Israele ha assolto l’assassino di Eyad al-Hallaq. Poi Ben-Gvir ha definito terrorista sua madre.

Yumna Patel 

7 luglio 2023 – Mondoweiss

Un tribunale distrettuale israeliano ha assolto l’agente della polizia di frontiera che nel 2020 sparò e uccise un palestinese affetto da autismo che era disarmato e stava scappando dalla polizia.

Tre anni dopo gli spari che provocarono indignazione a livello internazionale un tribunale israeliano ha prosciolto un agente della polizia di frontiera israeliana che uccise un palestinese affetto da autismo.

Giovedì il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha stabilito che il poliziotto, inizialmente incriminato per omicidio colposo, agì per “autodifesa” quando sparò e uccise il trentaduenne Eyad al-Hallaq.

Il 30 maggio 2020 al-Hallaq si stava recando a una scuola per disabili nella città vecchia di Gerusalemme est occupata quando venne inseguito da agenti israeliani. All’epoca la polizia affermò che al-Hallaq, che era autistico, stava comportandosi in modo “sospetto” e che era armato, per cui gli agenti gli avevano sparato. In seguito venne dimostrato che era disarmato.

Secondo quanto riportato da Al Jazeera, nella decisione di giovedì del tribunale l’uccisione di al-Hallaq viene descritta come un “tragico errore”, affermando che l’agente “aveva preso una decisione in pochi secondi in una situazione di pericolo,”. Il tribunale ha aggiunto che il poliziotto, la cui identità è rimasta nascosta all’opinione pubblica, aveva agito in “buona fede” perché convinto che al-Hallaq fosse un “aggressore”.

Immagini video postate sulle reti sociali dopo la decisione del tribunale mostrano la madre di al-Hallaq, Ranad, urlare disperata nell’aula del tribunale, e avrebbe gridato: “Siete tutti dei terroristi, mio figlio è sottoterra.”

Il padre di al-Hallaq, Khairi al-Hallaq, ha detto ai giornalisti: “In sostanza il tribunale ha detto alla polizia: ‘Fate quello che volete agli arabi. Non sarete puniti per questo’.”

Video postati sulle reti sociali venerdì 7 luglio, il giorno dopo l’udienza in tribunale, mostrano Ranad al-Hallaq affrontare un gruppo di manifestanti israeliani, tra cui il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, di estrema destra. Benché Mondoweiss non abbia potuto comprendere quello che viene detto nella discussione tra i due, secondo un tweet di Tamy Abdul Ben-Gvir avrebbe urlato: “Vattene, terrorista,” alla madre di al-Hallaq.

In risposta alla decisione della corte Ben-Gvir ha affermato: “Gli eroici soldati che proteggono lo Stato di Israele con le proprie vite avranno un ampio e totale sostegno da me e dal governo israeliano.”

Secondo Haaretz l’agente della polizia di frontiera verrà reintegrato in servizio e parteciperà “tra poche settimane a un corso per comandanti”.

Affermazioni contraddittorie

Durante l’indagine e il procedimento giudiziario i genitori di Eyad al-Hallaq hanno accusato gli inquirenti e i pubblici ministeri israeliani di essere stati indulgenti con l’agente e che egli avrebbe dovuto essere imputato di omicidio volontario invece che colposo, che comporta una pena massima di 12 anni.

L’atto di accusa contro il poliziotto, presentato nel 2021, specificava come l’accusato avesse sparato ad al-Hallaq allo stomaco mentre era intrappolato con la schiena contro il muro, nascosto dietro un cassonetto della spazzatura. L’agente gli sparò una seconda volta al petto mentre era a terra ferito, uccidendolo.

Il poliziotto sostenne che “sospettava che al-Hallaq fosse un terrorista” perché portava guanti e mascherina neri, cosa per niente strana dato che si era all’inizio della pandemia da COVID-19, e “nel camminare si era fermato varie volte guardando indietro.”

Al-Hallaq stava andando a scuola alle prime ore del mattino e sarebbe stato spaventato dal gruppo di poliziotti israeliani che si trovavano nella zona e gli avevano detto di fermarsi. Immagini di una telecamera di sorveglianza mostrano al-Hallaq che si allontana di corsa dai poliziotti, guardando affannosamente dietro di sé mentre gli agenti lo inseguono.

Nella sua testimonianza il poliziotto ha anche affermato di temere per la vita di una donna che si trovava nelle vicinanze, sostenendo di essere stato “sicuro che al-Hallaq fosse un terrorista che intendeva compiere una strage e stava per uccidere una donna.”

Secondo Haaretz l’agente ha detto che dopo che al-Hallaq era entrato in un gabbiotto dei rifiuti avrebbe “sentito le urla di una donna,” affermando: “Da ciò che ho potuto vedere il terrorista stava per uccidere la donna. Erano urla terribili,” ha sostenuto. “Per come l’ho vista io, stavo salvando questa donna.” La donna risultò essere l’insegnante di al-Hallaq e l’unica testimone degli spari. Disse che stava gridando ai poliziotti di non sparare ad al-Hallaq, spiegando loro che si trattava di un disabile. Affermò che gli agenti ignorarono le sue invocazioni e gli spararono ugualmente.”

Lo scorso anno, poco dopo l’uccisione di suo figlio, Ranad al-Hallaq raccontò questi eventi a Mondoweiss, sostenendo che egli si era “rannicchiato per la paura” nascosto dietro al cassonetto, e gridava: “Sono con lei, sono con lei,” indicando la sua insegnante.

“Lei (la docente) vide quello che stava accadendo e urlò alla polizia di fermarsi, dicendo che egli era un disabile,” affermò Ranad. “Ma non si fermarono e continuarono a gridare ‘terrorista!’ in ebraico.”

Di rado poliziotti e soldati israeliani rispondono dei crimini commessi contro palestinesi. Secondo un rapporto di maggio dell’autorità di controllo statale israeliana nel 2021 l’1,2% delle denunce contro funzionari della sicurezza ha comportato un’incriminazione.

Adalah –Centro Giuridico per i Diritti della Minoranza Araba in Israele ha condannato la polizia e le forze di sicurezza israeliane perché non seguono le adeguate procedure prima di aprire il fuoco, affermando che l’“assoluta impunità” che i funzionari ottengono nelle indagini per omicidio colposo comporta “un’estrema facilità nell’uso delle armi da fuoco da parte degli agenti di polizia e delle guardie giurate quando si tratta di arabi.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“La nuova Nakba”: quello che un giornalista palestinese ha visto mentre informava sull’invasione di Jenin

Mohammed Abed

4 luglio 2023 – Mondoweiss

Quello che ho visto a Jenin è una nuova Nakba. Siamo stati riportati indietro al 1948, al 1967 e al 2002 quando il campo profughi di Jenin venne raso al suolo. Questa è stata la sorte della gente del campo nelle ultime 24 ore.

All’incirca verso l’1:30 della notte del 3 luglio i droni dell’esercito di occupazione hanno lanciato un attacco aereo su una delle sedi della resistenza palestinese nel campo profughi di Jenin.

Ho subito indossato il mio gilet con la scritta “Stampa” e mi sono diretto al campo dove erano avvenuti gli attacchi aerei. Lungo il percorso di 5 km per arrivare al campo hanno iniziato a giungerci notizie secondo cui le forze militari dell’occupazione avevano lasciato le basi dell’esercito che si trovano ai posti di controllo di Dotan, Jalameh e Salem che circondano Jenin. Stavano per entrare in città.

In quel momento mi sono reso conto che l’invasione era iniziata.

Carri armati in marcia verso Jenin FOTO: ATEF SAFADI/EFE VIA ZUMA PRESS/APA IMAGES)

Quando sono arrivato al campo l’esercito era già là, schierato fuori dall’ingresso occidentale presso la rotonda di Awda. Sono affluite decine di veicoli blindati che poi si sono sparpagliate per accerchiare il perimetro del campo.

Abbiamo iniziato a informare dell’invasione mentre l’esercito entrava a forza. Questa volta sembrava diverso dalle precedenti incursioni, l’esercito faceva ampio uso dei droni militari per lanciare attacchi aerei su vari luoghi all’interno del campo, qualcosa che non si era più visto dalla Seconda Intifada. Le esplosioni sono continuate per parecchie ore, mentre l’esercito continuava a martellare il campo dall’alto. Dopo un po’ le esplosioni sono diventate meno frequenti, sostituite da un suono diverso, più familiare, di ordigni artigianali fatti esplodere.

Abbiamo tentato di entrare per continuare il nostro lavoro, ma l’esercito ci ha impedito di avanzare. Ha impedito anche alle ambulanze e al personale medico di entrare per curare i feriti.

Un mezzo blindato dell’esercito israeliano blocca l’ingresso del campo di Jenin. Foto:MOHAMMED NASSER/APA IMAGES)

Siamo andati all’ospedale Ibn Sina di Jenin e abbiamo assistito all’afflusso graduale di persone, molte delle quali ferite o che cercavano un rifugio. Abbiamo notato che altri veicoli militari continuavano a passare nei pressi dell’ospedale, almeno cinque convogli, tra cui quattro bulldozer militari, diretti al campo.

Sono passate ore e dal campo proveniva il suono delle esplosioni. Abbiamo cominciato a documentare i casi di persone ferite e uccise che hanno iniziato a raggiungere l’ospedale. Dopo che le forze di occupazione avevano impedito loro di curare i feriti, sul posto sono arrivate ambulanze.

Di primo mattino i bulldozer si sono messi a disselciare le vie di Jenin, scavando trincee profonde un metro nel terreno. È stata la prima volta in vent’anni che abbiamo visto queste scavatrici in azione.

Le conseguenze del feroce attacco con bulldozer che ha sventrato il manto stradale e schiacciato una macchina . Foto: NASSER ISHTAYEH/SOPA IMAGES VIA ZUMA PRESS WIRE/APAIMAGES)

Quando è sorto il sole abbiamo visto i droni dell’esercito coprire il cielo su di noi, mettendo in chiaro che l’invasione sarebbe probabilmente continuata per un certo tempo. Durante il giorno ci siamo avviati verso vari luoghi in cui era schierato l’esercito. Il primo è stato in via Haifa, dove stazionavano vari veicoli militari. Il secondo è stato la rotonda del ministero dell’Interno, dove un convoglio di blindati stava formando un cordone attorno alla zona per chiudere le strade di accesso al campo. Il terzo luogo è stato presso il cinema Circle, nel centro di Jenin, dove si stava svolgendo uno scontro armato tra l’esercito e i combattenti della resistenza. Miliziani erano schierati ai lati delle strade e scambiavano colpi di armi da fuoco con l’esercito. Improvvisamente a un certo punto della sparatoria un nutrito gruppo di combattenti ha iniziato ad avanzare verso il centro della strada e ha continuato a sparare contro i blindati. Mentre filmavamo uno dei miei colleghi si è girato verso di me e mi ha detto che ciò gli ricordava le violente battaglie di strada della Seconda Intifada.

Queste scene di scontri armati erano già state documentate dall’inizio degli ultimi avvenimenti nel campo profughi di Jenin, ma le incursioni dell’anno scorso non hanno niente a che vedere con quello che abbiamo visto con i nostri occhi. Abbiamo assistito all’audacia e allo stoicismo dei combattenti della resistenza mentre affrontavano l’occupazione, dimostrando una tenace determinazione da far rabbrividire.

Infine, il quarto luogo è stato l’ingresso principale del campo profughi di Jenin, dove lo scontro era più feroce. Pneumatici in fiamme riempivano le strade, così come il fumo nero che saliva in colonne che servivano come temporanea cortina fumogena intesa a proteggere i combattenti. Poco dopo un attacco aereo nel campo si potevano sentire le ambulanze che portavano via decine di feriti all’Ibn Sina, dove si era riunita una folla per aiutare il personale medico nel trasporto dei feriti. È così che la gente del campo affronta queste condizioni, offrendosi aiuto reciproco indipendentemente dalla competenza specifica. Quello che vogliono fare è dare una mano in ogni modo possibile.

Il soccorso ai feriti all’ingresso del Campo Profughi. Foto:MOHAMMED NASSER/APA IMAGES

Dopo poco tempo è entrata un’altra ambulanza che portava un gruppo di giornalisti evacuati dal campo. Stavano informando sugli avvenimenti in loco quando l’esercito li ha presi di mira con proiettili veri. Nessuno è stato direttamente colpito, ma alcuni sono tornati senza il loro equipaggiamento in quanto l’esercito ha deliberatamente sparato contro le telecamere che stavano trasmettendo gli eventi dal vivo.

Ho parlato con uno dei giornalisti, Issam Rimawi:

Io e altri colleghi — Hisham Abu Shaqrah, Amid Shehadeh, Rabie Munir, and Abdulrahman Younis — ci trovavamo all’interno del campo prima che le forze di occupazione lo invadessero. Improvvisamente le forze di occupazione sono arrivate in mezzo al campo durante il nostro lavoro, non ci hanno consentito di andarcene e anzi hanno aperto il fuoco contro di noi. Ci siamo rifugiati in una delle case finché siamo stati portati via da un’ambulanza. È stato uno spettacolo terrificante.”

È così che si sono svolti i fatti a Jenin finché è scesa la notte, quando l’esercito ha obbligato migliaia di persone a lasciare il campo. Quelle famiglie sono scappate perché gli è stato detto che la loro casa sarebbe stata bombardata, ma molti sono rimasti nella propria abitazione.

Questo è ciò che significa essere profugo. Questa è la Nakba, rinata dai crimini dell’occupazione. Siamo stati riportati indietro al 1948, al 1967 e al 2002, quando il campo profughi di Jenin venne raso al suolo.

Abbiamo parlato alle famiglie del campo. Ci hanno detto che le ambulanze sono arrivate e hanno detto loro che dovevano andarsene dalle loro case perché l’occupazione intendeva bombardare molte delle loro abitazioni. Una delle persone ha descritto il livello di distruzione a cui ha assistito:

Quando abbiamo lasciato le nostre case le strade erano completamente distrutte. Ovunque nel campo c’erano segni di devastazione e abbiamo camminato sulle macerie causate dagli attacchi aerei e dai bulldozer. Nel campo niente è rimasto come prima. Tutto è stato distrutto.”

Questa è stata la sorte delle persone del campo nelle ultime 24 ore e forse è la stessa sorte che li attende nelle prossime 24 ore. Gli attacchi aerei continuano e i combattimenti si intensificano. Possiamo sentire altre esplosioni, ed è quasi certo che continueranno.

Mohammed Abed

Mohammed Abed è un giornalista palestinese che risiede a Jenin.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La tournée italiana del Coro palestinese Amwaj

Tom Suarez

29 giugno 2023 – Mondoweiss

Il Coro palestinese Amwaj ha intrapreso un ambizioso tour di otto tappe in Italia che prevede l’esecuzione dell’opera Amal – Oltre il Muro basata sul testo dello scrittore palestinese in carcere Walid Daqqah.

Questo mese per tre settimane la Palestina e l’Italia si incontrano faccia a faccia.

Il Coro Amwaj della Palestina ha intrapreso un ambizioso tour italiano di otto tappe, eseguendo tre differenti programmi a Vicenza, Brescia, Avesa, Torino, Genova, Roma, Castelnuovo di Porto e Supino. L’opera lirica Amal — Oltre il Muro si alterna a due programmi di concerti: “Dialogo Corale” e “Onde Corali”.

Il Coro Amwaj è un programma educativo indipendente per bambini e giovani istituito nel 2015, con sede nelle città palestinesi di Betlemme e Hebron. Guidato da un team di educatori francesi e palestinesi e sotto la direzione della fondatrice Mathilde Vittu, docente di musica al Conservatorio di Parigi, Amwaj offre lezioni di musica di alto livello attraverso un programma pedagogico intensivo basato sul canto collettivo. Oggi Amwaj conta 60 ragazze e ragazzi dagli 8 ai 18 anni provenienti da città, campi profughi e aree rurali nelle regioni di Betlemme e Hebron in Cisgiordania.

La visione sociale di Amwaj è inclusiva, promuove l’uguaglianza di genere, la non appartenenza a uno specifico contesto sociale, religioso o politico e si concentra sugli scambi culturali e sul dialogo interculturale. La collaborazione con altri artisti e pedagoghi in Palestina e all’estero è fondamentale per il progetto. Il repertorio del coro è ampio, dalle riscoperte medievali alle anteprime contemporanee, dalla musica araba ad altra musica non occidentale. La tournée italiana del coro segue a tre tour di grande successo in Francia, compresa una residenza presso la prestigiosa Philharmonie di Parigi.

Ho parlato con la direttrice Vittu, che mi ha spiegato:

Scoprire il mondo attraverso la musica è uno degli obiettivi del Coro Amwaj: fin dall’inizio, 8 anni fa, i bambini hanno avuto l’opportunità di cantare in più di 30 lingue. Questo permette loro di affrontare la chiusura imposta ‘viaggiando’ con le canzoni. Quando il viaggio diventa reale, nonostante le 36 ore per raggiungere l’Europa – perché in quanto palestinesi devono passare per Amman – tutte le loro energie vengono spese per mostrare la bellezza della Palestina e della sua cultura. Arrivare in Italia, essere ospitati in famiglie locali e condividere il palco con musicisti e cantanti italiani permette un dialogo, un incontro unico che ispira tutti a credere nel futuro.”

L’occasione di ascoltare questo coro palestinese senza dover passare la “sicurezza” israeliana all’aeroporto Ben-Gurion o all’Allenby Bridge mi è sembrata troppo bella per resistere. Ho preso un volo per Venezia e ho trovato un buon posto in sala nella piccola splendida città settentrionale di Vicenza, sala al completo e in attesa della loro prima performance: l’opera Amal — Oltre il Muro.

Non credo che l’arte possa (o debba) essere mai scollegata dalla società, ma per persone sotto apartheid militare l’arte è, per definizione, politica. Amal lo è apertamente, poiché è basata sul romanzo The Oil’s Secret Tale [Il racconto segreto dell’olio], scritto in carcere dal prigioniero palestinese Walid Daqqah. Israele ha emesso una condanna a trentasette anni a Daqqah nel 1986, all’età di 23 anni, per il suo ruolo in un’operazione di resistenza in cui è stato ucciso un soldato israeliano. Questo adattamento operistico per bambini del suo romanzo è il frutto di una commissione del 2020 del coro Amwaj alla compositrice Camille van Lunen e alla librettista Cornelia Köhler, per un ensemble strumentale di archi, percussioni e kanoun [strumento arabo a corde suonato solo o come parte di un ensemble, ndt.]. L’originale inglese dell’opera è stato tradotto in italiano per il tour.

La violoncellista palestinese Tibah Saad suona e recita la parte del secolare ulivo magico. Alla sua sinistra la voce recitante Louise Cadorini

Nell’opera – come nella vita reale – un grande muro divide la terra, oscura il cielo e separa le persone, gli animali e gli alberi l’uno dall’altro.

Un ulivo secolare, uno dei protagonisti della storia, spiega:

Duemila anni, un tempo molto lungo.

Un tempo pieno di storia. Che storia, la storia di chi? Duemila anni. Waq’t taweel k’teer – per molto tempo ho vissuto in pace e libertà, in tempo di guerra e di sconvolgimenti.

Duemila anni — un tempo molto lungo.

Ho incontrato ebrei e greci e romani e arabi, crociati e soldati, contadini e mandriani.

Ho incontrato ragazze e ragazzi, saggi e sciocchi, coraggiosi e forti, felici e tristi.

Ho incontrato uomini e donne che lavorano, si amano, si baciano, combattono e lottano per la vita.

Duemila anni – una vita molto lunga.

Ma non avevo mai visto un muro prima…

Quando il muro impedisce ad Amal e ai suoi fratelli di far visita al padre in prigione oltre il muro, gli animali si uniscono per aiutarli. Idee e tentativi si alternano: scavare un tunnel sotto il muro? Volarci sopra? Ingannare le guardie? I loro migliori sforzi falliscono, ma un ulteriore complice offre aiuto: l’ulivo secolare.

Bambini”, dice, “ho sentito la vostra storia e ho visto le vostre lacrime. Vi aiuterò. L’olio dei miei frutti è magico. Raccogliete le mie olive e ungetevi con il loro olio. Vi renderà invisibili e vi permetterà di intrufolarvi nella prigione e incontrare vostro padre. Insieme a lui libererete il prigioniero più anziano”. Amal chiede: “Chi è il prigioniero più anziano?” Ma l’albero risponde solo: “Dovete scoprirlo”.

Il piano funziona. L’olio magico dell’antico albero consente loro di raggiungere l’altro lato del muro, entrare nella prigione e trovare il padre. Per tutto il tempo, si chiedono se sia lui il prigioniero più anziano da liberare. Ma non è lui. Scoprono che il prigioniero più antico ed estremo dell’ingiustizia è il futuro.

Attraverso la loro perseveranza, libereranno il futuro.

Ahmad e Ahmad recitano la parte dei gemelli conigli Samour e Samour. Le foto sono di FARES S. MANSOUR

L’autore Walid Daqqah ha sposato Salameh dopo tredici anni di prigione e, facendo infuriare i suoi carcerieri, ha generato la figlia Milad facendo arrivare lo sperma fuori dalla prigione. Ora sta morendo di cancro avanzato al midollo.

Il coro e i musicisti hanno tutti le proprie storie di vita sotto il fascismo sionista. Limitandoci agli esempi di pochi membri adulti, nel 2021 i soldati israeliani hanno arrestato la contrabbassista palestinese Mariam Afifi e l’hanno trascinata via per i capelli per aver resistito alla pulizia etnica di Sheikh Jarrah. Quando nel 2015 la violinista e mezzosoprano palestinese Aleen Masoud si recò negli Stati Uniti con il giornalista Gideon Levy per un talk + performance a Westchester (area di New York), la mobilitazione sionista spinse la polizia a tentare di far naufragare l’evento ma grazie a WESPAC [società multinazionale australiana con sede a Sydney, ndt.] riuscì solo a interromperlo. Il violista Omar Saad, uno di quattro fratelli nativi della Galilea tra i musicisti del tour, è stato imprigionato nel 2014 per essersi rifiutato di prestare servizio nell’esercito israeliano.

L’oppressione israeliana è studiata per soffocare tutti gli aspetti della normale vita quotidiana, compresa la cultura. Una rete di colonie israeliane e attività dell’esercito si estende tra Betlemme e Hebron, città originarie del Coro, e l’apartheid israeliano costringe i palestinesi che viaggiano all’estero a volare dalla Giordania, il che a sua volta richiede un’uscita onerosa e laboriosa attraverso il controllo e il taglieggiamento di Israele [che richiede una tassa di 55 $, ndt.] al confine tra Palestina e Giordania.

Ma successi come quelli del Coro Amwaj sono una sfida e una prova che settantacinque anni di campagna israeliana per cancellare la civiltà palestinese sono inutili.

Thomas Suárez è un ricercatore e storico che vive a Londra, ed è anche violinista e compositore professionale formatosi alla Juilliard School. Ex residente in Cisgiordania, i suoi libri includono tre opere sulla storia della cartografia e quattro sulla Palestina, il più recente dei quali Palestine Hijacked – how Zionism forged an apartheid state from river to sea [Il sequestro della Palestina– come il sionismo ha forgiato uno Stato di apartheid dal fiume al mare].

Leggi anche The remarkable rise of the Amwaj Children’s Choir of Palestine, Mondoweiss, 2018

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Sono l’ex presidentessa dell’Associazione Americana di Antropologia e questo è il motivo per cui voto per il boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane

Alisse Waterston

14 giugno 2023 – Mondoweiss

A otto anni da quando l’Associazione Americana di Antropologia prese per la prima volta in considerazione il boicottaggio accademico di Israele, le condizioni dei palestinesi sono solo peggiorate e le istituzioni accademiche israeliane sono complici. Questo è il motivo per cui appoggio la nuova risoluzione per il boicottaggio.

In questo momento critico gli antropologi membri dell’Associazione Americana di Antropologia (AAA) affrontano una decisione epocale. La questione che devono affrontare è la risoluzione di boicottare le istituzioni accademiche israeliane, un atto nonviolento di resistenza, facendo causa comune con il popolo palestinese che soffre i crimini di apartheid e persecuzione. Il voto elettronico sulla risoluzione inizia il 15 giugno e si concluderà il 14 luglio.

Mi sono già trovata alle prese con questa decisione in precedenza. Il 20 novembre 2015, un numero record di 1400 membri presenziò all’annuale incontro dell’associazione. La lunga notte di discussione e dibattiti finì in modo chiaro: la mozione per sottoporre all’assemblea generale il voto sulla risoluzione per boicottare le istituzioni accademiche israeliane nella primavera successiva passò con un ampio margine. Con un risultato senza precedenti: la risoluzione non fu approvata con un margine ridotto. Votò un numero record del 51% dei membri: il boicottaggio fu respinto [dall’assemblea generale] con 2.423 voti contro e 2.384 a favore.

Lo so perché alla fine di quell’incontro mi venne dato il martelletto del presidente e diventai l’84esimo presidente dell’AAA. Dovendo affrontare la questione la mia sfida più difficile è stata separare me stessa come individuo (e come potessi agire e votare) dai miei doveri in quanto funzionaria dell’associazione, una sfida che ho risolto attenendomi ai processi democratici dell’organizzazione e facendo costantemente riferimento al suo statuto. Nel corso dei sei difficili mesi che hanno preceduto il voto io e altri dirigenti e dipendenti di AAA abbiamo ricevuto email e telefonate moleste e minacciose da persone estranee all’associazione che volevano che noi ritirassimo del tutto la risoluzione.

Durante quei sei mesi la mia missione fu di organizzare la votazione, incoraggiando i membri ad ascoltare e farsi guidare dalla propria coscienza e dando loro il necessario per prendere una decisione informata. Fra queste informazioni c’era la relazione della task force dell’AAA su Israele e Palestina e un’esauriente bibliografia sull’argomento. Nel frattempo ho riunito un gruppo di lavoro che ha prodotto otto misure concernenti Israele-Palestina approvate dalla commissione esecutiva a maggio del 2016. Tra queste c’era una dichiarazione di condanna di politiche e pratiche israeliane focalizzata principalmente sulla negazione della libertà accademica e di espressione nei confronti dei palestinesi che includeva l’appello ad abrogare leggi israeliane che criminalizzano il fatto di parlare pubblicamente a favore del boicottaggio.

Questa non è una questione di opinioni: le prove raccontano delle orrende condizioni che i palestinesi sopportano come diretto risultato di leggi, politiche e pratiche israeliane. Fra esse la legge fondamentale Israele, Stato Nazione del popolo ebraico, che stabilisce che lo Stato di Israele è “solo per il popolo ebraico.” Inoltre le istituzioni accademiche israeliane hanno una lunga e documentata storia di collaborazione alla promozione del programma militare e nazionalista del Paese, per espanderne l’avanzata nei territori occupati, trascurando la sorte dei palestinesi. Ecco un esempio: in una lettera che ho ricevuto nel dicembre 2015 dall’associazione di rettori di università di Israele, gli 8 firmatari, che rappresentavano sedici università israeliane, sottolineavano di percepire il BDS come “una campagna anti-israeliana aggressiva e globale [che] fa circolare malignamente vili calunnie e bugie … con il solo obiettivo di delegittimare lo Stato di Israele.” Non si citava il timore per le continue violazioni, la negazione di vita, sostentamento, libertà di parola e libertà accademica che danneggiavano i palestinesi.

La situazione, una volta descritta come un conflitto e l’azione dello Stato di Israele come “l’occupazione”, è ora definita apartheid da parecchie organizzazioni affidabili. Per esempio la ricerca e le analisi dei dati di Amnesty International l’hanno portata a concludere che l’apartheid di Israele, in violazione del diritto internazionale, è “un sistema crudele di dominio e un crimine contro l’umanità.” Queste sono parole astratte: la cruda realtà è che la morte e distruzione vissute dai palestinesi sono praticamente impossibili da cogliere. Io leggo i vari rapporti, il minimo che posso fare. Non si possono voltare le spalle davanti a fatti dolorosi.

Eppure gli Stati Uniti non guardano ai fatti. Dal 2014 vari Stati hanno cominciato ad approvare leggi e decreti esecutivi contro il boicottaggio di Israele: oggi ci sono 35 Stati con tali leggi in vigore. Invece di contestare la lunga pratica di confondere l’antisemitismo con le critiche contro Israele, un crescente numero di Stati e governi federali hanno preso in considerazione o lo stanno facendo di codificare questa fusione adottando la definizione dell’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa cui aderiscono 34 Paesi, per lo più europei, ndt.]. Secondo un rapporto del Servizio di ricerca del Congresso, a marzo di quest’anno Israele è il maggiore destinatario cumulativo di assistenza all’estero degli USA dalla seconda guerra mondiale, avendo ricevuto 158 miliardi di dollari in assistenza bilaterale e fondi per la difesa missilistica; quasi tutto l’aiuto bilaterale degli USA a Israele è militare. Non è fare polemica sostenere che i dollari dei contribuenti supportano un sistema crudele di dominio e di crimini contro l’umanità.

Avendo occupato una posizione apicale nell’associazione, conosco direttamente la difficoltà di rispondere ai vari punti di vista dei suoi membri, adeguando le decisioni ai valori fondanti e alla missione dell’organizzazione, fra cui la protezione della libertà accademica, preoccupandosi della sostenibilità dell’associazione e mantenendo una bussola morale rispetto ai temi umani e politici in oggetto. Sono anche consapevole del danno potenziale che potrebbe causare all’associazione: alcuni potrebbero ritirare la propria adesione, alcuni donatori potrebbero smettere di finanziarla e alcuni incontri annuali non potrebbero svolgersi in centri congressi pubblici negli Stati in cui vigono leggi anti-boicottaggio.

Tenendo a mente tutto ciò, la proposta di boicottaggio merita un’attenta analisi. Richiede all’AAA di impegnarsi in un boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane fino a quando queste istituzioni porranno fine alla loro complicità nel violare i diritti palestinesi stabiliti dal diritto internazionale; implementare questo boicottaggio d’accordo con le procedure di governance, statuti e missione dell’associazione; riconoscere che questo boicottaggio riguarda solo le istituzioni accademiche israeliane e non gli studiosi a livello individuale e che gli antropologi che sono membri dell’AAA sono liberi di stabilire se e come applicare il boicottaggio nella propria pratica professionale; sostenere i diritti di tutti gli studenti e accademici ovunque di intraprendere ricerche e interventi pubblici su Palestina e Israele e a favore del movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS).

Riconosco che talvolta certi principi possono entrare in contraddizione. Se il boicottaggio dell’AAA danneggia la libertà accademica, ciò deve essere valutato rispetto ai morti e alle case distrutte che sono la tragedia dei palestinesi. Se dei membri cancelleranno la propria sottoscrizione e alcuni donatori si ritireranno, coloro che sostengono il boicottaggio dovranno impegnarsi a portare ognuno 1-2 nuovi membri e a offrire all’associazione un sostegno finanziario oltre alla quota di iscrizione. Ogni altra minaccia o danno all’AAA possono essere affrontati con l’impegno di prenderne le difese. Se il boicottaggio si rivela inefficace, esso deve essere valutato considerando l’alternativa di complicità con il silenzio sulle condizioni dei palestinesi sotto l’apartheid che li lascia isolati, soli e invisibili.

Lottando con la necessità di prendere una decisione, sono consapevole del mio obbligo speciale da antropologa di considerare le sofferenze di altri. Comprendo anche che l’incolumità e la sicurezza possono solo giungere quando tutte le persone sono sicure e protette: militarismo, occupazione e apartheid sono controproducenti al raggiungimento di questo obiettivo. Sono consapevole delle strutture di potere che riproducono diseguaglianze e delle sofferenze sociali che ne risultano e portano a un senso di responsabilità e all’azione in nome di coloro che sono disumanizzati, spossessati e scacciati. Ho esaminato i dati e le posizioni e sono a conoscenza dei rischi che potrebbe correre l’associazione, considerando le minacce già ricevute e quelle che potrebbero continuare ad arrivare. Da ebrea ho cercato insegnamenti etici nel libro di preghiere di mia madre che mi aiutassero a guidarmi. Forse nessuno di essi è più importante o rilevante dell’imperativo di perseguire “giustizia, giustizia,” una parola scritta due volte per “insegnarci che dobbiamo praticare la giustizia sempre, sia per il nostro profitto che nel caso ci arrecasse una perdita e verso tutti gli uomini [sic], ebrei e non ebrei, allo stesso modo.”

In conclusione io voterò a favore della risoluzione per il boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane, l’unica decisione suggeritami dalla mia coscienza.

Le opinioni qui espresse sono dell’autrice e non rappresentano la posizione dell’American Anthropological Association o dei suoi dirigenti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Rapporto settimanale: “Registra, registra” la pulizia etnica di Ein Samiya!

Philip Weiss  

18 giugno 2023 – Mondoweiss

Registra, registra. Parlerò più piano, ma concentrati e scrivi. Quello che è successo ieri è stata una nuova Nakba.” Un anziano palestinese invita il mondo a essere testimone della pulizia etnica di Ein Samiya.

Spesso sentiamo dire che in Cisgiordania è in corso una Nakba al rallentatore. Che, mentre i ministri fascistoidi di Netanyahu affermano l’antico “diritto ebraico” sull’area C [circa il 60% della Cisgiordania, in base agli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo di Israele, ndt.], sempre più villaggi palestinesi vengono soffocati e strangolati e i loro abitanti espulsi per far posto ai coloni ebrei. E pressoché nessuno vi presta attenzione. Perché noi siamo anestetizzati …

Ecco la storia di uno di questi villaggi. Tre settimane fa circa 200 palestinesi che vivevano a Ein Samiya, nella Valle del Giordano, hanno abbandonato le proprie case e messo le loro cose su camion per sfuggire alle continue violenze e vessazioni che hanno subito per anni da parte di tre colonie estremiste ebraiche vicine. I coloni hanno rotto le loro finestre e rubato le loro greggi. L’esercito israeliano è rimasto a guardare senza fare niente per bloccare i criminali ebrei.

Un amico ebreo che è stato a Ein Samiya mi ha detto che sembrava di vedere ebrei in fuga da un pogrom nell’Europa orientale.

Eppure qui negli Stati Uniti non si sente una sola parola riguardo alla pulizia etnica di Ein Samiya. L’amministrazione Biden non ha detto niente su Ein Samiya, anche se fa finta di sostenere l’opposizione alle politiche annessioniste del governo Netanyahu. Nessun giornalista al Dipartimento di Stato ha menzionato Ein Samiya. Le organizzazioni sioniste progressiste non hanno emesso alcun comunicato contro questa vergogna.

Sì, B’Tselem ha emesso una dichiarazione. Lo stesso ha fatto il Norwegian Refugee Council [Consiglio Norvegese per i Rifugiati, Ong norvegese, ndt.], che ha visto distruggere dai teppisti razzisti la scuola che aveva costruito. Al Jazeera ha informato della fuga. Un esperto di Americans for Peace Now [Americani per la Pace Ora, ong sionista USA contraria all’occupazione, ndt.] ha denunciato i politici: Bezalel Smotrich è al potere ed ha dato mano libera ai coloni per spogliare i palestinesi.

“Stiamo assistendo alle tragiche conseguenze delle pratiche israeliane e della violenza dei coloni di lunga data,” ha affermato l’ufficio dell’ONU per il Coordinamento delle Questioni Umanitarie.

Il bravo rabbino Arik Ascherman [di fede ebraica riformata e pacifista, ndt.] ha cercato di proteggere la gente di Ein Samiya, e poi ha spiegato agli israeliani, soprattutto a quelli che manifestano per la democrazia: “Le nostre mani hanno versato questo sangue!”

Ma negli USA politici e associazioni per i diritti umani non hanno alzato la loro voce. Il Dipartimento di Stato non ha detto niente. I sionisti progressisti hanno taciuto. Mentre un pogrom si svolgeva davanti ai nostri occhi.

Visitando i memoriali dell’Olocausto i bambini chiedono: “Perché gli altri non hanno detto niente?” Avendo fatto io stesso questa domanda da bambino, sono orgoglioso di dire che abbiamo informato molte volte della pulizia etnica ad Ein Samiya.

Nello straziante reportage di Mariam Barghouti dal villaggio espulso due settimane fa l’ottantunenne Abu Naje Ka’abneh, il cui magnifico ritratto di Majid Darwish compare all’inizio di questo messaggio, si è così rivolto a Mariam:

Registra, registra. Non fraintendere le informazioni. Parlerò lentamente ma concentrati e scrivi. Quello che è successo ieri è stata una nuova Nakba.”

Una nuova Nakba. Registra, registra.

Abu Naje crede nel potere della parola. E noi stiamo facendo del nostro meglio per avvertire gli americani della crisi dei diritti umani dei palestinesi.

È un grande privilegio essere testimoni. Quindi, per favore, passa parola.

Grazie per avermi letto.

Phil.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il Programma Alimentare Mondiale dell’ONU sospende gli aiuti alimentari a 8.000 famiglie di Gaza per carenza di fondi

Tareq S. Hajjaj

10 giugno 2023, Mondoweiss

Il Programma Alimentare Mondiale dell’ONU ha fornito aiuto alimentare a 8.000 famiglie di Gaza che soffrono di insicurezza alimentare, ma ora sta sospendendo gli aiuti a causa di tagli di bilancio. Il risultato sarà che molte famiglie di Gaza verranno ridotte alla fame.

A una ventina di metri dalla sua casa nella principale via al- Mansoura ad al-Shuja’iyya nella parte orientale di Gaza, il cinquantenne Ameen Qaddoum sta tutto il giorno accanto al suo carretto e vende caffè, the ed altre bevande calde ai passanti. E’ parcheggiato in un quartiere residenziale, per cui la gente della zona è vicina a casa propria e non ha particolarmente bisogno del carretto di Ameen. Quando si concede una breve pausa uno dei suoi figli adolescenti prende il suo posto. Sono circa le 6 del pomeriggio ed ha guadagnato 7 shekel (2 dollari) lavorando tutto il giorno. Ad Ameen serve il guadagno di tre giorni per comprare un pollo per la sua famiglia di 8 persone.

Ameen lavorava come facchino, ma è disoccupato da oltre 17 anni. E’ a capo di una grande famiglia di 6 figli, ma solo due di loro possono andare a scuola a causa della loro grave situazione economica. Il figlio più grande, Salama, di 17 anni, ha lasciato la scuola da anni.

La maggior parte delle famiglie di Gaza versa in situazioni simili a quella di Ameen. Molte di loro ricevono aiuti alimentari in quanto non sono in grado di procurarsi abbastanza per sopravvivere e sono state giudicate dal Programma Alimentare Mondiale dell’ONU (PAM) come aventi diritto agli aiuti alimentari. Secondo il PAM il 64% degli abitanti di Gaza soffre di insicurezza alimentare. Se passano l’esame vengono inseriti in un elenco che permette loro di utilizzare una carta del supermercato che assegna ad ogni membro della famiglia 10,30 dollari al mese.

Tuttavia questo mese il PAM ha comunicato che 200.000 persone che ricevono aiuto alimentare in Palestina “non riceveranno più assistenza alimentare a causa di una grave riduzione dei fondi.” Questo fatto è assolutamente devastante per migliaia di famiglie di Gaza che non dispongono di altre congrue fonti di cibo.

Questa carta mi dà la speranza di poter procurare qualcosa da mangiare per la mia famiglia, è una piccola somma, ma certo è meglio di niente”, dice Ameen. “Tutte le volte che crediamo ci sia qualche speranza siamo lasciati a morire di fame. Ma non dovrei lottare per il cibo se non fossimo sotto occupazione.”  

Per una famiglia come quella di Ameen è appena sufficiente per comprare alcune derrate di base, come olio per cucinare, riso, fagioli e lenticchie, prodotti in scatola, verdure surgelate e poche altre cose che si possono trovare nel supermercato più vicino. Ma il 29 maggio Ameen ha ricevuto un messaggio dal PAM che gli comunicava che il suo aiuto mensile sarebbe stato temporaneamente sospeso a partire dal prossimo mese.

Per noi significa vivere’

Il PAM ha riferito che il 53% della popolazione di Gaza vive sotto la soglia di povertà e per la maggior parte di quelle famiglie il cibo è la principale risorsa più difficile a procurarsi. Secondo il PAM a Gaza due persone su tre fanno fatica ad avere da mangiare.

Quando si avvicina la fine del mese il frigorifero di Ameen è normalmente vuoto e lui attende l’inizio del mese successivo per poter ripristinare le provviste. Questa volta non si sa quanto dovrà aspettare.

A voce bassa e guardandosi alle spalle, come timoroso che qualcuno possa sentirlo, dice: “Abbiamo solo zaatar e duqqa da mangiare.” Lo zaatar, un composto di spezie essiccate ed erbe, a base di foglie di timo, viene spesso mangiato col pane, mentre la duqqa è una mistura simile per la quale Gaza è molto nota, sostanzialmente composta da frumento macinato mescolato a spezie come lo zaatar ma più economica.

Dipendiamo da questi aiuti per vivere e sopravvivere. Non è così che vogliamo vivere. Datemi qualunque lavoro a Gaza, ed io vi andrò di sicuro, ma dove potrei procurarmi il cibo per la mia famiglia?”, dice a Mondoweiss.

Secondo l’ufficio del PAM a Gaza 8.000 famiglie hanno ricevuto messaggi di sospensione temporanea. L’ufficio di Gaza non ha comunicato ulteriori dettagli, tranne che l’abbandono di queste famiglie è dovuto al taglio di fondi subito dal PAM.

Le famiglie colpite da questa interruzione sono le più povere tra i poveri a Gaza e certamente non hanno altre fonti di entrate. Non è nemmeno la prima volta che il PAM sospende gli aiuti alimentari a delle famiglie di Gaza – ma quando è accaduto in passato hanno risarcito le famiglie per i mesi in cui sono rimaste senza aiuti. Questa volta non è altrettanto certo.

Nella stessa area di al-Shuja’iyya il gestore di un supermercato mi conduce presso sette famiglie in una piccola zona a cui è stato parimenti sospeso l’aiuto. La maggior parte di loro conta più di sei membri, soprattutto bambini.

Eman Naji, di 51 anni, è madre di sei figli, uno dei quali disabile. Suo marito Mohammed, di 53 anni, è disoccupato. Anche loro hanno ricevuto lo stesso terribile messaggio dal PAM.

Nessuno ci dà niente e non c’è lavoro per nessuno dei membri della mia famiglia, sono bambini. Questi aiuti significano la vita per noi, altrimenti moriremo di fame”, dice, seduta con tre bimbi in braccio sui gradini della sua casa ad al-Shuja’iyya.

E’ difficile e doloroso vivere in queste condizioni di insicurezza alimentare”, continua. “A volte riceviamo del cibo, a volte no. Che cosa dovremmo fare nei mesi in cui non riceveremo gli aiuti? Come daremo da mangiare ai bambini in questo periodo? Nessuno ci sostiene, siamo soli.”

Ma Dio non si dimenticherà di noi”.

Danno per le attività locali

Secondo l’ONU l’80% della popolazione di Gaza dipende dagli aiuti umanitari. Le famiglie sostenute dal PAM ricevono un ammontare totale di 3 milioni di dollari in collaborazione con 300 supermercati nella Striscia di Gaza.

Le famiglie di questa zona dipendono dagli aiuti del PAM. Prendono tutto quello di cui hanno bisogno nel supermercato e il PAM paga per loro. Alcune famiglie distribuiscono gli aiuti ricevuti nel corso del mese e acquistano i prodotti ogni settimana a debito, finché non viene ricaricata la loro carta”, dice Mohammed Ziad, gestore di un supermercato ad al-Shuja’iyya.

Con i tagli del PAM anche questi supermercati saranno colpiti negativamente dall’impossibilità della gente di pagare i prodotti.

Io ho più di 10 famiglie che sono state sospese questo mese e tutte mi hanno chiesto di dar loro cibo a debito finché il PAM non fornirà nuovamente gli aiuti”, dice Mohammed. “Non ho altra scelta che dare loro quello di cui hanno bisogno. Sono miei clienti e io devo sostenerli in queste condizioni. Ma ciò influirà negativamente sul mio supermercato, in quanto non sarò in grado di comprare nuovi prodotti.”

Tareq S. Hajjaj è corrispondente da Gaza per Mondoweiss e membro dell’Unione degli Scrittori Palestinesi. Ha studiato letteratura inglese all’Università Al-Azhar di Gaza. Ha iniziato la carriera di giornalista nel 2015, lavorando come giornalista e traduttore per il giornale locale, Donia al-Watan. Ha scritto per Elbadi, Middle East Eye e Al Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Gli attacchi contro Roger Waters mettono in ridicolo la lotta contro l’antisemitismo

Yves Engler

29 maggio 2023 – Mondoweiss

I recenti attacchi contro Roger Waters sono l’ultimo esempio di false accuse di antisemitismo utilizzate come arma per difendere l’apartheid israeliano.

Di recente alcuni politici del fascistoide e apertamente suprematista ebraico governo israeliano hanno attaccato l’esibizione a Berlino del famoso musicista rock Roger Waters. In molti Paesi agenti antipalestinesi di Israele hanno amplificato l’imbarazzante delirio secondo cui Waters sarebbe un antisemita per aver inserito il nome di Anna Frank su un grande schermo vicino alla giornalista palestinese assassinata Shireen Abu Akleh. Lo spettacolo di Waters ha semplicemente messo a confronto i due nomi e questo non sarebbe stato improprio, ma di fatto i nomi di circa una decina di persone uccise da forze di sicurezza, come George Floyd negli USA, hanno lampeggiato sullo schermo durante l’esibizione. Il secondo elemento della loro cinica follia è stato lamentare che Waters abbia indossato un’uniforme fascista, modello SS. Ma Waters ha esibito per decenni delle varianti di questa parodia antifascista e antinazista.

Infine qualcuno ha sostenuto che lo spettacolo ha incluso un maiale con una stella di David, il che è assolutamente falso. In un comunicato Waters ha risposto:

“La mia recente esibizione a Berlino ha attirato attacchi in malafede da quanti vogliono calunniarmi e mettermi a tacere perché dissentono dalle mie opinioni politiche e dai miei principi morali. Gli elementi del mio spettacolo che sono stati messi in discussione sono molto chiaramente una presa di posizione contro il fascismo, l’ingiustizia e il fanatismo in ogni loro manifestazione. Il tentativo di ritrarli come qualcos’altro sono ipocriti e motivati politicamente. La rappresentazione di un folle demagogo fascista è stata una caratteristica dei miei spettacoli fin da The Wall dei Pink Floyd nel 1980.

Ho passato tutta la mia vita a denunciare l’autoritarismo e l’oppressione ovunque li abbia visti. Quando ero un bambino dopo la guerra il nome di Anna Frank veniva spesso citato in casa nostra, divenne un ricordo permanente di ciò che accade quando viene consentito al fascismo di scatenarsi. I miei genitori lottarono contro i nazisti nella Seconda Guerra Mondiale, e ciò costò la vita a mio padre. Indipendentemente dalle conseguenze degli attacchi contro di me, continuerò a condannare l’ingiustizia e tutti quelli che la perpetrano.”

Facendo seguito ai politici israeliani, i lobbysti canadesi a favore dell’apartheid hanno amplificato gli allarmi sull’antisemitismo. Su Twitter l’inviato speciale di Justin Trudeau [primo ministro canadese, ndt.] per la lotta contro l’antisemitismo Irwin Cotler, la parlamentare liberale Ya’ra Saks, l’ex presidente del Congresso Ebraico Canadese Bernie Farber e l’ex deputato Michael Leavitt hanno gridato all’antisemitismo. Così hanno fatto gli Amici del Centro Simon Wiesenthal, Honest Reporting Canada [ong che monitora i media alla ricerca di pregiudizi contro Israele, ndt.] e il Centro per gli Affari di Israele ed Ebraici, che ha twittato: “Siamo disgustati dalle azioni di Roger Waters nel concerto di ieri a Berlino. È già abbastanza grave tracciare paralleli scorretti con Anna Frank (soprattutto a Berlino), ma comparire sul palco vestito come un soldato nazista delle SS? E’ palese antisemitismo.”

Il finto scandalo è poco più che una cinica calunnia contro un personaggio importante che si rifiuta di ritirare il proprio appoggio ai palestinesi. Non sono riusciti a far annullare il recente concerto di Waters a Francoforte che nonostante i costanti attacchi continua ad organizzare concerti molto politicizzati in strutture di grandi dimensioni in tutto il mondo. Ora c’è un tentativo di annullare i suoi prossimi concerti e la polizia tedesca ha avviato un’indagine contro Waters per l’uniforme in stile nazista che ha indossato durante il concerto di Berlino.

Gli attacchi contro Waters sono l’ultimo esempio della continua utilizzazione dell’antisemitismo come arma da parte dei nazionalisti israeliani. Nel caso più nefasto, è stato messo in crisi il segretario di sinistra del partito Laburista Britannico Jeremy Corbyn, come ha accuratamente spiegato Asa Winstanley in un suo recente libro [2022, Weaponising Anti-Semitism – Usare l’antisemitismo come arma, ndt.]. I nazionalisti israeliani hanno talmente abusato del termine [antisemitismo] nella loro difesa dell’apartheid e delle violazioni del diritto internazionale che ogni accusa di antisemitismo è diventata sospetta persino quando potrebbe essere appropriata.

Nel 2016, prima di questi episodi, scrissi: “In Canada ‘antisemitismo’ è forse il termine più inflazionato. Quasi del tutto separato dalla sua definizione nel dizionario – ‘discriminazione o pregiudizio o ostilità contro gli ebrei’ – ora è invocato principalmente per difendere i privilegi degli ebrei e dei bianchi.” Aggiunsi che, se non ci sarà un intervento di qualche genere, i futuri dizionari potrebbero definire l’“antisemitismo” come “un movimento per la giustizia e l’uguaglianza”.

Sette anni fa, quando lo scrissi, venni violentemente attaccato, ma il recente scandalo costruito ad arte contro Roger Waters suggerisce che oggi questa affermazione è ancora più vera.

Che la lobby antipalestinese si vergogni per questo stato di cose.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dobbiamo smetterla di confutare la propaganda israeliana nei termini di Israele

TOM SUAREZ  

27 maggio 2023  – Mondoweiss

Nelle nazioni occidentali tendiamo inconsapevolmente a permettere a Israele di controllare i termini del dibattito anche mentre combattiamo per la causa palestinese. Invece, dobbiamo rispedire le accuse israeliane a chi le formula

La battaglia per la giustizia in Palestina è una battaglia di linguaggi. È una battaglia non solo di informazioni, ma del contesto in cui vengono presentati gli ipotetici fatti, cioè di narrazione. Così Israele settantenne utilizza una narrazione “nazionale” che inizia con l’Antico Testamento e profitta dei nostri stessi media e governi come co-cospiratori. Se i media occidentali riportassero invece la realtà israelo-palestinese, da un giorno all’altro l’intero progetto sionista si farebbe insostenibile.

La narrazione palestinese è sempre più considerata vitale nella lotta per la giustizia. Eppure viene in gran parte estromessa. Come osserva la professoressa dell’Università di Exeter Nadia Naser Najjab, non ci sarà giustizia per la Palestina “fintanto che la comunità internazionale continuerà a ignorare la narrazione palestinese”.

Perché, allora, viene ignorata? Che cosa le è contro? Contro cosa si scontra la (vera) storia di una terra rubata, la sua gente sottoposta a pulizia etnica o rinchiusa in bantustan sotto uno Stato di apartheid?

Si scontra con una mitologia elaborata e sfaccettata, radicata nell’iconografia biblica e messianica culturalmente inculcata nel suo pubblico. Si scontra con la favola di un popolo in alleanza con Dio che ritorna nel proprio “paese” che risale a cinquemila anni fa. Si scontra con uno Stato il cui nome è stato scelto per farci credere che lo abbiamo letto nella Bibbia e funge cinicamente da fiaccola per il peso morale dell’Olocausto e da rifugio per gli ebrei dal flagello dell’antisemitismo. Si scontra con il fondamentalismo sionista cristiano e un pubblico ulteriormente predisposto attraverso la sistematica disumanizzazione dei palestinesi.

E oltre a tutto ciò la Narrazione Palestinese si scontra con la precondizione che perfino per ridicolizzare la mitologia di Israele i palestinesi devono prima pienamente accettarla.

Come ha affermato Jeremy Ben-Ami del “progressita” J Street [forum statunitense che promuove la leadership americana per una soluzione pacifica e diplomatica ai conflitti arabo-israeliano e israelo-palestinese, ndt.] nel suo articolo per commemorare il 75° anniversario dello Stato israeliano (tutti i corsivi sono miei):

Credo che coloro che sottolineano la Nakba dovrebbero anche riconoscere la legittimità del legame ebraico con la terra di Israele e che anche il popolo ebraico ha diritto all’autodeterminazione. […] se mai dovessimo risolvere questo tragico conflitto tra ebrei e palestinesi, entrambi i popoli dovranno comprendere la narrazione dell’altro, la loro storia di dolore e il loro legame con la stessa terra…”

Si noti che “conflitto” è anch’esso una narrazione a beneficio di Israele.

“… e tutti gli ebrei, spero, un giorno riconosceranno il legame dei palestinesi con questa terra e capiranno perché essi considerano il 1948 una catastrofe…”

I palestinesi devono accettare la narrazione israeliana subito, ma il riconoscimento reciproco? Forse “un giorno”, spera l’autore. Il “legame palestinese” con la propria terra è presentato come un concetto vago, valido solo se “tutti gli ebrei” lo accettano, mentre il legame dei coloni stranieri con quella terra è così naturale da non meritare spiegazioni. E infine, nello stereotipo antisemita, gli “ebrei” sono considerati così chiusi e concentrati su di sé da non arrivare a capire perché altre persone potrebbero considerare una “catastrofe” il totale furto e la pulizia etnica del loro paese – davvero così difficile che:

È improbabile che israeliani e palestinesi si accordino mai su una versione comune della storia

Svilendo ciò che è realmente accaduto ai palestinesi come “versione” – sostituto peggiorativo di “narrazione” – si può rimuoverlo. In effetti, una ricerca su Internet di “Narrazione palestinese” può occupare tutto il giorno, ma ogni volta che viene esposta una Narrazione per mostrare il crimine secolare contro i palestinesi, i propagandisti israeliani se ne impadroniscono per definirla una sorta di credenza, di invenzione nostalgica – nient’altro che “quello che dicono i palestinesi”.

In risposta agli sforzi del professor Rashid Khalidi per impedire agli Stati Uniti di costruire la propria ambasciata a Gerusalemme su terra rubata a palestinesi, tra cui la sua famiglia, un velenoso articolo sul Jerusalem Post affermava che “quello che sta accadendo qui non è tanto una battaglia sulla storia di Gerusalemme quanto una battaglia sulle narrazioni della storia.” Una recensione sullo stesso giornale dell’eccellente The Hundred Years’ War on Palestine [La guerra di cent’anni per la Palestina] del prof. Khalidi inizia proprio col titolo: “Controllare la narrazione palestinese”. Il recensore contrasta la “narrazione” di Khalidi con una litania di invenzioni israeliane la cui stessa logica sarebbe giustamente condannata come incitamento all’odio se le “parti” fossero invertite. Ed è nel contrastare tale razzismo – disumanizzazione – che la narrazione è così cruciale, per assicurare il fallimento della infame congettura di Ben-Gurion secondo cui “i giovani dimenticheranno”.

Riappropriarsi dei termini del dibattito

Solo i palestinesi possono riferire la narrazione palestinese collettiva e individuale. Ma per quelli di noi i cui paesi hanno causato il crimine secolare contro di loro – in particolare il Regno Unito e gli Stati Uniti – la fondamentale responsabilità di porre fine all’eterna complicità dei nostri paesi ricade su di noi. È nostro compito porre fine alla giungla di bugie su cui fa affidamento Israele.

A tal fine propongo un’osservazione generale. Nelle nazioni occidentali che si sono nutrite della mitologia di Israele tendiamo inconsapevolmente a permettere a Israele di controllare i termini del dibattito anche se combattiamo per la causa palestinese. Di una miriade di esempi forse il più semplice con cui illustrare il mio punto è come trattiamo l’uso da parte di Israele dell’accusa di antisemitismo per metterci a tacere.

Quando sul nostro petto viene scarabocchiata la “A” scarlatta di antisemita , la nostra tipica risposta è negare l’accusa: no, non sono antisemita. L’antisionismo non è antisemitismo. Questa risposta è totalmente nei termini di Israele: i suoi propagandisti, non tu, mantengono il controllo e tu rimani “colpevole”.

La risposta deve respingere correttamente l’accusa e includere le parole che la calunnia vorrebbe mettere a tacere: No, non cercare di coprire/nascondere l’apartheid israeliano. Sei sionista. Questo è antisemitismo! Oppure: sto difendendo dei fondamentali diritti umani. Stai insultando gli ebrei come oppositori dei diritti? O ancora: l’unico antisemitismo qui è da parte dei sionisti che in nome degli ebrei difendono l’apartheid israeliano contro la Palestina.

Cito questo come modello, suggerito per ripensarci e liberare tutti i nostri ragionamenti da un contesto ereditato. In questo momento la presa di Israele sull’opinione pubblica sta vacillando, Israele stesso è nel caos politico, le tre sillabe “apartheid” diventano ogni giorno più salde e la realtà che Tel Aviv abbia rubato tutta la Palestina storica non è più negabile . Il pubblico è più aperto alla verità dell’esperienza collettiva e individuale dei palestinesi – e il resto di noi deve fare sempre più pressioni per “delegittimare” lo stato razziale che è causa dell’intera catastrofe.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Settantacinque anni dopo la Nakba i palestinesi di Gaza conservano la loro tradizione attraverso le canzoni

Tareq S. Hajjaj

15 maggio 2023 – Mondoweiss

A 75 anni dalla loro espulsione i rifugiati di Gaza conservano la loro eredità culturale attraverso il folklore e le canzoni che raccontano una storia di resistenza e nostalgia della Palestina

In cerchio, con le mani che battono continuamente il ritmo, si uniscono tutte ai versi di una canzone mentre una donna al centro del cerchio suona un tamburo che tiene appoggiato a un fianco, dando loro il ritmo e le battute. In occasioni simili le donne anziane guidano l’esibizione, trovando un’occasione d’oro non solo per rivivere la tradizione vissuta nella terra d’origine prima del 1948, ma anche per trasmetterla alle generazioni più giovani in modo che non venga mai dimenticata.

Con vestiti colorati e con specchietti, in genere anche poche anziane sono in grado di trascinare con sé le giovani, facendo ripetere loro i versi varie volte, finché non si divertono a ripeterli e li hanno memorizzati, sempre più desiderose che le anziane insegnino loro i versi successivi.

Safia Jawad, 71 anni, veste il costume tipico del suo villaggio d’origine, Isdud (ribattezzato Ashdod dallo Stato di Israele), pieno di ricami fatti a mano e magnificamente intessuti. Inizia lentamente e abilmente con un tono basso a recitare questi versi:

“Veniamo dalla valle per la ragazza con i fianchi attraenti.

Veniamo dal mare per la ragazza con la vita come una ghirlanda di fiori.”

Queste parole risalgono a molti anni prima della Nakba, quando il popolo palestinese era solito celebrare gli avvenimenti con una canzone. Utilizzando solo mezzi semplici, le loro voci o strumenti come il “rebab” [strumento ad arco, antenato del violino, ndt.], creavano nuove canzoni adatte a specifici momenti e contesti.

Safia ha memorizzato una lunga lista di canzoni e versi per i matrimoni, benché non fossero le uniche occasioni a cui venivano riservati canti popolari. Ogni avvenimento, felice o triste, ha una canzone specifica. Esistevano in tutta la Palestina prima della Nakba, dopo la quale questa parte della tradizione palestinese venne trasformata. Le persone che scapparono dalle loro case e giunsero a Gaza come rifugiati portarono con sé le proprie tradizioni. Le conservarono e ripresero durante ogni matrimonio e funerale, fino al punto di tentare persino di diffonderle tra gli abitanti originari di Gaza. In seguito nacquero nuove forme di canzone.

Conservare la tradizione a Gaza

Nel campo profughi di Jabaliya, nel nord di Gaza, Samira Ahmed, 69 anni, e la sua figlia sposata, Sujoud, 36 anni, siedono una vicino all’altra su un divano nel soggiorno. Samira ha difficoltà a ricordare tutte le canzoni che le sono state insegnate dalla defunta madre, sopravvissuta alla Nakba.

Ogni tanto Sujoud ricorda a sua madre qualche canzone, e quando Samira dimentica una parte sua figlia finisce la strofa per lei.

“Nelle occasioni di famiglia come i matrimoni insisto perché ci sia un giorno intero di canzoni tradizionali,” dice Samira. “Ho un tamburo e canto tutte le canzoni che ho imparato. A volte le giovani presenti apprezzano le canzoni e le ripetono con me, altre volte chiedono canzoni moderne,” dice.

Trova che all’inizio le nuove generazioni di ragazze fanno fatica a seguire le canzoni perché sono abituate a quelle moderne, più veloci e con effetti musicali, in altre parole opposte al fluire di quelle tradizionali, che sono lente e prive di ogni altra musica che non sia quella del tamburo.

“Non sono solo canzoni che ripetiamo. Esse rappresentano il nostro orgoglio per la cultura e il folklore con cui i nostri nonni ci hanno cresciuti,” dice Samira a Mondoweiss. “Finché le facciamo rivivere e le rendiamo presenti durante i nostri eventi manterremo sempre la nostra eredità e cultura. Ed è così che conserviamo la nostra patria su ogni altra cosa.”

Samira è cresciuta amando questi canti fin da bambina, quando ascoltava sua madre cantarli durante i matrimoni, dimostrando precocemente un interesse personale. Quando ha avuto una famiglia sua li ha trasmessi ai suoi figli. Ora sua figlia Sujoud sta facendo altrettanto.

Ciononostante Samira teme che questa parte importante della storia della Palestina possa presto andare perduta, in quanto le nuove generazioni si orientano più verso la musica ritmata e moderna. “Difficilmente le persone giovani dimostrano interesse per queste canzoni, ma finché vive anche un solo rifugiato palestinese, non verranno dimenticate,” afferma.

Da parte sua Samira cerca di raccontare aneddoti divertenti riguardo a queste canzoni per avvicinare a loro i giovani, come la storia di una canzone per invocare la pioggia.

“La gente si metteva i vestiti al contrario, usciva nei campi e prendeva con sé un boccale di metallo su cui picchiare e chiedere a Dio la pioggia,” dice.

Questa è la canzone:

“Portaci la pioggia, portaci la pioggia, mio Signore,

per innaffiare le nostre piante rivolte a ovest.

Per favore, bagna le nostre sciarpe, mio Signore,

in modo che abbiamo pane a sazietà.

Per favore, bagna i nostri logori vestiti, mio Signore.

Siamo poveri e non abbiamo nessun luogo in cui andare.

Prima e dopo la Nakba

Per lo più nessuna particolare regione della Palestina è nota esclusivamente per una sua specifica canzone. Piuttosto, alcune canzoni hanno viaggiato in molti luoghi diversi all’interno della Palestina, e poi in ogni luogo le persone vi hanno aggiunto un proprio particolare specifico, rappresentandola attraverso accenti, intonazioni e modifiche del testo caratteristici del luogo. E’ così con molte delle canzoni folkloriche palestinesi.

Haidar Eid, professore di arte e letteratura all’università Al Aqsa di Gaza, raccoglie anche il patrimonio tradizionale che documenta il folklore palestinese e produce musica basata su canzoni tradizionali palestinesi. Un esempio è una canzone sul suo villaggio d’origine, Zarnuqa:

“Se solo la barca mi ha portato qui fosse stata piena di dolci

e avesse attraversato il mare e mi avesse riportato a Zarnuqa.”

Come ricercatore Eid ha scoperto che questa stessa canzone si è diffusa in diverse zone della Palestina, e ognuna di esse ha aggiunto qualcosa di specificamente regionale.

“Ci sono diversi tipi di canzoni e sono cantate in modo diverso nella tradizione palestinese delle canzoni. C’è la zajal, una poesia destinata ad essere cantata in lunghi poemi locali, e il mawwal, un canto prolungato con una voce molto lunga, adatta ad ogni occasione. Ci sono canti nunziali e il tarwidah, di quattro strofe, che comincia come un mawwal e poi inizia la canzone. E ci sono anche canzoni di cordoglio,” spiega Eid.

Una delle canzoni più popolari nei campi profughi di Gaza riguarda un innamorato che si lamenta e piange la sua amata con una strofa e la ripete nella successiva con lo stesso ritmo:

“Sono entrato in un bosco e ho cercato una pera – Oh il mio occhio, oh la mia anima.

Ho trovato la mia amata con un scialle in testa – Oh il mio occhio, oh la mia anima.

Fortunato chi può baciare quello scialle – Oh il mio occhio, oh la mia anima.”

Le donne di Gaza cantano questi versi nella stessa tonalità per 20 volte, mentre la cantante solista dice la prima parte il resto delle donne presenti ripete la seconda. I versi vengono detti nel dialetto locale dei palestinesi che hanno vissuto nella loro terra per centinaia di anni prima che gli israeliani li prendessero e uccidessero o espellessero con la forza.

Resistenza e nostalgia per la Palestina

Dopo la Nakba la vita della gente cambiò, e altrettanto fece il loro patrimonio culturale. E come la musica passò a riflettere la situazione della gente di una specifica regione, così ha fatto con i cambiamenti epocali nella lotta e nel modo di vita del popolo palestinese. Dopo la Nakba molte di quelle canzoni iniziarono a mostrare la natura della lotta dei palestinesi dopo il trauma del 1948, compresa la nostalgia per le loro case e terre e il loro diritto al ritorno. Le canzoni che i profughi palestinesi di Gaza iniziarono a diffondere dopo essere fuggiti dalle proprie case e scoprire che si sarebbero stabiliti a Gaza per un periodo imprecisato di tempo esaltarono le virtù dell’eroismo, del sacrificio e della resistenza.

Haidar Eid lo conferma: “Dopo la Nakba le canzoni palestinesi riguardarono la resistenza e il diritto al ritorno. Dopo l’occupazione e la seconda guerra israeliana nel 1967, che portò all’occupazione del resto della Palestina, le canzoni della resistenza si diffusero in tutta la Palestina. La nostalgia per la Palestina produsse sempre più canzoni,” afferma.

Una delle prime canzoni che si diffuse a Gaza dopo la Nakba riguarda un combattente della resistenza che fa una proposta a una ragazza. La canzone viene cantata con la voce della ragazza che chiede alla sua famiglia di accettarlo, anche se lui non ha di che pagare la dote. Nella canzone la ragazza dice:

“Mamma, dammi al combattente anche per niente – Egli entra nel territorio occupato

portando il suo mitra.

Mamma, dammi al combattente anche solo per un braccialetto – Egli entra nel territorio occupato e in ogni contrada.

Mamma, dammi al combattente anche solo per due soldi – Egli entra nel territorio occupato con il suo kalashnikov.

In tutte le canzoni il ritmo è lo stesso.

Tuttavia quella che forse è la canzone palestinese più nota è “Ya Zarif al-Tul”, diffusa in tutta la Palestina storica e nelle comunità palestinesi della diaspora. La canzone è precedente alla Nakba e si diffuse durante il periodo del mandato britannico. Originariamente cantata in riferimento a un anonimo palestinese “alto e bello” (zarif al-tul) che resiste con successo agli attacchi delle forze sioniste contro un villaggio, la canzone si trasformò e prese significati diversi nei decenni successivi alla Nakba.

La storia racconta di un palestinese che era universalmente visto dagli abitanti di un anonimo villaggio palestinese come una brava persona benché fosse uno straniero, e che lavorava come falegname in cambio di un compenso. Poi, quando un giorno una milizia sionista fece irruzione nel villaggio, con i suoi soldi comprò cinque fucili e li distribuì tra i giovani del villaggio che respinsero con successo l’attacco. Quando la milizia sionista tornò per vendicarsi scoppiò una grande battaglia in cui zarif al-tul sarebbe stato ucciso come un martire.

Un articolo di Khalil al-Ali spiega come si trasformò in seguito la leggenda di zarif al-tul:

“Quando la gente del villaggio raccolse i corpi dei martiri non trovò tra loro zarif al-tul, ed egli non era neppure tra i vivi, come se se ne fosse andato. Gli abitanti del villaggio convennero unanimemente che aveva combattuto coraggiosamente e ucciso più di 20 miliziani sionisti, salvando nel contempo alcuni giovani del villaggio. Con il passare dei giorni zafir al-tul divenne la canzone del villaggio: ‘ya zarif al-tul, dove sei andato…il cuore del tuo Paese è pieno di ferite. Ya zarif al-tul, stammi a sentire: hai lasciato il tuo Paese, eppure per te è meglio la Palestina.’”

Questa canzone si è poi trasformata nei versi con cui oggi è nota a molti:

Ya zarif al-tul, stammi a sentire.

Te ne sei andato in terra straniera, ma per te è meglio il tuo Paese.

Temo che te ne andrai, ya zarif, e troverai un’altra casa

Che incontrerai altre persone e mi dimenticherai.”

Nel corso degli anni il significato storico della canzone è stato per lo più dimenticato e oggi molti la intendono semplicemente una canzone che sottolinea l’importanza della propria casa e patria, soprattutto alla luce dell’espulsione provocata dalla Nakba.

Tuttavia ciò che la canzone di zarif al-tul ci dice è la storia della resistenza all’espulsione e all’oppressione. Al-Ali lo spiega bene:

“La storia racconta che negli anni successivi (alla presunta morte dell’anonimo palestinese) egli venne visto tra i rivoluzionari palestinesi (che resistevano alle forze sioniste) a Giaffa (nel 1948). E molte persone giurarono di averlo visto dietro a Jamal Abdul Nasser a Porto Said, ed altri a Gaza, e altri ancora dissero che era a Beirut prima dell’invasione israeliana del 1982… finché è risultato chiaro che zarif al-tul è ogni combattente della resistenza palestinese, e la canzone continua ad essere ripetuta fino ad oggi, con parole diverse da una versione all’altra.”

Questa storia di resistenza è più antica della Nakba, e le è sopravvissuta.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Al Center for Jewish History alcuni studiosi ebrei osano parlare della Nakba: fischiati

Philip Weiss

1 maggio 2003 – Mondoweiss

Al Center for Jewish History lo studioso Omer Bartov è stato continuamente interrotto e fischiato quando ha descritto la “brutale” espulsione dei palestinesi durante la Nakba. Alcuni gridavano “vergogna!” e una persona è uscita.

Ieri a New York, in occasione del 75esimo anniversario della fondazione di Israele, al Center for Jewish History [Centro di storia ebraica] si è tenuta una conferenza sugli ebrei americani e il sionismo che ha rivelato la notevole tensione all’interno della comunità ebraica in merito al sionismo. 

Tre oratori hanno voluto parlare della Nakba. C’è stata dell’opposizione e in un caso fischi e urla di “Vergogna.” 

Omer Bartov, docente alla Brown University, ha tenuto una conferenza sull’ “Eredità del 1948” in cui ha descritto l’Olocausto e la Nakba come eventi “insanabili”. Ha detto che, se il sionismo è stato la logica risposta al genocidio degli ebrei in Europa, “dopo la Nakba niente potrebbe sembrare più giusto della richiesta dei palestinesi di poter tornare nelle loro terre, da cui furono brutalmente espulsi.”

Bartov, uno studioso dell’Europa orientale, ha affermato che l’impossibilità di spartire la terra indica la strada verso un futuro democratico: “Smantellare le barriere, ammettere che questa terra potrà essere una patria solo quando sarà finalmente la patria di tutti i suoi abitanti.”

Bartov è stato interrotto e fischiato. È stato riferito che alcuni dei presenti avrebbero urlato “Vergogna!” e che una persona è uscita. Ci sono stati anche dei brontolii quando uno dei relatori ha fatto riferimento a J Street! [associazione di ebrei progressisti USA, ndt.] l’accademica canadese Mira Sucharov all’inizio della sua relazione si è rivolta rispettosamente ai disturbatori per cercare di placarli. Ha poi descritto nei dettagli il bombardamento di Giaffa nell’aprile del 1948, durante il quale 68.000 dei 70.000 abitanti del quartiere di Ajami furono “respinti in mare.” Ha poi osservato che quando i suoi parenti si preoccupano per gli ebrei spinti in mare questo è “letteralmente” quello che è accaduto ai palestinesi nel 1948 prima della fondazione dello Stato. (Un argomento che ho sostenuto anch’io.) 

Sucharov ha poi continuato dicendo che nei suoi corsi fa riferimento all’articolo di Ari Shavit sulla pulizia etnica di Lod (o Lydda) apparso sul New Yorker perché alla fine egli dichiara che rifarebbe tutto da capo per ottenere uno Stato a maggioranza ebraica. Lei fa notare che Shavit serve “su un piatto d’argento,” la posizione sionista.

Eric Alterman è stato ancora più penetrante. Ha detto che i palestinesi non accetterebbero nessuna delle tesi sioniste presentate al Center for Jewish History, e naturalmente nessun palestinese è stato invitato a parlare della loro profonda conoscenza del sionismo. Alterman ha detto che 700.000 palestinesi furono espulsi prima del maggio 1948 dalle milizie sioniste, antesignane dell’esercito israeliano, e che terre e proprietà palestinesi furono poi confiscate dallo Stato e date al Fondo Nazionale Ebraico. 

Alterman ha poi detto: “Tutto della vita dei palestinesi è discriminatorio. E non c’è nulla che noi [ebrei] accetteremmo.” 

Ha poi continuato: “Non hanno diritti. A me va benissimo il divorzio fra ebrei americani e Israele” perché i cosiddetti “valori condivisi” fra le due società sono stati un disastro per l’identità degli ebrei americani. 

Alterman ha anche detto che nella comunità ebraica il racconto dell’Esodo [la fuga dall’Egitto narrata nell’omonimo libro della Bibbia] sta “crollando”. E che, questa è la mia parte preferita, gli ebrei sono stanchi che i “neoconservatori” parlino a nome della comunità. 

Alterman e Sucharov sono stati zittiti dal resto degli oratori. “Non risolveremo noi il 1948,” ha detto un altro relatore, David Makovsky, frase in codice per dire “Per favore, smettete di parlare della Nakba”. 

E così tre docenti di storia ebraica, di cui due sono stati importanti sionisti progressisti, hanno espresso una critica nei confronti di Israele piuttosto blanda in un luogo ebraico e c’è stata una gran rabbia. 

Sucharov ha colto questa tensione quando ha detto di essere stata marginalizzata dalla propria famiglia per la partecipazione a una commissione che discuteva se il termine “apartheid” fosse applicabile a Israele/Palestina. Una zia scandalizzata ha telefonato a un’altra e il “risultato è stato un ostracismo ufficiale.” Sucharov non può più far visita alla zia in Israele e non è stata invitata al suo ottantesimo compleanno. “È molto doloroso.” 

Questo è solo un assaggio di quello che presto succederà alla comunità ebraica. Dal massacro israeliano di Gaza nel 2014 ci sono state tensioni sul sionismo nella comunità ebraica e anche all’interno delle famiglie ebree, al punto che i rabbini evitano a tutti i costi l’argomento. 

Nel 2021, durante l’attacco israeliano contro Gaza, 94 studenti e cantori rabbinici hanno firmato una lettera indirizzata al “cuore della comunità ebraica” lamentando la violenza israeliana e “l’espulsione intenzionale di palestinesi.” Alterman dice che a una conferenza di J Street alcuni di questi studenti hanno detto di aver perso il lavoro a causa della lettera, e che “uno piangeva.” (E io ho riferito che la rabbina Angela Buchdahl, una celebrità, dichiarò che non ne avrebbe assunto nessuno.)

Tale tensione che ribolle non può durare. Le forze sono troppo potenti: Israele è troppo incasinato e non può più essere tollerato dai giovani ebrei. E la lobby israeliana, il sostegno ai politici degli ebrei americani, è semplicemente troppo importante per l’esistenza di Israele. Nessuno cederà senza lottare e sarà ben presto guerra aperta. 

Un giorno i giovani ebrei chiederanno che la Nakba sia nominata e consacrata nelle associazioni progressiste ebraiche americane che hanno armato, e negato, la pulizia etnica. Chiederanno l’accettazione dei palestinesi che descrivono la Nakba come un “genocidio.”

PS. Makovsky ha continuato a offrire una visione edulcorata dei valori israeliani. E per un buon motivo: i “valori condivisi” con gli USA. sono un “pilastro” dell’esistenza di Israele. E così Makovsky asserisce (contro ogni evidenza) che le imponenti proteste per la democrazia in Israele “continueranno fino al prossimo ostacolo: la questione palestinese. Ha detto che il governo USA “ha tentato di fare gol” tre volte nei colloqui di pace e che parte della colpa dei fallimenti va ai palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio e Luciana Galliano)