Devono solo essere fatti correttamente, per così dire:Sostengo il fatto che i blocchi [di colonie] della valle del Giordano rimangano, senza tornare ai confini del ’67 … Il Ministero della Difesa [di cui Gantz è il titolare, ndtr.] sta lavorando alla regolarizzazione di tutti gli avamposti che si trovano su aree legali esattamente secondo i regolamenti e le leggi. Qualsiasi deviazione da questa linea non è la politica di Blu e Bianco.

Questo crea un po’ di confusione, poiché gli avamposti che si trovano su aree consentite non hanno bisogno di essere legalizzati. Il punto è che si trovano in zone non ancora chiaramente definite da Israele come legali per le colonie: possono essere terre confiscate e sottoposte a “verifica”, o semplicemente terre private palestinesi.

In ogni caso, la “legalizzazione” retroattiva di tali aree è proprio il processo di “regolarizzazione” a cui si riferisce Gantz. Ma anche per chi è perplesso, il punto qui sottolineato da Gantz rivela che Israele sta operando istituzionalmente su una base espansionistica colonialista attraverso le istituzioni militari. L’unica domanda è quanto velocemente debbano andare le cose, prima che la Cisgiordania inizi a sembrare il Far West.

Durante la riunione il parlamentare di Blu e Bianco Asaf Zamir (ex ministro del Turismo) ha aggredito Yankelevich e ha detto che stava “danneggiando politicamente [il partito] nelle regioni in cui non abbiamo elettori”. Zamir ha accennato alla possibilità di elezioni imminenti: “Siamo alla vigilia di un potenziale scioglimento della Knesset [il parlamento], è meglio che ci ricordiamo chi siamo, perché queste dichiarazioni e queste iniziative non coordinate che hai compiuto allontanano la sala di comando dai nostri elettori.

Ma Yankelevich non ne ha voluto sapere. Ha mantenuto la posizione come una brava giovane colona: “La posizione del partito, come ha detto alla riunione del partito il presidente del partito, è di supporto alla regolarizzazione degli insediamenti costruiti in buona fede su terre demaniali. Questa è la posizione che ho espresso anch’io e ne sono orgogliosa. Stiamo parlando del sale della terra, di persone che vivono in condizioni inaccettabili ed è giunto il momento di fornire loro condizioni di vita onorevoli. Non credete alle false citazioni.

E dunque, Blu e Bianco si sconterà un per un po’ al suo interno e deciderà quale sia veramente la linea del partito. È un furto intenzionale e palese o è piuttosto un furto accettabile?

Due anni fa, chi scrive sostenne che il dibattito sinistra-destra in Israele è sulla velocità della colonizzazione, non su come porvi fine. Blu e Bianco è il presunto contrappeso di opposizione progressista al Likud di Netanyahu. Ma non è così, e non si riesce nemmeno a capire cosa rappresenti. Gantz dice “colonizzazione leggera”, Yankelevich dice “pionierismo sionista”. E il promemoria per gli ebrei all’estero, in particolare negli Stati Uniti, di cui Yankelevich è presumibilmente la ministra, è che non c’è forza politica in Israele che effettivamente si opponga alle colonie. La “sinistra” sionista? Quale sinistra? Non esiste. Oh, e che dire del gruppo di parlamentari della Lista Unita palestinese? È sistematicamente esclusa dal governo – sì, anche da Gantz.

E se dici che è un comportamento razzista, beh, fai attenzione, la definizione IHRA di antisemitismo potrebbe essere pronta ad acchiapparti.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’incontro di Netanyahu con MBS segna un nuovo fronte contro il ritorno all’accordo con l’Iran da parte di Biden

Philip Weiss

23 novembre 2020 – Mondoweiss

La grande notizia di questa notte è che pare che Benjamin Netanyahu sia volato nella città dell’Arabia Saudita di NEOM sul Mar Rosso per incontrare il principe saudita Mohammed bin Salman su richiesta del Segretario di Stato USA Mike Pompeo.

Se confermato, questo sarebbe ovviamente un incontro di grande importanza storica – un leader israeliano non ha mai visitato l’Arabia Saudita. Pompeo ha segnalato ciò con un tweet criptico:

Costruttivo incontro oggi con il principe ereditario Mohammed bin Salman a NEOM. Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno percorso un lungo cammino da quando il Presidente Franklin Delano Roosevelt e il Re Abdul Aziz Al Saud hanno posto per la prima volta le basi per le nostre relazioni 75 anni fa.”

Pompeo si riferisce ad un famoso incontro in cui il re disse a Roosevelt che non ci doveva essere uno Stato sionista nella vicina Palestina e Roosevelt gli promise che gli USA non avrebbero appoggiato una simile ipotesi. Poi Roosevelt morì e Truman cambiò politica.

E guarda un po’, adesso anche i sauditi stanno cambiando idea sul sionismo, come va strombazzando la stampa israeliana.

Consideriamo la valenza politica di questa visita. È una triplice vittoria per Israele, Arabia Saudita e anche per Pompeo. Ma molti altri perdono!

Sicuramente Israele ne trae il maggior vantaggio. Un altro accordo di normalizzazione con un vicino arabo è in vista. Ancora una volta i palestinesi sono stati sacrificati; ehi, voi palestinesi dovete arrendervi. Jared Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.] vi ha detto che siete un popolo sconfitto.

Israele riesce a legare ancor di più le mani a Joe Biden riguardo alla ripresa dell’accordo con l’Iran, che odia. Ieri Netanyahu ha detto a Biden che non può rientrare nell’accordo prima di essere andato in Arabia Saudita. L’avvocato di Israele Dennis Ross ha inviato questo messaggio in un tweet stamattina.

L’incontro Netanyahu-MbS non è una mossa da poco in Medio Oriente. Si può scommettere che la loro discussione si è fortemente incentrata su come rapportarsi all’amministrazione Biden, con un occhio verso il coordinamento dei messaggi sull’Iran.

Il messaggio a Biden, proprio mentre sta costituendo la sua squadra di esperti di Washington sulla politica estera, è questo: dovrai usare tutte le tue capacità politiche per firmare un accordo con l’Iran, perché Israele con l’aiuto della Casa Bianca di Trump ha appena alzato il prezzo. Non ti conviene.

Martin Indyk, un lobbista filoisraeliano democratico di centro, capisce che il messaggio è questo e invita Israele ad essere cortese con Biden.

Se l’incontro tra Netanyahu e MbS è stato inteso come un tentativo di coordinare le posizioni contro ciò che entrambi potrebbero considerare una nuova minaccia comune da parte dell’entrante amministrazione Biden, questo è un grosso errore. Lavorare insieme a Biden piuttosto che contro di lui porterà a risultati molto migliori per tutti.

Bella mossa. Ma ad Israele non importa.

Passiamo al punto di vista della monarchia saudita. Nel 2015 l’Arabia Saudita non si era opposta all’accordo con l’Iran (guadagnando così l’appoggio di Obama nella guerra in Yemen), ma ovviamente condivide alcuni degli interessi di Israele nell’isolare l’Iran. Ora sta svendendo i palestinesi, ma non è un gran prezzo da pagare quando si pensa a cosa ci guadagna. Ora ha a Washington l’ambasciatore più potente di tutti: la lobby israeliana e Netanyahu, che aiuteranno a sostenere il regime corrotto e criminale nel momento in cui un’amministrazione democratica entra alla Casa Bianca parlando di diritti umani.

Organizzazioni ebraiche di centro come la Conferenza dei Presidenti e l’AIPAC stanno per prendere le difese dell’Arabia Saudita e diranno a Joe Biden di lasciar perdere l’assassinio di Jamal Khashoggi – la pace in Medio Oriente è più importante.

Scusate se ripeto uno vecchio discorso, ma l’Arabia Saudita sa che essere cortesi con Israele apre le porte a Washington. Gli uomini più potenti del mondo, come Putin, Modi e Obama, si sono tutti rivolti alla lobby israeliana per cercare di fare affari in Campidoglio. Obama nel 2008 ha concordato con la lobby la nomina del suo segretario di Stato; poi nel 2015 ha dovuto combattere con la lobby di destra per raggiungere l’accordo con l’Iran, ma almeno ha avuto al suo fianco i sionisti progressisti.

Infine c’è Pompeo. Ha fatto tutto quel che poteva per Israele negli ultimi giorni, alla fine dell’amministrazione Trump. Il BDS è “un cancro”, ha detto quando è partito per le colonie illegali in Cisgiordania. Il principale donatore repubblicano, Sheldon Adelson, concorda in pieno. Come ha detto Nick Schifrin [giornalista USA esperto di Medio Oriente, ndtr.] l’altra notte nel programma PBS News Hour [programma televisivo USA di approfondimento della rete radiotelevisiva pubblica, ndtr.] , Pompeo ha delle ottime carte per dimostrare la propria idoneità per una campagna presidenziale nel 2014. Anche Aaron David Miller [analista e negoziatore USA in Medio Oriente, ndtr.] lo ha detto:

Le gite di Pompeo all’azienda vitivinicola in Cisgiordania e nel Golan non hanno nulla a che fare con le ambizioni dell’America, bensì con le sue, in vista del 2024.”

Socializzare con la destra israeliana è ancora una buona politica negli USA. Durante le primarie democratiche Bernie Sanders e Pete Buttigieg hanno definito Netanyahu un razzista che ha perso la testa, ma questa consapevolezza deve ancora farsi strada a Washington.

Vediamola in questo modo: Joe Biden sta cercando un ambasciatore in Israele che vada bene a Netanyahu. I nomi in gioco sono Dan Shapiro, Michael Adler e Robert Wexler, tutti ebrei e sionisti. L’idea che un ambasciatore USA in Israele sia qualcuno che dia speranze ai palestinesi sotto apartheid è fuori questione. E pensate che Netanyahu abbia voluto fare una cortesia a Obama quando ha nominato Michael Oren e Ron Dermer come suoi ambasciatori a Washington? Neanche per un istante. Ha messo una spina nel fianco di Obama. “Se arrivasse un extraterrestre e vedesse i rapporti tra USA ed Israele avrebbe ragione di pensare che gli USA sono uno Stato vassallo di Israele”, dice un esperto.

In sostanza, Netanyahu esercita ancora un grande potere a Washington. E l’Arabia Saudita lo ha al suo fianco. Chiunque altro ha ulteriori motivi per preoccuparsi.

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss.net e ha creato il sito nel 2005-06.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




In fretta e furia prima delle elezioni Trump approva finanziamenti per progetti scientifici nelle illegali colonie israeliane

Yumna Patel

28 ottobre 2020 – Mondoweiss

Ora per la prima volta i nuovi emendamenti consentiranno il fatto che il denaro dei contribuenti USA venga speso nelle colonie israeliane, illegali in base al diritto internazionale.

Con una mossa che legittima ulteriormente l’illegale attività di colonizzazione israeliana nei territori palestinesi occupati, gli USA e Israele hanno esteso una serie di accordi di cooperazione scientifica già esistenti per includervi ora le istituzioni israeliane nella Cisgiordania occupata e sulle Alture del Golan.

Il nuovo accordo, firmato mercoledì tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e l’ambasciatore USA in Israele David Friedman, modifica tre intese per la cooperazione scientifica già esistenti tra i due Paesi.

Secondo i trattati precedenti, che risalgono agli anni ’70, i progetti in collaborazione tra USA e Israele “non possono essere condotti in zone geografiche passate sotto amministrazione israeliana dopo il 5 giugno 1967 e non possono riguardare soggetti relativi principalmente a queste aree.”

Ora per la prima volta i nuovi emendamenti consentiranno che il denaro dei contribuenti USA venga speso nelle colonie israeliane, illegali in base al diritto internazionale.

In un comunicato l’ambasciata USA in Israele ha affermato che l’emendamento “rafforza ulteriormente lo speciale rapporto bilaterale” tra i due Paesi e che “queste restrizioni geografiche non corrispondono più alla politica USA.”

Lo scorso anno l’amministrazione USA ha interrotto decenni di politica statunitense e internazionale annunciando che gli Stati Uniti non considerano più illegali le colonie israeliane.

Mercoledì la cerimonia di ratifica si è svolta nella grande colonia di Ariel, che si trova al centro della Cisgiordania occupata e i cui confini municipali includono una serie di enclave di terreni di proprietari privati palestinesi espropriati dallo Stato di Israele nel 1978, quando è stata fondata la colonia.

Ariel è uno degli insediamenti più estesi della Cisgiordania, ospita circa 20.000 coloni israeliani e vanta un’università, un centro commerciale, una zona industriale, un ospedale e una facoltà di medicina.

L’università di Ariel, dove si è svolta la cerimonia di firma, è l’unica istituzione di questo tipo in Cisgiordania e, a differenza di altre università israeliane, è stata esclusa da finanziamenti non solo dagli USA, ma anche dall’UE e dalla German-Israeli Foundation for Scientific Research and Development [Fondazione Tedesco-Israeliana per la Ricerca e lo Sviluppo Scientifico, ente di coordinamento tra il ministero della Ricerca tedesco e quello israeliano, ndtr.].

L’università è stata oggetto di numerosi boicottaggi da parte di accademici internazionali ed israeliani per protestare contro la continua espansione coloniale e l’illegale occupazione israeliana della Cisgiordania.

Il primo ministro Netanyahu ha detto che l’evento di mercoledì è un messaggio “a quei boicottatori ostili” che “sbagliano e falliranno, perché siamo decisi a costruire le nostre vite e la nostra patria ancestrale e a non essere più cacciati da qui.”

Questa è un’importante vittoria su chiunque intenda delegittimare qualunque cosa sia israeliana al di là della frontiera del ’67,” ha detto Netanyahu, aggiungendo che gli accordi firmati all’università di Ariel sono di “grande rilevanza.”

Altri politici israeliani hanno salutato l’accordo come un ulteriore passo nella giusta direzione verso il piano israeliano di annessione in Cisgiordania, e il ministro israeliano dell’Educazione Superiore Zeev Elkin [del partito di destra Likud, ndtr.] ha affermato al giornalista di Axios [sito di notizie statunitense, ndtr.] Barak Ravid che la cerimonia di mercoledì è stata “un grande successo per la sovranità israeliana” sulla Cisgiordania e “un nuovo passo verso il riconoscimento internazionale dei nostri diritti” lì.

Dirigenti ed attivisti palestinesi hanno criticato l’iniziativa come un ulteriore tentativo dell’amministrazione USA di legittimare l’occupazione israeliana e aprire ancor di più la strada perché Israele annetta illegalmente altra terra palestinese.

In un comunicato Hanan Ashrawi, membro del Comitato Esecutivo dell’OLP, ha definito l’accordo un “atto palesemente illegale.”

Estendere il finanziamento USA nella Cisgiordania occupata, comprese le illegali colonie israeliane, è un chiaro riconoscimento dell’annessione del territorio palestinese da parte di Israele,” ha affermato, aggiungendo che “ciò promuove il coinvolgimento dell’amministrazione Trump nei crimini di guerra israeliani a livello di una partecipazione attiva e deliberata.”

Ashrawi ha criticato la tempistica dell’accordo, che secondo lei è stata “una folle corsa” dell’ultima ora per “fornire ad Israele risultati definitivi prima del gennaio 2021, compresi normalizzazione, vantaggi economici e appoggio all’annessione.”

La tempistica dell’emendamento, stilato solo una settimana prima delle elezioni USA, è stata criticata da molti come un tentativo di favorire il più possibile la politica di Trump e Netanyahu nella regione nel caso in cui Trump non venga rieletto il 3 novembre.

Le critiche si appuntano su resoconti secondo cui, mentre l’impegno a favore dell’ emendamento è stato guidato da Friedman [l’ambasciatore USA in Israele, ndtr.], esso sarebbe stato fortemente promosso dal miliardario americano Sheldon Adelson, che è uno dei principali donatori sia dell’università di Ariel che del presidente Donald Trump.

Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] ha citato fonti secondo cui Adelson “ha fatto pressioni sull’amministrazione americana perché la cerimonia si tenesse prima delle elezioni USA di martedì.”

Oltre alla tempistica, l’emendamento è significativo non solo perché riconosce fondamentalmente l’annessione israeliana, ma per il fatto che, poiché è stato stilato come un accordo diplomatico, non può essere annullato unilateralmente dalla prossima amministrazione americana, se Trump dovesse perdere le imminenti elezioni.

I palestinesi hanno anche manifestato preoccupazione che l’accordo possa determinare una pressione sull’UE, fonte della maggior parte dei finanziamenti esteri alle istituzioni scientifiche israeliane, perché segua l’esempio.

Questo deve essere un campanello d’allarme per l’Unione Europea e per i singoli Stati europei. Invece di prendere in considerazione un rinnovo della collaborazione tra UE ed Israele come premio per una palese menzogna, l’Unione Europea deve assumere un ruolo guida e chiamare Israele a rispondere dei suoi crimini,” ha affermato Hanan Ashawi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Creatività in tempi di COVID-19 in Palestina

di  Yumna Patel  

9 ottobre 2020 – Mondoweiss

Diciamoci la verità: il 2020, un anno non facile per quasi tutti, non lo è stato specialmente per i palestinesi imprigionati fra la pandemia e l’occupazione israeliana che però, nonostante le circostanze, hanno usato la pandemia per cercare soluzioni originali e creative ai problemi che dovevano fronteggiare.

In questo ultimo episodio della nostra serie sul COVID-19 in Palestina, vi facciamo conoscere dei palestinesi che hanno reagito alla pandemia usando innovazione e creatività per aiutare le loro comunità ad adattarsi alla crisi.

Iniziamo la nostra puntata a Ramallah, cuore economico e amministrativo della Cisgiordania occupata, sede dell’Autorità palestinese, di innumerevoli organizzazioni internazionali e aziende locali.

Vi portiamo nel campo profughi di Al-Amari dove un collettivo di donne ha portato la confezione di mascherine a un livello totalmente nuovo.

Ultimamente c’è stato un boom mondiale, sono stati creati migliaia di modelli diversi, ma appena il coronavirus è arrivato in questa comunità le donne hanno deciso di fare qualcosa di nuovo.

Volevano una soluzione poco costosa e riciclabile che includesse anche la tradizione palestinese del ricamo, tramandata da generazioni.

Abbiamo confezionato le mascherine in colori diversi e modelli semplici perché piacessero alla gente, dato che non molti amano indossarle,” ha detto a Mondoweiss Dowlat Abu Shawish, a capo del programma di fabbricazione delle mascherine del Centro delle donne al-Amari

Seguendo la nostra tradizione abbiamo ottenuto modelli bellissimi che ci proteggono,” continua, mostrandoci le mascherine a colori brillanti, con piccoli e intricati motivi ricamati.

Abbiamo creato vari modelli, uno con i cedri, un albero che ha un significato speciale per Ramallah, e uno con la stella di Betlemme, oltre alle kefiah [tipico copricapo arabo, ndtr.].”

Oltre alla protezione fornita alla loro comunità, il programma ha dato al gruppo delle donne del centro una fonte di sostentamento in un momento in cui i palestinesi stanno soffrendo per un livello di disoccupazione senza precedenti.

La cosa più importante è che abbiamo fatto buon uso del tempo a nostra disposizione. Molte delle signore che lavorano con noi vivono in circostanze difficili, mariti disoccupati o bambini con bisogni speciali, ognuna ha la sua storia. Fortunatamente siamo riuscite a creare dei lavori per quasi tutte,” conclude Abu Shawish. 

A Betlemme, a sud di Ramallah, il COVID ha colpito moltissimo la comunità locale che è andata in crisi per mancanza di turisti.

Quando alla Canaan Ecotourism, un’agenzia di viaggi alternativa, si sono resi conto che non ne sarebbero più arrivati per un bel po’, si sono rivolti a Internet e hanno deciso di sperimentare l’idea di tour politici della Palestina online.

Non ci aspettavamo assolutamente la pandemia e la crisi, avevamo altri progetti per il 2020,” ha detto a Mondoweiss Mohammad Abu Srour, uno dei fondatori del gruppo

Abbiamo dovuto adattarci e cercare modi alternativi per far vedere le nostre vite e la nostra condizione e per condividere la nostra situazione politica con chi non abita qui. A quel punto abbiamo dovuto cambiare e così abbiamo cominciato a offrire i tour online,” dice Abu Srour. 

Camminando lungo il muro di separazione israeliano che corre a nord di Betlemme separandola da Gerusalemme, Abu Srour, con il suo telefonino su un piccolo treppiede, comincia il suo tour per un gruppo in Danimarca.

Dai vostri schermi non potete farvi un’idea di quanto sia alto,” dice Abu Srour al suo gruppo. “Spero che quando questa crisi finirà avrete l’opportunità di venire a trovarci e vedere di persona quanto è alto e brutto e come impatta sulla vita quotidiana dei palestinesi.”

Abu Srour ci dice che lo scopo principale delle escursioni virtuali è di dare a quante più persone possibile accesso e opportunità di conoscere la Palestina, nonostante la pandemia. 

Uno dei nostri obiettivi è quello di presentare narrazioni, spiegazioni e percezioni alternative, concentrandoci sulla nostra situazione politica e culturale e sulle nostre tradizioni. Crediamo che i giovani abbiano molto di più da dire sul nostro Paese,” afferma Abu Srour. 

Così, nonostante l’occupazione israeliana e le difficoltà in cui ci troviamo fin dall’inizio della crisi, noi crediamo che i palestinesi siano ancora forti e pronti a continuare la lotta,” aggiunge. 

Tramite queste escursioni e attività stiamo offrendo alla gente la possibilità di imparare e saperne di più sulla Palestina. Anche questo fa parte della nostra lotta.”

Son passati sette mesi dal primo caso scoperto nella Palestina occupata. 

Da allora i palestinesi hanno affrontato, e probabilmente continueranno ad affrontare, una serie di sfide economiche e sanitarie eccezionali, esacerbate dalle annessioni e demolizioni israeliane e con la prospettiva di un vaccino ancora lontana.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Zoom cancella la tavola rotonda con Leila Khaled per le proteste di gruppi pro-Israele

Michael Arria

  23 settembre 2020 – Mondoweiss

Zoom ha annunciato che oggi non avrebbe fornito il servizio alla San Francisco State University per impedire che il suo software venisse usato durante la tavola rotonda online con Leila Khaled. Gruppi pro-israeliani, tra cui uno parzialmente finanziato dal governo israeliano, si sono presi il merito della cancellazione.

Zoom ha annunciato che oggi [23 settembre] non avrebbe fornito il servizio alla San Francisco State University (SFSU), impedendo così l’uso del suo software durante la tavola rotonda online con Leila Khaled, militante nel Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e coinvolta in due dirottamenti aerei nel 1969 e 1970.

L’evento intitolato “Quali narrazioni? Genere, giustizia & resistenza”, doveva essere promosso dal Programma di etnie arabe e musulmane e studi delle diaspore dell’università e dal Dipartimento di studi delle donne e di genere. 

In una dichiarazione della piattaforma si legge: “Zoom è impegnato a sostenere il confronto aperto di idee e dibattiti, ma con le limitazioni contenute nelle nostre Condizioni Generali di Utilizzo, incluse quelle relative al rispetto da parte dell’utente delle leggi in vigore negli USA sul controllo delle esportazioni, sulle sanzioni e sull’anti-terrorismo. Alla luce della segnalata affiliazione o appartenenza dell’oratrice a un’organizzazione straniera che negli USA è definita terrorista e dell’impossibilità della SFSU di smentire questa informazione, abbiamo deciso che l’incontro contravvenisse alle Condizioni Generali di Utilizzo di Zoom e comunicato all’università che non poteva usare Zoom per questo specifico evento.”

Contro l’evento avevano protestato vari gruppi di destra pro-israeliani, incluso il Lawfare Project [ong americana che professa un impegno contro l’antisemitismo attraverso il finanziamento di azioni legali, ndtr.]. L’app ‘Act.IL’ che prende di mira il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) ed è in parte finanziata dal governo israeliano, si è presa il merito per aver contribuito a far cancellare l’evento. Michael Bueckert, dottorando in sociologia ed economia politica presso la Carleton University, che ha tracciato l’app online, ha fatto notare che i suoi utenti hanno mandato delle email al consiglio di facoltà dell’università per informarli che “fornendo sostegno a una terrorista avrebbero potuto violare la legge americana.”

Saree Makdisi, docente di inglese e letteratura comparata presso l’università della California, Los Angeles (UCLA), ha twittato: “Questo è ciò che succede quando subappaltiamo le nostre università a Zoom: loro decidono quali eventi sono accettabili e quali no. È uno scandalo.”

Questo è un pericoloso attacco alla libertà di parola e alla libertà accademica da parte di uno dei Big Tech: Zoom non può imporre il potere di veto sul contenuto di lezioni ed eventi pubblici nella nostra Nazione,” ha dichiarato Dima Khalidi, la direttrice di Legal Palestine: “La minaccia alla democrazia è aumentata dal fatto che la decisione di Zoom di reprimere la discussione sulla libertà palestinese arriva in risposta a una sistematica campagna di repressione guidata dal governo israeliano e dai suoi alleati.” 

Organizzatori e partecipanti legati all’evento hanno risposto alle critiche dal momento dell’annuncio dell’incontro. Dopo l’articolo di Lynn Mahoney, presidentessa della SFSU, in cui dichiara di accogliere la diversità, ma di condannare l’odio, Laura Whitehorn, ex prigioniera politica (e partecipante alla tavola rotonda), ha scritto una lettera a Mahoney a proposito del seminario online (webinar).

Leila Khaled è una leader del movimento per i diritti del popolo palestinese,” si legge nella lettera. “Ha combattuto in molti modi per il diritto al ritorno nella Palestina storica e avrebbe offerto lezioni e informazioni importanti sulla storia del coinvolgimento delle donne nel lavoro per i diritti del popolo palestinese sotto l’occupazione e in esilio. Penso che aver preso per buona la narrazione che la bolla come terrorista o odiatrice sia profondamente offensivo e in conflitto con ciò che credo un educatore debba dire, insegnare e promuovere.”

Chi si era registrato per l’evento ha ricevuto un’email dagli organizzatori dicendo che si aspettavano che l’università “avrebbe sostenuto la nostra libertà di parola e accademica e avrebbe fornito un’alternativa per tenere il seminario online su un’altra piattaforma.”

Aggiornamento: dalla pubblicazione di questo post, Facebook ha rimosso dal suo sito la pagina dell’evento e YouTube ha interrotto lo streaming a pochi minuti dall’inizio della conferenza.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




COVID-19 in Palestina: annessione nella Valle del Giordano

Yumna Patel

17 settembre 2020 – Mondoweiss

Se seguite le notizie su Israele e Palestina, avrete probabilmente sentito parlare della Valle del Giordano.

È l’area del territorio palestinese che si trova al confine tra la Giordania e la Cisgiordania occupata. È un’enorme superficie di terra, che si estende per oltre 100 chilometri e costituisce quasi un terzo dell’intera Cisgiordania.

È inoltre una delle principali aree di cui Israele ha previsto l’annessione – una politica che vedrebbe il governo israeliano imporre unilateralmente la sua sovranità su migliaia di ettari di terra palestinese occupata.

Si dà il caso che in base al diritto internazionale questa politica sia illegale e che sia stata ampiamente condannata dalla comunità internazionale.

Nell’ambito della serie di puntate sul COVID-19 in Palestina ci siamo recati nella Valle del Giordano per vedere com’è lì la vita per i palestinesi mentre combattono due battaglie: una contro il coronavirus e una contro l’annessione.

Mentre attraversiamo la Valle del Giordano è possibile notare decine di gruppi di piccoli villaggi e accampamenti.

Molti palestinesi qui sono in realtà beduini e comunità di pastori che dipendono per il loro stile di vita dall’agricoltura. Ma a causa dei piani di annessione di Israele sono minacciati di sfollamento forzato, minaccia che affermano si sia effettivamente accentuata durante il periodo della pandemia di coronavirus.

“La pandemia da coronavirus è ovunque nel mondo ma nelle aree palestinesi, in particolare nella Valle del Giordano abbiamo due pandemie: la pandemia dell’occupazione [israeliana] e poi il coronavirus”, dice a Mondoweiss Motaz Bisharat, un attivista palestinese che abita nel nord della Valle del Giordano.

In quest’area l’occupazione – afferma – è per noi persino peggiore della pandemia da coronavirus. Le forze di occupazione hanno approfittato della pandemia da coronavirus per impossessarsi di altre porzioni del territorio della Valle del Giordano”.

Secondo Bisharat durante l’epidemia da coronavirus Israele ha confiscato nella valle del Giordano settentrionale oltre 1800 ettari di terra di proprietà palestinese e l’ha posta sotto il controllo dello Stato.

Abdelrahim Abdallah, abitante di al-Hadidiya, un piccolo borgo nella valle del Giordano settentrionale, è uno delle centinaia di palestinesi della zona a cui nel corso della pandemia da coronavirus è stata confiscata la terra e che hanno subito la minaccia di demolizione delle loro case.

L’assistenza sanitaria è un diritto dell’uomo. Il governo israeliano dovrebbe avere un po’ di umanità a ragione di questa emergenza e della pandemia che ha attaccato il mondo intero”, afferma Abdallah a Mondoweiss dall’interno della sua casa – una piccola tenda di incerata appoggiata su una lastra di cemento.

“Invece hanno accentuato i loro attacchi e le pressioni su di noi: raid notturni, arresti, divieti di pascolo e attacchi ai terreni agricoli”, aggiunge Abdallah. “Questo è ciò che stanno facendo le forze di occupazione.”

Dall’inizio della pandemia Abdallah e suo figlio, insieme ad altri uomini del villaggio, sono stati arrestati in varie occasioni dalle forze israeliane.

Abdallah afferma che in una circostanza le forze israeliane lo hanno accusato di “aver rubato l’acqua” da una sorgente naturale posta nel territorio palestinese, ma sottratta dai coloni israeliani durante la pandemia.

All’una del mattino sono arrivati più di 100 soldati e ci siamo svegliati con loro in piedi davanti a noi”, afferma. “Ci hanno arrestati e ci hanno ammanettati, ci hanno coperto gli occhi e ci hanno portato in una base militare a pochi chilometri di distanza”.

“Ci hanno tenuti lì dall’una di notte alle nove – racconta Abdallah – senz’ acqua, senza liberarci le mani e senza nemmeno permetterci di usare il bagno”.

Oltre ad affrontare le aggressioni quotidiane da parte dei militari israeliani, le comunità palestinesi della Valle del Giordano vivono senza avere accesso ai beni di prima necessità come l’elettricità, l’acqua corrente e all’assistenza sanitaria.

L’ospedale o la clinica più vicini dove fare il test per COVID-19 si trova a circa 25 chilometri da al-Hadidiya e per arrivarci si impiegano 30 minuti in auto.

Anche se i residenti potessero avere la disponibilità di un veicolo privato dovrebbero percorrere strade non asfaltate e superare lungo il percorso una serie di posti di blocco e insediamenti militari israeliani.

“Per tutta la nostra esistenza non abbiamo certo avuto una vita decente perché l’occupazione ci ha negato tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere”, dice Abdallah.

“L’unica cosa che non possono negarci è l’aria che respiriamo. Se potessero negarcela, lo farebbero”.

Motaz Bisharat sottolinea il fatto che “la Quarta Convenzione di Ginevra prevede che lo Stato occupante si assuma la responsabilità dell’area occupata”.

“Dovrebbero fornire assistenza sanitaria, istruzione, acqua e tutto il resto“, afferma. “Ma ciononostante l’occupazione non offre assolutamente nulla”.

Ad agosto Israele ha raggiunto un accordo con gli Emirati Arabi Uniti, il che ha reso gli Emirati il terzo Paese arabo a normalizzare le relazioni con Israele.

Come parte dell’accordo gli Emirati Arabi Uniti hanno rivendicato la responsabilità di aver fermato l’annessione. Ma i palestinesi della Valle del Giordano affermano che nella realtà l’annessione è in corso da anni, specialmente durante la pandemia da coronavirus, ed è una politica che Israele probabilmente non smetterà mai di cercare di applicare.

“Il presupposto secondo cui gli Emirati Arabi Uniti avrebbero stipulato questo accordo con Israele per fermare l’annessione è una totale assurdità“, sostiene Bisharat. “Qualsiasi civile, qualsiasi leader, qualsiasi politico nel mondo che afferma che l’occupazione ha fermato l’annessione sta delirando“.

Le forze di occupazione hanno fatto l’opposto. Hanno accentuato gli attacchi e hanno scoperto che il coronavirus rappresenta la migliore occasione per portare a termine il loro piano di annessione sul campo”.

“Il nostro messaggio al mondo, alle persone libere del mondo, è di mettere il loro Paese al posto della Palestina”, dice Abdallah. “Accetteresti che i tuoi figli vivano come vivono i bambini palestinesi? Accetteresti di perdere i tuoi diritti come i palestinesi, che non hanno (più) diritti?”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’eminente astrofisico palestinese Imad Barghouthi condannato alla detenzione amministrativa da Israele

Scientists for Palestine  

8 settembre 2020 – Mondoweiss

” Ai sensi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani il ripetuto arresto di uno degli scienziati più attivi e importanti della Palestina è un attacco diretto ai diritti dei palestinesi “, afferma George Smith, premio Nobel per la chimica. “La violazione del diritto alla scienza in qualunque luogo è un attacco agli scienziati ovunque”.

Nota redazionale: la seguente dichiarazione è stata rilasciata il 4 settembre 2020 da Scientists for Palestine [organizzazione internazionale che promuove la scienza e l’integrazione dei palestinesi nella comunità scientifica internazionale, ndtr.]. Mondoweiss pubblica occasionalmente comunicati stampa e dichiarazioni di organizzazioni nel tentativo di attirare l’attenzione su questioni trascurate

Il 2 settembre il dottor Imad Barghouthi, professore di fisica presso l’Università Al-Quds in Palestina, è stato condannato a detenzione amministrativa fino al 15 novembre per ordine di un comandante militare israeliano in Cisgiordania, ordine che è arrivato appena poche ore prima del suo rilascio su cauzione.

Il prof. Barghouthi è stato arrestato una prima volta il 16 luglio a un check-point israeliano, poi trattenuto senza accuse per oltre due settimane e infine accusato per la sua attività su Facebook. Dopo che migliaia di studiosi in tutto il mondo hanno chiesto che il prof. Barghouthi venisse liberato dalla prigione, il suo avvocato ha richiesto con successo il rilascio su cauzione, che è stato concesso il 2 settembre dal giudice incaricato della sua causa. Dopo di che, contraddicendo la decisione del giudice, è stato emesso un ordine militare israeliano che conferma a tempo indeterminato la detenzione illegale del prof. Barghouthi.

La famiglia e i figli sentono la sua mancanza e sono in ansia per il suo rilascio. Il prolungamento della sua prigionia, col ricorso illegale alla detenzione amministrativa per impedire il rilascio su cauzione, “ […] viola i diritti dei miei studenti, la mia ricerca e le mie attività scientifiche”, scrive lo stesso prof. Barghouthi in una lettera dal carcere diffusa dall’organizzazione internazionale Scientists for Palestine.

“Il ripetuto arresto di uno degli scienziati più attivi e importanti della Palestina è un attacco diretto al diritto dei palestinesi alla scienza, tutelato dall’articolo 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, di cui Israele è firmatario, così come dall’articolo 15 della Convenzione internazionale ONU sui diritti economicisociali e culturali“, afferma George Smith, Premio Nobel per la Chimica nel 2018. “La violazione del diritto alla scienza in qualsiasi luogo è un attacco agli scienziati ovunque”.

Non è la prima volta che le forze militari israeliane arrestano il professor Barghouti, uno dei più eminenti scienziati palestinesi. Nel 2014 era stato sottoposto a detenzione amministrativa per due mesi e nel 2016 è stato nuovamente detenuto per sei mesi. In entrambi i casi il suo arresto ha scatenato una forte condanna da parte della comunità scientifica internazionale. E l’arresto del Prof. Barghouthi non è un evento isolato, ma fa parte di un modello più ampio di disturbo e repressione della cultura e della società civile palestinesi.

“In qualità di membro interessato della comunità scientifica internazionale, condanno con la massima fermezza la detenzione arbitraria e illegale del professor Imad Barghouthi”, ha dichiarato Franz Ulm, professore di ingegneria civile e ambientale al MIT. “Si tratta di un attacco insensato al prof. Barghouthi e alla sua famiglia, così come ai suoi studenti e alla comunità scientifica di tutto il mondo”.

La detenzione amministrativa, una procedura impiegata dalle autorità israeliane per incarcerare a tempo indeterminato senza processo e senza accuse e usata regolarmente contro i palestinesi, è stata condannata dalle Nazioni Unite ed è in aperta violazione dell’articolo 14 della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici. “È davvero spaventoso che le autorità israeliane possano perseguitare in modo così arbitrario un illustre collega palestinese, utilizzando pratiche riconosciute come illegali a livello internazionale. È necessaria una forte risposta da parte della comunità scientifica internazionale!” ha detto Mario Martone, fisico teorico e portavoce di Scientists for Palestine.

Per reagire alla detenzione del prof. Imad Barghouthi, Scientists for Palestine ha lanciato una petizione sostenuta da studiosi tra cui il linguista Noam Chomsky, il premio Nobel George Smith, il Field Medalist [Medaglia Field, premio assegnato ogni 4 anni al miglior matematico con meno di 40 anni, ndtr.] David Mumford e molti altri, invitando le persone a chiedere un trattamento giusto per il prof. Barghouthi firmando la petizione a questo link: https://actionnetwork.org/petitions/demand-an-end-to-the-harassment-of-palestinian-scientists-and-academics-and-an-immediate-release-of-prof -imad-barghouthi /

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Gaza entra nella seconda settimana di isolamento tra le difficoltà per il controllo dell’epidemia

DALLA REDAZIONE DI Mondoweiss

4 SETTEMBRE 2020 Mondoweiss

Gli ultimi dati:

32.817 palestinesi sono risultati positivi per COVID-19; 24.445 in Cisgiordania; 697 a Gaza; 7.675 a Gerusalemme Est; 192 morti

126.419 israeliani sono risultati positivi per COVID-19; 993 morti;

mercoledì Israele ha registrato il maggior numero di nuovi casi con 3.074 persone risultate positive

Per la seconda settimana di seguito la maggior parte della Striscia di Gaza resta sotto isolamento mentre le autorità sanitarie, nel tentativo di rallentare la diffusione del coronavirus, si affrettano ad incrementare rapidamente i test e impongono ai palestinesi di restare nelle loro case. La scorsa settimana l’intera Striscia di Gaza è stata isolata, quando sono stati scoperti i primi casi di trasmissione all’interno della comunità. Questa settimana gli isolamenti sono stati limitati a 19 focolai.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel suo ultimo rapporto sulla situazione ha fatto una descrizione del coprifuoco a più livelli di Gaza, riferendo che a nord non c’è “nessun movimento tranne che per motivi di emergenza fino a nuovo avviso”, e nel centro e nel sud le persone sono costrette nelle loro case durante la notte tra le 20:00 e le 8:00.

Allo stesso tempo i test, che erano circa 18.000 la scorsa settimana, sono aumentati nel corso della settimana successiva, quando l’OMS, in collaborazione con l’Agenzia austriaca per lo sviluppo, ha consegnato altri 50 kit di test, sufficienti per sottoporre a screening quasi 5.000 persone, e ulteriori 4.000 tamponi. Dal 24 agosto più di 7.000 persone sono state sottoposte al test e quasi 500 sono risultate positive.

Nello stesso momento in cui venivano emessi gli ordini di isolamento a Gaza è stato interrotto il servizio idrico, lasciando molti palestinesi in quarantena nelle loro case con circa quattro ore di elettricità al giorno e senza acqua dal rubinetto. Torniamo un po’ indietro per fare chiarezza:

In concomitanza con la pandemia c’è stata un’escalation tra Hamas e Israele che ha avuto poca copertura mediatica. I palestinesi di Gaza hanno rilasciato dei palloncini che trasportavano dispositivi incendiari e lanciato razzi su Israele, e Israele ha sferrato quasi ogni notte attacchi aerei contro Gaza. Nel contesto di queste ostilità Israele ha fermato il trasferimento di carburante, il che ha fatto interrompere il funzionamento dell’unica centrale elettrica di Gaza. Ciò ha di punto in bianco lasciato i palestinesi in una crisi energetica che poi è sfociata in una crisi idrica.

A Gaza il servizio idrico comunale dipende dal flusso costante di energia verso gli impianti di desalinizzazione al fine di depurare l’acqua che viene pompata da pozzi che attingono da una falda acquifera. L’intera operazione collassa se manca la corrente.

Per una famiglia l’interruzione si è rivelata fatale.

Omar al-Hazeen ha usato delle candele per illuminare la sua casa nel campo profughi di al-Nuseirat, nella parte centrale della striscia di Gaza. Mercoledì è scoppiato un incendio nella camera da letto condivisa da tre dei suoi figli che sono rimasti tragicamente uccisi nell’incendio.

Niente elettricità, niente acqua, l’isolamento priva i più poveri di Gaza del sostentamento essenziale

Tareq S. Hajjaj ha riportato sul nostro sito le conseguenze devastanti parlando con le famiglie del quartiere di Shujaiyeh, nel nord-est di Gaza.

Abbiamo sentito e visto i pericoli di questa pandemia, ma restare a casa costituisce un ulteriore pericolo mortale. Potremmo morire di fame, ha detto Baker Mousa, 52 anni, ad Hajjaj che lo ha intervistato davanti alla sua casa, dove il soggiorno è stato trasformato in un piccolo negozio di alimentari. “Giorni fa ho dovuto bussare alla porta del mio vicino per prendere dell’acqua.”

Hajjaj ha scoperto che a Shujaiyeh molte persone, essendo loro impedito di lasciare le loro case a causa delle misure di isolamento e restando bloccate in casa con i rubinetti asciutti, hanno dovuto fare la difficile scelta di acquistare l’acqua al posto del cibo.

Hajjaj racconta:

Majeda al-Zaalan, 49 anni, siede al tavolo della sua cucina con i suoi tre figli adolescenti e organizza le loro razioni per la giornata. Divide una singola porzione di pane e formaggio da condividere in quattro. Successivamente fa le razioni dell’acqua, dando a ciascuno tre litri al giorno per uso personale. Nel corso dell’ultima settimana ha fatto il bucato per la casa una volta e a ciascuno è stata concessa una doccia.

Afferma: “In questi tempi l’acqua è la cosa più preziosa e deve esserci in ogni casa ma sfortunatamente di solito non l’abbiamo per nulla”.

Al – Zaalan prosegue: ‘La famiglia viveva con una piccola entrata del mio figlio maggiore Ahmed, che vendeva boccette di profumo in una strada principale. Ma da lunedì nessuno di noi ha attraversato la porta per uscire”. Ora la sua unica fonte di reddito proviene da una sovvenzione dell’organizzazione benefica britannica Oxfam International che le fornisce la modesta cifra di 30 euro al mese.

“Ho solo la mia famiglia – prosegue – e non ho intenzione di perdere nessuno di loro.”

Cosa ha portato all’epidemia?

Il dottor Yasser Jamei, responsabile del Gaza Community Mental Health Program, il più grande istituto palestinese della Striscia di Gaza per la salute mentale, ha raccontato come i funzionari siano venuti a conoscenza della diffusione inosservata del coronavirus abbastanza per caso.

Jamei riporta una sinossi dal tracciamento dei contatti,

lunedì 24 agosto 2020 drammatiche notizie per la popolazione nella Striscia di Gaza. Quel giorno, l’ospedale Makassed di Gerusalemme ha informato le autorità sanitarie che una donna di Gaza che era presente all’ospedale è risultata positiva al COVID-19. La donna era lì per fare compagnia alla figlia malata che aveva ricevuto un permesso per uscire da Gaza per motivi umanitari. Erano arrivate a Gerusalemme sei giorni prima. Il ministero della salute di Gaza ha contattato la famiglia della donna che vive nel campo profughi di Maghazi, nella parte centrale della Striscia, e ha sottoposto al test i suoi familiari. Quattro di loro sono risultati positivi, di cui uno è proprietario di un supermercato. Un altro lavora in una scuola.

Poco prima di lasciare Gaza, la donna risultata positiva a Gerusalemme aveva partecipato a un matrimonio. Le grandi feste erano state vietate, ma poche settimane prima [della sua partenza, ndtr.] le autorità locali hanno adottato misure diverse al fine di allentare le restrizioni. Ciò era stato giustificato dal fatto che Gaza veniva considerata libera da COVID. Le moschee sono state riaperte. Sono state permesse le riunioni e nella prima settimana di agosto gli studenti sono rientrati a scuola”.

Subire la pandemia sotto l’occupazione

Per buona parte dell’estate abbiamo riferito dello sbalorditivo aumento del numero di nuovi casi giornalieri in Cisgiordania, dove si è verificata una seconda ondata più virulenta del coronavirus. L’OMS riferisce che, soltanto in agosto, il numero totale di coloro che sono risultati positivi in tutti i territori palestinesi occupati è raddoppiato da 15.201 a 31.929. La maggior parte dell’incremento interessa la Cisgiordania.

Questa settimana la corrispondente di Mondoweiss, Yumna Patel, ha pubblicato un secondo video della sua serie in cinque parti che racconta come i palestinesi stanno subendo la pandemia sotto l’occupazione. La sua ultima puntata ci porta al villaggio di al-Walaja, nei pressi di Betlemme, che si trova nell’Area C della Cisgiordania [area sotto esclusivo controllo israeliano, ndtr.], e osserva che “all’Autorità Nazionale Palestinese è stato qui impedito di portare aiuto con interventi di contenimento” e che il governo israeliano “non ha fornito nulla” ai palestinesi “in termini di test, trattamento o contenimento del coronavirus”.

Patel riferisce:

Immagina di essere lasciato a difenderti da solo contro il coronavirus mentre la tua casa è minacciata di demolizione e la tua famiglia vive sotto l’occupazione militare.

Questa è la realtà per i palestinesi che vivono nel villaggio di Al-Walaja, annidato tra le colline di Betlemme e Gerusalemme, nel sud della Cisgiordania occupata”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)