“Hanno sparato a suo figlio in braccio e l’hanno costretta a gettare il suo corpo”: testimonianze dalla marcia mortale in via Salah al-Din

Tareq S. Hajjaj

30 Novembre 2023 – Mondoweiss

Molteplici testimonianze raccolte da palestinesi sfollati dal nord di Gaza rivelano gli orrori in via Salah al-Din, indicata dall’esercito israeliano come passaggio sicuro”.

Durante il cessate il fuoco temporaneo ho potuto visitare diversi rifugi che ospitano gli sfollati arrivati dal nord di Gaza, principalmente l’Ospedale Europeo e una scuola gestita dall’UNRWA a Khan Younis. Anche ora, dopo tutto quello che abbiamo visto, è difficile credere alle storie che ho sentito raccontare in vari rifugi. La maggior parte dei racconti verte su come [i rifugiati] hanno evacuato la parte nord essendo stati espulsi verso sud, compreso lo straziante viaggio lungo via Salah al-Din, indicata dallesercito israeliano come un passaggio sicuro”. Dalle testimonianze che ho ascoltato è emerso chiaramente che quella strada è stata designata non per facilitare la fuga dei civili ma per umiliarli, degradarli e, in alcuni casi, ucciderli sistematicamente. Non tutti sono sopravvissuti al viaggio verso sud, e anche adesso la via Salah al-Din è disseminata di decine di cadaveri – di uomini, donne e bambini – in diversi stati di decomposizione.

Il quadro che emerge non è quello di un percorso umanitario” ma di una marcia della morte. Queste sono alcune delle testimonianze che ho raccolto da decine di testimoni oculari.

Il soldato mi ha ordinato di attraversare il posto di blocco strisciando

In una piccola stanza larga poco più di due metri due giovani sono sdraiati su dei materassi. Sono arrivati insieme all’ospedale, ma uno di loro, Ayman, ha raccontato una storia che sembra uscita da un romanzo di guerra.

La sua casa nel nord di Gaza è stata bombardata con all’interno la sua famiglia di 21 persone. Quattro di loro, suo padre e tre dei suoi fratelli, sono rimasti uccisi e adesso lui è il membro più giovane della famiglia. Ayman è stato ferito e trasferito in ospedale, il piede destro sorretto da poco più di un fascio di muscoli e pelle, poiché la tibia destra è stata completamente distrutta. In ospedale l’intero piede e la gamba sono stati rinforzati con delle placche fino al ginocchio. Suo cugino Mahmoud è rimasto con lui in ospedale. Quando la scorsa settimana l’esercito israeliano ha fatto irruzione nell’ospedale indonesiano anche Mahmoud è stato colpito a un piede e i medici hanno applicato anche a lui delle placche di metallo.

Eppure, quando è arrivato il momento dellevacuazione dallospedale lesercito ha costretto tutti i presenti a marciare a piedi verso sud. È stato allora che è cominciato lincubo di Ayman.

“Camminavo con le stampelle e due paramedici in fuga con noi verso sud mi aiutavano lungo la strada”, ha detto a Mondoweiss. “A volte mi trasportavano o mi offrivano un appoggio per procedere.”

Quando hanno raggiunto il posto di blocco militare israeliano eretto in via Salah al-Din un soldato lo ha chiamato da lontano e gli ha ordinato di camminare da solo e di gettare via le stampelle prima di arrivare al posto di controllo per la perquisizione.

“Non ero ancora in grado di mettere il piede a terra né di esercitarvi alcuna pressione”, racconta Ayman. “Ma il soldato continuava a ordinarmi di camminare senza stampelle.”

“Nel momento in cui ho messo il piede a terra sono caduto, incapace di sopportare il dolore”, continua. Ma il soldato insisteva dicendomi di alzarmi”.

Ayman afferma che non poteva sopportare l’umiliazione che il soldato gli stava imponendo. Per la seconda volta ha cercato di alzarsi e di fare un altro passo.

La placca della sua gamba si è rotta. È crollato a terra, urlando di dolore. Il soldato non ha fatto nulla, ordinandogli semplicemente di superare il posto di blocco strisciando e di proseguire per la sua strada. Ayman non ha avuto altra scelta che fare come gli era stato ordinato, trascinandosi fino ad arrivare dall’altra parte, dove la gente lo ha raccolto e assistito.

Ayman è ora ricoverato all’ospedale europeo di Khan Younis e necessita di due interventi chirurgici. Il primo per riparare la lussazione del ginocchio derivante dalla rottura della placca – a guardarlo ha la gamba piegata a U in modo innaturale – e il secondo intervento per dotarlo di una nuova placca metallica. Il problema è che a causa delle traversie incorse e del conseguente duplice trauma i medici dellospedale europeo non sono stati in grado di eseguire lintervento chirurgico, e lui ha bisogno per guarire di un trasferimento in un ospedale fuori Gaza.

Non c’era niente di sbagliato in me”, dice Ayman. Se solo il soldato mi avesse permesso di camminare con le stampelle o di farmi trasportare dai paramedici niente di tutto questo sarebbe ora necessario”.

Insiste sul fatto che i soldati ci tenevano a umiliare i rifugiati, per aggiungere un ulteriore carico di sofferenza al loro viaggio. Sembravano trarre piacere dalla punizione [inflitta], dice.

Testimonianze di cecchini che sparano contro bambini” a distanza e costringono i genitori ad abbandonare i loro cadaveri

Alcune storie hanno una diffusione così ampia da essere raccontate nello stesso modo da disparate persone. In alcuni casi la persona che ha subito il calvario non ha intrapreso il viaggio verso sud, ma la sua storia è stata testimoniata da molte altre persone che lo hanno fatto. Mondoweiss non ha potuto verificare in modo indipendente questi racconti.

Un episodio che ho sentito da più persone incontrate in una scuola dellUNRWA racconta la storia di una donna che portava in braccio il suo bambino e camminava lungo Salah al-Din. Suo figlio piangeva forte mentre lo trasportava, mi hanno detto più persone, ripetendo tutti gli stessi dettagli e riportando la stessa sequenza di eventi che sarebbero seguiti: un soldato, infastidito dagli strilli del bambino “gli ha sparato” da lontano colpendolo alla testa mentre era in braccio alla madre. A quel punto il soldato ha preso il megafono ordinandole di gettarlo sul ciglio della strada e di continuare a camminare.

Del tutto sotto shock, la donna ha iniziato a piangere e urlare, ma alla fine è stata costretta a obbedire agli ordini dei soldati che circondandola dai lati, alcuni anche appollaiati su un carro armato, la minacciavano con le armi. Tutti mi hanno detto la stessa cosa: che la donna è stata costretta a deporre il suo bambino senza vita e riprendere il cammino continuando a urlare e piangere per tutto il percorso.

Questa non è lunica storia del genere che ho sentito. Muhammad al-Ashqar, un rifugiato presso una scuola dell’UNRWA a Khan Younis, mi ha detto che uno dei suoi parenti portava sua figlia di 4 anni sulle spalle e un cecchino l’ha colpita da lontano uccidendola. E anche in questo caso gli hanno ordinato col megafono di metterla da parte e di continuare a marciare verso sud. Neanche lui ha avuto scelta, altrimenti sarebbe stato fucilato con il resto della famiglia.

Queste storie sono confermate dalle ondate di rifugiati che continuano ad arrivare dal nord, che riferiscono di aver visto decine di cadaveri ingombrare il passaggio sicuro” indicato da Israele, sia di vecchi che di giovani, mentre marcivano sul lato della strada. Nuovi rifugiati arrivati l’altro ieri hanno riferito che alcuni dei corpi avevano cominciato a essere divorati da animali randagi.

Ci sono ulteriori dettagli. L’esercito israeliano ha dato rigide istruzioni ai profughi in fuga: non raccogliere nulla che dovesse cadere in terra, non voltarti e non guardare altrove se non a sud, non parlare con nessuno, non disobbedire agli ordini dei soldati. Se infrangi queste regole sarai ucciso.

Molti sfollati affermano che i soldati hanno costretto le persone a compiere azioni degradanti sottoponendole ad ulteriori umiliazioni. Una donna anziana mi ha detto che c’era una fossa profonda scavata nel terreno in cui erano ammucchiati cadaveri di uomini, donne e bambini, e quando un soldato voleva terrorizzare una persona la costringeva a togliersi i vestiti e scendere nella fossa. I soldati ne uccidevano alcuni, aggiungendo i loro cadaveri al mucchio, lasciando gli altri vivi ma dopo averli costretti a rimanere seduti nudi tra i cadaveri fino a quando non erano soddisfatti. Quindi i soldati ordinavano loro di alzarsi e continuare a camminare verso sud.

I prossimi giorni riveleranno ancora più orrori perché, come mi ha detto una donna alla scuola dellUNRWA, questa non è una guerra qualunque: racchiude in sé molti tipi di guerra che vengono condotti contro la popolazione di Gaza. Una delle forme di guerra più depravate e degradanti che Israele ha impiegato contro di loro è il viaggio verso sud e il passaggio attraverso il checkpoint di Salah al-Din, un presunto passaggio sicuro” che è, in realtà, una marcia della morte.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un influente capo della sicurezza nazionale israeliana propone il genocidio a Gaza

Jonathan Ofir

 20 novembre 2023 – Mondoweiss

In un editoriale intitolato “Non lasciamoci intimorire dal mondo”, il generale israeliano in congedo Giora Eiland sostiene che ogni palestinese di Gaza è un bersaglio legittimo e che persino una “grave epidemia” a Gaza “avvicinerà la vittoria”.

Dal 7 ottobre non sono certo mancati gli appelli al genocidio da parte di dirigenti israeliani, né chiari progetti, anche a livello ministeriale, di pulizia etnica totale a Gaza. E mentre il ricorso a eufemismi biblici, come il riferimento ad “Amalek” [irriducibile nemico degli ebrei nella Bibbia, ndt.] da parte del primo ministro israeliano Netanyahu potrebbe sembrare ad alcuni troppo vago, anche se la vicenda suggerisce l’uccisione di neonati, domenica il generale di divisione in congedo Giora Eiland, ex-capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale e attuale consigliere del ministero della Difesa, ha deciso di parlare in modo più esplicito di genocidio.

In un articolo in ebraico sull’edizione cartacea del [giornale] di centro Yedioth Ahronoth intitolato “Non facciamoci intimorire dal mondo”, Eiland ha chiarito che tutta la popolazione civile di Gaza è un bersaglio legittimo e che persino “una grave epidemia nel sud della Striscia di Gaza avvicinerà la vittoria.” Le conclusioni non lasciano dubbi sulle sue opinioni:

Non sono solo i combattenti armati di Hamas ma anche tutti i funzionari ‘civili’, compresi gli impiegati degli ospedali e delle scuole, e anche tutta la popolazione di Gaza che hanno sostenuto entusiasticamente Hamas ed hanno acclamato le atrocità del 7 ottobre.”

Eiland si pronuncia contro le preoccupazioni umanitarie e ogni principio di distinzione:

Israele non sta combattendo un’organizzazione terroristica, ma lo Stato di Gaza.”

Di conseguenza per Eiland “Israele non deve fornire all’altra parte alcuna possibilità che ne prolunghi la vita.”

Eiland si fa beffe dell’idea delle “povere donne” come rappresentazione di civili non coinvolti:

Chi sono le ‘povere’ donne di Gaza? Sono tutte madri, sorelle o mogli degli assassini di Hamas.”

La definizione riprende quella dell’ex ministra della Giustizia di estrema destra Ayelet Shaked che, durante il massacro del 2014 [operazione militare “Margine protettivo” contro Gaza, ndt.], affermò che il nemico di Israele era tutto il popolo palestinese:

Dietro ogni terrorista ci sono decine di uomini e donne, senza i quali non potrebbe impegnarsi nel terrorismo. Ora ciò include anche le madri dei martiri, che li mandano all’inferno con fiori e baci. Dovrebbero seguire i loro figli, niente sarebbe più giusto. Dovrebbero andarsene, come le dimore fisiche in cui hanno allevato i serpenti. Altrimenti là verranno cresciuti altri piccoli serpenti.”

Eiland si oppone ad arrendersi alla sensibilità americana. Egli sostiene che le pressioni umanitarie (cioè, bloccare ogni necessità fondamentale per la sopravvivenza) è un mezzo legittimo di guerra:

Il governo israeliano deve assumere una linea più dura con gli americani e avere almeno la capacità di dire quanto segue: finché tutti gli ostaggi non saranno tornati in Israele, non parlateci degli aspetti umanitari.”

Bisogna resistere anche al resto della comunità internazionale, con le sue preoccupazioni umanitarie. Persino la diffusione di una grave epidemia è un legittimo mezzo di guerra:

La comunità internazionale ci mette in guardia da un disastro umanitario a Gaza e da una grave epidemia. Non dobbiamo evitarlo, per quanto possa essere difficile. Dopotutto, una grave epidemia nel sud della Striscia di Gaza avvicinerà la vittoria e ridurrà le vittime tra i soldati dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.].”

Ma no, Eiland non è un sadico né un genocida, tutto ciò non è altro che un mezzo per raggiungere un presunto lieto fine:

E no, qui non si parla di una crudeltà fine a se stessa, dato che non sosteniamo la sofferenza dell’altra parte come fine, ma come mezzo.”

L’editoriale vergognosamente genocidario di Eiland è stato appoggiato dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che ha twittato l’articolo integrale e affermato di “essere d’accordo con ogni parola”. Smotrich è noto, tra le altre cose, per aver chiesto di “annientare Huwwara” [citttadina palestinese in cui c’è stato un pogrom antipalestinese ad opera di coloni, ndt.] in Cisgiordania, quindi non dovrebbe sorprendere che ora appoggi l’appello di Eiland a fare lo stesso a Gaza.

Un campo di concentramento

Eiland ha una lunga storia nel manifestare in modo sorprendentemente esplicito le sue opinioni sulle condizioni della Striscia di Gaza. Nel 2004, quando era capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale vedeva la Striscia di Gaza come “un grande campo di concentramento” mentre faceva pressione sugli USA perché espellessero i palestinesi nel deserto del Sinai come parte di una “soluzione a due Stati”.

Secondo il cablogramma di un diplomatico statunitense fatto filtrare a Wikileaks:

Ripetendo un’opinione personale che aveva in precedenza esposto a un altro funzionario del governo americano in visita, il direttore del CSN Eiland ha prospettato all’ambasciatore [USA in Israele, ndt.] Djerejian una soluzione finale diversa da quella comunemente concepita come con due Stati. La visione di Eiland, ha detto, è introdotta dall’immaginare l’assunto secondo cui la demografia e altre considerazioni rendono impraticabile la prospettiva della soluzione a due Stati tra il Giordano e il Mediterraneo. Attualmente, ha detto, ci sono 11 milioni di persone in Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e questo numero arriverà in cinquant’anni a 36 milioni. L’area tra Beer Sheva e la punta settentrionale di Israele (compresa la Cisgiordania e Gaza) ha la maggior densità di popolazione al mondo. Gaza da sola, ha detto, è già un ‘grande campo di concentramento’ con 1.3 milioni di palestinesi. Oltretutto la terra è circondata su tre lati da deserti. I palestinesi hanno bisogno di più terra e Israele non può permettersi di cederla. La soluzione, ha affermato, si trova nel deserto del Sinai.”

È interessante vedere Eiland ammettere una simile situazione persino prima del “disimpegno” da Gaza del 2005, prima della vittoria elettorale di Hamas nel 2006 e dell’assedio genocida dal 2007, che è stato superato per gravità solo a partire dal 7 ottobre. A questo punto, vedere Gaza come un campo di concentramento sembra forse un termine troppo debole – è diventato un campo di sterminio.

Ecco la traduzione completa dell’articolo di Eiland:

Non lasciamoci intimorire dal mondo

Giora Eiland, Yedioth Ahronoth, 19 novembre 2023

Direttamente verso il crollo di Hamas

La discussione relativa all’ottemperanza da parte di Israele delle richieste internazionali per consentire l’ingresso di carburante a Gaza riflette il conflitto fondamentale tra Israele e gli USA riguardo la narrazione corretta.

Secondo quella americana a Gaza ci sono due gruppi di persone. Uno sarebbe costituito dai combattenti di Hamas, che sono terroristi brutali e devono di conseguenza morire. La grande maggioranza delle persone a Gaza fa parte di un secondo gruppo, civili innocenti che soffrono senza avere colpe. Di conseguenza Israele non solo deve evitare il più possibile di colpirle, ma anche agire per migliorarne la vita.

L’altra, e più corretta narrazione è la seguente: Israele non sta combattendo contro un’organizzazione terroristica, ma contro lo Stato di Gaza. Lo Stato di Gaza è in effetti sotto la guida di Hamas e questa organizzazione è riuscita a mobilitare tutte le risorse del suo Stato, l’appoggio della maggioranza dei suoi cittadini e l’assoluta lealtà della sua amministrazione civile attorno alla dirigenza di Sinwar [capo di Hamas a Gaza, ndt.] appoggiando pienamente la sua ideologia. In questo senso Gaza è molto simile alla Germania nazista, dove avvenne un processo simile. Dato che questa è la descrizione corretta della situazione, lo è anche il fatto di condurre la guerra di conseguenza.

Una guerra tra Stati non si vince solo sul piano militare, ma anche con la capacità di una parte di spezzare il regime dell’avversario ed è della massima importanza la sua capacità dal punto di vista economico e in primo luogo quella di fornire energia. Il collasso della Germania all’inizio del 1945 fu dovuto principalmente alla perdita dei campi di petrolio in Romania, e una volta che la Germania non ebbe abbastanza carburante per i suoi aerei e carri armati la guerra venne vinta.

Quindi Israele non deve fornire all’altra parte alcuna possibilità che ne prolunghi la vita. Oltretutto ci diciamo che Sinwar è talmente malvagio che non gli importa se tutti gli abitanti di Gaza muoiono. Una simile rappresentazione non è corretta, perché chi sono le ‘povere’ donne di Gaza? Sono tutte madri, sorelle o mogli di assassini di Hamas. Per un verso sono parte dell’infrastruttura che appoggia l’organizzazione e dall’altro, se essi fanno l’esperienza di un disastro umanitario, allora si può supporre che alcuni dei combattenti di Hamas e i comandanti più giovani inizino a comprendere che la guerra è inutile e che è meglio impedire danni irreversibili alle proprie famiglie.

Il modo per vincere la guerra più in fretta e a un costo minore per noi richiede un collasso del regime dell’avversario e non la semplice uccisione di più combattenti di Hamas. La comunità internazionale ci avverte del disastro umanitario a Gaza e di una grave epidemia. Non dobbiamo evitarlo, per quanto possa essere difficile. Dopotutto, una grave epidemia nel sud della Striscia di Gaza avvicinerà la vittoria e ridurrà le vittime tra i soldati dell’IDF. E no, qui non si parla di una crudeltà fine a se stessa, dato che non sosteniamo la sofferenza dell’altra parte come fine, ma come mezzo.

All’altra parte è concessa la possibilità di porre fine alle sofferenze se si arrende. Sinwar non si arrenderà, ma non c’è ragione per cui i comandanti della milizia di Hamas nel sud della Striscia di Gaza non si arrendano dato che non hanno né carburante né acqua, e quando l’epidemia colpirà anche loro e il pericolo per le vite delle loro donne aumenterà. Il governo israeliano deve assumere una linea più dura con gli americani e avere almeno la possibilità di dire quanto segue: finché tutti gli ostaggi non saranno tornati in Israele, non parlateci degli aspetti umanitari.

E sì, crediamo che anche la pressione umanitaria sia un mezzo legittimo per aumentare la possibilità di salvare gli ostaggi. Ma non dobbiamo, assolutamente, adottare la narrazione americana che ci “permette” di combattere solo contro i miliziani di Hamas invece di fare la cosa giusta: combattere contro l’intero regime nemico, perché è esattamente il crollo dei civili che avvicinerà la fine della guerra. Quando importanti personalità israeliane dicono ai media “Si tratta di noi o di loro”, dovremmo chiarire la questione di chi sono “loro”. “Loro” non sono solo i combattenti di Hamas con le armi, ma anche tutti i funzionari “civili”, compresi gli impiegati degli ospedali e delle scuole, e anche tutta la popolazione di Gaza che ha sostenuto entusiasticamente Hamas ed ha acclamato le atrocità del 7 ottobre.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Studenti dell’Università di Haifa finiscono davanti a un tribunale israeliano per i loro post sui social media

Yoav Haifawi  

16 novembre 2023Mondoweiss

Questa settimana cinque studenti dell’Università di Haifa sono stati fermati per i loro post sui social media relativi al 7 ottobre. Yoav Haifawi era presente alla loro udienza per vedere come sarebbe stata difesa la “sicurezza di Stato”.

I casi più tragici nell’ultima ondata di arresti politici tra i palestinesi nella Palestina del ’48 [cioè in Israele, ndt.] raccontano tutti una storia quasi identica. Si sono svegliati presto sabato mattina, il 7 ottobre, e hanno trovato nei feed sui loro social media alcune immagini innocenti di civili palestinesi che valicavano gli odiati muri lungo la Striscia di Gaza o gioiose immagini di festeggiamenti su veicoli militari israeliani abbandonati. Senza la minima idea di cosa sarebbe successo in seguito, hanno condiviso queste immagini su Facebook o Instagram. La didascalia più comune che accompagnava queste immagini era, con alcune variazioni, “Buongiorno!”. Poi, quando hanno sentito i notiziari e si sono resi conto del sanguinoso conflitto che stava per iniziare, si sono affrettati a rimuovere questi post.

La seconda caratteristica comune che questi sfortunati prigionieri condividono è di aver avuto amici sionisti che seguivano i loro social media, che hanno fatto degli screenshot dei post e li hanno denunciati alle autorità.

Centinaia di queste persone sono quindi cadute vittima del sistema “giudiziario” israeliano furiosamente vendicativo e sono state successivamente arrestate, più di un mese dopo a decine sono ancor detenute in dure condizioni nelle prigioni di “sicurezza” in Israele. Io ho preso visione dei loro capi d’accusa che descrivono in dettaglio tutte le atrocità che Israele attribuisce ad Hamas, con alcune esagerazioni che non appaiono neppure nella propaganda ufficiale israeliana. Ma poi arriva il colmo: postando questa o quella immagine sulla loro pagina sui social media gli accusati/le accusate hanno appoggiato queste organizzazioni terroristiche, lodato questi atti terroristici e incoraggiato altre persone a commettere attività terroristiche. Secondo l’accusa in considerazione dei terribili tempi presenti gli imputati costituiscono un concreto pericolo alla sicurezza di Stato e non dovrebbero essere rilasciati su cauzione.

Naturalmente, dopo la prima ondata di arresti causati dai post sui social media, le cose hanno cominciato a calmarsi. La nostra illusione di vivere in un Paese democratico con la libertà di parola è rapidamente evaporata. Molti hanno smesso di postare o hanno chiuso del tutto i loro profili. 

L’Università di Haifa provoca l’arresto di studenti arabi

Questa settimana abbiamo assistito a un’altra ondata di arresti per i post sui social relativi al 7 ottobre. Come avevo precedentemente riferito, organizzazioni di studenti sionisti hanno organizzato campagne per monitorare gli studenti arabi sui social media e denunciarli all’amministrazione dell’università. Sabato e lunedì di questa settimana, circa una settimana dopo che l’Università di Haifa ha finito di tenere audizioni disciplinari, la polizia ha incarcerato 5 dei suoi studenti.

Dopo la detenzione degli studenti, Yousef Taha, il direttore dell’Organismo Congiunto del Blocco degli Studenti Arabi nelle università e college (nella Palestina del ‘48), ha riferito al sito web di informazioni “Arabs 48“: 

Quello che è successo con gli studenti dell’’Università di Haifa è veramente strano, visto che settimane fa gli studenti sono stati convocati dalle commissioni disciplinari che hanno imposto loro sanzioni. Ma l’università non si è accontentata. Ha quindi inoltrato alla polizia le foto di quanto pubblicato dagli studenti, comportandosi come un ‘informatore’ che denuncia i propri studenti alla polizia. A sua volta la polizia li ha arrestati. Durante le sessioni del tribunale che si sono tenute quando è stato esteso il periodo di detenzione degli studenti, i poliziotti hanno ammesso il ruolo dell’università.”

Taha aggiunge: “Quello che l’Università di Haifa sta facendo verso gli studenti arabi è assolutamente inaccettabile, specialmente perché un’ampia percentuale dei suoi studenti proviene dalla comunità araba. Un’università non deve giocare il ruolo di informatore e causare l’incarcerazione dei propri studenti, ma dovrebbe proteggerli.”

Per quanto riguarda il numero degli studenti che sono stati perseguitati per i loro post, Taha afferma che “i casi che ci sono arrivati e di cui ci siamo occupati sono oltre 130, studenti e studentesse che hanno ricevuto convocazioni alle commissioni disciplinari o che sono stati sottoposti/e ad altre misure. Dato che alcuni studenti non ci hanno contattato ma hanno consultato avvocati privati, stimiamo che il numero totale sia oltre i 160 studenti dall’inizio della guerra.”

Dopo la loro incarcerazione i cinque studenti sono stati condotti al tribunale di Acri per la custodia cautelare. Oggi, giovedì 16 novembre, i cinque studenti e altri due detenuti per [post su] Facebook sono stati convocati per la loro seconda udienza di custodia. Ho accompagnato all’udienza la legale della difesa Afnan Khalifa.

Occupazione fai da te

Akka (il nome arabo, in Occidente conosciuta come “San Giovanni d’Acri”) è un’antica città con una storia di oltre 5 mila anni. È situata a circa 20 chilometri a nord di Haifa, sull’altra sponda dell’omonima baia. La “Nuova Haifa” è stata fondata nel 1761 da Daher al-Omar, il governatore palestinese che si era ribellato contro l’Impero Ottomano, la cui capitale era Acri. Egli iniziò la costruzione delle massicce mura, che poi permisero ai difensori locali di sconfiggere l’invasione dell’armata napoleonica. Da allora Haifa ha rubato ad Acri il ruolo di centro amministrativo ed economico della Palestina settentrionale, e Acri è diventata la sorella povera di Haifa. Nel 1948 ciò ha fatto la sua fortuna, poiché qui la pulizia etnica della popolazione arabo palestinese è stata meno vasta. Dei 50.000 abitanti di Acri circa un terzo sono arabi, ma nei dintorni dell’hinterland della Galilea c’è una chiara maggioranza araba.

Il tribunale di Acri rispecchia la composizione demografica locale. NelI’aula del giudice Ziad Salih, che ha tenuto le udienze per la custodia cautelare, erano quasi tutti arabi: la pubblica accusa, i detenuti, le loro famiglie e i loro avvocati, le guardie del tribunale. Per quanto ho potuto vedere, solo la dattilografa che ha battuto a macchina il verbale non era di madrelingua araba. Questa composizione in un tribunale israeliano che gestisce la “sicurezza di Stato” è uno spettacolo strano a vedersi. Tutti gli attori ufficiali recitano in ebraico i testi previsti da mettere a verbale. Quando vogliono veramente parlare uno con l’altro passano all’arabo e il loro tono diventa più umano e amichevole.

Sembrava che il giudice Salih non fosse a suo agio nel suo ruolo e fosse rattristato dal destino degli studenti (la maggior parte studentesse) che spediva a passare altro tempo in dure condizioni in carcere, nonostante le scarse prove contro di loro. Ma era impossibilitato a rifiutare la consuetudine dominante nel Paese secondo cui tutte le dichiarazioni di solidarietà a favore dei palestinesi sono estremamente pericolose. Mi sono chiesto quanto sarebbe importato a coloro che venivano rimandati in custodia se il giudice li avesse allegramente umiliati come fanno alcuni giudici ebrei, o compianto il loro destino.

A coronare questa strana esperienza di occupazione fai da te, mentre stavo aspettando che cominciasse l’udienza ho avuto uno strano incontro. Un ufficiale di polizia in uniforme mi si è avvicinato, cercando di concentrarsi mentre mi fissava e mi ha chiesto: “Dove l’ho già vista prima?” 

Dato che alcuni fascisti locali hanno pubblicato la mia foto su internet in seguito alla mia ultima incarcerazione, ho sviluppato un’estrema attenzione verso gli sconosciuti che sembrano riconoscermi. Ma lui ha continuato: “Lei è dell’Abna al-Balad, vero?” riferendosi al movimento palestinese di sinistra a cui appartengo. 

Lei chi è e perché mi sta facendo queste domande?” ho replicato. 

Mi ricordo di lei e apprezzo molto le sue posizioni,” ha risposto. “Anch’io ero nell’Abna al-Balad quando ero studente e prima di indossare questa uniforme.”

Tutti in custodia cautelare, eccetto una

Delle sette udienze a cui ho assistito oggi ad Acri, tutte erano relative a singoli post sui social media della mattina del 7 ottobre, in seguito volontariamente rimossi. Per sei dei sette detenuti è stata confermata la custodia cautelare, salvo una studentessa che la polizia ha deciso di mandare agli arresti domiciliari. Non era chiara la differenza, visto che aveva condiviso la stessa immagine degli altri studenti, ma ha offerto un momento di allegria per tutti noi e le lacrime di angoscia sono state temporaneamente sostituite da lacrime di gioia.

I detenuti sono apparsi in video su Skype, che oggi funzionava. La maggior parte erano studentesse e assistevano all’udienza dal carcere di Damon, dove sono detenuti molti prigionieri politici palestinesi.

Quando è apparsa in video la studentessa che stava per essere rilasciata, il giudice ha lasciato l’aula. L’avvocata Khalifa ha colto l’opportunità di chiederle delle sue condizioni in carcere. La studentessa ha detto di essere stata picchiata in prigione da due guardie, ma di non saperne i nomi. Quando le ha chiesto se avesse visto altre prigioniere picchiate, lei ha spiegato che le guardie portano le prigioniere nelle docce e lì le picchiano, così gli altri sentono i rumori ma non vedono le percosse. Poi Khalifa ha chiesto se c’erano state anche minacce. La studentessa ha detto di sì. Khalifa ha chiesto se era stata minacciata di stupro (ieri abbiamo sentito un’altra prigioniera che lo denunciava) – e lei ha detto di no. Quali minacce erano state fatte contro di lei? Ha replicato che le avevano detto (non sono sicuro se durante gli interrogatori o le guardie carcerarie) che sapevano il suo indirizzo e che anche se fosse stata rilasciata dal tribunale sarebbero andati a casa sua per vendicarsi.

È solo l’esempio più recente di come nell’Israele di oggi il confine fra “forze dell’ordine” e gang di fascisti sia labile e tutto diventi un continuum repressivo.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il prestigioso festival del documentario di Amsterdam deve affrontare boicottaggi e proteste a seguito delle dichiarazioni anti-palestinesi

Niloufar Nematollahi

16 novembre 2023 – Mondoweiss

Oltre 20 registi si sono ritirati dallInternational Documentary Film Festival di Amsterdam in seguito alla condanna del discorso sulla liberazione della Palestina e al rifiuto di prendere posizione contro lattacco genocida di Israele contro Gaza. 

I registi stanno adottando delle iniziative contro lInternational Documentary Film Festival di Amsterdam (IDFA) in seguito alla ingannevoli dichiarazioni nel corso della presentazione del festival, allattacco allo slogan From the River to the Sea Palestine Will be Free” [Dal fiume al mare la Palestina sarà libera, ndt.] e al rifiuto di solidarizzare con i palestinesi di fronte allattacco genocida di Israele contro Gaza.

LIDFA, il più grande festival internazionale del documentario al mondo, ha una tradizione di valorizzazione dei registi palestinesi. Ma le ultime dichiarazioni ed eventi del festival sono stati visti come un doloroso tradimento.

Come ha spiegato il regista di Gaza Mohammed Almughanni

durante uno dei suoi discorsi allIDFA: Se mi riconoscete come regista che mette sulla scena il dolore dei palestinesi ma non riconoscete che i palestinesi debbano avere una vita dignitosa la vostra attenzione per i miei film non significa nulla per me. “I film non significano nulla per me se non avete a cuore una Palestina libera per i personaggi dei miei film”. In un altro discorso Almughanni ha reagito allattacco dellIDFA contro lo slogan From the River to the Sea Palestine Will be Free” dicendo: Se non volete che cantiamo per la libertà dal fiume al mare, allora da dove a dove? Da questo muro di ferro a quell’altro? Da questo filo spinato al successivo?”

Finora 21 registi hanno ritirato i loro film, e gli interventi di solidarietà con la Palestina continuano a dominare il festival.

Dichiarazioni dell’IDFA

Il 10 novembre l’IDFA ha rilasciato una dichiarazione in cui si scusava per l’esposizione di uno striscione con lo slogan From the River to the Sea Palestine Will be Free” durante un evento organizzato in occasione dell’apertura del festival dall’organizzazione attivista Lavoratori per la Palestina (WFP), con sede nei Paesi Bassi. Nella dichiarazione lIDFA manifestava gratitudine verso coloro che avevano espresso il dolore provatoa cospetto dello slogan e dellazione di protesta contro il silenzio iniziale del festival sul genocidio a Gaza. Nella dichiarazione viene citato il direttore artistico del festival Orwa Nyrabia, che definisce lo slogan offensivoe afferma che non rappresenta lIDFA e non ha avuto ne avrà la sua approvazione”.

All’inizio della giornata era stata resa nota una petizione a nome della comunità cinematografica e documentaristica israeliana che criticava gli applausi calorosiverso i manifestanti da parte di Nyrabia l8 novembre, serata di apertura del festival. Anche se, secondo la legge olandese, lo sloganFrom the River to the Sea Palestine Will be Free” non è considerato antisemita rientrando nelle libertà di espressione, la petizione fonde lidea di liberazione palestinese con lantisemitismo, sostenendo che permettere e applaudire una dichiarazione significativa come Dal fiume al mare la Palestina sarà liberasarebbe un appello a favore dello sradicamento di Israele, della patria ebraica e degli ebrei in generale”.

In seguito alla dichiarazione dellIDFA del 10 novembre i registi hanno iniziato a ritirare i loro documentari dal festival e a rilasciare dichiarazioni con la richiesta di un cessate il fuoco, condividendo il vero significato dello slogan criminalizzato ed esprimendo il loro sostegno allazione di protesta condotta la sera dellinaugurazione del festival. Anche i moderatori, gli artisti, i membri della giuria e lo staff del festival hanno presto iniziato a dimettersi e a criticare lapproccio del festival nei confronti del genocidio in Palestina e il modo in cui le voci dei manifestanti sono state messe a tacere. In una lettera condivisa con Mondoweiss, scritta da un gruppo di dipendenti del festival e rivolta ai direttori dell’IDFA, viene criticato l’uso da parte dell’IDFA nella sua dichiarazione del pronome “noi”, che sembrerebbe voler esprimere “la posizione dell’organizzazione nel suo insieme, mentre molti membri dello staff del festival sono solidali con la Palestina e non riconoscono le proprie convinzioni riflesse nelle dichiarazioni dell’IDFA.

La regista palestinese Basma al-Sharif è stata una delle prime a ritirare il suo film e la sua partecipazione come membro della giuria dell’IDFA, criticando il festival per aver condannato lo slogan invece di “denunciare il genocidio che sta avendo luogo proprio adesso a Gaza”.

“Dal fiume al mare è la terra della Palestina storica che si estende dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo”, ha condiviso in una dichiarazione collettiva scritta da un gruppo di registi dell’IDFA allarmati dalla risposta del festival al suddetto slogan. Dal fiume al mare i palestinesi sono soggetti alle condizioni delloccupazione e dellapartheid. Dal fiume al mare I palestinesi dovrebbero unirsi nella lotta per la libertà, la giustizia e l’autodeterminazione. Dal fiume al mare vogliamo che palestinesi ed ebrei, lavoratori stranieri e rifugiati, siano uguali e liberi, aggiunge questo gruppo di documentaristi.

Maryam Tafakory, unaltra regista che si è ritirata dal festival, ha rilasciato in seguito una dichiarazione, affermando di sentirsi tradita e indignata dalla dannosa calunniacontro lo slogan da parte dellIDFA e dallenfasi della sua dichiarazione sul sogno universale di un mondo pacifico”. Per pace intendono solo il ritorno alloccupazione, al furto silenzioso della terra e allomicidioha scritto. Non esiste una via di mezzo in uno Stato di apartheid. Non c’è via di mezzo quando una parte ammette la pulizia etnica dellaltra, ha aggiunto.

Tafakory ha anche preso di mira una seconda dichiarazione rilasciata dall’IDFA il 10 novembre, poche ore dopo la prima che condannava la dichiarazione sulla libertà della Palestina. Nella seconda dichiarazione lIDFA ha chiesto un cessate il fuoco immediato, ma molti registi filo-palestinesi e palestinesi hanno ritenuto che il tono di scusa della seconda dichiarazione non riuscisse a esprimere una solidarietà con la lotta palestinese per la liberazione. La velleità dellIDFA di presentare dei film di palestinesi rifiutandosi di fare una chiara dichiarazione di solidarietà con loro è una forma di sfruttamento commerciale della lotta palestinese e una manifestazione di un modello che non è esclusivo dellIDFA ma una pratica endemica delle istituzioni artistiche occidentali che sfruttano lotte di emancipazione e popoli espropriandoli del loro pieno significato a scopo di profitto.

Protesta contro il silenzio del festival

Riflettendo sui discorsi, dichiarazioni e ritiri seguiti alla protesta durante la serata di apertura dell’IDFA, la produttrice e curatrice cinematografica Yara Yuri Safadi, che ha lavorato con il festival come moderatrice ma quest’anno ha deciso di dimettersi in seguito alla dichiarazione dell’IDFA, ha spiegato a Mondoweiss che nelle settimane precedenti il festival aveva aspettato che l’IDFA facesse un appello per un cessate il fuoco. Ma è arrivato il primo giorno del festival e l’IDFA ha mantenuto il silenzio.

Ho deciso comunque di andare alla serata inaugurale”, afferma Safadi, e ho aspettato che Orwa dicesse quelle poche parole: Gaza, Palestina, cessate il fuoco, liberazione”. Dal momento che il direttore artistico del festival non ha condiviso questi sentimenti durante il suo discorso di apertura Safadi, insieme ad altri manifestanti, ha tirato fuori due striscioni, uno con lo slogan From the River to the Sea, Palestine will be Free” e un altro con la scritta: Institutional silence is violence” [Il silenzio istituzionale è violenza, ndt.]. Safadi ha gridato cessate il fuoco adessomentre altri hanno portato uno degli striscioni sul palco, appendendo laltro alla balconata accanto a una bandiera palestinese e interrompendo il business as usual” dellevento. Safadi afferma che lappello dei manifestanti per un cessate il fuoco è stato accolto con fischi dal consiglio dellIDFA. Chi può fischiare contro una richiesta di cessate il fuoco? Chi può vietarmi di chiedere di fermare un genocidio?ha chiesto nel rievocare i fatti durante un discorso tenuto il 13 novembre.

Tuttavia durante l’azione gli altri partecipanti e lo staff dell’IDFA si sono alzati in piedi e hanno applaudito i manifestanti. Dopo aver diffuso il filmato di questo atto di protesta, Workers For Palestine, un gruppo di attivisti di recente costituzione che sostiene la liberazione della Palestina occupata allinterno delle istituzioni artistiche, sociali, accademiche e civiche dei Paesi Bassi, ha scritto: Sembra che lIDFA apprezzi i palestinesi solo quando servono come foglia di fico progressista per il loro istituto, contrapponendo allammissione al festival di opere di registi palestinesi il doloroso silenzio dell’IDFA su Gaza e il suo attacco alle voci filo-palestinesi di fronte al colonialismo di insediamento israeliano e al genocidio in corso.

Ritiro del Palestine Film Institute

Dopo una prima ondata di ritiri il numero di registi che rifiutano di presentare i propri film all’IDFA continua a crescere. Il 12 novembre, il Palestine Film Institute (PFI) ha pubblicato una petizione in cui annunciava la propria solidarietà ai manifestanti che avevano interrotto linaugurazione del festival e il suo ritiro dallIDFA. Il PFI, un istituto indipendente creato con lo scopo di sviluppare, promuovere e preservare il cinema palestinese, collabora con l’IDFA da sette anni, inclusa la creazione del Palestine Documentary Hub: un evento annuale di un giorno in cui i registi di documentari palestinesi presentano i loro progetti in corso per creare rapporti con lindustria cinematografica internazionale.

Il giorno prima del Documentary Hub di questanno, con tutto ciò che sta accadendo allIDFA, ci siamo chiesti: cosa significa presentare progetti sulla Palestina allIDFA oggi?Lo ha spiegato a Mondoweiss Mohanad Yaqubi, consulente e ideatore del programma pubblico del PFI. Alla fine il PFI ha deciso di procedere con le presentazioni da parte delle registe palestinesi Dalia Al-Kury, Elettra Bisogno e Noora Said come mezzo per rivendicare lo spazio del festival, rilasciando tuttavia la dichiarazione di ritiro dell’istituto da tutte le attività organizzate nello spazio di mercato all’IDFA. Hanno fatto le loro presentazioni, ed è stato sorprendente perché il loro contenuto mostra le profonde connessioni tra ciò che sta accadendo oggi e la narrazione palestinese, il film documentario palestinese, aggiunge Yaqubi.

Dopo il ritiro dal festival il PFI ha anche lanciato una petizione e ha invitato i registi a continuare ad agire in solidarietà con la Palestina. Il PFI ha esortato i registi a firmare la loro petizione, a ritirare i loro film dal festival e a criticare direttamente la risposta dellIDFA alle proteste filo-palestinesi o a utilizzare domande e risposte, discorsi e sezioni d’incontro per concentrarsi sulla Palestina. I registi che si sono ritirati dal festival hanno anche chiesto allIDFA di riconoscere la criminalizzazione dei contenuti delle voci e delle narrazioni palestinesi e di annunciare pubblicamente il motivo per cui le proiezioni sono state cancellate, cosa che il consiglio del festival si è fino ad ora rifiutato di fare.

Nonostante il tradizionale risalto concesso dallIDFA ai registi palestinesi Yaqubi afferma che oggi si sente tradito dal tardivo appello del festival per un cessate il fuoco e dalla sua incapacità di mostrare solidarietà ai registi palestinesi. I cineasti palestinesi hanno dovuto rivelare le loro emozioni, il che è un carico gravoso, davanti a persone e in spazi in cui confidavano per far capire allIDFA che si tratta di 75 anni di occupazione, ha detto a Mondoweiss. “Questo tradimento della fiducia è la parte più difficile.”

Il 13 novembre, il giorno dopo aver reso pubblico il proprio ritiro, il Palestine Film Institute ha annunciato una protesta davanti a una delle sedi principali del festival, il Teatro Internazionale di Amsterdam. Non possiamo continuare a fare affari come al solito, hanno scritto, invitando i registi e i membri del pubblico dellIDFA a unirsi alla loro richiesta per un cessate il fuoco immediato, la fine del genocidio e la fine delloccupazione della Palestina”.

La solidarietà continua

Più di 50 manifestanti si sono radunati davanti alla sede dell’IDFA, dove sono state lette le dichiarazioni di ritiro scritte dai registi e dagli artisti, come Tafakory e Geo Wyex. Come ha spiegato Safadi a Mondoweiss, voglio sottolineare che la maggior parte dei registi e dello staff IDFA che ci hanno sostenuto aderendo al ritiro o leggendo dichiarazioni prima e dopo le loro proiezioni e dedicando domande e risposte alla Palestina, provengono dal Sud del mondo, dal Sud Africa, Iran, o appartengono a popolazioni indigene e/o persone che si identificano come queer. Tutto il sostegno è arrivato da queste persone e dalle reti di solidarietà già esistenti che ci collegano”.

Le reti di solidarietà evidenziate da Safadi sono state verbalizzate anche in un discorso tenuto durante la protesta dal noto documentarista e membro del movimento di solidarietà con la Palestina in India, Anand Patwardhan. Dopo il suo discorso Patwardhan ha detto a Mondoweiss che, nonostante la scelta di alcuni registi di ritirarsi dall’IDFA, dovrebbe essere chiaro che diversi palestinesi e loro sostenitori come me hanno deciso di non ritirare i loro film ma di utilizzare la piattaforma IDFA per amplificare la nostra opposizione al massacro in corso a Gaza. Mi congratulo con coloro che si sono ritirati dal festival e hanno acceso un dibattito internazionale. Mi congratulo con coloro che sono rimasti per innescare il dibattito dall’interno. Mi congratulo con coloro che ci hanno concesso lo spazio per farlo. Come ha spiegato a Mondoweiss la regista palestinese Noora Said, Il PFI ha suggerito diverse azioni, non solo il ritiro. E molti registi e artisti hanno reagito scegliendo una delle diverse azioni suggerite. A volte potrebbe essere più utile per i palestinesi e i loro sostenitori protestare in modi diversi dal ritiro”.

Uno dei gruppi che hanno espresso la loro solidarietà è stato il Queer Choir Amsterdam, che durante uno degli eventi dellIDFA ha scanditoFrom the River to the Sea, Palestine will be Free”. Questo gruppo ha anche rilasciato una dichiarazione in cui sostiene che lIDFA trae costantemente profitto dalla programmazione di film sulloppressione, la violenza e la decolonizzazione, ma non ha ancora avuto il coraggio di riconoscere e denunciare un genocidio in corso”.

Solidarietà alla causa palestinese è stata espressa anche durante il raduno organizzato dal PFI il 13 novembre dopo la manifestazione. Il suono dei manifestanti che gridavano “cessate il fuoco adesso” ha riempito i corridoi del Teatro Internazionale di Amsterdam mentre si dirigevano verso l’evento di solidarietà, tenutosi in uno degli spazi all’interno dell’edificio. Durante questo evento registi come Rehad Desai, Sky Hopinka e Niles Atallah hanno espresso solidarietà alla lotta palestinese per la liberazione.

Come ha spiegato Desai a Mondoweiss, Sky, un regista nativo americano, e io, un regista sudafricano, abbiamo discusso su ciò a cui stiamo assistendo in Palestina, ovvero una riproduzione della storia coloniale, del palese sterminio dei nostri rispettivi popoli e della violenza di uno Stato illegittimo che viene equiparato a coloro che reagiscono o rispondono”.

Inoltre, in questo evento di solidarietà anche i registi palestinesi Mohammed Almughanni, Dalia Al-Kury, Mohammad Jabaly e Noora Said sono saliti sul palco per parlare delle loro esperienze come documentaristi in Palestina e dei loro sentimenti nei confronti dell’IDFA. Parlando della sua esperienza nella gestione della società di produzione video indipendente Sirdab Studio di Ramallah, dove vive, Noora Said ha parlato di come le sia vietato entrare a Gaza e di come la regista e giornalista di Gaza Roshdi Sarraj che gestiva la società sorella di Sirdab Studio, Ain Media, sia stata recentemente uccisa il 22 ottobre dagli attacchi aerei israeliani.

Durante un discorso sui suoi sentimenti nei confronti dellIDFA Al-Kury si è rivolta alle persone che stanno pagando per queste creazioni fantastiche, dicendo: Voi finanziate i nostri documentari, ma dubito che li guardiate davvero. Vi consiglio di guardare i nostri film perché se lo faceste, conoscereste la situazione della Palestina”. Lincontro si è concluso con le parole di Mohanad Yaqubi, che ha affermato: Qui facciamo documentari, non affari. E che senso hanno i documentari se non cambiano il mondo?

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Le azioni efferate di Israele in nome degli ebrei li rendono insicuri

A lungo intellettuali ebrei hanno messo in guardia che la dipendenza di Israele dall’appoggio politico degli ebrei dell’Occidente per garantirsi l’impunità per le violazioni dei diritti umani potrebbero contribuire all’antisemitismo negli Stati Uniti.

Philip Weiss 

10 novembre 2023 – Mondoweiss

La scorsa settimana il direttore dell’FBI ha affermato che le ostilità in Medio Oriente potrebbero estendersi agli Stati Uniti con attacchi contro musulmani ed ebrei, e la senatrice del Nevada Jacky Rosen, che ha subito minacce di morte di natura antisemita, ha detto: “Sto provando quello che provano gli ebrei in ogni parte del mondo, sotto attacco e minacciati.”

Anche se dovremmo essere scettici riguardo alle organizzazioni e agli individui filoisraeliani che confondono manifestazioni di antisemitismo con l’antisionismo, riconosco che il direttore dell’FBI ha ragione e che alcuni di questi episodi sono effettivamente antisemiti.

Il professore della Columbia [University] Rashid Khalidi [di origine palestinese, ndt.] “ha prontamente riconosciuto l’esistenza di un’ondata di recenti episodi di antisemitismo nei campus universitari,” ha scritto Michelle Goldberg sul Times. In un caso uno studente della Cornell [importante università statunitense, ndt.] è stato accusato di aver minacciato di attaccare una mensa kosher [cioè che offre cibi che rispettano le norme alimentari ebraiche, ndt.]. E vedo in rete e altrove molti ebrei che manifestano timore e vulnerabilità, e non metterei mai in dubbio tali affermazioni.

È tuttavia necessario affermare una questione, come ho già fatto molte volte in precedenza: a lungo intellettuali ebrei hanno avvertito che la dipendenza di Israele dall’appoggio politico degli ebrei statunitensi per garantirsi l’impunità per le violazioni dei diritti umani che molti nel mondo condannano – pulizia etnica, massacri e ora azioni genocide a Gaza – rappresentano un pericolo per quelle comunità. Quando le organizzazioni ebraiche statunitensi esibiscono un sostegno incondizionato a tali azioni e inoltre insistono sul fatto che essere ebrei significa appoggiare Israele in quanto “Stato ebraico” mentre uccide civili, questa dichiarazione di unanimità è di fatto pericolosa per gli ebrei.

E quindi rischia di fomentare l’antisemitismo, quando i leader ebraici come Ted Deutch, dell’American Jewish Committee [Commissione Ebraica Americana, storica organizzazione ebraica, ndt.] pubblica una lunga difesa delle azioni di Israele a Gaza in cui cita ripetutamente l’attacco di Hamas del 7 ottobre e non fa alcun cenno ai morti palestinesi. È così, non menziona neppure quelli che allora erano 9.000 morti, più di 3.000 dei quali minorenni. Tale indifferenza da parte di un leader ebraico ufficiale di fronte ai massacri da parte dello “Stato ebraico” provocherà risentimento verso gli ebrei.

“L’uccisione di migliaia di palestinesi a Gaza mette in pericolo gli ebrei sia in Israele che altrove,” ha scritto questa settimana lo studioso antisionista Yakov Rabkin. “Quando Israele afferma di essere lo Stato di tutti gli ebrei li trasforma in ostaggi delle sue azioni e politiche. Quando le organizzazioni della comunità ebraica dichiarano ‘Stiamo dalla parte di Israele!’ agiscono come rappresentanti di Israele invece che degli ebrei.”

All’inizio dell’anno ho citato vari intellettuali ebrei che hanno sostenuto posizioni simili. Ecco alcuni estratti di quelle affermazioni.

  • Ken Roth, ex-direttore di Human Right Watch, nel luglio 2021, dopo un massacro israeliano a Gaza:

“L’antisemitismo è sempre sbagliato e precede di molto la creazione di Israele, ma l’ondata di episodi antisemiti nel Regno Unito durante il recente conflitto a Gaza smentisce quanti sostengono che la condotta del governo israeliano non incide sull’antisemitismo.”

Roth ha spiegato che è vietato sostenere questo discorso perché suggerisce che il governo israeliano, che afferma di proteggere il popolo ebraico, stia in realtà danneggiando la sicurezza degli ebrei.

  • Nel 1944 Hannah Arendt, anticipando la creazione di Israele con l’appoggio degli ebrei americani, avvertì dei rischi di tale appoggio:

“Se nel prossimo futuro verrà costituita una Nazione ebraica, con o senza partizione [della Palestina], ciò sarà grazie all’influenza politica degli ebrei americani … Se la Nazione ebraica verrà proclamata contro la volontà degli arabi e senza l’appoggio dei popoli del Mediterraneo, per molto tempo saranno necessari non solo un aiuto finanziario, ma anche un sostegno politico. E ciò potrebbe rivelarsi veramente molto problematico per gli ebrei di questo Paese.”

  • Il sociologo di Harvard Nathan Glazer nel 1976 mise in guardia che gli americani sarebberopotuti diventare “ostili” agli ebrei americani per le loro pressioni a favore di Israele.

“Gli ebrei americani hanno potere solo perché i loro concittadini sono disponibili nei confronti del fatto che esercitano questo potere. Potrebbero diventarlo meno. Potrebbero anzi diventare ostili ad esso… Gli ebrei americani fanno spudoratamente pressione sul Congresso per misure a favore di Israele, e rendono politicamente scomodo essere contro Israele e persino prendere una posizione ‘imparziale’. Il personaggio politico che lo fa viene sottoposto a maggiori pressioni ed epiteti, alcuni dei quali decisamente ingiustificati. Ma, come ho detto, il potere deve essere visto nel contesto. Il contesto è che è stato consentito agli ebrei americani di fare quello che fanno.”

Il consiglio di Glazer era che la comunità ebraica statunitense dovesse fare pressione per la creazione di uno Stato palestinese, un consiglio che la comunità rifiutò.

  • Lo scrittore Eric Alterman ha avvertito ripetutamente che l’appoggio a Israele ha “svuotato” la vita ebraica negli USA. E ha affermato che ciò ha contribuito all’antisemitismo. Nel novembre 2022 ha detto ad Americans for Peace Now [organizzazione statunitense impegnata a favorire la soluzione del conflitto israelo-palestinese, ndt.]:

“Ad essere onesti, mentre è in corso un’impennata di antisemitismo negli Stati Uniti, di cui per inciso sono in gran parte responsabili persone adirate con Israele, non c’è davvero nessun problema ad essere ebreo in America come era una volta.”

  • Nel 2015, in un discorso a J Street [organizzazione statunitense moderatamente contraria all’occupazione della Cisgiordania, ndt.], l’ebreo britannico esperto di Medio Oriente Tony Klug affermò che la dipendenza di Israele dagli ebrei statunitensi per difendere l’indifendibile avrebbe contribuito a esiti “sinistri”, e a un’”ondata di antisemitismo”, rendendo forse “precaria” la vita degli ebrei.

“Se Israele non pone drasticamente fine all’occupazione e se la posizione delle organizzazioni ebraiche in altri Paesi sembra appoggiarla apertamente, ci sarà sicuramente  un’ondata di sentimenti antiebraici, scatenando potenzialmente impulsi più sinistri… Ovviamente non lo dico per giustificare tali tetri sviluppi futuri… Temo… che l’occupazione israeliana senza fine della terra e delle vite di un altro popolo non sia solo seriamente dannosa per Israele, per non parlare dell’aggravamento della disperazione dei palestinesi, ma che stia rendendo sempre più precaria anche la situazione degli ebrei in tutto il mondo.”

Questo problema è intrinseco nel sionismo. I suoi coloni ebrei erano dipendenti dal sostegno occidentale, soprattutto delle principali potenze (prima la Gran Bretagna e poi gli USA), e così le comunità ebraiche di quei Paesi vennero chiamate ad esercitare la loro influenza sui governi occidentali in appoggio a Israele. Di fatto nel 1900 molti ebrei inglesi si allontanarono da Herzl [il fondatore del sionismo politico, ndt.] perché si resero conto che l’appoggio a uno Stato ebraico stava minacciando la loro posizione in Gran Bretagna.

Una delle sorgenti storiche di antisionismo ebraico era la scelta di vivere in società diversificate, in cui i diritti di tutti venivano rispettati. Il sionismo ha corrotto questi principi. Ha fondato un’etnocrazia dipendente dall’influenza politica degli ebrei in Occidente.

Oggi ci sono molte buone ragioni per essere antisionisti. Ti preoccupi della vita dei palestinesi tanto quanto di quella degli altri. Ti opponi all’apartheid, alla pulizia etnica e al bombardamento di ospedali e campi di rifugiati. Ma un’altra ragione è che, quando la brutalità di Israele viene esibita al mondo come lo è oggi, il sionismo è un pericolo per gli ebrei in Occidente.

Sono preoccupato del futuro della vita degli ebrei. Non vedo come l’ebraismo che appoggia il genocidio possa sopravvivere spiritualmente. C’è bisogno di una crisi all’interno di quella comunità riguardo a quell’atteggiamento.

Oggi la “presa emotiva” del sionismo sulla comunità ebraica si sta spezzando, afferma Rabkin, in quanto in tutto il mondo giovani ebrei condannano il sionismo.

Oggi è più che mai importante che fiorisca l’antisionismo ebraico. Cosa ancor più importante, per il bene del popolo che viene massacrato da Israele una notte dopo l’altra, e anche per il bene della sicurezza degli ebrei qui.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




‘Israeliani Contro l’Apartheid’ chiede alla CPI di agire per proteggere i palestinesi dal genocidio

Israeliani Contro l’Apartheid

6 novembre 2023 – Mondoweiss

Noi, Israeliani Contro l’Apartheid, associazione di ebrei israeliani per la decolonizzazione, che rappresenta oltre 1.500 cittadini preoccupati, chiediamo alla CPI (Corte Penale Internazionale) di agire prontamente contro i crescenti crimini di guerra israeliani e il genocidio del popolo palestinese.

Nota dell’Editore: I membri dell’associazione Israeliani Contro l’Apartheid, che raggruppa 1500 persone, il 2 novembre 2023 hanno inviato la seguente lettera a Karim A.A. Khan, Procuratore della Corte Penale Internazionale, chiedendo un immediato intervento internazionale per fermare il massacro a Gaza.

2.11.2023

A Karim A.A. Khan, Procuratore della Corte Penale Internazionale,

Noi, ‘Israeliani Contro l’Apartheid’, associazione di ebrei israeliani per la decolonizzazione, che rappresenta oltre 1.500 cittadini preoccupati, chiediamo alla CPI (Corte Penale Internazionale) di agire prontamente contro i crescenti crimini di guerra israeliani e il genocidio del popolo palestinese. Per la sicurezza e il futuro della regione devono essere applicati tutti gli elementi del diritto internazionale e devono essere indagati i crimini di guerra. Apprezziamo la vostra profonda preoccupazione per le vite dei palestinesi, degli israeliani e di altri, e traiamo coraggio dalla vostra determinazione a svolgere un’indagine approfondita sulle perduranti violazioni del diritto internazionale.

Come attivisti israeliani anticolonialisti abbiamo unito le nostre voci a quelle dei palestinesi che da decenni mettono in guardia sulla pericolosa deriva perseguita dallo Stato israeliano e hanno ripetutamente chiesto l’intervento internazionale.

La persistente impunità ha creato le condizioni per il consolidamento del regime di apartheid israeliano, che intende perpetrare la pulizia etnica e il genocidio della popolazione indigena palestinese. Il grave deterioramento delle imprescindibili condizioni di vita a cui ora stiamo assistendo avrebbe potuto essere evitato se Israele non avesse costantemente goduto dell’impunità per i suoi continui crimini.

Siamo riconoscenti per le vostre dichiarazioni del 29 ottobre che hanno sottolineato che impedire gli aiuti umanitari a Gaza potrebbe costituire un crimine che ricade sotto la giurisdizione della CPI e che Israele deve fare “manifesti sforzi, senza ulteriore ritardo, per garantire che i civili ricevano essenziale cibo, acqua e farmaci”. La fornitura immediata di aiuti agli abitanti di Gaza è essenziale per impedire le atrocità della fame e della sete per cause umane tra la popolazione palestinese occupata.

Ad aprile 2018, in seguito alla sistematica uccisione di manifestanti disarmati durante la Grande Marcia del Ritorno, la sua predecessora, Fatou Bensouda, avvertì: “La violenza contro i civili in una situazione come quella di Gaza potrebbe configurare crimini ai sensi dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.” Vi scongiuriamo di assumervi la vostra responsabilità di emettere mandati di arresto e di chiamare a rispondere coloro che commettono questi atti criminali.

L’attuale escalation, dopo l’attacco di Hamas a Israele e l’incursione di gruppi armati palestinesi il 7 ottobre 2023, in cui sono stati uccisi più di mille israeliani e presi in ostaggio più di 200, ha condotto ad un’ondata di violenza e a crimini di guerra compiuti dallo Stato di Israele. Riteniamo cruciale che i tempi dell’inchiesta siano pertanto accelerati. Apprezziamo la vostra dichiarazione che le istituzioni preposte a proteggere la popolazione civile debbano indagare questi possibili crimini e ci aspettiamo che voi agiate con la stessa rapidità messa in atto nel caso dell’Ucraina, per garantire che venga fatta giustizia e vengano salvate vite innocenti.

Siamo estremamente preoccupati dagli inviti istituzionali da parte di Israele al genocidio, che vengono espressi a gran voce in ebraico e crediamo che dovrebbero essere seriamente presi in considerazione in quanto sono in gioco migliaia, se non milioni, di vite umane. Il 29 ottobre 2023 Benjamin Netanyahu ha fatto una dichiarazione pubblica riferendosi al popolo palestinese come “Amalek” [nipote di Esaù, è stato secondo la Bibbia il primo nemico ad attaccare gli Israeliti, subito dopo che questi avevano attraversato il Mar Rosso. Ha finito per rappresentare il male assoluto, il Demonio, ndt.] e citando la Bibbia: “distruggere completamente tutto quanto Amalek possiede e non risparmiare nessuno; bensì uccidere sia uomini che donne e bambini…”

Il personale militare e i giornalisti israeliani ora si appellano apertamente alla pulizia etnica e al genocidio. E’ evidente che Israele disprezza le vite dei civili a Gaza, ordinando loro di evacuare vaste aree anche se a Gaza non esiste un luogo sicuro dove la gente possa fuggire. E non dovrebbero neanche essere costretti a lasciare le proprie case: al contrario, la Risoluzione 194 dell’ONU promette loro il diritto al ritorno alle originarie abitazioni in quello che ora è lo Stato di Israele.

Ci dispiace moltissimo che, nonostante l’avvio di un’inchiesta, seguita dalla decisione del 2021 della Prima Camera Preliminare, secondo cui la Corte può esercitare la sua giurisdizione penale sulla situazione in Palestina, voi finora non abbiate intrapreso azioni concrete per fermare la tragica parabola di eventi nella nostra regione, accertando rendendo Israele responsabile.

Organizzazioni palestinesi, internazionali ed israeliane hanno fatto più volte appello al vostro ufficio perché intraprendiate azioni contro le sistematiche violazioni del diritto internazionale, i continui crimini di guerra e l’immane disprezzo dei più basilari diritti umani del popolo palestinese.

I crimini di guerra israeliani sono sistematici e continui e stanno aumentando. Le chiare e ben documentate prove di essi sono state sottoposte al vostro ufficio per anni. Vi invitiamo pressantemente a intraprendere azioni concrete e immediate.

Considerando l’intensificarsi della violenza e con l’obiettivo di salvare quante più vite possibile, vi esortiamo di:

  1. Emettere immediati mandati di arresto contro i dirigenti israeliani politici e della sicurezza militare che stanno commettendo crimini di guerra e crimini contro l’umanità;

  2. Accelerare la vostra inchiesta sui continui crimini perpetrati in questo momento dallo Stato di Israele, dalle sue forze militari e da cittadini israeliani armati sotto protezione dell’esercito; e

  3. Essere una tribuna valida ed equilibrata per presunti crimini che derivano dall’attuale situazione, piuttosto che fare riferimento ad accuse non convalidate e non verificate.

Allegato: Inviti al genocidio / Giustificazione del genocidio

Alcuni esempi di prove di dirigenti israeliani che invitano al genocidio:

  • Venerdì 13 ottobre il Presidente israeliano Isaac Herzog ha detto che tutti i cittadini di Gaza sono responsabili per gli attacchi che Hamas ha compiuto in Israele e che non ci sono civili innocenti a Gaza. Un elenco di simili inviti da parte di personaggi pubblici israeliani si può trovare qui.

  • Mercoledì 25 ottobre il sindaco di Sderot, ex deputato (n.3 del partito di Naftali Bennet) Alon Davidi ha detto: “Ogni abitante di Gaza è ISIS. Devono essere colpiti tutti…Non ho pietà per loro. Coloro che vivono là, due milioni di persone, sono nazisti. E’ una zona di nazisti e di ISIS che fornisce totale appoggio a Hamas e alla Jihad e, per quanto mi riguarda, ogni abitante di Gaza è di Hamas e dell’ISIS e dobbiamo ritenerli responsabili.” Davidi sottolinea che questo è il sentimento condiviso da tutti gli abitanti del sud (di Israele) con cui lui parla: “La gente vuole dirlo chiaramente: o noi o loro.” 

  • L’ex deputato Moshe Feiglin ha esortato alla completa distruzione di Gaza, come Hiroshima (senza armi nucleari)  

  • L’ex ambasciatore israeliano all’ONU Dan Gillerman ha definito i palestinesi “orribili animali disumani”

  • Un gruppo di esperti del governo israeliano ha recentemente delineato un piano per la completa pulizia etnica di Gaza.

Personaggi o organizzazioni pubbliche:

  • Eyal Golan, un popolare cantante israeliano, ha ribadito alla televisione israeliana la connotazione della popolazione di Gaza come “animali umani”, aggiungendo: “Dobbiamo cancellare Gaza e non lasciarvi nessuno vivo.”

  • Una propaganda distribuita sui social media da un movimento di destra dal titolo “Questa volta vinceremo – Eliminare Gaza” esplicita i suoi obbiettivi per la Striscia di Gaza: “Radere al suolo, Occupare, Colonizzare.”

Un opuscolo con “Codice Etico” fatto circolare ampiamente tra civili e soldati dalla “organizzazione per i diritti umani” di destra israeliana “Btsalmo” auspica il genocidio:

Codice etico per l’esercito di Israele”:

. Desidero offrire la mia anima per salvare il popolo ebraico.

. Il nemico deve essere eliminato piuttosto che neutralizzato.

. Una popolazione che appoggia il terrore è il nemico

. Un ordine di mettere a rischio le vite di civili o soldati allo scopo di

proteggere il nemico è manifestamente illegale.

. Lo sradicamento del male è un precetto morale ed è per il bene

dell’Umanità. Perseguiterò i miei nemici, li raggiungerò e non tornerò

prima della loro morte.

Firmato: Israeliani Contro l’Apartheid.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




I rabbini israeliani dicono a Netanyahu che Israele ha il diritto di bombardare l’ospedale Al-Shifa a Gaza

Jonathan Ofir 

  31 Ottobre 2023  Mondoweiss

Un gruppo di influenti rabbini israeliani ha scritto una lettera a Benjamin Netanyahu affermando il diritto di Israele, secondo la legge ebraica, di bombardare l’ospedale Al Shifa a Gaza

Ieri il giornalista israeliano di destra Amit Segal ha condiviso la lettera di 45 influenti rabbini israeliani (una lista iniziale) indirizzata al “Primo Ministro Benjamin Netanyahu che la sua luce splenda, ai capi di Stato e all’apparato di sicurezza”, affermando esplicitamente il diritto dello Stato di bombardare l’ospedale Al Shifa di Gaza – il principale ospedale della Striscia.

L’esercito israeliano ha affermato che Hamas sta utilizzando come basi gli ospedali sia Al Shifa che Al Quds e ha avvertito entrambe le istituzioni di evacuare prima di un previsto attacco. Le accuse non possono essere verificate e, nonostante ciò, un attacco alle strutture sanitarie è vietato dal diritto internazionale. Se Israele bombarderà Al Shifa non sarà la prima volta: l’ospedale è stato attaccato il 28 luglio 2014 e all’epoca era il quarto ospedale bombardato da Israele durante quell’attacco [la guerra di Israele “Margine di Protezione” 8/7-29/8 2014, ndt.]

Ma ora i rabbini stanno rassicurando i leader israeliani che un simile crimine di guerra sarebbe accettabile per il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Ecco cosa dicono dell’ospedale Al Shifa:

È necessario chiarire che anche quando il nemico si nasconde dietro uno ‘scudo umano’, come sappiamo nel caso del quartier generale dei terroristi presso l’ospedale Al Shifa a Gaza – non esiste alcun divieto della halacha [legge religiosa ebraica] o morale, né un divieto legale, di bombardare il nemico dopo sufficiente preavviso. E se con tale azione verrà versato sangue innocente, la colpa ricadrà esclusivamente sulle teste dei crudeli assassini [di Hamas] e dei loro sostenitori”.

Nella lista dei firmatari figurano diversi illustri rabbini che in passato hanno sostenuto l’uccisione dei “nemici bambini”. I rabbini Yitzhak Shapira e Yosef Elitzur lo hanno scritto esplicitamente nel loro libro Torat Hamelech (La Torah del Re) del 2009, sostenendo che tali bambini possono spesso ostacolare l’uccisione del nemico e che la loro uccisione è quindi consentita. Hanno scritto anche che il loro omicidio è consentito con la giustificazione che questi bambini “cresceranno per farci del male”.

Uno degli autori di Torat Hamelech, Yitzhak Shapira, rabbino della yeshivah [scuola ebraica tradizionale focalizzata sullo studio della letteratura rabbinica, ndt.] Od Yosef Hai di Yitzhar, è uno dei firmatari della lettera di ieri (fino al 2011 la yeshivah riceveva in particolare sovvenzioni dal fondo della famiglia Kushner, la potente famiglia del genero di Trump). Altri due rabbini sulla lista dei firmatari, Dov Lior (primo firmatario, ex rabbino di Kiryat Arba e mentore spirituale di Itamar Ben-Gvir) e Yitzchak Ginzburg (terzo firmatario, affiliato al noto movimento estremista ortodosso Chabad) hanno approvato il libro Torah del Re.

Dal 7 ottobre Israele ha preso di mira decine di strutture sanitarie. Non solo gli ospedali Al Shifa e Al Quds: Israele ha chiesto l’evacuazione dell’intera area, compresi i suoi circa 24 ospedali. Il dottor Mads Gilbert, un medico norvegese che ha lavorato a più riprese all’ospedale Al Shifa, ha parlato della questione a Democracy Now [programma della televisione indipendente americana PBS, ndt.]:

Sentiamo queste affermazioni dal 2009. Siamo stati minacciati due volte di dover lasciare l’ospedale Al Shifa, nel 2009 e nel 2014, perché gli israeliani lo avrebbero bombardato perché era un centro di comando. Dunque, lavoro a Shifa da 16 anni, 16 anni andando e venendo, in periodi molto frenetici, periodi molto intensi. Ho sempre potuto muovermi liberamente. Faccio molte foto. Faccio video, filmo. Dormivo in ospedale durante il bombardamento. Sono stato dappertutto. Non sono mai stato fermato o controllato.

Nessuno ha mai controllato le mie foto o il mio materiale di documentazione. Quindi, beh, se c’è un centro di comando, mostratecelo. Avete foto e radiografie di tutta Gaza, di tutti i tunnel, di tutto. Allora, perché in questi 16 anni di minacce secondo cui Al Shifa è un centro di comando non è stata fornita alcuna prova che lo sia davvero? Ora, se fosse un centro di comando militare non ci lavorerei, per prima cosa perché obbedisco alla Convenzione di Ginevra.

In secondo luogo, se gli israeliani affermano che si tratta di un obiettivo misto militare-civile, perché ovviamente è civile, con decine di migliaia di persone radunate lì e 2.000 pazienti in cura – se si tratta di un obiettivo misto militare-civile, le precauzioni per i civili hanno la priorità sull’obbiettivo militare. Quindi, secondo la Convenzione di Ginevra, non si possono bombardare gli ospedali, a meno che non abbiano funzioni militari molto precise.

Quindi, secondo me, tutto questo fa parte di questa pazzesca intimidazione nei confronti del popolo palestinese a Gaza. Sono minacciati con volantini lanciati da aerei ed elicotteri. Sono minacciati da telefonate. Sono minacciati da messaggi tipo: ‘Se adesso rimani nel nord di Gaza, ti definiamo un terrorista’. Che roba è? 2023, due milioni e mezzo… 2,2 milioni di persone, civili e disarmati vengono uccisi, un bambino ucciso ogni 10 minuti. Ad oggi il numero dei bambini palestinesi uccisi è 3.324, e a Gaza sono 2.062 i bambini scomparsi”.

Il capo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus sottolinea:

È impossibile evacuare ospedali pieni di pazienti senza mettere in pericolo la loro vita. Secondo il diritto internazionale umanitario l’assistenza sanitaria deve essere sempre protetta”.

Ma i rabbini hanno detto che va bene. A chi darà retta Israele?

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Una lettera aperta da israeliani a israeliani: abbiamo diritto di sapere la verità sul 7 ottobre

Lettera Aperta

31 ottobre 2023 – Mondoweiss

Come israeliani chiediamo una commissione ufficiale sugli avvenimenti del 7 ottobre. In nome delle vittime israeliane, a Gaza si sta perpetrando un genocidio e non sappiamo ancora chi è stato ucciso, come e da chi. Chiediamo risposte e così dovreste fare anche voi.

*Nota dell’editore: la seguente dichiarazione è stata scritta da un gruppo di cittadini israeliani che desiderano rimanere anonimi per la propria sicurezza e per il timore di rappresaglie da parte del governo.

Ai nostri concittadini israeliani,

ci rivolgiamo a voi dalle nebbie del genocidio. Piangiamo e siamo preoccupati per “noi stessi” così come per quelli che la maggioranza di voi ignora o vede come “animali”.

Quando militari israeliani hanno iniziato a diffondere attraverso media israeliani in inglese voci riguardo a “bambini sgozzati”, siamo immediatamente rimasti sconvolti. Abbiamo compreso che la propaganda del nostro governo non sarebbe stata la stessa dei precedenti attacchi letali contro Gaza.

Mentre Israele per giustificare i bombardamenti continua a sfornare immagini di presunti “edifici di Hamas” (cosa non lo è, agli occhi di Israele?) nel campo di concentramento di Gaza, il discorso in Israele e a livello internazionale ora contiene qualcosa di molto più simile alla propaganda nazista dello sterminio.

Sappiamo qual è lo scopo di questa propaganda. Più di 8.500 bambini, donne e uomini nativi della Palestina sono stati sterminati, e mentre scriviamo il numero continua a crescere. Molti sono intrappolati tra le macerie delle loro case, e muoiono lentamente. Altri affrontano sete, fame e malattie infettive. Nel contempo importanti personalità israeliane, persino il nostro presidente, continuano a urlare che a Gaza “non ci sono civili innocenti”.

Sia chiaro, quello che Israele sta facendo ora a Gaza perseguiterà gli israeliani per decenni. Ora è il momento di fare in modo che tutti gli israeliani lo comprendano. E questa comprensione dovrebbe iniziare con la massima trasparenza riguardo agli avvenimenti del 7 ottobre 2023.

C’è qualche richiesta che ogni israeliano dovrebbe subito porre, anche se nega il genocidio in corso a Gaza. La prima è una lista completa di tutte le vittime israeliane che sono state identificate. Non c’è una lista completa sul sito ufficiale del governo. La lista pubblicata da Ha’aretz è parziale. Alcuni nomi devono ancora essere “autorizzati per la pubblicazione”, e noi vorremmo sapere cosa ciò significhi.

La mancanza di una lista completa dopo tre settimane porta alla richiesta successiva che i cittadini israeliani dovrebbero fare: la costituzione di una commissione d’indagine ufficiale. Tale commissione dovrebbero ovviamente affrontare i gravissimi errori da parte dell’intelligence e delle unità operative, così come l’insistenza israeliana nel trasformare Gaza in una prigione a cielo aperto nei decenni precedenti.

Inoltre, secondo il portavoce di Hamas, 50 prigionieri israeliani sono già stati uccisi in seguito alla decisione del nostro governo di bombardare a tappeto Gaza. Si può considerare o meno il portavoce di Hamas una fonte attendibile, ma sappiamo che gli ostaggi israeliani, cari a molti qui, sono stati distribuiti in tutta la Striscia e Israele non sembra sapere esattamente dove si trovino.

I cittadini israeliani devono chiedersi se appoggiano i bombardamenti indiscriminati che minacciano la vita degli ostaggi. Un accordo per uno scambio è già stato proposto. Sappiamo che Hamas lo ha chiesto fin dal primo giorno. La cieca vendetta genocidaria di Israele ignora il benessere degli ostaggi israeliani.

E mentre il nostro esercito stermina esseri umani a Gaza, i mezzi di informazione dell’hasbara (propaganda) israeliana sono scatenati, soprattutto all’estero. I resti carbonizzati di persone care vengono esibiti in giro, senza nome, contestualizzati solo da appelli disumanizzanti a sradicate i prigionieri del campo di concentramento di Gaza. Dopo aver visto queste immagini, rivolte a un pubblico occidentale e con totale disprezzo per le famiglie dei sopravvissuti, evidenziamo ancora una volta che abbiamo tutti diritto a informazioni precise su chi siano queste vittime e come siano morte.

Senza un’indagine indipendente possiamo solo sperare di mettere insieme articoli sporadici e testimonianze dei sopravvissuti. Prospereranno teorie cospirative. Abbiamo già visto dei tentativi di negare il fatto stesso che civili israeliani siano stati uccisi da combattenti di Hamas.

Inoltre rifiutiamo i tentativi israeliani di etichettare i soldati e altri agenti della sicurezza come vittime del terrorismo al pari dei civili. Se un soldato israeliano è un civile israeliano, un civile israeliano è un soldato. Rifiutiamo questa pericolosa equazione.

Infine, ci tormenta la domanda di chi abbia ucciso alcuni civili israeliani. Da vari resoconti emerge che alcuni sono stati uccisi dall’esercito israeliano. Che siano stati presi in mezzo a tiri incrociati o colpiti deliberatamente con carri armati o elicotteri per eliminare combattenti di Hamas o per impedire ad Hamas di prendere altri ostaggi, abbiamo diritto a una risposta.

Chiediamo risposte perché a Gaza viene perpetrato un genocidio in nome delle vittime israeliane, benché le famiglie dei defunti siano assolutamente contrarie a questa atroce vendetta. Chiediamo risposte e voi dovreste fare altrettanto.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele ha ucciso la famiglia del corrispondente di Al-Jazeera qualche giorno dopo che Blinken aveva chiesto ai giornalisti del canale di “abbassare i toni”.

Mohammed El-Kurd 

 25 ottobre 2023 – Mondoweiss

Oggi il caporedattore di Al-Jazeera Wael El-Dahdouh stava trasmettendo in diretta da Gaza quando un attacco aereo israeliano ha ucciso sua moglie e due figli. Ora anche altri giornalisti temono che le loro famiglie possano essere prese di mira solo perché fanno il proprio lavoro.

Wael El-Dahdouh, caporedattore di Al-Jazeera a Gaza, stava trasmettendo in diretta quando un attacco aereo israeliano ha preso di mira l’edificio nel sud di Gaza in cui si era rifugiata la sua famiglia, uccidendo sua moglie, il figlio, la figlia e un nipote.

L’informazione è giunta poche ore dopo che Axios [sito web informativo statunitense, ndt.] ha dato la notizia che il segretario [di Stato] Antony Blinken ha detto ai dirigenti ebrei statunitensi di aver chiesto al Qatar di “abbassare il tono della copertura informativa di Al Jazeera” sulla campagna genocidaria israeliana nella Striscia di Gaza, accusando la rete di essere “anti-israeliana”.

Mondoweiss ha contattato giornalisti a Gaza che hanno condiviso il timore che le loro famiglie possano cadere vittime di un bombardamento punitivo solo perché fanno il proprio lavoro.

“Ho iniziato a sentire di essere un pericolo per quelli che mi stanno attorno,” ha confessato un giornalista. “Ho provato questa sensazione fin dall’inizio della guerra, da quando la mia voce ha iniziato ad essere udita… Ci sono tanti innocenti vicino a me, gente che non ha niente a che fare con me, con quello che scrivo o con il mio lavoro.”

Il giornalista, anonimo per timore di rappresaglie, ha affermato: “Prendere di mira la famiglia di qualcuno è più doloroso che prendere di mira solo quella determinata persona.” Ed ha aggiunto: “Forse questo è il messaggio che vogliono mandare a ogni giornalista: ‘Non sei l’unico che prenderemo di mira, possiamo far bruciare il tuo cuore colpendo la tua famiglia e rubarti la voglia di continuare a vivere.’”

Stamattina presto Mohammed Farra, un altro giornalista palestinese, ha ricevuto la notizia che, mentre lui si trovava a Ramallah, a molte miglia e molti checkpoint da Gaza, sua moglie e i suoi figli sono stati uccisi in un attacco aereo israeliano contro Khan Yunis.

“Ogni persona di cui si sente la voce o che ha raggiunto una visibilità internazionale è costretto a pagarne il prezzo,” ha detto a Mondoweiss il giornalista che si trova a Gaza. “Puoi percepire l’intenso controllo su ogni cosa che esce da Gaza. E chiunque dice qualunque cosa, anche una frase o una parola, che Israele non vuole sentire sarà preso di mira, lui e la sua famiglia.”

Questa testimonianza è in linea con il fatto che sono presi di mira studenti, attivisti e normali utenti delle reti sociali nella Gerusalemme occupata e nei territori del 1948 [ossia Israele, ndt.], accusati di incitamento a causa dei loro post su social media.

Dal 7 ottobre il regime israeliano ha ucciso 20 giornalisti palestinesi a Gaza e uno libanese nel sud del Libano.

El-Dahdouh, un esperto giornalista, è stato ripreso mentre, inginocchiato per terra, accarezzava il volto sanguinante di suo figlio quindicenne, Mahmoud, che voleva diventare un giornalista. “Si stanno vendicando con l’uccisione dei nostri figli,” ha detto Dahdouh, circondato da un gruppo di suoi colleghi. Altri membri della sua famiglia sono ancora sotto le macerie.

Durante la conversazione di Mondoweiss con il giornalista che si trova a Gaza, questi ha ricordato un video in inglese che i figli di Dahdouh avevano appena realizzato e messo in rete. “Descrivevano quello che succede a Gaza. Parlavano di come interi quartieri sono stati distrutti e come nessun luogo fosse sicuro. Chiedevano cosa avessero da dire a questo proposito le leggi internazionali e i diritti umani. E finivano il loro video con il messaggio: ‘Aiutateci a rimanere in vita.’ E il mondo li ha abbandonati.”

In Qatar un presentatore di Al Jazeera si è messo a piangere quando ha dato la notizia che l’intera famiglia del suo collega era stata uccisa nel bombardamento aereo del campo profughi di Nuseirat, nel cuore della Striscia assediata, dove Dahdouh e la sua famiglia si erano rifugiati.

La famiglia era stata cacciata dal nord di Gaza dopo che il suo quartiere era stato bombardato, insieme a 1.4 milioni di palestinesi che sono stati obbligati a fuggire dalle proprie case dopo le minacce dell’esercito israeliano, secondo cui chi fosse rimasto nel nord dell’enclave avrebbe potuto essere “trattato come membro di un’organizzazione terroristica.” “La vostra presenza nella valle di Gaza aumenta le vostre possibilità di morire,” dicevano migliaia di volantini lanciati su Gaza da aerei da guerra israeliani.

Si è detto che il 43% degli edifici della Striscia sono stati danneggiati o distrutti dai bombardamenti israeliani. “Questa è l’area ‘sicura’ di cui parla l’esercito occupante,” ha detto El-Dahdouh ai media fuori dall’ospedale dei Martiri di Al-Aqsa a Deir el-Balah.

“[I figli di Dahdouh] stavano cercando di far sentire la loro voce e denunciare i crimini di Israele. Onestamente ciò mi terrorizza. Ora la mia voce raggiunge le persone e ho un gran numero di risposte da israeliani con post su Twitter. Mi attaccano personalmente e dicono che non hanno neppure iniziato,” ha detto a Mondoweiss il giornalista che si trova Gaza.

La rete televisiva Al-Jazeera ha condannato “l’attacco indiscriminato da parte delle forze israeliane che ha provocato la tragica perdita della moglie, del figlio e della figlia [di Dahdouh], mentre il resto della famiglia è sepolto sotto le macerie.”

Alla fine della conversazione, il giornalista anonimo ha detto a Mondoweiss: “Se il prezzo di compiere il tuo dovere professionale o il dovere giornalistico a Gaza significa perdere tutta la tua famiglia, allora penso che non ci vorrà molto prima che la maggioranza dei giornalisti lascino il lavoro per garantire la sicurezza della loro famiglia.”

“Comincio a pensare che forse io rappresento un pericolo per le loro vite, e anche per la mia, ma come ti ho detto, quando perdi la tua vita non te ne accorgi. Non lo so, non lo so proprio.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




500 arrestati al Campidoglio tra gli attivisti ebrei che chiedono il cessate il fuoco a Gaza

Michael Arria

19 ottobre 2023 – Mondoweiss

Se non recuperiamo la nostra comune umanità non credo che potremo mai tornare indietro da tutto questo”, ha detto ai manifestanti la deputata Rashida Tlaib. “E al nostro Presidente: voglio che sappia che come palestinese-americana e persona di fede musulmana, non dimenticherò. E credo che molte persone non dimenticheranno.”

Cinquecento persone, comprese due dozzine di rabbini, sono state arrestate mercoledì a Washington quando attivisti ebrei hanno guidato una protesta dentro e fuori Capitol Hill. I manifestanti chiedevano ai deputati di appoggiare un cessate il fuoco a Gaza.

Centinaia di manifestanti sono entrati nella rotonda dell’edificio principale della Camera dei Rappresentanti dove hanno cantato, scandito slogan ed esposto cartelli che chiedevano un immediato cessate il fuoco. Gli attivisti indossavano magliette con davanti la scritta “Non in nostro nome” e “Gli ebrei dicono cessate il fuoco adesso”.

La polizia del Campidoglio ha comunicato che stava chiudendo le vie intorno al Campidoglio per garantire la sicurezza dei manifestanti all’esterno.

Al mattino presto più di 5.000 ebrei americani e loro alleati si sono radunati sul National Mall (il viale monumentale). La folla era guidata dalle deputate Rashida Tlaib (del Minnesota) e Cori Bush (del Montana). “Ringraziamo la nostra comunità ebraica per essere qui a dire ‘Mai più’ “, ha detto Bush.

Il 16 ottobre Tlaib, Bush e diversi altri rappresentanti progressisti hanno presentato una risoluzione che chiede all’amministrazione Biden di premere per un immediato cessate il fuoco a Gaza.

L’impegno legislativo è appoggiato da decine di associazioni per i diritti umani, comprese Adalah Justice Project, American Muslims for Palestine (AMP) e U.S.Campaign for Palestinian Rights (USCPR).

Se non recuperiamo la nostra comune umanità non credo che potremo mai tornare indietro da tutto questo”, ha detto Tlaib. “E al nostro Presidente: voglio che sappia che come palestinese-americana e persona di fede musulmana, non dimenticherò. E credo che molte persone non dimenticheranno.”

Jewish Voice for Peace’ ha messo in evidenza l’azione in un post su Twitter:

Oggi 500 ebrei sono stati arrestati e 10.000 sono scesi in strada per sostenere e chiedere un cessate il fuoco e la fine del genocidio palestinese. Fermiamo il congresso per attirare una massiccia attenzione alla complicità degli USA nella continua oppressione di Israele sui palestinesi. Ma il nostro lavoro non è finito.

Possiamo fermare il genocidio a Gaza e lo faremo. Ma questa orribile situazione è stata resa possibile solo grazie al lavoro di fondo condotto dallo Stato israeliano da 75 anni. Dal 1948 il governo israeliano ha costruito un sistema di apartheid e di occupazione illegale.

Così come chiediamo la fine del genocidio a Gaza, dobbiamo compiere lo stesso sforzo per smantellare il sistema di sionismo, apartheid e colonialismo che ci ha portati a questa situazione.

L’unica strada per la pace e la sicurezza – per tutti – passa attraverso la giustizia e l’uguaglianza per tutti. Ciò significa essere solidali con i palestinesi. Significa costruire un mondo al di là del sionismo. Significa creare sistemi di sicurezza attraverso la solidarietà. Volete unirvi a noi?

La manifestazione di mercoledì si è svolta solo due giorni dopo che attivisti ebrei avevano bloccato tutti gli ingressi alla Casa Bianca, chiedendo a Biden di sostenere un cessate il fuoco.

Fin da bambini molti di noi si sono detti che non sarebbero stati a guardare se fossero mai stati testimoni di violenza genocida. Ci siamo detti che avremmo alzato la voce. Ci siamo detti che avremmo frapposto i nostri corpi. Abbiamo promesso che tali orrori non sarebbero mai più avvenuti sotto i nostri occhi”, ha detto la scrittrice e attivista Naomi Klein, che ha parlato anch’essa ai manifestanti. “Il ‘mai più’ di tutta la nostra vita sta accadendo proprio adesso a Gaza. E noi ci rifiutiamo di stare a guardare.”

La sezione di Washington della Anti-Defamation League (ADL) [associazione ebraica contro l’antisemitismo, fondata negli USA, ndt.] ha calunniato i manifestanti in una dichiarazione e ha affermato che gli anti-sionisti sono antisemiti. L’amministratore delegato dell’ADL Jonathan Greenblatt in un tweet ha paragonato gli attivisti ai suprematisti bianchi.

L’ADL è spaventata perché loro, come altre organizzazioni ebraiche istituzionali, hanno la sensazione di perdere il controllo di chi può parlare a nome degli ebrei americani”, ha scritto Ben Lorber, un membro di IfNotNow (Se non ora) e JVP (Jewish Voice for Peace). “Francamente, fanno bene a spaventarsi. Il loro fallimentare centrismo è il passato e le associazioni come IfNotNow e JVP sono il presente e il futuro.”

Michael Arria è il corrispondente USA per Mondoweiss.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)