Il punto di vista di un epidemiologo sul COVID-19 in Palestina

Rob Lipton

2 aprile 2020 Mondoweiss

In deroga al mio solito focus su Muzzlewatch sui tentativi di censurare il BDS e su altri punti di vista “pro-palestinesi” e anti-sionisti, indosso le vesti del mio lavoro quotidiano come epidemiologo socio- territoriale per parlare di alcuni aspetti della pandemia COVID-19, in via di diffusione in Paestina e Israele. Questo nell’ambito di un ciclo di interventi che seguirà gli effetti della pandemia in Israele e Palestina. Chiaramente, questo evento mondiale avrà ripercussioni di vasta portata e molto imprevedibili.

La prima cosa da capire è che ci troviamo nei primissimi giorni della pandemia. Al momento della stesura di questo articolo, ci sono 6.360 casi in Israele con 33 morti, mentre in Palestina 155 casi e 1 morto. Queste [cifre] cresceranno rapidamente su entrambi i lati della linea verde. Ovviamente la Cisgiordania, prosciugata delle sue risorse, e Gaza, prigione a cielo aperto, sono a gravissimo rischio, come in questa sede è stato a lungo ribadito – ma, come è ovvio, i confini non sono qualcosa che il COVID-19 riconosca.

Il problema più importante riguarda la capacità di assistenza sanitaria, e la Palestina semplicemente non ha le risorse per affrontare alcun genere di forte impennata nelle cure di emergenza, le cure intensive e le cure post ricovero. Al momento della stesura di questo articolo la maggior parte dei casi gravi e dei decessi riguardano la popolazione più anziana e, a questo proposito, la piramide delle età in Cisgiordania e Gaza potrebbe essere effettivamente favorevole. Rispetto all’età della popolazione israeliana possiamo rilevare che ci sono molti più giovani in Palestina. Al momento, le persone anziane sono più a rischio di malattie gravi e decessi rispetto alle più giovani (anche se sembra che, negli Stati Uniti, anche gli adulti relativamente più giovani, di età compresa tra 25 e 44 anni, siano a rischio di ricovero). D’altra parte, sebbene i giovani possano contrarre una malattia lieve o essere asintomatici, queste persone risultano comunque contagiose. Non sappiamo con precisione cosa questo implicherà col procedere della pandemia.

Il problema più consistente, tuttavia, riguarda i confini artificiali e il controllo micro-territoriale dei movimenti dei palestinesi. L’impossibilità per i palestinesi, già abbastanza grave in tempi “normali”, di suddividere le risorse sanitarie in base alle necessità, di organizzare correttamente la popolazione in base alle esigenze di distanziamento sociale e di una razionale quarantena e di tracciare e testare correttamente le persone, prevedibilmente comporterà molti più casi di malattie gravi e di morti, al di là di ciò che potrebbe accadere in uno scenario meno ad ostacoli. Se Israele imporrà un duro coprifuoco / quarantena alla Palestina, simile a quello del 2002 durante la seconda Intifada, diventerà estremamente difficile rispondere alla pandemia in crescita, fino al punto di vietare la libertà di movimento di ambulanze e operatori di Pronto Soccorso.

Una popolazione segregata, che sia per la porosità dei confini della Cisgiordania che per il contesto carcerario di Gaza, fa sì che il coronavirus sarà molto più grave per i palestinesi e lo stesso per gli israeliani, perché ci sarà un enorme serbatoio di infezione facilmente travasabile tra popolazioni contigue. La struttura a patchwork della Cisgiordania implica che sarà davvero difficile mantenere un effettivo isolamento in quanto palestinesi e israeliani vivono essenzialmente fianco a fianco. Questa situazione sarà aggravata dalla mancanza, in Palestina, di risorse sanitarie disponibili. Le malattie gravi dei palestinesi sono spesso curate in Israele e possiamo facilmente immaginare una situazione di quarantena “stretta” che impedisca tale assistenza sanitaria. Inoltre, se il sistema sanitario israeliano risultasse sovraccarico, ci sarebbero ancora minori possibilità per tutte le persone in Israele e in Palestina.

Rob Lipton è membro di lunga data di Jewish Voice for Peace, ha scritto per il Muzzlewatch di JVP, è stato membro dell’ISM [Movimento Internazionale di Solidarietà, ONG impegnata nel sostegno della causa palestinese, ndtr.] ed è stato il direttore di FAIR [organizzazione che monitora le notizie dei media degli Stati Uniti per “inesattezza, pregiudizi, e la censura”, ndtr.] di Los Angeles durante la prima guerra del Golfo. È poeta laureato a Richmond, California e epidemiologo territoriale.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)

 

 




‘Una grandissima e tempestiva vittoria per il BDS: Microsoft disinveste da AnyVision, l’azienda israeliana di riconoscimento facciale

Michael Arria 

30 marzo 2020  Mondoweiss

Microsoft ha annunciato che sta disinvestendo la propria quota in AnyVision, la società israeliana di riconoscimento facciale. La decisione fa seguito a un controllo imposto da una campagna del BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, ndtr.] che l‘aveva presa di mira. Gli attivisti dicono che la tecnologia di riconoscimento facciale di AnyVisionè usata per sorvegliare i palestinesi in Cisgiordania.

Dopo che il giugno scorso Microsoft aveva investito nell’azienda, NBC News [canale televisivo USA di notizie, ndtr.] aveva riferito che AnyVision “gestiva un progetto segreto di sorveglianza militare” in Palestina. “Il riconoscimento facciale è probabilmente il mezzo migliore per un completo controllo governativo degli spazi pubblici e quindi dobbiamo trattarlo con estrema cautela” aveva detto all’epoca Shankar Narayan di ACLU [American Civil Liberties Union, Ong per la difesa dei diritti civili e delle libertà individuali negli Stati Uniti, ndtr.]. Quando NBC ha contattato Eylon Etshtein, l’AD di AnyVision, per il servizio, ha negato di essere a conoscenza del progetto, sottolineando che la Cisgiordania non è occupata e insinuando che il reportage fosse finanziato da un gruppo di attivisti palestinesi.

Durante l’estate del 2019, Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, associazione ebraica USA contraria antisionista, ndtr.] ha lanciato la campagna #DropAnyVision, chiedendo a Microsoft di abbandonare l’azienda. Quest’anno si sono uniti i gruppi MPower Change [organizzazione in rete di musulmani statunitensi, ndtr.] e SumofUs [Ong USA che promuove campagne di sensibilizzazione e responsabilizzazione su vari temi, ndtr.] per lanciare una petizione. Oltre 75.000 persone l’hanno firmata ed è stata consegnata nella sede dell’azienda da militanti e dipendenti della Microsoft.

A novembre 2019, Microsoft aveva assunto Eric Holder, l’ex Procuratore Generale degli Stati Uniti (e il suo team dello studio legale internazionale Covington & Burling) per condurre un’indagine indipendente sulla AnyVision per determinare se le pratiche della ditta fossero in linea con i principi etici di Microsoft. Si era concluso che la tecnologia era usata nei posti di blocco dei varchi di frontiera, ma che la compagnia “al momento non gestiva quel programma di sorveglianza di massa in Cisgiordania di cui si parlava nei reportage dei media.”

Ciononostante, Microsoft ha deciso di separarsi da AnyVision. “Dopo un’attenta analisi, Microsoft e AnyVision hanno deciso che è nell’interesse di entrambe che Microsoft disinvesta la propria quota in AnyVision”, ha affermato in un comunicato. “L’audit ha confermato la difficoltà per Microsoft di essere un investitore di minoranza in una ditta che vende tecnologia sensibile, dato che tali investimenti generalmente non permettono il livello di supervisione o controllo che Microsoft esercita sull’uso delle proprie tecnologie.”

La decisione di Microsoft di lasciare AnyVision è un bruttissimo colpo per questa startup israeliana profondamente implicata [nella repressione israeliana] e un successo per la grandiosa campagna del BDS guidata da Jewish Voice for Peace” ha detto in un comunicato Omar Barghouti, il co-fondatore di BDS. “Grazie alla complicità di molte corporazioni come AnyVision e nonostante la minaccia del coronavirus, i crimini di guerra di Israele contro i palestinesi continuano e quindi non possono che continuare anche la nostra resistenza e la nostra lotta per libertà, giustizia e uguaglianza.”

La decisione di Microsoft di accogliere la richiesta della campagna e abbandonare AnyVision, l’azienda israeliana di sorveglianza, è una grandissima e tempestiva vittoria per il BDS” ha twittato l’account ufficiale del Comitato Nazionale del BDS palestinese (BNC).

La decisione di Microsoft di disinvestire da AnyVision è una vittoria importante dei militanti per la giustizia tecnologica e per la comunità internazionale solidale con i palestinesi.”, ha detto Lau Barrios, manager della campagna MPower Change. Questa decisione di Microsoft, leader globale del settore del software, rafforza la nostra convinzione che non ci si possa fidare di governo, polizia e forze armate e del loro uso della sorveglianza tecnologica come quella del riconoscimento facciale che è sempre di più utilizzata negli USA e in tutto il mondo per monitorare, sorvegliare e criminalizzare ulteriormente neri, immigrati, palestinesi e comunità musulmane.”

Michael Arria

Michael Arria è il corrispondente di Mondoweiss dagli Stati Uniti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Netanyahu per sempre! Gantz abbandona la sua opposizione

Philip Weiss  

26 marzo 2020 – Mondoweiss

Questa mattina c’è una notizia straordinaria da Israele. Lo stallo politico del Paese durato un anno sembra essere stato superato. Il leader dell’opposizione politica a Netanyahu dell’ultimo anno, Benny Gantz, si è piegato ed ha unito le forze con Netanyahu per fare un governo che lo avrà ancora come primo ministro.

Secondo le notizie, Gantz sta rompendo la sua alleanza “Blu e Bianco” di tre fazioni di centro-destra e aggiungendo 15 seggi al blocco di 58 o 59 seggi di Netanyahu per creare una maggioranza forte.

“Benjamin Netanyahu sarà primo ministro…Benny Gantz sarà ministro degli Esteri,” afferma Ellie Hochenberg di i24 News [rete televisiva privata israeliana filogovernativa, ndtr.]. Sostiene che Netanyahu, a differenza di Gantz, è rimasto leale alla sua base e ai suoi alleati politici di destra.

Netanyahu è già il primo ministro di Israele più a lungo in carica, con quattro mandati e 14 anni, di cui 11 di fila dal 2009. È stato salvato dal suo ex- capo di stato maggiore dell’esercito – il generale Gantz ha colpito Gaza nel 2014 [operazione “Margine protettivo”, ndtr.] uccidendo più di 500 minorenni.

Netanyahu sembra essere stato salvato da due fattori: la crisi del coronavirus si sta aggravando in Israele e rendendo gli israeliani poco disposti a sostituirlo, nonostante il fatto che sia accusato di corruzione e debba essere processato, e il palese razzismo.

Solo una settimana fa, più o meno, sembrava che Gantz stesse per cacciare Netanyahu. Ma poi il razzismo ha bloccato ogni speranza di farlo. [La coalizione] “Blu e Bianco” (33 seggi), insieme al partito di destra di Avigdor Lieberman (7 seggi), i resti della sinistra israeliana (7 seggi) e la Lista Unita palestinese (15 seggi), si era impegnata a formare una maggioranza e a mettere al tappeto Netanyahu. I palestinesi non avrebbero fatto parte del governo che ne sarebbe sorto, però è così che funziona uno Stato ebraico.

Poi sono iniziate le defezioni: tre parlamentari della destra ebraica si sono rifiutati di lavorare con i loro colleghi palestinesi persino temporaneamente. Gantz è passato da 62 a 59. Ancora una volta lui e Netanyahu erano praticamente in un vicolo cieco e ci sono stati colloqui per una quarta tornata elettorale, dopo le tre nell’ultimo anno (dall’aprile 2019 al 2 marzo 2020).

Il nuovo governo non è ufficiale: quello che è ufficiale è che Benny Gantz sta per diventare presidente della Knesset, sostituendo l’alleato di Netanyahu Yuli Edelstein e riaprendo il parlamento, che era stato chiuso. “La mossa dovrebbe essere temporanea finché verrà formato un governo di unità nazionale,” scrive Lahav Harkov sul Jerusalem Post [giornale israeliano in inglese, ndtr.].

L’iniziativa di Gantz tradisce molti dei suoi alleati. Il leader politico palestinese Ahmad Tibi ha detto che i parlamentari palestinesi voteranno contro Gantz.

Un altro dirigente palestinese, Ayman Odeh, ha scritto acidamente (traduzione di google dall’ebraico): “Non perdono mai un’occasione per perdere un’occasione,” una battuta sulla falsariga di quella di Abba Eban, secondo il quale gli arabi non perdono mai simili opportunità.

La sinistra ebraica è stata totalmente screditata da questi avvenimenti. Ha giocato una parte nel portare in auge ed elogiare Gantz. Uno di loro ha rifiutato di votare per Gantz se i palestinesi avessero fatto parte della coalizione.

Tibi ha scritto alla CNN che la Lista Unita è la vera opposizione al governo di destra israeliano. Ma Harkov afferma che ci sarà una lotta politica per il ruolo di opposizione tra la Lista Unita e i resti dell’alleanza “Blu e Bianco” – i circa 18 seggi dei partiti di destra di Moshe Ya’alon e di Yair Lapid. Raviv Drucker [noto giornalista investigativo israeliano ostile a Netanyahu, ndtr.] sostiene che il partito di destra di Moshe Ya’alon guiderà l’opposizione. Alcuni osservatori dicono che Gantz sarà giocato dal mago della politica, Netanyahu.

“Con 15 seggi Benny Gantz è completamente nelle mani di Netanyahu. Non sarebbe sorprendente se le promesse di Netanyahu iniziassero a svanire ora che ha ottenuto il suo principale obiettivo – è riuscito a smantellare ‘Blu e Bianco’,” ritiene Raviv Drucker. Chemi Shalev di Haaretz ha la stessa opinione (traduzione di google): “Se fossi Bibi, un minuto dopo che Gantz ha prestato giuramento (come presidente del parlamento), romperei l’accordo per l’unità. [Netanyahu] ha schiacciato l’opposizione senza pagare un centesimo.”

Shalev paragona Gantz a un vice-cancelliere tedesco di breve durata, Franz von Papen, che consentì ad Hitler di arrivare alla cancelleria nel 1933. Chi ha detto che le metafore sul nazismo sono illegittime riguardo a Israele? Ancora Shalev (traduttore google): “Inconcepibile…Come se il coronavirus non fosse abbastanza, Gantz è arrivato e l’ha fatta sulla testa di metà dei civili. C’è di che essere sollevati?”

Shalev dice anche che “gli unici voti sicuri contro Netanyahu saranno quelli di Lieberman e della Lista Unita.” Un altro segno che nell’epoca di Netanyahu la sinistra ebraica è ridotta a brandelli, mentre la Lista Unita è l’unica a cui la sinistra in Israele si può rivolgere. E nella crisi sta assurgendo al ruolo di guida.

Arabi ed ebrei lottano insieme contro il coronavirus, ma gli ebrei non vogliono i palestinesi in politica, scrive Odeh: “Garantisco che, che siate arabi o ebrei, che abbiate votato per noi o meno, che vi abbiano fatti uscire dall’URSS, ridotto lo stipendio o licenziato, avete un punto di riferimento nella Knesset. Siamo qui per voi.”

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss e fondatore del sito nel 2005-06.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Trattenendo il respiro a Betlemme mentre la primavera ci passa accanto

Yumna Patel  

24 marzo 2020 – Mondoweiss

È difficile resistere al richiamo della primavera palestinese, che mi attrae alla finestra con raggi di sole, una fresca brezza e gli uccelli che cinguettano.

La fine di marzo e l’inizio di aprile sono spesso visti come la stagione più bella in Palestina.

Sui mandorli fioriscono i pallidi fiori rosa e le foglie verde scuro dei fichi iniziano a svettare dopo un inverno particolarmente freddo.

È un periodo in cui la maggior parte dei palestinesi di Betlemme si radunerebbe con la famiglia e gli amici e si dirigerebbe sulla cima delle colline di Beit Jala, i ventosi sentieri della valle al- Makhrour e gli antichi terrazzamenti di Battir.

Ma quest’anno gli abitanti della piccola città di Betlemme rimpiangono il passaggio della primavera in quarantena, mentre il blocco totale della città entra nella sua quarta settimana.

Il piccolo assaggio della primavera che possono ritrovare dovrà essere assaporato da dentro le loro case, da un balcone o, se sono fortunati, in un giardino di famiglia.

Il numero di casi di coronavirus in Palestina ha raggiunto i 60 – 58 nella Cisgiordania occupata e 2 nella Striscia di Gaza.

La grande maggioranza dei casi, circa 40, rimane a Betlemme, l’epicentro dell’epidemia in Palestina.

La scorsa settimana abbiamo ricevuto qualche buona notizia molto attesa, quando il ministero della Salute ha annunciato che 17 dei primi pazienti di COVID-19 di Betlemme sono convalescenti.

In seguito ci è stato detto che uno dei 17 a quanto pare ha avuto una ricaduta ed è risultato positivo al virus dopo essere stato dimesso. Un piccolo incidente di percorso. La cosa importante è stata che pare che siamo riusciti con successo ad “appiattire la curva” [dei contagi].

È stato sorprendente vedere una società così profondamente caratterizzata da legami comunitari e da interazioni sociali, praticare così bene il concetto di distanziamento sociale.

A Betlemme per lo più la gente ha seguito gli ordini del governo di stare a casa, uscendo solo per ragioni indispensabili, come andare dal dottore o comprare alimenti.

Le attività economiche sono rimaste chiuse, la polizia ha incrementato i posti di blocco attorno alla città ed è stato imposto e, per quanto ne sappiamo, rispettato il coprifuoco dalle 7 del mattino alle 7 di sera.

Mentre le moschee e le chiese una volta affollate sono vuote, il richiamo musulmano alla preghiera risuona ancora in città – solo che ora con una piccola modifica. Invece di chiamare la gente a radunarsi nella moschea per pregare, ai fedeli viene detto di starsene a casa.

Ogni due o tre giorni lavoratori della difesa civile o delle amministrazioni locali vengono a disinfettare diversi quartieri in tutta la città e il ministero della Salute fornisce alla gente dati significativi sulla diffusione del virus.

A Betlemme si spera che le rigide misure di contenimento che sono state attuate quando tre settimane fa il primo test è risultato positivo faranno in modo che la città possa essere liberata del virus prima del resto del Paese.

Questa speranza tuttavia non annulla il vero timore che circonda il fatto che il virus si stia diffondendo in altri luoghi della Cisgiordania: finora Hebron, Ramallah, Nablus e Tulkarem.

Saranno in grado le autorità di questi altri governatorati, alcuni dei quali sono grandi il doppio o il triplo di Betlemme, di mettere in atto le stesse misure di contenimento che hanno preso quelle di Betlemme?

I cittadini palestinesi che stavano vivendo e studiando all’estero stanno lentamente ritornando nel Paese, suscitando timori che in questo modo il virus si possa diffondere.

Martedì il governo ha annunciato che una donna palestinese che recentemente era tornata dagli USA è risultata positiva al test per il virus ed è stata messa in quarantena a Ramallah.

Sette studenti palestinesi che stavano studiando in Italia in coordinamento tra l’Autorità Nazionale Palestinese e il governo israeliano sono stati portati in Israele e sarebbero immediatamente stati messi in quarantena e testati per il virus.

E mentre la percezione generale dell’ANP durante questo periodo è prevalentemente positiva, l’efficienza della sua organizzazione recentemente è stata messa in dubbio dopo un video scioccante diffuso sulle reti sociali che ha mostrato un lavoratore palestinese gettato dalle forze israeliane dall’altra parte di un posto di blocco in Cisgiordania, dopo che l’uomo ha iniziato a manifestare sintomi del virus.

L’ANP ha promesso ai lavoratori e alle loro famiglie che da parte dei loro datori di lavoro [israeliani] gli sarebbero state fornite sistemazioni adeguate per il mese o due in cui saranno obbligati a rimanere in Israele, nel caso scelgano di andarvi a lavorare la scorsa settimana.

Ha anche promesso alla cittadinanza in generale che il ritorno di tutti i lavoratori sarà fatto in stretto coordinamento con il governo israeliano e che chiunque sarà immediatamente messo in quarantena al suo ritorno.

Ma se Israele continua a scaricare al di là del confine i lavoratori ogni volta che sono malati, senza avvertire in precedenza i funzionari dell’ANP, come potrebbe il governo gestire la situazione?

Per molti palestinesi la decisione del governo di consentire ai lavoratori di andare in Israele, dove i casi sono oltre i 1.000, è stato un grave errore e nelle prossime settimane potrebbe dimostrarsi una spina nel fianco dell’ANP, sia riguardo gli sforzi di contenimento e nei termini della salvaguardia dell’ordine pubblico.

In fin dei conti i palestinesi sono tutti consapevoli del fatto che il loro sistema sanitario non può affrontare neppure la più piccola epidemia, soprattutto a Gaza, dove ci sono solo 62 ventilatori in tutto il territorio, che ospita più di 2 milioni di abitanti.

Mentre stiamo per entrare nella quarta settimana di quarantena, le persone stanno trattenendo il respiro per vedere se, in qualche modo, riescono a evitare il disastro che sta dilagando in tutto il resto del mondo.

Yumna Patel è la corrispondente di Mondoweiss dalla Palestina.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’UNRWA chiede all’amministrazione Trump di ripristinare i finanziamenti in quanto si trova in prima linea nella crisi COVID-19 in Palestina

Michael Arria

24 marzo 2020 Mondoweiss

L’amministrazione Trump taglia tutti i finanziamenti all’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro per i Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente). Oltre cinque milioni di persone nella regione dipendono dall’organizzazione per i servizi sociali, ma ora il suo lavoro è diventato veramente cruciale in seguito alla crisi da COVID-19.

A settembre 2018 Yumna Patel di Mondoweiss ha prodotto un video che evidenzia l’impatto potenzialmente devastante dei tagli.

La scorsa settimana la direttrice esecutiva dell’UNRWA Mara Kronenfeld ha sottoposto una deposizione al Sottocomitato per gli Stanziamenti Abitativi presso lo Stato, Operazioni Estere e Programmi Connessi, chiedendo al Congresso di annullare la decisione del 2018 dell’amministrazione Trump. “Abbiamo ora i 144 centri di salute dell’Agenzia in prima linea nella lotta contro una pandemia globale”, si legge nella deposizione di Kronenfield. “L’Agenzia ha già richiesto agli Stati donatori un’ulteriore cifra di 14 milioni di dollari per far fronte alla crisi. L’UNRWA sta cercando altri finanziamenti per garantire che nelle strutture UNRWA siano disponibili adeguate misure di prevenzione e risposta, soprattutto in quelle sanitarie ed educative.”

Kronenfeld ha citato anche il vice Commissario Generale dell’UNRWA Christian Saunders riguardo alla catastrofica situazione economica dell’organizzazione. L’UNRWA ha iniziato l’anno con 55 milioni di dollari di debito e non è riuscita a ottenere i finanziamenti necessari. “Se non riceviamo altre garanzie o se coloro che hanno assunto degli impegni non li onorano, alla fine del mese prossimo resteremo senza denaro”, ha detto Saunders. “A questo punto non vedo come le necessità dei rifugiati palestinesi possano essere soddisfatte quest’anno, se gli aiuti rimangono fermi ai livelli del 2019; i nostri programmi principali, portati avanti a Gaza, in Giordania, Libano, Siria e Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, si bloccheranno.”

Sabato scorso i funzionari della sanità palestinesi hanno comunicato che due persone a Gaza sono risultate positive al test del COVID-19. Questa notizia naturalmente ha aumentato l’ansia nella regione, dato che il blocco israeliano già vieta che molte risorse essenziali arrivino nella zona. Medhat Abbas, direttore generale della medicina di base a Gaza, ha detto a The Guardian che attualmente dispongono di 40 posti letto di terapia intensiva e ne avrebbero solo 100 perfino in condizioni di emergenza. “Possiamo occuparci dei casi attuali e in numero limitato, ma se la pandemia aumenta, come è accaduto in alcuni Paesi, avremo bisogno di interventi internazionali”, ha detto.

Per settimane abbiamo detto allo staff dell’UNRWA di Gaza che dobbiamo agire come se il COVID-19 fosse presente”, ha twittato il direttore dell’UNRWA di Gaza Matthias Schmale. “Dopo l’annuncio (di ieri) dei due casi esogeni, la linea ora è di comportarci come se ci fosse un pieno scoppio dell’epidemia ed un severo coprifuoco. Meglio essere preparati che piangere! Cercheremo di mantenere i servizi salvavita.”

Michael Arria è il corrispondente USA per Mondoweiss

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Messaggio da Betlemme: un barlume di speranza dopo due settimane di blocco

Yumna Patel –

20 marzo 2020 https://mondoweiss.net/

Questo è il primo di una serie bisettimanale di articoli che saranno inviati dalla nostra corrispondente palestinese Yumna Patel che vive a Betlemme, epicentro dell’epidemia di coronavirus in Palestina. Mentre la crisi continua ad acuirsi, Yumna ci dà un quadro della vita quotidiana in città, delle emozioni della gente, dei pensieri e delle paure delle persone.

Le ultime due settimane sono state una girandola di emozioni per il popolo di Betlemme. Sono passati 15 giorni da quando è stato dichiarato lo stato di emergenza e la città è stata messa sotto chiave, dopo la conferma di quattro casi di coronavirus.

Da allora, il numero di persone in strada è costantemente diminuito, il numero di casi confermati ha continuato a salire, sebbene più lentamente rispetto al rapido peggioramento dall’altra parte del muro.

Inutile dire che le persone hanno paura. Non esiste una sola conversazione in cui “corona virus” non sia menzionato nei primi cinque secondi.

Ma, nonostante il blocco e le maggiori restrizioni ai movimenti in tutta la città, c’era un’aria di ottimismo. Nella maggior parte, le persone erano contente del grado di successo con cui l’ANP sembrava affrontare la situazione.

Con chiunque parlassi, sosteneva con orgoglio che la Palestina era il “secondo miglior Paese” dopo la Cina nell’affrontare e rispondere rapidamente al coronavirus. Dopo numerose ricerche su Google, devo ancora trovare conferma di questo.

Che fosse corretta o no, l’opinione espressa da questa voce ha chiaramente avuto un effetto positivo sulle persone.

Dopotutto, nel corso di due settimane abbiamo ancora meno di 50 casi confermati, rispetto ai 500 di Israele.

La maggior parte dei negozi è rimasta chiusa, ad eccezione dei mercati di generi alimentari, e le persone sono rimaste nelle loro case. Pur appartenendo ad una cultura profondamente radicata nei legami di socializzazione e di comunità, le persone hanno messo in pratica il “distanziamento sociale” relativamente bene.

Nonostante nella maggior parte della città – che vive di turismo e del lavoro in Israele – non si lavori, le persone hanno eseguito gli ordini del governo con poche resistenze.

Ma appena è sembrato che potessimo uscire da questo pasticcio prima di quanto ipotizzato, mercoledì sera è invece parso che le cose peggiorassero.

Betlemme e le città vicine, Beit Sahour e Beit Jala, sono state messe in totale isolamento. Ad eccezione di giornalisti, funzionari della sanità e della sicurezza e speciali casi umanitari, a nessuno sarebbe stato permesso di lasciare la propria casa. Chiunque fosse stato sorpreso a violare il blocco sarebbe stato passibile di una multa.

Chiunque fosse stato trovato a violare un autoisolamento o un ordine di quarantena, sarebbe stato multato fino a 1.000 dinari giordani [1.312 €].

Le misure più rigide sono arrivate quando si è scoperto che le persone sospette di avere il virus avevano ignorato l’ordine di quarantena e negli ultimi giorni si erano mosse in giro per la città.

Dopo la notizia del blocco, la città è arrivata al massimo affollamento da settimane, tutti ci siamo precipitati nei negozi per fare scorta di cibo e provviste, non sapendo quando saremmo stati in grado di farlo di nuovo.

Nel campo profughi in cui vivo, i volontari dei centri locali distribuivano sacchi di prodotti e altri generi di prima necessità alle famiglie con situazioni finanziarie particolarmente difficili.

Nonostante il panico, le scene sono state molto più civili di quelle che vedevamo negli Stati Uniti. Gli scaffali erano ben forniti, anche di carta igienica, e nessuno sembrava fare incetta. Le persone stavano comprando ciò di cui avevano bisogno.

Quando i vicini si incontravano, reprimevano la tentazione di stringersi la mano e scambiarsi il tradizionale bacio sulla guancia, optando invece per un sorriso e una mano sul cuore.

Mentre le persone riempivano i loro carrelli di cose essenziali come farina, olio, sale e vari prodotti per l’igiene, c’era un senso di frustrazione tra gli acquirenti: a causa della trascuratezza di alcune persone, l’intera città soffriva più di quanto non avessimo già sofferto.

Nei supermercati si sentivano chiacchiere sull'”egoismo” delle persone che violavano la quarantena e voci su quanto tempo sarebbe durato il nuovo blocco.

Ora più che mai le persone sembravano davvero capire e preoccuparsene quanto le loro azioni potessero influenzare la vita di chi li circonda.

Tutti quelli che conosco, me compresa, siamo rimasti incollati ai notiziari a tutte le ore del giorno e della notte. Non è facile cancellare il turbamento e l’ansia che ne derivano.

Vedere i sistemi sanitari di alcuni dei Paesi più ricchi del mondo sull’orlo del collasso rende ancora più difficile liberarsi del pensiero di cosa accadrebbe se l’epidemia si acuisse in un luogo come la Palestina.

Di certo ospedali già poco attrezzati e scarsamente finanziati non sarebbero in grado di sostenere nemmeno una parte di ciò che stanno affrontando Paesi come l’Italia. Se questo sforzo iniziale di contenimento fallisse, potrebbe portare al disastro per il sistema sanitario, l’economia e il popolo palestinesi.

Ma proprio quando i sentimenti di paura e frustrazione sembravano sopraffarci, venerdì abbiamo ricevuto qualche buona notizia.

Diciassette fra i primi pazienti infettati dal COVID-19, che erano stati messi in quarantena presso l’Angel Hotel di Beit Jala e il Paradise Hotel di Betlemme, sono ufficialmente in fase di recupero, riducendo il numero dei casi confermati a 31.

Video di pazienti sorridenti che agitano le mani mentre lasciano l’hotel sono stati fatti circolare sui social media, facendoci sorridere e restituendo un senso di speranza in città.

Sarà una lunga strada da percorrere, ma potremmo farcela.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Adolescente palestinese ucciso durante un tentativo del suo villaggio di difendere una montagna dai coloni israeliani

Yumna Patel 

11 marzo 2020 – Mondoweiss

Per i palestinesi della zona nord della Cisgiordania occupata mettere a rischio la vita per difendere la propria terra fa semplicemente parte dell’esistenza.

Innumerevoli palestinesi hanno pagato il prezzo più alto per aver tentato di respingere i coloni e i soldati dalle loro città, cittadine e villaggi. Mercoledì un altro palestinese si è aggiunto a questa lista.

Mercoledì il quindicenne Mohammed Abdel Karim Hamayel, ore dopo essere stato colpito dalle forze israeliane insieme a decine di altri giovani della sua cittadina di Beita, a sud di Nablus, è deceduto in seguito alle ferite.

Hamayel è stato colpito quando decine di soldati israeliani armati hanno invaso Jabal al-Arma, o la montagna di Al-Arma, nei dintorni di Beita, ed hanno iniziato a scontrarsi violentemente contro una folla di palestinesi che stavano facendo un sit-in sulla montagna.

A quanto pare i militari avrebbero usato proiettili veri, pallottole ricoperte di gomma e lacrimogeni per reprimere i manifestanti, che per settimane hanno inscenato dei sit in su al-Arma nel tentativo collettivo di scacciare i coloni che hanno cercato di prendere il controllo della montagna.

Informazioni ufficiali del ministero della Salute indicano che durante l’attacco oltre 100 palestinesi sono rimasti feriti, tra cui due in modo grave da proiettili veri.

Altre decine, compreso il ministro dell’ANP Walid Assaf, che si occupa della resistenza popolare contro il muro e le colonie in Cisgiordania, sono stati asfissiati e curati per aver inalato gas lacrimogeno.

Settimane di scontri

L’uccisione di Hamayel e la violenta repressione dei manifestanti di mercoledì mattina sono state il culmine di settimane di proteste sulla montagna e di scontri tra persone del luogo, soldati e coloni israeliani.

Circa due settimane fa coloni del notoriamente violento insediamento di Itamar hanno pubblicato un appello sulle reti sociali per occupare la montagna, che pensano sia un antico luogo religioso ebraico, e prenderne il controllo.

Dopo essere venuti a conoscenza dei progetti dei coloni, decine di uomini e giovani di Beita sono andati sulla montagna ed hanno eretto tende di protesta per rimarcare la loro presenza come deterrente contro i coloni.

Benché il gruppo di coloni non abbia ricevuto il permesso dell’esercito israeliano di andare sulla montagna, un piccolo numero di giovani coloni ha deciso di comunque proseguire.

C’erano circa 10 coloni e un reparto di soldati che sono venuti a proteggerli e a scortarli su per la montagna,” ha detto a Mondoweiss Minwer Abu al-Abed, un attivista del posto di 56 anni.

Secondo al-Abed, i soldati hanno inutilmente cercato di scortare i coloni sulla montagna, sparando lungo il percorso proiettili veri, pallottole ricoperte di gomma e lacrimogeni.

I coloni hanno tentato una conquista violenta della nostra terra, ma ovviamente loro (i soldati) erano là solo per sparare ai palestinesi,” dice al-Abed.

Video degli scontri, diventati virali sulle reti sociali palestinesi, mostrano gruppi di giovani palestinesi lanciare pietre contro i coloni e i soldati finché questi ultimi sono stati obbligati a lasciare la zona.

Nonostante quel giorno si siano registrati più di 90 feriti, il villaggio l’ha festeggiata come una vittoria. “Abbiamo fatto sapere che ci siamo e abbiamo difeso la nostra terra contro i coloni,” afferma al-Abed, aggiungendo orgogliosamente che “neppure una colonia è stata costruita sulla terra di Beita, cosa che attribuisce alla fermezza degli abitanti.

Tuttavia i coloni hanno fatto altri due tentativi di impossessarsi della montagna, ogni volta con maggior potenza di fuoco e l’appoggio dell’esercito israeliano.

Il 2 marzo un altro fallito tentativo ha portato al ferimento di decine di palestinesi, di cui due feriti da proiettili veri.

Il terzo tentativo, mortale, è avvenuto mercoledì [11 marzo] mattina, poche ore dopo che Israele ha compiuto una massiccia retata nel villaggio, e, benché i coloni non siano riusciti ad impossessarsi della montagna, è finito con la morte di un ragazzino.

Non lasceremo mai questa terra”

Scontri tra coloni e palestinesi, come l’ultimo tentativo di impossessarsi della terra di questi ultimi, non sono rari in Cisgiordania, soprattutto a Nablus.

Colonie come Yitzhar, Itamar e Brakha sono diventati nomi familiari nei vicini villaggi palestinesi, che affrontano continui attacchi dei coloni contro la loro terra, le loro attività agricole, il loro bestiame, le loro case e le persone.

Quindi, quando i coloni hanno messo gli occhi su al-Arma, gli abitanti di Beita non sono rimasti sorpresi. “La lotta per difendere al-Arma non è nuova,” dice al-Abed a Mondoweiss, aggiungendo che i coloni hanno tentato per decenni di occupare la cima della collina, addirittura fin dagli anni ’80. “Pensano che ci sia un sito ebraico sulla montagna e che ciò dia loro diritti su di essa,” sostiene. “Ma lì ci sono rovine cananee, che dimostrano il nostro legame con questa terra.”

Secondo al-Abed nel corso degli anni centinaia di abitanti di Beita sono stati arrestati, molti per le proteste a Jabal al-Arma. Altri due, dice, sono stati resi martiri mentre cercavano di difendere la cima della montagna.

Questa montagna non ha solo un significato storico per noi, ma è importante per la vita quotidiana della gente di Beita,” afferma al-Abed, aggiungendo che gli abitanti della cittadina non solo ne coltivano la cima, ma la usano anche per attività ricreative, picnic e grigliate in famiglia. “In quanto palestinesi non lasceremo mai questa montagna. La gente di Beita non cederà mai,” sostiene.

Sono da condannare Trump e Netanyahu

Mentre le cime che circondano Nablus sono costellate da decine di colonie e avamposti israeliani, buona parte della terra rubata ai palestinesi utilizzata per costruirli si trova nell’Area C – più del 60% della Cisgiordania sotto totale controllo israeliano – rendendo più facile ai coloni occuparla. Tuttavia, in base agli accordi di Oslo, Jabal al-Arma è designata come Area B, il che pone sotto l’autorità dell’ANP questioni come edilizia e accesso alle terre da coltivare.

Per anni gli abitanti del villaggio hanno creduto che il fatto che la montagna si trovi nell’Area B l’avrebbe difesa dall’occupazione da parte dei coloni.

Ma quando il ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett ha attizzato i tentativi di estendere il controllo israeliano sull’Area B, la sensazione di sicurezza provata dagli abitanti è svanita.

Questi recenti tentativi dei coloni di impossessarsi di Jabal al-Arma sono chiaramente legati alle politiche del governo di destra israeliano,” dice al-Abed.

E a peggiorare le cose, nota al-Abed, la pubblicazione del piano di pace USA in gennaio ha solo ulteriormente imbaldanzito il movimento dei coloni in Cisgiordania.

Chi pensi abbia dato ai coloni e a Netanyahu il permesso di andare avanti con l’annessione e con tutti i loro piani?” chiede. “Lo ha fatto Trump. Quando ha reso pubblico il piano di pace ha detto ad Israele ‘prendi quello che vuoi’. Ed ora i palestinesi ne stanno pagando il prezzo.”

Yumna Patel è corrispondente dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gli israeliani scelgono un governo di destra – rispetto ad un governo di destra moderata

Jonathan Ofir

3 marzo 2020 Mondoweiss

Con il 90% dei voti scrutinati nella terza elezione in un anno in Israele, la grande sorpresa è che il Likud di Netanyahu supera il partito rivale di centro “Blu e Bianco” di Gantz. Il conteggio è di 36 (seggi) per il Likud e 32 per “Blu e Bianco”. Per alcuni mesi il Likud è rimasto sostanzialmente indietro, e solo nelle ultime due settimane i sondaggi hanno iniziato a mostrare un lieve vantaggio del Likud su “Blu e Bianco”. Nessun sondaggio aveva assolutamente previsto una vittoria di questa portata prima della giornata elettorale di ieri.

Però in base al conteggio sembrano mancare al blocco di destra del Likud 2 seggi –con 59 eletti– per raggiungere una coalizione di governo senza  “Blu e Bianco” e senza i sette seggi di Lieberman nel partito “Yisrael Beitenu” [ultranazionalista laico, ndtr.]. Ma Lieberman ha sempre dichiarato che la sua unica opzione è un governo di unità senza i partiti religiosi, che hanno ottenuto 17 seggi e sono una componente essenziale del blocco di Netanyahu.

Quindi, benché non sia ancora una vittoria decisiva per il Likud e per Netanyahu, è comunque una vittoria importante, almeno simbolicamente. Netanyahu ha già salutato la vittoria come “la più grande della mia vita”.

Occorre sottolineare che anche la “Lista Unita”, che rappresenta la maggior parte dei palestinesi israeliani, ha ottenuto un successo storico: 15 seggi. Ma questo conta poco per i sionisti che governano Israele: “Blu e Bianco” ha già affermato chiaramente che non parteciperanno al governo, come è sempre stato in Israele – gli “arabi” possono aumentare o diminuire, semplicemente non contano nel sistema dell’Israele “ebraico e democratico”, che è una forma di “democrazia solo per gli ebrei”.

Qui è importante l’elemento simbolico. Se Netanyahu sembra essere ad un passo dalla maggioranza di 61 seggi, Gantz ne è lontano anni luce. Senza la Lista Unita, una coalizione di centro-sinistra tra “Blu e Bianco” e partito Laburista – Meretz (7 seggi, i rimasugli della sinistra sionista) arriverebbe solo a 39 seggi. Anche se questa coalizione dovesse contare sull’appoggio dei voti della Lista Unita, comunque non si avvicinerebbe nemmeno [alla maggioranza]. Perciò il messaggio è che Israele è un Paese di destra.

E bisogna considerare la logica dal punto di vista dell’elettore israeliano di destra. Se “Blu e Bianco” è sostanzialmente un partito fotocopia del Likud, semplicemente senza Netanyahu, e se votarlo porta ad un’impasse, allora perché non votare direttamente il Likud e aumentare le probabilità di un governo di destra, anche se non ti piace Netanyahu?

Questa sembra essere la logica naturale in questa protratta guerra di logoramento sotto forma di elezioni israeliane senza fine. Netanyahu sembra essere entusiasta di questa prospettiva. Può essere che ciò conduca ad una quarta elezione, ma non sarà affatto un problema per Netanyahu. Il messaggio è “solo un’altra piccola spinta” e “Netanyahu o il disastro”.

Israele può andare avanti per un po’ con questo “governo provvisorio”. Se la realtà dimostra che elezioni ripetute alla fine producono un vantaggio per il Likud, allora dal punto di vista di Netanyahu potrebbe valere la pena di insistere,  non accettare compromessi per un governo di unità e giocare questa carta in vista di una vittoria ancor maggiore e più netta la prossima volta.

Jonathan Ofir . Musicista israeliano, direttore d’orchestra e blogger, vive in Danimarca.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Una settimana prima delle elezioni Netanyahu autorizza nuove unità abitative delle colonie nella E1

Yumna Patel

26 febbraio 2020 – Mondoweiss

Solo una settimana prima delle elezioni il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato l’autorizzazione a 3.500 nuove abitazioni illegali per i coloni nella contestatissima zona “E1”, nella parte centrale della Cisgiordania occupata.

Ho dato istruzioni di rendere immediatamente pubblica la presentazione del piano per la costruzione di 3.500 unità abitative nella E-1,” ha detto martedì Netanyahu in un discorso, aggiungendo che i progetti “sono stati ritardati per sei o sette anni.”

I piani di Israele per il corridoio E1, a cui si sta lavorando dal 1995, sono stati considerevolmente ritardati a causa delle pressioni da parte della comunità internazionale, comprese l’UE e l’ex-amministrazione USA.

Il progetto per la E1 intende creare un blocco di colonie che unisca il grande insediamento di Ma’ale Adumim a Gerusalemme, tagliando di fatto la Cisgiordania in due, separando il nord dal sud.

Le conseguenze del piano sono apparse evidenti negli ultimi anni attraverso la lotta per salvare dall’espulsione forzata la comunità beduina di Khan al-Ahmar, che si trova proprio in mezzo al corridoio E1.

La comunità sarebbe una delle decine di enclave beduine del corridoio che, se i progetti venissero portati a termine, verrebbero espulse a forza dalle proprie case.

L’annuncio è arrivato appena una settimana prima che gli israeliani si rechino ai seggi per la terza volta in un anno per eleggere il primo ministro, dopo due falliti tentativi da parte di Netanyahu e del suo rivale Benny Gantz di formare una coalizione di governo.

Nelle ultime due elezioni il governo di destra di Netanyahu si è basato sull’appoggio dei coloni e ha utilizzato promesse politiche simili per garantirsi il loro sostegno.

Nel primo turno delle elezioni nell’aprile dello scorso anno egli si impegnò ad annettere centinaia di colonie nella Cisgiordania occupata e prima delle elezioni di settembre è andato oltre quella promessa giurando che avrebbe esteso la sovranità israeliana alla valle del Giordano, che comprende un terzo di tutta la Cisgiordania.

I leader palestinesi hanno duramente attaccato Netanyahu per il suo annuncio e hanno chiesto agli Stati membri dell’UE di intervenire e di impedire l’attività edilizia israeliana nella zona.

Criticando il piano come un “progetto colonialista”, il capo negoziatore dell’OLP Saeb Erekat ha emanato un comunicato di condanna degli USA per il loro consenso perché Israele vada avanti con tali piani.

In accordo con i progetti concordati tra le delegazioni di USA e Israele, – ha detto Erekat – Israele ora continua a imporre sul terreno nuovi fatti illegali che violano sistematicamente le leggi internazionali e i diritti umani, annullano i diritti inalienabili del popolo palestinese, e minacciano la stessa pace e sicurezza dell’intera regione”.

Ora è chiaro alla comunità internazionale che questo quadro di annessione intende solo seppellire le prospettive di una soluzione negoziata,” ha continuato, chiedendo che la comunità internazionale imponga sanzioni contro Israele per le sue violazioni delle leggi internazionali nei territori occupati.

L’associazione [israeliana] di monitoraggio delle colonie Peace Now ha criticato duramente la decisione, affermando che “costruire nella E1 interromperebbe questa continuità territoriale, silurando la possibilità di uno Stato palestinese praticabile nel caso in cui Israele continui a conservare per sé la terra.”

L’organizzazione ha affermato: “Israele sta ufficialmente scegliendo di rischiare un conflitto permanente invece di risolverlo. Non è niente di meno di un disastro nazionale che deve essere fermato prima che sia troppo tardi.”

Yumna Patel è la corrispondente dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Nel suo nuovo libro Khalidi affronta la “narrazione egemonica” del nazionalismo ebraico

Steve France

17 febbraio 2020 – MondoWeiss

Cover of The Hundred Years War on Palestine: A History of Settler Colonialism and Resistance, 1917–2017

C’era del fervore in Rashid Khalidi quando il 10 febbraio il decano degli storici palestinesi-americani si è rivolto ad una folla gremita nella prestigiosa libreria Politics & Prose di Washington DC. Ci ha detto che nel suo nuovo libro, “La guerra dei cent’anni contro la Palestina”, si è sfilato i guanti dell’accademico. “Questo libro è più personale”, ha affermato. Si basa sull’esperienza più che centenaria della sua illustre famiglia che ha assistito, opponendovisi apertamente, all'”invasione coloniale” del suo Paese, e continua tuttora attraverso il suo impegno di studioso che dice la verità.

Qualcuno è intervenuto per contestare a Khalidi il fatto che non fosse rimasto fedele al dovere di “obiettività” dello storico. Lui ha risposto: “Il fatto è che esiste una narrazione egemonica su Israele e la Palestina che assume la prospettiva occidentale e filo-sionista. L’ottanta percento di ciò che si dice sul’argomento negli Stati Uniti è collegato alla narrazione egemonica. Non è mio compito riproporre quella narrazione. Inoltre gli storici, appunto, di solito propongono un discorso o una tesi. Non dicono semplicemente: ‘Da un lato e dall’altro.’ “

Khalidi ha affermato che il libro si rivolge deliberatamente ai “comuni lettori americani”, che spesso non sanno quasi nulla su Palestina-Israele e, nella migliore delle ipotesi, vedono il conflitto come una tragedia di due popoli che lottano per il loro legittimo destino nazionale. Ma, sostiene, la vera storia è quella di una “conquista coloniale” da parte dell’Occidente nei confronti della piccola terra della Palestina – e una successiva repressione senza fine della resistenza palestinese. “I palestinesi sono David; Israele è Golia, con i suoi sostenitori esterni. ” Dal 1917, tra i sostenitori ci sono sempre state le potenze egemoni del mondo: la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica (nel periodo della competizione per l’egemonia) e la Francia (negli anni ’50). Altrettanto essenziale è stato il sostegno materiale e politico di vaste reti etniche e religiose di sionisti (si pensi ai sionisti cristiani).

Le persone devono comprendere che Israele è uno Stato colonialista, ha detto Khalidi, ma peculiare. I coloni ebrei europei – che si definivano letteralmente colonizzatori prima che il colonialismo cadesse in discredito dopo la seconda guerra mondiale – non provenivano da una “madre patria” e non facevano parte di un’altra Nazione, come la Gran Bretagna. Piuttosto, venivano da molti Paesi e facevano parte di un “movimento nazionale del tutto moderno”. La storia degli ebrei iniziò in Palestina ai tempi biblici, ma prima dell’invenzione del sionismo alla fine del 1800 “realizzare uno Stato Nazione non era ciò che gli ebrei avevano mai voluto”.

Nel 1899 lo zio trisavolo di Khalidi, Yusuf Diya al-Din Pasha al-Khalidi, comprese i motivi e gli obiettivi dei primi coloni sionisti. Ex sindaco di Gerusalemme, con ottima padronanza di turco, tedesco, francese e inglese, conosceva l’antisemitismo europeo e gli scritti del fondatore del sionismo, Theodor Herzl, in cui veniva chiesta la creazione di uno Stato ebraico. Mandò una lunga lettera in francese al rabbino capo francese perché fosse consegnata a Herzl, che aveva vissuto a lungo a Parigi. Esprimeva simpatia e comprensione per le aspirazioni sioniste. Ma avvertiva che sarebbe stata “una follia” cercare di imporre uno Stato ebraico ai palestinesi, che abitavano a pieno titolo la Palestina. Implorava Herzl di abbandonare tali intenzioni. Sottolineava che una tale mossa avrebbe compromesso le vaste comunità ebraiche che esistevano da tempo in tutto il Medio Oriente. La risposta di Herzl fu educata, ha detto Khalidi al suo pubblico, ma “semplicemente ignorò” il punto fondamentale di Yusuf Diya secondo il quale la Palestina era già abitata da persone che non volevano essere soppiantate.

E così ebbe origine l’atteggiamento persistente dei sionisti e degli Stati loro sostenitori, che ignorano i palestinesi ritenendoli insignificanti se non inesistenti. Su questo aspetto Khalidi ha citato come punti di riferimento la Dichiarazione Balfour del 1917 [lettera scritta dall’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour con la quale il governo britannico si impegnava a favorire la costituzione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, ndtr.]; il mandato della Società delle Nazioni al Regno Unito perché governasse la Palestina; la Risoluzione delle Nazioni Unite del 1947 che fu “stravolta nell’ambito dell’Assemblea Generale dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica”[la risoluzione 181 del 29 novembre 1947 venne stravolta dalle due grandi potenze a favore dei sionisti, ndtr.]; il via libera degli Stati Uniti a Israele nel 1967 per la conquista della Cisgiordania, di Gaza e delle alture del Golan dai vicini Stati arabi; la risposta delle Nazioni Unite a tale aggressione nella risoluzione 242; fino al “piano di pace” appena comunicato dal presidente Trump.

In conclusione, Khalidi ha affermato che “tutti i nazionalismi costruiscono una storia per darsi una giustificazione”. Ma la cosa “particolare e peculiare” nel caso di Israele è che “le sofferenze e le idee che hanno generato il colonialismo ebraico hanno tutte avuto luogo in Europa, ma sono state trasferite in Palestina”. In altre parole, per più di 100 anni il popolo palestinese ha avuto a che fare con un sogno nazionalista da parte degli ebrei, coltivato fuori dalla propria terra, [che consisteva] nel sottrarre le loro proprietà ed i loro diritti, la loro dignità e la loro vita.

All’inizio c’era la Palestina. Trasformarla nella “Terra di Israele” ha significato ignorare i palestinesi che lì vivevano, farli “scomparire” fisicamente quando possibile, e nel frattempo delegittimare la loro storia. Khalidi, erede di una famiglia antica e onorata, spezza l’incantesimo del sogno nazionalista ponendoci davanti all’esistenza del popolo palestinese, allora e adesso, e raccontando la sua storia agrodolce.

Steve France

Steve France è un giornalista e avvocato in pensione della zona di Washington DC. Attivista per i diritti dei palestinesi, è membro della Episcopal Peace Fellowship Palestine-Israel Network [Fratellanza episcopale per la pace – Rete Palestina-Israele] e altri gruppi cristiani di solidarietà con i palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)