Israelizzare la politica americana, palestinizzare il popolo americano

Jeff Halper

19 giugno 2020 – Mondoweiss

Israele non ha influenzato le forze dell’ordine USA addestrandole ad essere più violente, ma piuttosto è stato un modello per la creazione dello Stato securitario americano.

Recentemente si è dedicata molta attenzione all’“addestramento” che la polizia americana ha ricevuto da Israele. È esteso e pervasivo. Tuttavia il punto non è che Israele abbia reso la polizia USA più violenta. Già oltre un secolo fa, prima ancora che venisse creato lo Stato di Israele, era violenta e repressiva. Non è neanche che Israele abbia contribuito alla militarizzazione della polizia USA. Lo fa, ovviamente, ma in risposta ai cambiamenti fondamentali sulla scena politica ed economica americana.

L’“israelizzazione” della polizia americana è iniziata in seguito all’11 settembre, ma tre sviluppi fondamentali negli USA spiegano il perché. Primo, dall’11 settembre gli effetti depressivi del neoliberismo, a iniziare dalla presidenza Reagan, ma che già avevano determinato gravissime disparità sociali e salariali negli anni di Bush e Clinton. Hanno iniziato a invocare “legge ed ordine”, guerre interne (alla droga, alla delinquenza, agli “estremisti di sinistra”) con la necessità di controllare e pacificare un precariato, una classe sottoccupata e sottopagata in costante aumento, i “lavoratori poveri” [working poor] e i molto poveri in buona parte razzializzati [cioè definiti e discriminati su base razziale, ndtr.]. I poliziotti sono gli scagnozzi del capitalismo.

In secondo luogo, dall’11 settembre gli USA hanno perso l’Unione Sovietica e il comunismo come minaccia esterna/interna che potesse essere sfruttata per giustificare politiche repressive e antidemocratiche in patria. Dato che la minaccia “terroristica” era diventata una questione poco importante ai tempi di Clinton, essa non era strettamente legata al livello nazionale. Questo legame, la terza causa dell’“israelizzazione” della polizia, è iniziato con l’11 settembre.

Il Patriot Act [legge antiterrorismo che ha rafforzato i sistemi di sicurezza e repressivi, ndtr.], che fino ad oggi limita i diritti civili e il giusto processo in America, è stato emanato meno di due mesi dopo. Esso era chiaramente già pronto nel cassetto in attesa dell’occasione buona. E di nuovo, il mantenimento dell’ordine pubblico diventa il veicolo per un complessivo nuovo compito paramilitare: la “sicurezza nazionale”.

Questo è lo scenario. Non è stato una creazione di Israele. Ma Israele è uno Stato securitario fin dalla sua fondazione nel 1948 – ed avrebbe persino messo le sue radici come società altamente militarizzata fin dall’inizio del Ventesimo secolo. È stato durante gli ultimi 125 anni di colonialismo d’insediamento che si è sviluppato lo Stato securitario israeliano. La continua guerra di Israele contro il popolo/nemico palestinese all’interno ed all’estero, con tutta l’intrinseca insicurezza e la preoccupazione securitaria che ne consegue, lo ha posto esattamente dove l’America post 11 settembre voleva trovarsi. Israele ha fornito agli USA – e in particolare alla polizia ed alle agenzie della sicurezza degli Stati Uniti – politiche, insegnamenti, strutture paramilitari ed armamenti già pronti di cui [gli USA] erano privi ma di cui avevano bisogno per costruire uno Stato securitario americano. Israele ha fornito il modello e l’armamentario.

Ma qual è stato il problema? Perché gli USA non avrebbero potuto semplicemente mettere in atto le politiche, creare la struttura e produrre le armi favorevoli a uno Stato securitario, soprattutto ora che ha la giustificazione per la “sicurezza nazionale”? La risposta è analoga al concetto di “color-blindness” [secondo il quale i cittadini non devono essere giudicati in base al colore della pelle, ndtr.]. In “The New Jim Crow” [La Nuova Jim Crow, in riferimento alle norme segregazioniste e razziste degli Stati del Sud prima della fine formale della segregazione razziale, ndtr.] Michelle Alexander descrive il dilemma di imporre politiche di repressione razziale in un momento in cui (gli anni ’60 e ’70) manifestazioni esplicite di razzismo non erano più accettabili. Documenta come la guerra contro la droga abbia accolto il programma razzista ma sotto l’etichetta della lotta alle droghe, contro cui pochi avrebbero potuto obiettare. Gli USA hanno avuto lo stesso problema nella transizione allo Stato securitario. Come avrebbero potuto subordinare le libertà civili a favore della repressione poliziesca conservando al contempo la loro immagine in quanto democrazia?

In particolare il problema che gli USA dovevano affrontare nel rafforzare la loro polizia perché si dedicasse alla sicurezza nazionale era il muro rappresentato dal Posse Comitatus Act [legge che pone dei limiti all’uso della forza militare all’interno del territorio USA, ndtr.] del 1878. Come leggi e norme simili in altri Stati europei, il Posse Act separa rigidamente l’applicazione della legge all’interno (sicurezza interna) dall’impiego dell’esercito (sicurezza esterna). È più o meno così:

Ciò non significa che l’esercito non possa essere utilizzato all’interno [del Paese]. La Guardia Nazionale gioca occasionalmente questo ruolo. Ma perché venga chiamato ad intervenire l’esercito vero e proprio, come ha cercato di fare Trump a Washington, doveva essere invocato un poco chiaro Insurrection Act [Legge contro l’insurrezione] e il Pentagono si è rifiutato [di farlo].

Quindi, benché le imprese USA abbiano la possibilità di produrre armi da guerra, il “muro” ha posto loro dei limiti nello sviluppo di armamenti di tipo militare per la polizia. Ciò apre un ampio mercato per Israele, non solo per l’armamento bellico per le forze dell’ordine su misura per il cliente, ma anche per il mercato civile. L’Israeli Weapons Industry [Industria Israeliana degli Armamenti] (IWI) ha aperto un fabbrica a Middletown, Pennsylania, in cui produce, per esempio, un mitra Uzi delle dimensioni di una pistola per la polizia. Questa fabbrica produce un’ampia gamma di armi da guerra per le forze dell’ordine, compresi modelli di fucili automatici Galil e Tavor e un fucile tattico [cioè per le forze di polizia, ndtr.] chiamato Zion-15. Israele è anche il leader mondiale per i droni, che produce al 60% per il mercato estero. I droni sono diventati fondamentali per i dipartimenti di polizia negli USA, ma anche in questo caso il “muro” rappresenta un intralcio: i droni sono in genere utilizzati per la sorveglianza, ma quelli armati sono ancora vietati alla polizia USA.

Una seconda fonte della militarizzazione israeliana della polizia USA viene dalla stessa esperienza israeliana. Il sionismo, come il “destino manifesto” degli USA, è un movimento di colonialismo d’insediamento. Poiché ogni popolo colonizzato resiste alla propria espulsione ed eliminazione, la comunità dei colonizzatori vive in una condizione di continua insicurezza, di permanente emergenza, in cui ogni aspetto della vita è militarizzato.

Buona parte della violenza nella cultura americana deriva dalle campagne di genocidio contro i nativi americani (Andrew Jackson [noto per la sua spietatezza nei confronti dei nativi americani, ndtr.] è il presidente preferito da Trump), e molti film western ruotano attorno a sceriffi e capi della polizia, mostrando proprio come polizia e colonizzazione violenta siano strettamente legati. Tuttavia dagli anni ’80 del XIX secolo il regime colonialista americano aveva complessivamente pacificato i nativi americani. Ciò gli rese possibile trasformarsi in un regime più civile: la promulgazione del Posse Act del 1878 servì a “rendere civile” la polizia. Ciò in Israele non è mai avvenuto. I palestinesi continuano ad essere una potente fonte di resistenza alla colonizzazione e quindi Israele è l’unico Paese dell’Occidente a non separare le forze dell’ordine civili dall’esercito. Al contrario, criminalizzando la resistenza palestinese come “terrorismo”, Israele associa il mantenimento dell’ordine pubblico all’esercito. Quindi in Israele la polizia non è separata dall’esercito ma è legata a un insieme di unità paramilitari che svolgono le due funzioni, come illustrato qui:

Questo è il tipo di ristrutturazione delle forze di polizia degli USA che Israele promuove. La polizia israeliana, lungi dall’essere solo un ente civile incaricato di mantenere la legge e l’ordine, è un’organizzazione paramilitare che risponde al ministero della Sicurezza Interna, integrata nei più complessivi organismi militari e per la sicurezza in base al regime di “emergenza permanente”. Israele vede come “nemico” la maggioranza della popolazione del Paese, i cittadini palestinesi di Israele e i non cittadini dei Territori Occupati, oltre ad altri segmenti della società israeliana, dai richiedenti asilo africani ai progressisti e alle persone di sinistra “filo-arabe”. La principale linea di condotta della polizia israeliana non è quindi principalmente di carattere civile – proteggere la società come un tutto unico – ma riguarda contro-insurrezione e controterrorismo.

A questo riguardo la polizia israeliana è all’avanguardia. Il suo sito ufficiate definisce il suo ruolo come “prevenzione di atti di terrorismo, smantellamento di ordigni esplosivi e impiego contro azioni terroristiche”, solo questi si allontanano da questioni tradizionalmente relative alla polizia come il mantenimento della legge e dell’ordine, la lotta contro il crimine e il controllo del traffico. Il controterrorismo è la “mentalità”, con una notevole sovrapposizione tra “mantenimento dell’ordine ad alta intensità” e “guerra a bassa intensità” che sono uno “spazio di intervento” securocratico. L’ex-direttore dello Shin Bet e all’epoca ministro della Sicurezza interna, Avi Dicher, parlando davanti a 10.000 agenti di polizia che partecipavano all’ [incontro dell’] Associazione Internazionale dei Capi della Polizia a Boston, ha utilizzato il termine “crimiterrorismo” per sottolineare “l’intimo rapporto tra la lotta contro la criminalità e contro il terrorismo”. “Crimine e terrorismo sono due facce della stessa medaglia,” ha affermato.

La mitica reputazione di Israele come principale potenza antiterrorista al mondo gli conferisce un grande potere al Congresso, al Pentagono, nei circoli della sicurezza nazionale e nella polizia. La polizia paramilitare israeliana rientra bene nelle tendenze paramilitari già presenti nei dipartimenti di polizia americani. Già a metà degli anni ’60 Filadelfia e Los Angeles organizzarono squadre SWAT – SWAT significava originariamente “Special Weapons Attack Team” [Squadra di Attacco con Armi Speciali], non proprio un concetto civile. Ciò diede inizio a quella che Radley Balko chiama “la nascita del poliziotto guerriero”. Oggi l’80% delle forze di polizia hanno squadre SWAT.

Diamo una breve occhiata a come le forze di polizia americane applicano i principi del manuale di antiterrorismo di Israele al controterrorismo nelle città americane. Accogliendo il concetto israeliano secondo cui l’intelligence è la chiave per la prevenzione e l’interdizione, all’inizio degli anni 2000 il NYPD [New York City Police Department, il più grande dipartimento di polizia urbano degli Stati Uniti, ndtr.] ha formato l’”Unità Demografica” che invia agenti in borghese, noti come “rastrelli”, per mappare il “terreno umano” dei quartieri delle minoranze prese di mira – “modellati”, secondo una fonte del NYPD, “su come le autorità israeliane operano in Cisgiordania.” Gli informatori, noti come “pulci delle moschee”, hanno monitorato sermoni e attività delle moschee. Un’“unità di interdizione del terrorismo” ha fatto indagini sui loro dirigenti, e un’altra squadra, l’Unità per i Servizi Speciali, conduce un lavoro sotto copertura – in qualche caso illegale – fuori da New York.

Nel 2012 il NYPD ha persino aperto un ufficio in Israele, situato nel quartier generale della polizia del distretto di Sharon a Kfar Saba, per “cooperare quotidianamente con la polizia israeliana”. “Se un attentatore suicida si fa esplodere a Gerusalemme, il NYPD accorre sul posto,” ha affermato Michael Dzikansky, un poliziotto del NYPD che presta servizio in Israele. “Sono stato lì per fare la domanda di New York: ‘Perché qui? C’era qualcosa di unico in quello che ha fatto l’attentatore suicida? C’era stato un qualche preavviso? Una falla nella sicurezza?’ In seguito Dzilansky è stato co-autore di un libro, Terrorist Suicide Bombings: Attack Interdiction, Mitigation, and Response [Attentati terroristici suicidi: blocco dell’attacco, riduzione del danno e risposta], un altro esempio di come le prassi securitarie israeliane entrino nelle forze dell’ordine negli Stati Uniti.

Cathy Lanier, capo della polizia di Washington, che una volta ha affermato che “nessun’altra esperienza della mia vita ha avuto tanto impatto sul modo di fare il mio lavoro quanto andare in Israele,” ha autorizzato posti di controllo nel quartiere difficile di Trinidad, nel nordest della capitale, per monitorare e controllare la violenza di strada e l’illegale traffico di droga.

Ovviamente “guerra” è stato a lungo un concetto politico americano, soprattutto per quanto riguarda le relazioni razziali. L’ordine pubblico americano diventò apertamente militarizzato quando Reagan dichiarò la “guerra alla droga”, che, a sua volta, venne accentuata ulteriormente fino a una vera e propria guerra da Bush [padre]. All’inizio degli anni ’90 egli inaugurò un programma che consentiva che ulteriori equipaggiamenti, armi e veicoli tattici militari venissero trasferiti alle forze dell’ordine per essere utilizzati nella “repressione della droga”. L’amministrazione Clinton militarizzò ulteriormente l’attività della polizia con l’approvazione del Violent Crime Control and Law Enforcement Act [Legge per il Controllo della Criminalità Violenta e Ordine Pubblico] del 1994 (redatto da Joe Biden). Secondo Alexander ciò pose le basi giuridiche per il sistema di caste su base razziale degli Stati Uniti, in quanto ebbe come risultato l’incarcerazione di massa e la privazione dei diritti civili di milioni di persone di colore. Nel 1997 l’amministrazione Clinton istituì il programma 1033, che estese il trasferimento di equipaggiamento militare alla polizia. Oggi la polizia ad Oxford, Alabama, ha un cellulare blindato e a Lebanon, Tennessee, ha un carro armato.

Ora in seguito all’11 settembre si aggiunge a tutto ciò la vera e propria “guerra contro il terrorismo” e in pratica ogni americano è sottoposto a un controllo dell’ordine pubblico e a una privazione dei diritti di tipo militare, soprattutto attraverso il Patriot Act, un’aggressione alle libertà civili che sottopone gli USA a uno stato di emergenza permanente. Esso concede alle autorità il potere di un giusto processo abbreviato– e ciò più di ogni altra cosa se non altro descrive il comportamento della polizia americana oggi. (Il Patriot Act è stato confermato dal Congresso sotto ogni amministrazione). Il modo militarizzato in cui sono stati smantellati i campi di Occupy [movimento internazionale contro il potere finanziario iniziato negli Usa nel 2011, ndtr.]. ha evidenziato che i giovani bianchi di classe media scontenti del neoliberismo possono essere repressi altrettanto facilmente della comunità nera.

In conseguenza di tutto ciò la polizia, che a lungo ha mal sopportato il “muro” che frenava la sua propensione alla violenza e alla repressione – che, di fatto, è stata in primo luogo l’intenzione originaria per la creazione della polizia – ora ha una giustificazione giuridica e ideologica per intaccarlo. Quindi il massimo “contributo di Israele alla polizia USA è il concetto di Stato securitario, il suo stesso modello di democrazia militarizzata. Lo Stato securitario spacciato da Israele è in realtà un sofisticato Stato di polizia la cui popolazione è facilmente manipolabile da un’ossessione per la “sicurezza”. È uno Stato guidato da una logica di guerra permanente, in cui la richiesta di “sicurezza” ha la meglio su ogni difesa della democrazia. La seguente figura mostra la logica circolare dell’evoluzione dello Stato securitario. 

In generale, il lavoro della polizia, con nomi diversi, è garantire l’ordine pubblico dell’endemica insicurezza del capitalismo predatorio. Guerra contro la droga, guerra contro il crimine, guerra globale contro il terrorismo, “guerre securitarie”, “guerre contro il popolo”, “guerre per le risorse,” repressione delle rivolte, campagne per la legge e l’ordine e altri eufemismi. Ciò che unisce comunità di colore povere e discriminate su base razziale, lavoratori in generale, precari della classe media e giovani che cercano solo di entrare nel mondo del lavoro è che l’economia neoliberista non ha posto per loro oltre il lavoro a tempo determinato, e che tutti voi, se minacciate il sistema che vi sta distruggendo, dovrete affrontare la polizia – gli scagnozzi del capitalismo. Questo è il vero atteggiamento della tolleranza zero circolare trasferito alla polizia dallo Stato securitario. Ciò corrisponde perfettamente nel corso della storia al ruolo della polizia, da cui proviene la sua cultura violenta. Se gli USA possono essere spronati lungo il loro percorso per diventare uno Stato securitario (non difficile da vendere), allora Israele non solo si guadagnerà un enorme mercato per le tecnologie repressive, ma un sicuro alleato nella sua lotta contro la resistenza palestinese. Addestramento della polizia e hasbara [propaganda in ebraico] sono intimamente legati.

E quindi ecco l’addestramento della polizia americana da parte di Israele. All’inizio del 2002, poco dopo l’11 settembre, iniziò una sfilza di programmi di addestramento. L’American Jewish Institute for National Security Affairs [Istituto Ebraico Americano per le Questioni di Sicurezza Pubblica] (JINSA), un’organizzazione che sostiene che non c’è differenza tra gli interessi della sicurezza nazionale di USA e di Israele, inaugurò il suo Law Enforcement Exchange Program [Programma di Scambi sull’Ordine Pubblico] (LEEP). Esso collabora con la polizia nazionale israeliana, il ministero della Sicurezza Interna israeliano e l’agenzia della sicurezza israeliana (Shin Bet), ed è appoggiato dall’Associazione Internazionale dei Capi della Polizia, dall’Associazione degli Sceriffi delle Principali Contee, dall’Associazione dei Capi delle Principali Città e dal Forum di Ricerca Esecutiva della Polizia per portare in Israele capi della polizia, sceriffi, importanti quadri delle forze dell’ordine, direttori della sicurezza nazionale a livello statale, commissari di polizia statali e dirigenti delle forze dell’ordine federali per la “formazione”. Finora oltre 9.500 funzionari delle forze dell’ordine hanno partecipato a dodici conferenze. “Le competenze raccolte dall’osservazione e dall’ addestramento durante il viaggio dell’LEEP,” ha proclamato il colonnello Joseph R. (Rick) Fuentes, sovrintendente della polizia dello Stato del New Jersey, sul sito del JINSA “hanno suggerito importanti cambiamenti della struttura organizzativa della polizia statale del New Jersey ed hanno portato alla creazione della sezione per la sicurezza nazionale.”

L’ Anti-Defamation League [organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] (ADL) ospita due volte all’anno una Scuola Avanzata di Addestramento a Washington. La sua “scuola” ha addestrato più di 1.000 professionisti dell’ordine pubblico USA, che rappresentavano 245 organismi federali, statali e locali. L’ADL gestisce anche un seminario nazionale di contro-terrorismo (NCTS) in Israele, portando funzionari di pubblica sicurezza da tutti gli USA in Israele per una settimana di intenso addestramento sull’antiterrorismo, mettendoli in rapporto con la polizia nazionale israeliana, l’IDF [esercito israeliano, ndtr.], l’intelligence e i servizi di sicurezza di Israele.

E ricordate l’IWI, il produttore dell’israeliana Uzi? Gestisce un’accademia di polizia a Pauldon, Arizona, aperta al pubblico come alla polizia. E poi c’è il Georgia International Law Enforcement Exchange [Scambio Internazionale delle Forze dell’Ordine della Georgia] (GILEE), situato in un cubo nero nell’edificio dello Stato della Georgia ad Atlanta, un altro importante centro israeliano di addestramento della polizia.

Quindi la questione non è l’uso della “violenza” nell’addestramento della polizia israeliana e statunitense. Paradossalmente la violenza interpersonale così caratteristica della polizia americana in situazioni di conflitto è assente in Israele. Raramente la polizia israeliana ammanetta persone o tira fuori le armi, la prima reazione dei poliziotti americani. La “violenza” nel controllo dell’ordine pubblico in Israele è più controllata, come lo è in combattimento. È meno un tipo di violenza da macho, e penso che sia una lezione fondamentale che Israele cerca di impartire alla polizia americana: colpisci ancora più in fretta di come fai. Giacché Israele non deve rispettare tutte le futili formalità di leggere ai sospettati i loro diritti o di interagire con loro, come abbiamo visto nell’uccisione di Rayshard Brooks ad Atlanta la scorsa settimana. Dato che i diritti civili continuano a condizionare la sicurezza nazionale negli USA, ciò può essere ancora più possibile. Ma al contempo la polizia israeliana non passa così improvvisamente dall’arrestare a sparare. Preferisce reagire solo con il controllo della situazione.

Ma quando c’è la necessità di sparare, la polizia israeliana passa rapidamente alla modalità militare. Un funzionario di polizia americano racconta quello che ha appreso durante il suo periodo in Israele con un’unità speciale di polizia “Yaman”, simile a una squadra SWAT:

Quando si tratta di sparare la principale differenza tra l’addestramento israeliano e quello americano è la nostra filosofia sulla distanza ravvicinata o il combattimento urbano. La maggior differenza tra quello che fanno gli israeliani e quello a cui siamo addestrati a fare noi americani è che loro spesso consiglierebbero di andare quasi a capofitto verso una postazione del nemico sparando all’impazzata. Ciò in genere dura una manciata di secondi, quindi ricaricare rapidamente ha un’importanza notevole nel successo dell’azione. Nell’addestramento avremmo avanzato di 40 o 50 metri alla volta in un contesto urbano, sparando nel contempo all’impazzata. Negli USA l’attacco è più controllato. Ci hanno insegnato di sparare eventualmente raffiche in colpi di tre secondi e poi cercare un posto per metterci al riparo. Non è così che fa il sistema di sicurezza israeliano, e sebbene possa essere troppo audace in qualunque circostanza, nel giusto contesto non posso pensare a un modo più efficace per conquistare terreno.”

Tutto ciò rientra in quello che chiamo Palestina Globale. Non penso che Israele stia sviluppando tutto il suo armamento sofisticato, le tecnologie di repressione, le tattiche di controllo della popolazione e il suo contesto di Stato securitario solo per il controllo dei palestinesi. Loro sono le cavie, i Territori Occupati solo un laboratorio. Questa parte del complesso militare-industriale israeliano è orientata all’esportazione, e la vostra polizia la sta comprando. Steven Graham conclude: “É in corso l’integrazione tra i complessi securitari – industriali e quelli militari-industriali di Israele e Stati Uniti. Ancor più di questo: i complessi securitari-militari-industriali delle due Nazioni sono diventati indissolubilmente connessi, al punto che ora sarebbe ragionevole considerarli come un’unica entità diversificata e transnazionale.” Perciò mettete insieme i pezzi. Come la polizia USA si è “israelizzata”, voi, il popolo americano, vi siete “palestinizzati”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Mentre lo Stato ebraico si lancia in un baratro, la temibile lobby dell’AIPAC non fa assolutamente niente

PHILIP WEISS e JAMES NORTH

17 giugno 2020 – Mondoweiss

Di tutti i drammi che stanno avvenendo nel contesto del piano del governo israeliano di annettere grandi aree della Cisgiordania a partire da luglio, è passato in buona misura sotto silenzio un prodigio politico: l’American Israel Public Affairs Committee [Comitato Americano per le Questioni Pubbliche di Israele] (AIPAC), la temibile lobby israeliana a Washington, non ha avuto niente da dire e di conseguenza con il suo silenzio potrebbe avere preannunciato il suo stesso declino.

Ciò in quanto l’iniziativa israeliana è senza dubbio una grande minaccia per il futuro dello “Stato ebraico”, sicuramente la maggiore crisi che Israele abbia affrontato almeno negli ultimi 10 anni, e ciononostante l’organizzazione, il cui unico scopo è garantire il futuro di Israele, è stata assolutamente silenziosa. Il sito tweet dell’AIPAC è pieno di pubblicità del genere camera di commercio (“L’innovazione israeliana ci rende più sicuri e più sani”), e neppure una parola sull’annessione.

Ma se ci si mette in contatto con singoli importanti sionisti negli Stati Uniti, progressisti o conservatori, sono tutti contrari all’annessione. Persone come Jeremy Burton, Dennis Ross, Robert Satloff, Martin Indyk, Jeremy Ben-Ami, Jeffrey Goldberg, persino Daniel Pipes. Essi si rendono conto della minaccia rappresentata dall’annessione per il futuro dello Stato ebraico. La minaccia è molteplice e ovvia: l’annessione isolerà Israele nel mondo e farà sì che gli europei impongano sanzioni contro Israele; l’annessione minaccia il trattato di pace con la Giordania; l’annessione minerà così tanto il movimento palestinese da rendere possibile una terza Intifada, tanto che persino i sionisti laburisti prevedono una “rivolta” come risposta naturale di un popolo messo all’angolo; l’annessione frammenterà e inizierà a dissolvere il sostegno del partito Democratico a Israele; l’annessione renderà l’apartheid ufficiale e innegabile, persino agli occhi di molti ebrei americani che hanno resistito a rendersene conto per anni; l’annessione darà forza alla campagna per il boicottaggio.

L’unica obiezione a questa sfilza di argomenti è l’illusione messianica: dio (o i britannici) hanno promesso la terra agli ebrei, perciò, di cosa vi preoccupate? Se sei una persona seria che crede nella necessità di uno Stato ebraico, questo è davvero un periodo veramente pericoloso. Un governo israeliano con un limitato appoggio dell’opinione pubblica sta per lanciare una nuova era che potrebbe produrre anni e anni di isolamento e di violenza in Israele. Persino uno dei beniamini dell’AIPAC, che fa parte del movimento dei coloni, è contrario!

Ancora una volta la domanda è: dov’è l’AIPAC? È la maggiore organizzazione filoisraeliana, che in una notte può avere 76 firme del Senato su un tovagliolo e riunire ogni anno in un centro congressi di Washington 20.000 sostenitori di Israele. È talmente famoso che chiunque lo conosce anche solo dalle sue iniziali. E oggi tutta questa potenza di fuoco è silenziosa. Durante una vera e propria crisi per lo Stato ebraico, l’AIPAC non ha niente da dire.

Ci sono un paio di spiegazioni plausibili per questo silenzio. Primo, l’AIPAC, per sua stessa politica, non ha mai criticato il governo israeliano. Va bene, ma cosa succede se questo governo sta per spingere lo Stato ebraico in un baratro? L’AIPAC è talmente condizionato da un ragionamento tattico da non poter vedere una reale minaccia quando si presenta? Forse.

Ma in questo caso la lobby ha dimostrato di aver esaurito la sua utilità per Israele ed è una vittima della sua stessa irresponsabilità. Per decenni ha affermato che non avrebbe mai criticato Israele mentre colonizzava la terra di un altro popolo ed ora, quando Israele è sul punto di fare un enorme passo in quella direzione, non si può smentire.

O forse l’AIPAC pensa di non poter criticare un presidente USA, di non poter danneggiare il suo accesso alla carica più alta del Paese. Trump è assolutamente pronto all’annessione. Pensa che ciò possa fargli avere i milioni di Sheldon Adelson [miliardario americano che finanzia Trump, Israele e le colonie, ndtr.] e forse la Florida in novembre, e l’AIPAC non può essere minimamente critico con un presidente o potrebbe perdere la possibilità di avervi accesso.

Ma di nuovo: il portabandiera della lobby israeliana ha sacrificato la sua stessa missione a una tattica burocratica. Ha costruito una potenza mostruosa e malefica a Washington per appoggiare Israele ed ora, in un momento di crisi, non dice niente.

Il fallimento dell’AIPAC ha chiaramente rafforzato altre organizzazioni sioniste. J Street [associazione di sionisti progressisti contrari all’occupazione, ndtr.] sta conducendo la lotta contro l’annessione insieme ad “Americans for Peace Now [Americani per la pace adesso, organizzazione sionista statunitense a favore della soluzione dei due Stati, ndtr.]. La graduale conquista della lobby israeliana da parte di J Street che abbiamo visto più o meno nell’ultimo anno sembra ormai inevitabile, data l’abdicazione dell’AIPAC. Di fatto l’unico commentatore ad evidenziarlo è il nuovo presidente di APN, Hadar Suskind, che ha scritto su Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] che le principali organizzazioni della lobby israeliana hanno consentito a Israele di sacrificare il suo futuro “sull’altare dell’etno-nazionalismo”.

Con una disperata richiesta di aiuto, Suskind ha scritto che è a rischio nientemeno che lo Stato ebraico: “Quando questo futuro sarà minacciato, noi ci esprimeremo a voce alta, denunceremo apertamente e lotteremo per una prospettiva che rifletta l’opinione sia dei fondatori di Israele che della grande maggioranza degli ebrei americani. Chiediamo a tutti i nostri colleghi di unirsi a noi per proteggere un Israele ebraico e democratico opponendoci chiaramente e fortemente all’annessione. Non aspettate che sia troppo tardi.”

Qualunque cosa si pensi del progetto sionista – e noi siamo contrari – da una prospettiva politica, l’abdicazione dell’AIPAC è sia mistificatoria che patetica, e potrebbe portare a una caotica lotta generazionale all’interno della lobby israeliana in cui i giovani ebrei di IfNotNow [SeNonOra, organizzazione di ebrei statunitensi contraria alle politiche israeliane, ndtr.] e Open Hillel [Hillel Aperto, associazione universitaria ebraica con posizioni critiche, ndtr.] stanno improvvisamente contendendo la leadership all’American Jewish Committee [Comitato Ebraico Americano, storica organizzazione ebraica statunitense filosionista, ndtr.].

Come in un atto di spontanea autodistruzione politica, il silenzio dell’AIPAC è un prodigio, proprio come in primo luogo l’accumulazione di potere della lobby.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La crisi del NYT riguardo a Tom Cotton rievoca i suoi editoriali che giustificavano il massacro dei manifestanti a Gaza

Philip Weiss e James North

5 giugno 2020 – Mondoweiss

Nelle ultime 24 ore le reti sociali hanno dimostrato il proprio immenso potere nella generale condanna su Twitter della decisione del New York Times di pubblicare un editoriale del senatore dell’Arkansas Tom Cotton che chiedeva di schierare l’esercito USA per reprimere la rivolta diffusa in tutto il Paese. Migliaia di critiche hanno affermato che il Times ha violato la sua stessa politica di non pubblicare i sostenitori della violenza. Dopo parecchie ore il Times ha difeso la decisione in base alla libertà di parola, e il caporedattore ha persino affermato che gli editoriali sono “accurati approfondimenti in buona fede delle questioni del giorno,” ma poi il giornale ha cambiato idea ed ha affermato che probabilmente non avrebbe dovuto pubblicare l’articolo di Cotton. È stata un’incredibile retromarcia, inimmaginabile nei giorni in cui i lettori dovevano a scrivere lettere ai direttori dei giornali.

La débâcle dell’editoriale di Cotton, benché sia ovviamente una diretta conseguenza dell’uccisione da parte della polizia di George Floyd, sta anche riproponendo questioni riguardo a come il giornale informa su Israele. Ecco alcuni esempi. L’editorialista Bari Weiss ha difeso l’articolo di Cotton affermando su Twitter che un progressista della vecchia guardia del giornale era stato travolto da giovani “impegnati” dello staff spinti dalle emozioni (“il diritto delle persone a sentirsi sicuri dal punto di vista emozionale e psicologico prevale su quelli che in precedenza erano considerati fondamentali valori progressisti, come la libertà di parola”).

Weiss è stata derisa per questa affermazione in parte perché ha iniziato la sua carriera pubblica cercando di far tacere un dibattito sulla questione israeliana alla Columbia University, partecipando ad una campagna agghiacciante che chiedeva all’amministrazione di licenziare docenti filo-palestinesi. Come ha scritto Steven Salaita [accademico USA di origine araba, ndtr.]:

“A quelli di voi che sostengono Bari Weiss: non siate così dannatamente vaghi su questo argomento. Lei non stava cercando di far licenziare “i professori con cui non era d’accordo”. Stava tentando di far licenziare docenti ARABI E MUSULMANI perché è una fanatica filo-israeliana. Il nome del problema è: repressione sionista.”

Rula Jebreal [nota giornalista e scrittrice palestinese con cittadinanza israeliana e italiana che vive nelgi USA, ndtr.] ha scritto:

“Bari Weiss, che difende sistematicamente il razzismo e l’apartheid di Israele, ha condotto una campagna di odio per far tacere accademici arabi, ha denigrato i suoi colleghi neri, orripilati dall’idea di pubblicare un editoriale fascista durante la rivolta contro la violenza della polizia razzista, in quanto ‘per lo più giovani impegnati.’ Qualche alleato.”

L’editoriale di Cotton è anche un promemoria del fatto che sulle sue pagine di editoriali il New York Times ha pubblicato quattro difese del massacro da parte di Israele di manifestanti nonviolenti presso la barriera di Gaza nel 2018 e non ha mai fatto marcia indietro, benché sul nostro sito Donald Johnson abbia ripetutamente sollevato questa questione.

Riguardo a Gaza Bret Stephens ha scritto che i palestinesi sono responsabili delle uccisioni e delle mutilazioni a causa di una “cultura della…violenza.” Shmuel Rosner ha fatto un discorso trumpianamente fascista: “A volte non c’è nessuna scelta migliore che essere chiari, essere fermi, tracciare una linea che non può essere attraversata da quanti ti vogliono danneggiare.” Matti Friedman ha affermato che “Israele ha avuto le mani legate e che forse avrebbe dovuto fare di più. Una risposta più aggressiva avrebbe impedito ulteriori azioni di questo tipo e salvato vite a lungo termine?” Thomas Friedman ha accusato i dirigenti palestinesi per “le morti tragiche e inutili di circa 60 gazawi (il 20 marzo) incoraggiando il loro corteo.”

Quell’anno Israele ha ucciso più di 200 manifestanti, di cui 59 il giorno in cui Trump ha spostato l’ambasciata USA a Gerusalemme, e ne ha mutilati migliaia in quelli che organizzazioni per i diritti civili hanno definito crimini di guerra.

Ieri almeno un commentatore su Twitter ha chiesto perché Bari Weiss e Bret Stephens lavorino nel giornale, visti i loro provati precedenti di incompetenza. La principale risposta è che da lungo tempo il quotidiano ha un legame stretto con il sionismo e lo zelo a favore di Israele è il valore fondamentale sia di Weiss che di Stephens.

Altri giornalisti del Times non hanno fatto mistero delle proprie passioni filo-sioniste. L’ex responsabile delle pagine editoriali Max Frankel ha rivelato di aver scritto di persona tutti gli editoriali su Israele: “Ero molto più profondamente fedele a Israele di quanto osassi affermare,” ha scritto nelle sue memorie. Thomas Friedman lo scorso anno ha detto che ogniqualvolta ciò sia necessario difenderà Israele: (“Israele mi aveva già convinto di primo acchito… In tempi di crisi so dove sarò. Quando lo Stato ebraico fosse minacciato!). David Brooks ha affermato di avere “un occhio di favore” per Israele e che i palestinesi sono da considerare responsabili del fatto che non ci sia pace. Il giornalista d’inchiesta Ronen Bergman recentemente ha lodato l’organizzazione lobbistica di destra AIPAC [principale organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] per aver appoggiato Israele. E durante un attacco israeliano contro Gaza l’ex-caporedattrice dell’ufficio di Gerusalemme Jodi Rudoren ha affermato che i palestinesi sembrano “un po’ troppo insistentemente noiosi” riguardo alle morti di membri della loro famiglia rispetto agli israeliani che sono “traumatizzati” dalla violenza.

Tuttavia Bari Weiss e Bret Stephens risaltano persino in mezzo a questa lista di filo-sionisti. Il sostegno ad Israele è sempre stato al centro della loro carriera giornalistica e si stenta a trovare un qualunque altro argomento che li appassioni allo stesso livello.

L’argomento della libertà di parola potrebbe essere più convincente se il Times avesse mai pubblicato editoriali antisionisti. Lo ha fatto molto di rado. Dove sono Rashid Khalidi e Ian Lustick, che ultimamente hanno entrambi pubblicato libri in cui sostengono che il paradigma dei due Stati è finito?

Le caratteristiche filo-sioniste del New York Times non sono una cospirazione. Il giornale è tradizionalmente solito appoggiare Israele e ovviamente assume persone che condividono il suo punto di vista. Sfortunatamente, e tristemente, questa tendenziosità non analizzata ha obbligato il maggior quotidiano americano a sostenere la violenta risposta alle richieste dei diritti umani da parte dei palestinesi.

In questi giorni l’unica cosa corretta da fare è chiedere se il giornale abbia una tendenziosità simile contro gli afroamericani.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’omicidio di George Floyd evidenzia il problema dell’addestramento della polizia americana in Israele

Philip Weiss

4 giugno 2020 – Mondoweiss

L’uccisione di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis il 25 maggio ha spinto alcuni a paragonare i metodi della polizia americana a quelli della polizia di occupazione israeliana e a rilevare che molti agenti di polizia statunitensi hanno ricevuto una formazione da parte di ufficiali israeliani con la sponsorizzazione delle organizzazioni delle lobby israeliane.

Ad esempio, il Morning Star [giornale britannico di sinistra, ndtr.] ha pubblicato un articolo in cui si afferma che in un’occasione le forze di polizia di Minneapolis hanno ricevuto una formazione dagli israeliani. L’addestramento si è svolto otto anni fa e non ci sono prove che gli agenti che hanno ucciso Floyd abbiano partecipato alla formazione.

Almeno 100 agenti di polizia del Minnesota hanno partecipato a un convegno presso il consolato israeliano a Chicago nel 2012, la seconda volta in cui si è tenuto un simile evento.

In tale occasione hanno appreso le tecniche violente utilizzate dalle forze israeliane nel diffondere il terrore nei territori palestinesi occupati con il pretesto di operazioni di sicurezza.

Il cosiddetto convegno di formazione all’antiterrorismo a Minneapolis è stato ospitato congiuntamente dall’FBI.

La questione è stata a lungo all’esame dei gruppi solidali con i palestinesi. Lo scorso dicembre trenta organizzazioni per i diritti umani e la giustizia razziale della Georgia hanno manifestato la loro opposizione a un programma sponsorizzato da ferventi sostenitori di Israele, in base al quale le autorità statali preposte all’ordine devono inviare, a fini formativi, degli agenti in Israele. Durham, in Nord Carolina, ha vietato tali scambi due anni fa.[vedi l’articolo su zeitun.info  ndt]

Jewish Voice for Peace [gruppo di ebrei USA antisionista, ndtr.] ha condotto per diversi anni la campagna “Scambio Letale” che denuncia gli addestramenti. Come ha scritto il responsabile di Pittsburgh di JVP dopo aver appreso che il capo della polizia si è recato nel 2018 in Israele per l’addestramento:

Gli interscambi tra la polizia americana e l’esercito israeliano promuovono la brutalità dell’occupazione militare come modello positivo per le attività di polizia nella comunità. Sotto la bandiera della formazione sull’ “antiterrorismo”, Israele presenta le lezioni apprese da 50 anni di occupazione militare illegale su una popolazione palestinese privata dei diritti umani e civili …

Il tracciamento razziale, la repressione violenta della protesta, la sorveglianza di massa, la militarizzazione della sicurezza scolastica e il continuo allontanamento delle persone dalle loro case non sono lezioni che le forze dell’ordine statunitensi o i sindaci statunitensi dovrebbero applicare in patria.

Nel 2017 Intercept ha riferito che migliaia di agenti delle forze dell’ordine statunitensi hanno trascorso un periodo di formazione in Israele. Alice Speri ha scritto che varie organizzazioni filo-israeliane hanno sponsorizzato i programmi.

Migliaia di agenti delle forze dell’ordine statunitensi viaggiano spesso per l’addestramento in uno dei pochi Paesi in cui la polizia e il militarismo sono ancora più profondamente intrecciati di quanto non siano qui: Israele.

All’indomani dell’11 settembre, Israele ha sfruttato la sua esperienza pluridecennale in quanto forza occupante per affermarsi come leader mondiale nella lotta al terrorismo. Le forze dell’ordine statunitensi hanno acquisito le competenze dallo Stato ebraico attraverso la loro esperienza, con la partecipazione a programmi di scambio sponsorizzati da una serie di gruppi filo-israeliani, come l’ American Israel Public Affairs Committee [commissione per gli affari pubblici israeliano americani, ndtr.], il Jewish Institute for National Security Affairs [Istituto ebraico per gli affari di sicurezza nazionale, ndtr.] e la Anti-Defamation League [Lega anti-diffamazione, ndtr.]. Nel corso degli ultimi quindici anni decine di alti funzionari della polizia federale, statale e locale di decine di dipartimenti di tutti gli Stati Uniti si sono recati in Israele per apprendere le sue politiche incentrate sul terrorismo.

Gran parte delle critiche si concentra su un seminario annuale antiterrorismo in Israele che sembra essere una visita ufficiale della polizia, pagata dalla Anti-Defamation League, che ha addestrato centinaia di agenti delle forze dell’ordine statunitensi.

Lincoln Anthony Blades ha scritto sull’addestramento dell’ADL su Teen Vogue nel 2018, sulla scia dell’uccisione di Mike Brown a Ferguson nel 2014 e della repressione contro i manifestanti.

Tre anni prima delle proteste di Ferguson Tim Fitch – il comandante dello stesso dipartimento di polizia della contea di St. Louis responsabile del lancio di candelotti lacrimogeni contro attivisti e cittadini impauriti – era volato in Israele per frequentare un corso di formazione di una settimana sul terrorismo da parte della polizia, dei servizi segreti e dei militari israeliani.

Tale addestramento è stato organizzato dall’Anti-Defamation League (ADL), che conduce il suo seminario nazionale antiterrorismo in Israele dal 2004. Il seminario, che si concentra sulla repressione delle proteste, la contro-insurrezione e l’antiterrorismo, attira numerosi partecipanti, tra cui polizie locali, agenzie di controllo dell’immigrazione e persino guardie giurate dei campus.

Il ruolo della Anti-Diffamation League è di particolare interesse perché ha recentemente descritto l’uccisione di George Floyd come un “omicidio” e ha invitato gli americani a lottare contro un sistema “razzista”. “Ingiustizia e disuguaglianza richiedono un cambiamento sistemico”, scrive il suo direttore, Jonathan Greenblatt. “Adesso.”

Ma l’ADL ha detto ben poco sulle violazioni israeliane dei diritti umani, tra cui l’uccisione da parte della polizia, il 27 maggio a Gerusalemme, di un uomo disarmato fuori dalla sua scuola.

L’Università di Tufts è stata criticata per aver permesso al suo capo della polizia di partecipare all’addestramento in Israele nel 2017. Sempre nel 2017, un membro del consiglio comunale di Washington, DC, ha dichiarato di essere “turbato” dal fatto che la città avesse inviato un comandante di polizia in Israele per l’addestramento organizzato dall’ADL. David Grosso ha dichiarato che il dipartimento di polizia metropolitana incoraggia la “militarizzazione” della polizia piuttosto che una politica improntata ad una polizia di comunità. Ha riferito ad Intercept che l’agente avrebbe “imparato da persone che sono più inclini ad un approccio violento alla risoluzione dei conflitti”.

Nel 2018, sia la Polizia di Stato del Vermont che il dipartimento di polizia di Northampton, Massachusetts, si sono ritirati dall’addestramento antiterrorismo dell’ADL in Israele dopo che gli attivisti locali hanno reso pubblico l’interscambio. “Questo è il primo caso di ritiro dal programma nei suoi 20 anni di storia”, ha scritto Joseph Levine di JVP.

Il responsabile di JVP a Seattle ha ottenuto un opuscolo dell’ADL per il programma del 2015 che citava diversi comandanti di polizia e un funzionario federale dell’ICE [United States Immigration and Customs Enforcement, agenzia federale responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione, ndtr.] sul perché non vedessero l’ora di andare in Israele:

“Per scoprire come la Nazione più minacciata del mondo si mantenga sicura e protegga i propri cittadini … “(J.D. Patterson Jr., allora direttore del dipartimento di polizia di Miami Dade, in seguito andato in pensione)

Viste le minacce che stiamo attualmente affrontando, impariamo dai dirigenti che hanno affrontato problemi simili per un lungo periodo di tempo … ” (Vince Talucci, direttore dell’Associazione internazionale dei comandanti di polizia)

“Non vedo l’ora di vedere come il popolo israeliano affronti la continua minaccia del terrorismo “. (Eddie Johnson, allora vicedirettore del dipartimento di polizia di Chicago, ora ex sovrintendente)

“Sono interessato a saperne di più su come l’insieme delle forze dell’ordine gestiscano livelli di minaccia perenni ed elevati, sia dall’interno che da parte dei Paesi vicini, se e quanto siano efficaci e come tali tecniche possano essere applicate in modo più esteso.” (Peter Edge, ex funzionario delle indagini sulla sicurezza dell’ICE)

Ora che i critici stanno collegando le pratiche israeliane all’omicidio di George Floyd, le organizzazioni ebraiche respingono tale legame. Un funzionario israeliano afferma che sarebbe antisemita stabilire una connessione.

L’ADL sembra stare sulla difesa riguardo il suo programma. Il suo sito web ha solo informazioni vecchie di sei anni sui seminari in Israele, pur affermando di condurli “ogni anno”. L’ADL è riuscita a convincere Teen Vogue a pubblicare la propria risposta all’articolo di Blades del 2018, affermando che il programma addestrerebbe le forze dell’ordine statunitensi alla “lotta all’estremismo” e che il seminario sull’antiterrorismo promuoverebbe la “responsabilità” degli agenti di polizia.

Il nostro programma è progettato per costruire relazioni con i dirigenti delle forze dell’ordine americane e aiutare questi funzionari a prevenire e rispondere alle minacce e alla violenza estremiste e terroristiche negli Stati Uniti. Sfortunatamente, gli israeliani hanno una notevole esperienza su come scoraggiare e interrompere gli episodi di terrorismo e rafforzare la resilienza della comunità a seguito di atti terroristici.

Il vero scopo del programma è evidentemente quello di costruire solide relazioni tra professionisti della sicurezza americani e funzionari israeliani, in modo che gli Stati Uniti continuino a sostenere Israele.

Blades ha scritto su Teen Vogue che l’addestramento procede in entrambi i modi: nel 2016 Israele ha adottato la politica di “stop and frisk” [ferma e perquisisci] in evidente emulazione della screditata politica di New York [la politica dello Stop and Frisk è stata adottata dall’ex sindaco di New York Bloomberg, ndtr.].

La campagna di JVP sostiene che anche l’oppressione segue entrambe le modalità:

Una delle posizioni più pericolose su cui convergono i regimi di Trump e Netanyahu è rappresentata dai programmi di interscambio che coinvolgono polizia, ICE, pattuglie di frontiera e FBI statunitensi insieme a soldati, polizia, agenti di frontiera, ecc. israeliani. In questi programmi sono condivise le “peggiori pratiche” atte a promuovere ed estendere le prassi di polizia discriminatorie e repressive già presenti in entrambi i Paesi, tra cui esecuzioni extragiudiziarie, politiche che autorizzano a sparare per uccidere, omicidi di polizia, tracciamento razziale, massicce pratiche di spionaggio e sorveglianza, espulsioni e detenzioni, aggressioni contro difensori dei diritti umani.

Grazie a Abdeen Jabara e Adam Horowitz e ad una coppia di amici che rimarranno anonimi.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Un cameraman palestinese è stato licenziato dall’Associated Press in seguito a un diverbio con l’Autorità Nazionale Palestinese

YUMNA PATEL  

29 maggio 2020 Mondoweiss

Il licenziamento di un cameraman da tempo in servizio alla AP (Associated Press) sta suscitando scalpore in Palestina per via delle accuse secondo cui l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) vi avrebbe avuto una parte.

Eyad Hamad, un giornalista di Betlemme che lavora con Associated Press da 20 anni, è stato licenziato dal suo incarico questa settimana dopo che la polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese avrebbe presentato una denuncia all’Associated Press accusando Hamad di “istigazione, maltrattamenti e minacce di violenza”.

Sebbene l’Autorità Nazionale Palestinese abbia negato pubblicamente qualsiasi coinvolgimento, l’agenzia ha addotto il reclamo dell’Autorità Nazionale Palestinese come la goccia che ha portato al licenziamento di Hamad.

Nella lettera inviata ad Hamad dall’agenzia di stampa, che Mondoweiss ha potuto vedere, Josef Federman, capo dell’ufficio di Associated Press per Israele e i territori palestinesi, elenca una serie di “violazioni” della politica aziendale commesse da Hamad nell’ultimo anno.

La maggior parte delle violazioni elencate da Federman riguardano post “inappropriati” di Hamad che commentano i leader politici palestinesi sui social media, e il suo coinvolgimento nelle proteste contro Israele e contro le violazioni dell’Autorità Nazionale Palestinese nei riguardi dei giornalisti palestinesi, tra cui la sua partecipazione a una manifestazione per il giornalista palestinese Muath Amarneth accecato all’occhio destro da una pallottola israeliana.

“Come sa, la Associated Press richiede ai suoi dipendenti di mostrare una rigorosa neutralità nel loro lavoro professionale e nell’attività pubblica”, recita la lettera.

“Tuttavia, nonostante i numerosi avvertimenti degli anni passati, lei ha continuato a violare questo principio di base del nostro lavoro”, scrive Federman.

Un litigio personale finito male

La lettera di Associated Press sostiene che il licenziamento sarebbe dovuto a svariati casi, tra cui uno in cui Hamad avrebbe minacciato uno dei suoi colleghi, ma Hamad e suoi colleghi giornalisti affermano che il motivo del licenziamento sia stato un litigio personale tra Hamad e il portavoce della polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese Luay Irzeiqat .

Secondo numerosi giornalisti del posto, i problemi per Hamad sono iniziati quando ha escluso Irzeiqat da un gruppo Whatsapp di giornalisti di zona, presumibilmente a causa del fatto che Hamad non voleva funzionari governativi nel gruppo.

“Dopo essere stato escluso dal gruppo, Irzeiqat ha iniziato a minacciare Hamad, dicendo che avrebbe chiamato l’Associated Press per farlo licenziare” ha detto a Mondoweiss Thaer Fakhouri, 31 anni, giornalista freelance di Hebron e membro del gruppo Whatsapp in questione.

Nella stessa settimana, le autorità palestinesi hanno arrestato Anas Hawari, un giovane giornalista che ha lavorato con la rete di notizie Quds, affiliata ad Hamas.

La brutale detenzione di Hawari, che a quanto si dice è stato picchiato e ha dovuto essere ricoverato in ospedale a seguito del suo arresto, ha causato tumulti all’interno della comunità dei giornalisti in Cisgiordania, spesso oggetto di censura da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese e di campagne di arresti se ritenuti critici nei confronti del governo di Mahmoud Abbas.

Alcune fonti sostengono che a seguito dell’arresto di Hawari, Hamad avrebbe inviato una serie di messaggi vocali ai funzionari della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, tra cui Irzeiqat, condannando le loro azioni e minacciando di bruciare pneumatici di fronte al tribunale locale per protestare contro la detenzione di Hawari.

Hamad ha poi partecipato a una manifestazione contro l’arresto di Hawari davanti ad un edificio governativo dell’Autorità Nazionale Palestinese, mostrando un poster con su scritto: “Presidente Mahmoud Abbas, chiedo protezione dalle agenzie di sicurezza [palestinesi]”.

Nella lettera di licenziamento inviata da Associated Press, Federman fa cenno al fatto che la denuncia dell’Autorità Nazionale Palestinese contro Hamad includesse la presunta minaccia di bruciare pneumatici. Federman rimprovera Hamad anche per il suo ruolo nella protesta e le sue accuse contro l’Autorità Nazionale Palestinese di corruzione “insinuando che siano dei collaborazionisti”.

“Eyad [Hamad] non stava cercando di porre in discussione solo l’arresto di Anas [Hawari], ma anche la violenza usata dalla polizia palestinese”, ha detto Fakhouri a Mondoweiss, aggiungendo che Hamad ha parlato a lungo delle violazioni dei diritti dei giornalisti palestinesi, sia da parte delle amministrazioni israeliane che di quelle palestinesi.

“La stessa cosa vale per Muath”, ha continuato Fakhouri, riferendosi al caso di Muath Amarneh. “Eyad non voleva difenderlo solo come giornalista, ma come un essere umano ingiustamente accecato”.

“Non credo che difendere i diritti umani, anche come giornalista, dovrebbe essere considerato un crimine. Soprattutto non tale da farti perdere il lavoro”, ha detto Fakhouri.

Due pesi e due misure

La risposta locale al licenziamento di Hamad è stata di rabbia e shock: sia nei confronti di Associated Press per aver licenziato Hamad in quelle che molti considerano circostanze ingiuste, sia per l’evidente coinvolgimento dei funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Per quanto riguarda il licenziamento di Hamad, l’Associated Press ha dichiarato ai media che non avrebbe rilasciato dichiarazioni su “fatti personali”. Nel frattempo, l’Autorità Nazionale Palestinese ha continuato a negare di essere a conoscenza di una qualche denuncia presentata all’agenzia contro Hamad.

I giornalisti e gli attivisti locali si sono rivolti ai social media per chiedere che Hamad riavesse il suo posto, mentre il Sindacato Palestinese dei Giornalisti (PJS) ha condannato il “licenziamento arbitrario” di Hamad e ha invitato Associated Press a tornare indietro rispetto alla sua “decisione faziosa e ingiusta”.

“Come giornalista palestinese, sono preoccupato per le ripercussioni”, ha detto Fakhouri a Mondoweiss, affermando che molti dei suoi colleghi hanno espresso il timore che l’Autorità Nazionale Palestinese possa esercitare il proprio potere per indurre le agenzie di stampa locali e internazionali a licenziare chiunque la critichi apertamente.

“Sono stato arrestato sette volte dal governo palestinese a causa del mio lavoro con agenzie legate a fazioni politiche rivali”, ha detto Fakhouri.

Tutto ciò che vogliamo come giornalisti è di poter di mostrare al mondo ciò che sta accadendo qui sul campo senza paura di essere imprigionati dall’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania o da Hamas a Gaza.”

Un tema ricorrente nelle molte critiche alla decisione di Associated Press è stata la sensazione che se nella posizione di Hamad ci fosse stato un giornalista israeliano, la situazione sarebbe potuta andare diversamente.

Quando gli è stato chiesto se concordasse con quella sensazione, Fakhouri ha detto “Sì, credo che sarebbe stato diverso se non fosse stato un palestinese”.

“Molti giornalisti israeliani erano in precedenza soldati israeliani, che tutti i giorni sparavano e uccidevano i palestinesi”, ha detto Fakhouri, aggiungendo che “alcuni di loro servono ancora nelle riserve militari”.

“Come può essere che si faccia parte di un apparato militare che commette crimini di guerra ed essere un giornalista ‘imparziale’ come si vanta di essere l’Associated Press?” si chiede Fakhouri.

“Perché difendere i diritti umani e la libertà di stampa è motivo di licenziamento e le violazioni israeliane dei diritti umani no?”

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il processo di pace non ha mai inteso dare ai palestinesi uno Stato: rivelazioni dal Council on Foreign Relations

Philip Weiss

22 maggio 2020 – Mondoweiss

Steven Cook, del Council on Foreign Relations [Consiglio sulle Relazioni Internazionali: organizzazione indipendente statunitense fondata nel 1921 che promuove la comprensione delle relazioni internazionali e della politica estera, ndtr], ha pubblicato su Foreign Policy [prestigiosa rivista bimestrale statunitense dedicata alle relazioni Internazionali, ndtr] un articolo che afferma che gli Stati Uniti dovrebbero eliminare gradualmente gli aiuti a Israele e “porre fine rapporto privilegiato [con Israele]” perché il processo di pace ha raggiunto il suo vero obiettivo: Israele è riconosciuto come un Paese sicuro con un tenore di vita alla stregua del Regno Unito e della Francia e senza alcuna reale minaccia militare.

L’articolo è sconvolgente in quanto rivela l’essenza del processo di pace, dicendo esattamente ciò che Edward Said, Rashid Khalidi e Ali Abunimah [autorevoli scrittori e studiosi americani-palestinesi; l’ultimo è uno dei più autorevoli sostenitori della soluzione attraverso uno Stato unico, ndtr.] hanno sostenuto decenni or sono, cioè che fosse destinato a fallire, senza mai condurre ad un’ indipendenza palestinese.

Cook afferma che l'”interesse principale” degli Stati Uniti in Medio Oriente è sempre stato la “sicurezza” di Israele, quindi il processo di pace doveva girare in tondo all’infinito.

I politici statunitensi hanno a lungo creduto che una soluzione con due Stati fosse il modo migliore per garantire la sicurezza di Israele, e i presidenti degli Stati Uniti, da Bill Clinton a Barack Obama allo stesso Donald Trump, hanno ripetutamente perseguito tale obiettivo. Ma il fatto per lo più sconosciuto riguardo all’impasse dei due Stati – e forse il motivo per cui Washington non ha dimostrato la volontà politica di superarlo – è che essa ha consentito agli Stati Uniti di raggiungere uno dei [suoi] interessi fondamentali nella regione: contribuire a garantire la sicurezza di Israele …

La “tragedia” per i palestinesi, spiega Cook, è che si sono fidati degli Stati Uniti e “hanno interpretato erroneamente” gli interessi principali degli Stati Uniti; ma ora saranno costretti a vivere per sempre in Bantustan [denominazione dei territori circoscritti e separati in cui erano costrette a vivere le popolazioni di etnia nera nel Sud Africa al tempo dell’Apartheid, ndtr.].

La tragedia in tutto ciò è costituita dalla spoliazione permanente dei palestinesi, che senza dubbio saranno indignati per il fatto che Washington si stia lavando le mani del conflitto, affidandoli al destino di dover vivere per sempre sotto lo stivale dell’IDF [le forze armate israeliane, ndtr.] o ammassati all’interno di Bantustan. La loro rabbia è giustificabile. Hanno anche frainteso gli interessi fondamentali degli Stati Uniti in Medio Oriente, che in realtà non hanno a che fare con i palestinesi i quali, nonostante ogni prova contraria, si sono fidati degli Stati Uniti.

La prossima volta che qualcuno dirà che gli arabi dicono il falso o che gestiscono la politica estera come un suk, bisognerà ricordargli che persino un esperto del Council on Foreign Relations afferma che gli Stati Uniti hanno ingannato i palestinesi con 25 anni di false promesse.

L’ovvia domanda che si pone è sul perché distruggere i diritti umani palestinesi sia un interesse cruciale degli Stati Uniti – anzi, perché il sionismo sia un interesse cruciale degli Stati Uniti – e sì, in che misura questo rifletta il potere della lobby israeliana nella nostra politica. Per una generazione abbiamo avuto mediatori della Casa Bianca che sono stati definiti “gli avvocati di Israele” o che dicevano al pubblico della sinagoga “dobbiamo essere i sostenitori di Israele”, o che sono passati direttamente dai loro incarichi nella Casa Bianca di Obama a un lavoro a favore di Israele (sia Dan Shapiro [già ambasciatore degli Stati Uniti in Israele durante l’incarico di Obama, ndtr.] che Tamara Cofman Wittes [scrittrice ed esperta di questioni medio-orientali; vice assistente del segretario per gli Affari del Vicino Oriente presso il Dipartimento di Stato dal novembre 2009 al gennaio 2012, ndtr.]).

Nessuno di questi impostori ha mai avuto alcun reale interesse a concedere una qualunque forma di indipendenza ai palestinesi.

E quanto è stata funzionale a quell’interesse “fondamentale” anche l’instabilità dei Paesi vicini? Israele è messo bene, dice Cook, perché “Iraq e Siria sono in rovina”. E il Libano si sta sgretolando.

Dovremmo essere grati a Cook per aver affermato che l’obiettivo del processo di pace fosse il fallimento; e che il fallimento avrebbe salvaguardato unicamente gli interessi di Israele.

L’Israel Policy Forum ha espresso un’ analoga visione quando Netanyahu l’anno scorso ha iniziato a preannunziare l’annessione della Cisgiordania.

[L’annessione] aggraverà le divisioni tra i sostenitori di Israele negli Stati Uniti, alla fine eroderà la sicurezza di Israele, consegnerà una vittoria evitabile e netta al movimento BDS e manderà all’aria decenni di politica attentamente calibrata su Israele.

“Decenni di una politica attentamente calibrata su Israele” significa che i sionisti, progressisti o meno, sostengono a parole uno Stato palestinese ma alla fine non hanno nessun problema riguardo l’occupazione, perché lo status quo è favorevole a Israele – è una prospera democrazia per gli ebrei e l’apartheid per i palestinesi è una tragedia ma non vale la pena perderci il sonno.

E quando emerge un tentativo reale di far pagare a Israele un prezzo per le sue violazioni dei diritti umani, i sionisti progressisti saltano su ad etichettare il BDS come antisemita.

Un ringarziamento a Scott Roth.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




David Friedman a proposito di “quando i palestinesi diventeranno canadesi”

JONATHAN OFIR 

11 maggio 2020 – Mondoweiss

Due giorni fa sul quotidiano gratuito Israel Hayom [giornale israeliano di estrema destra, ndtr.], finanziato da Sheldon Adelson [miliardario statunitense finanziatore di Trump e delle colonie israeliane, ndtr.], organo della propaganda di Netanyahu noto in ebraico anche come “Bibiton” (“Bibi” per Benjamin, “iton” che significa carta in ebraico) è apparsa un’intervista con l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele David Friedman.

L’intervista è un potente strizzata d’occhio a Israele perché prosegua con l’annessione di un terzo della Cisgiordania, una importante prospettiva aperta dall’“accordo del secolo” di Trump e un progetto alla base del nuovo accordo Netanyahu-Gantz per il governo di unità. L’annessione dovrebbe iniziare il 1° luglio.

“Stiamo dialogando, e tutti concordano che a luglio la gente che sta dalla parte degli israeliani vuole essere pronta il 1° luglio a procedere”, afferma Friedman. “Non siamo noi che stiamo dichiarando la sovranità – il governo di Israele deve dichiararla. E allora saremo pronti a riconoscerla in base a quello. Come ha affermato il segretario di Stato, è in primo luogo una decisione di Israele. Quindi, dovete procedere voi per primi.”

Dobbiamo ricordare che chi parla così è un patrono delle colonie ebraiche. Friedman ha curato una delle maggiori raccolte di fondi per la colonia di Beit El, costruita interamente su proprietà privata palestinese rubata. Come Jared Kushner, che con il patrimonio familiare ha finanziato gli insediamenti dei coloni religiosi più fondamentalisti (come la yeshiva [scuola religiosa, ndtr.] Od Yosef Chai a Yitzhar), il fatto che Friedman qui finga “imparzialità” è assolutamente ridicolo.

Il suo “non siamo noi che stiamo dichiarando la sovranità” è un clamoroso falso, in quanto non spetta comunque agli Stati Uniti farlo, e quindi non è che quella frase esprima in realtà alcun tipo di ripensamento. In pratica sta dicendo “andate avanti e noi vi seguiremo”. La cosa si aggiunge poi ai recenti riconoscimenti statunitensi delle annessioni unilaterali israeliane, prima di Gerusalemme est (con lo spostamento dell’ambasciata) e poi delle alture siriane occupate del Jolan (Golan). È quasi come se Friedman stesse pregando Israele: “Fallo, siamo proprio qui per metterci il timbro d’approvazione”. E Friedman sa che non ha davvero bisogno di pregare molto.

Ma, come per gli accordi di Oslo (anche se Rabin aveva assicurato che sarebbe finita sicuramente con “meno di uno Stato [palestinese]”), qualcuno a destra si preoccupa che questo “accordo del secolo” possa in qualche modo tradursi in una qualche specie di Stato palestinese, fosse anche solo uno Stato-bantustan a tutti gli effetti e scopi pratici.

E qui arriva la potente strizzata d’occhio razzista di Friedman:

“Li capisco, ma [stiamo dicendo] che non dovete convivere con quello Stato palestinese, dovrete convivere con uno Stato palestinese quando i palestinesi diventeranno canadesi. E quando i palestinesi diventeranno canadesi, tutti i vostri problemi saranno scomparsi.

Questo a molti può sembrare un linguaggio mistico – invece è un linguaggio chiaramente codificato per coloro a cui Friedman si rivolge. In pratica sta dicendo “Non preoccupatevi, comunque non succederà mai”, perché i palestinesi non diventeranno mai canadesi.

E le sue espressioni fanno chiaramente eco a quelle di un ex consigliere capo del primo ministro israeliano Ariel Sharon, Dov Weissglas, che nel 2004 cercava di sopire la preoccupazione che l’imminente piano di “disimpegno” da Gaza del 2005 potesse in qualche modo dare come risultato uno Stato palestinese.

Weissglas diceva:

Ciò su cui sono totalmente d’accordo con gli americani è che una parte degli accordi non sarebbe stata per niente concordata [con i palestinesi, ndtr.], e che non ci saremo occupati neppure del resto fino a quando i palestinesi non diventeranno finlandesi. Questo è il senso di ciò che abbiamo fatto.” (sottolineatura mia).

Vale la pena di leggere una sezione più ampia dell’intervista di Weissglas ad Haaretz nel 2004, per scoprire la logica complessiva:

Il significato del piano di disimpegno è il congelamento del processo di pace. E congelando quel processo si impedisce la creazione di uno Stato palestinese e si impedisce una discussione sui rifugiati, i confini e Gerusalemme. In effetti, l’intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutto ciò che comporta, è stato rimosso a tempo indefinito dalla nostra agenda. E tutto questo con autorevolezza e con il nulla osta. Tutto con la benedizione del presidente e la ratifica di entrambe le aule del Congresso. […] Questo è esattamente ciò che è successo. Infine, il termine “processo di pace” è un insieme di concetti e impegni. Il processo di pace è l’istituzione di uno Stato palestinese con tutti i rischi per la sicurezza che questo comporta. Il processo di pace è l’evacuazione delle colonie, è il ritorno dei rifugiati, è la divisione di Gerusalemme. E tutto questo è stato ora congelato … Ciò su cui sono totalmente d’accordo con gli americani è che una parte degli accordi non sarebbe stata per niente concordata [con i palestinesi, ndtr.], e che non ci saremmo occupati neppure del resto fino a quando i palestinesi non diventeranno finlandesi. Questo è il senso di ciò che abbiamo fatto.

È una logica molto simile a quella di Friedman. Il piano ha lo scopo di congelare le cose. C’è apparentemente anche un congelamento parziale, per un periodo di 4 anni, della costruzione di colonie su metà dell’ “Area C”, poiché questa area è potenzialmente assegnata, secondo il piano Trump, ad una “espansione” delle aree palestinesi A e B. Secondo gli accordi interinali di Oslo, l’area C, che comprende oltre il 60% della Cisgiordania, avrebbe dovuto essere temporaneamente sotto il pieno controllo israeliano per un periodo di cinque anni, durante i quali si sarebbero dovuti iniziare i negoziati sullo status finale. In realtà, Oslo ha permesso a Israele di congelare l’area C e di farne una grande arena di pulizia etnica. L’area A (con i principali centri abitati) era prevista sotto il pieno controllo palestinese e l’area B con un controllo condiviso tramite il coordinamento dell’Autorità Nazionale Palestinese con l’esercito israeliano.

Friedman spiega la diversa logica dell’annessione dell’area C:

“Esistono tre categorie di territorio nell’area C: quella popolata da comunità ebraiche e la sovranità territoriale consente a queste comunità di crescere in maniera significativa. Questa è la maggioranza – diciamo un 97% della popolazione – e in quelle aree non ci sono restrizioni alla crescita. Ad esempio, Ariel diventerà uguale a Tel Aviv (non ci saranno restrizioni). E questa è la prima categoria. Una seconda categoria è rappresentata dalla metà dell’area C riservata ai palestinesi (da destinare a uno Stato palestinese durante i quattro anni concessi), e non vi è prevista alcuna costruzione, né israeliana né palestinese. Poi c’è una terza categoria, e sono le “enclavi” o “bolle”. Questo è un 3%, sono comunità ebraiche lontane. Quindi, ciò che accade a quelle comunità è che Israele dichiara la propria sovranità su di loro, ma non si espandono, possono ingrandirsi ma non possono espandersi. Per quanto riguarda la stragrande maggioranza delle colonie, le regole sarebbero quelle stesse che vigono allinterno della Linea Verde (linea del cessate il fuoco di Israele del 1949). ”

A Friedman viene chiesto “Quando inizia il conto alla rovescia dei quattro anni?” e lui risponde: “Il giorno in cui Israele inizia a far valere la propria sovranità e dichiara il blocco delle costruzioni nelle aree concordate dell’area C.”

Friedman afferma che non ci sono ulteriori termini o condizioni, ma l’intervistatore Ariel Kahana lo sfida: “Qualcun altro ha detto che c’è una nuova condizione dell’impegno israeliano ad accettare la creazione di uno Stato palestinese”.

Friedman dà una risposta di basso profilo, che placa gli espansionisti israeliani, i quali sanno cosa significhi veramente “processo di pace” – in pratica, niente, apparentemente in “buona fede”:

In proposito la condizione è che il primo ministro [israeliano] accetti di negoziare con i palestinesi e li inviti a un incontro, si impegni nelle discussioni, e le mantenga aperte e le persegua in buona fede per quattro anni.”

Kahana offre la prevista propaganda a favore di Netanyahu: “In realtà l’ha già fatto.”

E Friedman prende spunto da questo valzer apologetico israeliano:

E deve continuare così. In questo momento, i palestinesi non sono disposti a venire al tavolo, ma se tra due anni tornano e dicono: “Aspetta, abbiamo fatto un errore e siamo disposti a negoziare”, dovrà essere disposto a sedersi e discutere. Ma solo per un tempo limitato, vogliamo mantenere [valida] questa opzione per quattro anni. Questa è l’idea.”

Ecco, non si pensa che accada davvero. Il tutto è congegnato per porre condizioni che garantiscano che il negoziato non abbia mai luogo, ad esempio l’insistenza dal 2009 di Netanyahu sul fatto che i palestinesi non si limitino a riconoscere Israele (cosa che avevano già fatto con gli accordi del 1993), ma lo riconoscano come Stato ebraico. Questa definizione in sostanza richiede ai palestinesi di rendere onore all’essenza della propria espropriazione, sbattendoci la testa dopo aver già riconosciuto Israele più di quanto Gandhi avesse fatto col Pakistan. Solo allora Netanyahu dirà di essere disposto a parlare “senza precondizioni”.

Questa nella terminologia sionista è la “buona fede”. Allo stesso modo, Friedman sta presentando l’immediata annessione di metà dell’Area C come un fatto compiuto, e qualunque cosa ne verrà ai palestinesi, essi dovrebbero esserne persino felici.

Secondo i suoi criteri è anche generoso:

“Abbiamo gettato le basi di un fondo infrastrutturale che crescerebbe notevolmente se i palestinesi arrivassero al tavolo e vi si impegnassero. Abbiamo identificato i cambiamenti che dovrebbero verificarsi all’interno della società e del governo palestinesi affinché il tutto funzioni – non ignoriamo il fatto che i palestinesi continuano a pagare i terroristi e continuano a incitare alla violenza. E’ molto più in là di dove chiunque altro sia arrivato finora.”

Friedman rilancia il solito argomento dell’hasbara [la propaganda israeliana, ndtr.], secondo cui i palestinesi “pagano i terroristi”, poiché l’Autorità Nazionale Palestinese sostiene le famiglie dei palestinesi incarcerati o uccisi da Israele. Che ci possano essere atti che prendono di mira i civili e quindi rientrino probabilmente nella definizione di “terrorismo” è un fatto, ma la definizione di Israele è molto ampia e considera qualsiasi attacco ai soldati armati come “terrorismo”.

Analogamente, Israele imprigiona regolarmente i palestinesi senza alcun processo legale (“Detenzione Amministrativa”) per periodi di 6 mesi rinnovabili e infligge regolarmente punizioni collettive sotto forma di demolizioni di case, revoca di residenza e permessi di lavoro ai familiari ecc., e dunque l’assistenza economica palestinese deve essere vista anche come un rimedio temporaneo all’essere stati presi di mira. Ma la generalizzazione fatta da Friedman ha lo scopo di etichettare i palestinesi come terroristi e sostenitori del terrorismo.

Ed è improbabile che i terroristi diventino canadesi, no?

Friedman si emoziona per il “cuore biblico di Israele”, non importa che sia in Palestina. E parla della sua creatura, Beit El. Tutta quella terra rubata è come la “Statua della Libertà”:

“E poi Hebron, Shiloh, Beit El, Ariel, intendo dire che questi posti non si discutono (non sono da restituire ai palestinesi). Qualcuno metteva persino in discussione Gush [Etzion, prima colonia israeliana nei territori occupati, ndtr.] e Maaleh Adumim [una delle colonie più grandi, nei pressi di Gerusalemme, ndtr.], forsanche un’ amministrazione democratica può averlo ritenuto possibile, ma nessuno ha mai messo in discussione il cuore biblico di Israele. Era in parte perché non capivamo quanto fosse importante per Israele. È impensabile chiedere a Israele di rinunciarvi. È come chiedere agli Stati Uniti di rinunciare alla Statua della Libertà “.

E questo simbolismo è molto importante, è nel “DNA nazionale” del “popolo ebraico”:

“È una piccola cosa [la Statua della Libertà] ma non l’abbandoneremmo mai, è molto importante per noi. O il memoriale di Lincoln, a nessun costo! Perché è il nostro DNA nazionale. E (lo stesso vale per) il popolo ebraico “.

Mai, a nessun costo! Caspita, che fervore religioso! Ma se i palestinesi vogliono solo Gerusalemme Est come capitale? Oh, dai, siate ragionevoli! È soltanto del popolo ebraico! E se i palestinesi dicono che è “molto importante” per loro, se il diritto internazionale dice che Israele non dovrebbe annetterla? Peggio per loro. E se dicono che non si arrenderanno, ” a nessun costo”? Bene, allora sono solo terroristi fondamentalisti, che insensati!

Friedman sta dicendo a Israele: tieni duro, continua con le pantomime per 4 anni, abbiamo fatto questo per te. I palestinesi non si trasformeranno in canadesi in quattro anni. Faremo questo passo, consolideremo un’altra parte della conquista colonialista della Palestina e poi procederemo a prenderne di più. David Friedman non sta consigliando ai palestinesi di emigrare in Canada – sta dicendo loro di andare all’inferno.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




100 anni di vergogna: l’annessione della Palestina è iniziata a Sanremo

Ramzy Baroud

6 MAGGIO 2020 – Mondoweiss

Cento anni fa, i rappresentanti di poche grandi potenze si incontrarono a Sanremo, una tranquilla cittadina italiana sulla riviera ligure. Insieme, segnarono il destino dei vasti territori sottratti all’Impero ottomano in seguito alla sua sconfitta nella prima guerra mondiale.

Fu il 25 aprile 1920 che la Risoluzione della Conferenza di Sanremo venne approvata dal Consiglio Supremo degli Alleati dopo la prima guerra mondiale. Furono istituiti dei protettorati occidentali in Palestina, Siria e “Mesopotamia” – Iraq. Gli ultimi due furono teoricamente stabiliti in vista di una provvisoria autonomia, mentre la Palestina fu concessa al movimento sionista perché vi realizzasse una patria per gli ebrei.

Si legge nella risoluzione: “Il Protettorato sarà responsabile dell’attuazione della dichiarazione (Balfour), redatta originariamente l’8 novembre 1917 dal governo britannico e condivisa dalle altre potenze alleate, a favore dell’istituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebreo”.

La risoluzione assegnava un maggiore riconoscimento internazionale alla decisione unilaterale della Gran Bretagna, di tre anni prima, di concedere la Palestina alla federazione sionista allo scopo di stabilirvi una patria ebraica, in cambio del sostegno sionista alla Gran Bretagna durante la Grande Guerra.

E, come nella Dichiarazione Balfour britannica, fu fatta sbrigativa menzione degli sfortunati abitanti della Palestina, la cui storica patria veniva ingiustamente confiscata e consegnata ai coloni.

L’istituzione di quello Stato ebraico, sulla base della risoluzione di Sanremo, faceva riferimento ad un vago “accordo” secondo cui “nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle esistenti comunità non ebraiche in Palestina”.

L’aggiunta di cui sopra fu semplicemente un misero tentativo di apparire politicamente equilibrati, mentre in realtà non venne mai messo in atto alcuno strumento di applicazione per garantire che l’ “accordo” fosse mai rispettato o messo in pratica.

In effetti, si potrebbe sostenere che il lungo coinvolgimento dell’Occidente nella questione israelo-palestinese abbia seguito lo stesso schema della risoluzione di Sanremo: per cui al movimento sionista (e quindi a Israele) vengono salvaguardati i suoi obiettivi politici, soggetti a condizioni inapplicabili che non vengono mai rispettate o messe in pratica.

Si noti come la stragrande maggioranza delle risoluzioni delle Nazioni Unite relative ai diritti dei palestinesi sia stata storicamente approvata dall’Assemblea generale, non dal Consiglio di Sicurezza, dove gli Stati Uniti sono una delle cinque grandi potenze che esercitano il diritto di veto, sempre pronti ad affossare qualsiasi tentativo di far rispettare il diritto internazionale.

È questa dicotomia storica che ha portato all’attuale situazione di stallo politico.

Le leadership palestinesi, una dopo l’altra, fallirono nel cambiare l’opprimente paradigma. Decenni prima dell’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, numerose delegazioni, comprese quelle che rivendicavano la rappresentanza del popolo palestinese, percorsero l’Europa, facendo appello a un governo e all’altro, patrocinando la causa palestinese e chiedendo giustizia.

Cosa è cambiato da allora?

Il 20 febbraio, l’amministrazione Donald Trump ha pubblicato la propria versione della Dichiarazione Balfour, definita “Accordo del Secolo”.

L’iniziativa americana che, ancora una volta, ha infranto il diritto internazionale, apre la strada per ulteriori annessioni coloniali israeliane della Palestina occupata. Minaccia sfacciatamente i palestinesi che, nel caso non collaborino, saranno severamente puniti. In realtà lo sono già stati, nel momento in cui Washington ha tagliato tutti i finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese e alle istituzioni internazionali che forniscono aiuti primari ai palestinesi.

Come nella Conferenza di Sanremo, nella Dichiarazione Balfour e in numerosi altri documenti, a Israele è stato chiesto, sempre in modo educato ma senza alcuna formale imposizione di tali richieste, di concedere ai palestinesi alcuni gesti simbolici di libertà e indipendenza.

Alcuni potrebbero sostenere, e giustamente, che l’Accordo del Secolo e la risoluzione della conferenza di Sanremo non sono identici nel senso che la decisione di Trump è stata unilaterale, mentre Sanremo è stato il risultato del consenso politico tra vari paesi – Gran Bretagna, Francia, Italia e altri.

È vero, ma due punti importanti devono essere presi in considerazione: in primo luogo, anche la Dichiarazione Balfour è stata una decisione unilaterale. Gli alleati del Regno Unito impiegarono tre anni per accettare e condividere la decisione illegale presa da Londra di concedere la Palestina ai sionisti. La domanda ora è: quanto tempo impiegherà l’Europa a sostenere come proprio l’Accordo del Secolo?

In secondo luogo, lo spirito di tutte queste dichiarazioni, promesse, risoluzioni e accordi è lo stesso, per cui le superpotenze decidono in virtù del loro enorme potere di riorganizzare i diritti storici delle nazioni. In qualche modo, il colonialismo del passato non è mai veramente morto.

L’Autorità Nazionale Palestinese, come le precedenti leadership palestinesi, è trattata con la proverbiale carota e bastone. Lo scorso marzo, il genero del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, Jared Kushner, ha detto ai palestinesi che se non fossero tornati ai negoziati (inesistenti) con Israele, gli Stati Uniti avrebbero sostenuto l’annessione della Cisgiordania da parte di Israele.

Ormai da quasi tre decenni e, certamente, dalla firma degli accordi di Oslo nel settembre 1993, l’ANP ha scelto la carota. Ora che gli Stati Uniti hanno deciso di cambiare del tutto le regole del gioco, l’Autorità di Mahmoud Abbas sta affrontando la sua più grave minaccia esistenziale: inchinarsi a Kushner o insistere per il ritorno a un paradigma politico morto che è stato costruito, quindi abbandonato, da Washington.

La crisi all’interno della leadership palestinese viene affrontata con assoluta chiarezza da parte di Israele. La nuova coalizione di governo israeliana, composta dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e Benny Gantz, in precedenza rivali, ha raggiunto un accordo provvisorio sul fatto che l’annessione di vaste aree della Cisgiordania e della Valle del Giordano sia solo una questione di tempo. Stanno semplicemente aspettando il cenno di assenso americano.

È improbabile che debbano aspettare a lungo, poiché il segretario di Stato, Mike Pompeo, il 22 aprile ha affermato che l’annessione dei territori palestinesi è “una decisione israeliana”.

Francamente, ha poca importanza. La Dichiarazione Balfour del 21° secolo è già stata fatta; si tratta solo di trasformarla nella nuova realtà incontestata.

Forse è giunto il momento per la leadership palestinese di capire che strisciare ai piedi di coloro che hanno ereditato la Risoluzione di Sanremo, costruendo e sostenendo la colonizzazione israeliana, non è mai e non è mai stata una risposta.

Forse è il momento per un serio ripensamento.

Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è uno studioso non residente presso il Centro di studi globali e internazionali di Orfalea, UCSB.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I palestinesi sono una minaccia “demografica” per Israele, affermano autorevoli difensori

Philip Weiss

28 aprile 2020 – Mondoweiss

I sostenitori progressisti di Israele avvertono che gli ebrei stanno per essere sopraffatti dall’alto tasso di natalità dei palestinesi

L’argomentazione “demografica” a favore della soluzione dei due Stati rappresenta la manifestazione della paura che gli ebrei divengano una minoranza in Israele, e quindi il “popolo ebraico” perda il diritto di rivendicare la sovranità.

È un’argomentazione apertamente razzista, che contempla la possibilità che gli ebrei vengano sopraffatti dalle nascite, o dagli elettori, palestinesi, tale da poter essere avanzata con molta difficoltà nei principali luoghi di discussione statunitensi. Lo studioso Ian Lustick [scienziato e giornalista americano, studioso delle politiche mediorientali, sostenitore della soluzione dello Stato israeliano palestinese unico, ndtr.] ha recentemente confessato la sua vergogna riguardo la formulazione dell’argomentazione demografica per la soluzione dei due Stati. È stato un “patto col diavolo”, ha detto Lustick. “Mia madre non approverebbe.”

Bene – ecco due autorevoli organizzazioni sioniste americane che si considerano illuminate ma che hanno recentemente avanzato quella vergognosa teoria.

Per prima, la Israel Policy Forum [organizzazione ebraico-statunitense che dal 1993 opera a favore della soluzione dei due Stati, ndtr.] ha pubblicato a febbraio un rapporto sui possibili esiti del conflitto firmato da presunti progressisti americani – l’ambasciatore di Obama [in Israele, ndtr.] Dan Shapiro ha scritto la prefazione, Shira Efron ed Evan Gottesman hanno scritto il rapporto – il quale afferma che è “importante” valutare se i palestinesi stiano divenendo la maggioranza nel territorio tra il fiume[Giordano, ndtr.] e il mare [Mediterraneo, ndtr.], e nello stesso Israele, e fanno osservazioni sui tassi di “fertilità” ebraici e palestinesi come se fosse un modo accettabile di vedere le cose.

Questi progressisti avvertono che anche una minoranza consistente di palestinesi all’interno di Israele “metterà in pericolo” il Paese. Se e quando i palestinesi diverranno una maggioranza è una domanda importante, ma la capacità di Israele di conservare le proprie credenziali di Stato ebraico e democratico sarebbe messa a repentaglio anche se i palestinesi diventassero anche solo una minoranza consistente. La proposta di annettere in parte o del tutto la Cisgiordania potrebbe aggiungere 2,6 milioni di palestinesi alla popolazione israeliana. Se diventassero cittadini con uguali diritti avrebbero un immenso potere politico, costituendo quasi il 40% della popolazione e modificando il carattere ebraico di Israele.

Pensate se diceste che le persone di colore mettono a repentaglio il carattere degli Stati Uniti … Che persone sareste? Poi questo fine settimana l’American Jewish Committee [organizzazione internazionale per la promozione e difesa dei diritti religiosi e politici degli ebrei, ndtr.] ha ospitato David Horovitz del Times of Israel [quotidiano israeliano indipendente online, ndtr.] per un dibattito sulla rete in cui ha spiegato che lui e Benjamin Netanyahu sono a favore di uno Stato palestinese sempre che non abbia reali possibilità di minacciare Israele. E indovina un po’, la minaccia non è solo militare ma “demografica”.

Una solida soluzione con due Stati, una soluzione sicura dei due Stati, una soluzione dei due Stati che non minacci gli interessi demografici e di sicurezza di Israele – penso che questo dovrebbe essere un nostro obiettivo …

Penso che Netanyahu direbbe che il problema riguardo alla soluzione dei due Stati sia la rigidità della nozione di Stato, e direbbe: se uno Stato per i palestinesi fosse un’entità non in grado di minacciarci militarmente o demograficamente, mi trovereste pronto ad appoggiare i palestinesi per quel tipo di Stato. Ma preciserebbe che le definizioni condivise a livello internazionale sono tali che direbbe: ‘No, io non posso appoggiare per l’immediato futuro i palestinesi nella realizzazione di uno Stato su quelle basi’.

Horovitz potrebbe dire che la divisione debba essere fatta in modo tale che in Israele rimanga il maggior numero possibile di ebrei e il minor numero di palestinesi. Più probabilmente, si riferirebbe al ritorno in Palestina dei rifugiati, il cui numero dovrebbe essere limitato, in modo da non sopraffare numericamente gli ebrei israeliani.

La sua argomentazione riecheggia i leader ebrei di Israele che hanno cercato a lungo una maggioranza ebraica “forte” e per raggiungere questo obiettivo hanno fatto ricorso alla pulizia etnica. E a proposito, i palestinesi hanno già eguagliato o superato il numero degli ebrei se si includono i territori occupati – circa 6,5 milioni ciascuno.

È sorprendente che questi argomenti siano considerati kosher [corretti, ndtr.]. Ma i sostenitori di Israele li fanno regolarmente, nei circoli progressisti americani! Non dimenticherò mai il discorso di Ali Abunimah [giornalista palestinese-statunitense, acceso sostenitore della soluzione di uno Stato unico, ndtr.] che affermava che la più grande minaccia per il sionismo sono … i bambini palestinesi … Beh, i sionisti lo sostengono.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Cresce il numero dei minori palestinesi in prigione durante la pandemia da COVID-19

Yumna Patel

22 aprile 2020 – Mondoweiss

Da gennaio c’è stato un incremento del 6% del numero dei minorenni imprigionati

Secondo una recente inchiesta dell’associazione Defence for Children International – Palestine (DCIP) [Difesa internazionale dei bambini-Palestina, ente per la difesa e promozione dei diritti dei minori in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza], nonostante la pandemia globale da coronavirus, Israele ha incrementato gli arresti dei minori palestinesi nelle zone occupate.

Stando al documento pubblicato martedì, 194 minorenni palestinesi si trovano nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani, un aumento del 6% da gennaio.

Utilizzando i dati forniti dal Servizio Penitenziario Israeliano (IPS), DCIP ha rilevato che, in data 31 marzo, solo il 28% stava scontando una pena, mentre il rimanente 60%, cioè 117 su 194, erano in custodia cautelare preventiva. 

I dati indicano anche che la maggioranza aveva tra i 16 e i17 anni, mentre 30 avevano 14-15 anni. Sono stati documentati casi in cui forze armate israeliane hanno persino arrestato dei palestinesi di 12 anni. 

Inoltre, più del 70% dei minori è detenuto in carceri in Israele, in violazione dell’articolo 76 della quarta Convenzione di Ginevra che stabilisce che, in caso di detenzione da parte di una potenza occupante, il recluso ha il diritto di rimanere nella zona occupata durante tutte le fasi della detenzione. 

Data la pandemia, DCIP e parecchi altri gruppi di diritti umani avevano già chiesto l’immediata scarcerazione di tutti i minorenni palestinesi. 

Nel comunicato di martedì l’associazione ha reiterato le richieste insistendo che “il fatto che le forze israeliane continuino a mettere in prigione i minori palestinesi e a detenere la gran parte di quelli in custodia cautelare è immorale, dato che chi è privato della libertà corre un rischio maggiore di contrarre il COVID-19.”

Questi minorenni vivono a stretto contatto l’uno con l’altro, spesso in cattive condizioni sanitarie e con un accesso limitato ai prodotti per mantenere un minimo di igiene,” specifica il documento.  

L’impatto del COVID-19 è esacerbato da tali condizioni di vita che rendono i ragazzini ancora più vulnerabili.”

Secondo la DCIP, Israele arresta fra i 500 e i 700 minorenni palestinesi all’anno. 

Dal momento dell’arresto, che di solito avviene nel cuore della notte, fino al momento del processo in tribunale, i minorenni sono vittime di varie violazioni dei loro diritti, incluse violenze fisiche e verbali, anche negli interrogatori, durante i quali viene negata la presenza dei genitori o degli avvocati. 

DCIP stima che “circa 3 su 4 minori subiscano qualche forma di violenza”

I minorenni, come gli adulti, sono processati dai tribunali militari israeliani che si vantano di avere un tasso di condanne dei palestinesi del 99,7%. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)