Gli attacchi contro Roger Waters mettono in ridicolo la lotta contro l’antisemitismo

Yves Engler

29 maggio 2023 – Mondoweiss

I recenti attacchi contro Roger Waters sono l’ultimo esempio di false accuse di antisemitismo utilizzate come arma per difendere l’apartheid israeliano.

Di recente alcuni politici del fascistoide e apertamente suprematista ebraico governo israeliano hanno attaccato l’esibizione a Berlino del famoso musicista rock Roger Waters. In molti Paesi agenti antipalestinesi di Israele hanno amplificato l’imbarazzante delirio secondo cui Waters sarebbe un antisemita per aver inserito il nome di Anna Frank su un grande schermo vicino alla giornalista palestinese assassinata Shireen Abu Akleh. Lo spettacolo di Waters ha semplicemente messo a confronto i due nomi e questo non sarebbe stato improprio, ma di fatto i nomi di circa una decina di persone uccise da forze di sicurezza, come George Floyd negli USA, hanno lampeggiato sullo schermo durante l’esibizione. Il secondo elemento della loro cinica follia è stato lamentare che Waters abbia indossato un’uniforme fascista, modello SS. Ma Waters ha esibito per decenni delle varianti di questa parodia antifascista e antinazista.

Infine qualcuno ha sostenuto che lo spettacolo ha incluso un maiale con una stella di David, il che è assolutamente falso. In un comunicato Waters ha risposto:

“La mia recente esibizione a Berlino ha attirato attacchi in malafede da quanti vogliono calunniarmi e mettermi a tacere perché dissentono dalle mie opinioni politiche e dai miei principi morali. Gli elementi del mio spettacolo che sono stati messi in discussione sono molto chiaramente una presa di posizione contro il fascismo, l’ingiustizia e il fanatismo in ogni loro manifestazione. Il tentativo di ritrarli come qualcos’altro sono ipocriti e motivati politicamente. La rappresentazione di un folle demagogo fascista è stata una caratteristica dei miei spettacoli fin da The Wall dei Pink Floyd nel 1980.

Ho passato tutta la mia vita a denunciare l’autoritarismo e l’oppressione ovunque li abbia visti. Quando ero un bambino dopo la guerra il nome di Anna Frank veniva spesso citato in casa nostra, divenne un ricordo permanente di ciò che accade quando viene consentito al fascismo di scatenarsi. I miei genitori lottarono contro i nazisti nella Seconda Guerra Mondiale, e ciò costò la vita a mio padre. Indipendentemente dalle conseguenze degli attacchi contro di me, continuerò a condannare l’ingiustizia e tutti quelli che la perpetrano.”

Facendo seguito ai politici israeliani, i lobbysti canadesi a favore dell’apartheid hanno amplificato gli allarmi sull’antisemitismo. Su Twitter l’inviato speciale di Justin Trudeau [primo ministro canadese, ndt.] per la lotta contro l’antisemitismo Irwin Cotler, la parlamentare liberale Ya’ra Saks, l’ex presidente del Congresso Ebraico Canadese Bernie Farber e l’ex deputato Michael Leavitt hanno gridato all’antisemitismo. Così hanno fatto gli Amici del Centro Simon Wiesenthal, Honest Reporting Canada [ong che monitora i media alla ricerca di pregiudizi contro Israele, ndt.] e il Centro per gli Affari di Israele ed Ebraici, che ha twittato: “Siamo disgustati dalle azioni di Roger Waters nel concerto di ieri a Berlino. È già abbastanza grave tracciare paralleli scorretti con Anna Frank (soprattutto a Berlino), ma comparire sul palco vestito come un soldato nazista delle SS? E’ palese antisemitismo.”

Il finto scandalo è poco più che una cinica calunnia contro un personaggio importante che si rifiuta di ritirare il proprio appoggio ai palestinesi. Non sono riusciti a far annullare il recente concerto di Waters a Francoforte che nonostante i costanti attacchi continua ad organizzare concerti molto politicizzati in strutture di grandi dimensioni in tutto il mondo. Ora c’è un tentativo di annullare i suoi prossimi concerti e la polizia tedesca ha avviato un’indagine contro Waters per l’uniforme in stile nazista che ha indossato durante il concerto di Berlino.

Gli attacchi contro Waters sono l’ultimo esempio della continua utilizzazione dell’antisemitismo come arma da parte dei nazionalisti israeliani. Nel caso più nefasto, è stato messo in crisi il segretario di sinistra del partito Laburista Britannico Jeremy Corbyn, come ha accuratamente spiegato Asa Winstanley in un suo recente libro [2022, Weaponising Anti-Semitism – Usare l’antisemitismo come arma, ndt.]. I nazionalisti israeliani hanno talmente abusato del termine [antisemitismo] nella loro difesa dell’apartheid e delle violazioni del diritto internazionale che ogni accusa di antisemitismo è diventata sospetta persino quando potrebbe essere appropriata.

Nel 2016, prima di questi episodi, scrissi: “In Canada ‘antisemitismo’ è forse il termine più inflazionato. Quasi del tutto separato dalla sua definizione nel dizionario – ‘discriminazione o pregiudizio o ostilità contro gli ebrei’ – ora è invocato principalmente per difendere i privilegi degli ebrei e dei bianchi.” Aggiunsi che, se non ci sarà un intervento di qualche genere, i futuri dizionari potrebbero definire l’“antisemitismo” come “un movimento per la giustizia e l’uguaglianza”.

Sette anni fa, quando lo scrissi, venni violentemente attaccato, ma il recente scandalo costruito ad arte contro Roger Waters suggerisce che oggi questa affermazione è ancora più vera.

Che la lobby antipalestinese si vergogni per questo stato di cose.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dobbiamo smetterla di confutare la propaganda israeliana nei termini di Israele

TOM SUAREZ  

27 maggio 2023  – Mondoweiss

Nelle nazioni occidentali tendiamo inconsapevolmente a permettere a Israele di controllare i termini del dibattito anche mentre combattiamo per la causa palestinese. Invece, dobbiamo rispedire le accuse israeliane a chi le formula

La battaglia per la giustizia in Palestina è una battaglia di linguaggi. È una battaglia non solo di informazioni, ma del contesto in cui vengono presentati gli ipotetici fatti, cioè di narrazione. Così Israele settantenne utilizza una narrazione “nazionale” che inizia con l’Antico Testamento e profitta dei nostri stessi media e governi come co-cospiratori. Se i media occidentali riportassero invece la realtà israelo-palestinese, da un giorno all’altro l’intero progetto sionista si farebbe insostenibile.

La narrazione palestinese è sempre più considerata vitale nella lotta per la giustizia. Eppure viene in gran parte estromessa. Come osserva la professoressa dell’Università di Exeter Nadia Naser Najjab, non ci sarà giustizia per la Palestina “fintanto che la comunità internazionale continuerà a ignorare la narrazione palestinese”.

Perché, allora, viene ignorata? Che cosa le è contro? Contro cosa si scontra la (vera) storia di una terra rubata, la sua gente sottoposta a pulizia etnica o rinchiusa in bantustan sotto uno Stato di apartheid?

Si scontra con una mitologia elaborata e sfaccettata, radicata nell’iconografia biblica e messianica culturalmente inculcata nel suo pubblico. Si scontra con la favola di un popolo in alleanza con Dio che ritorna nel proprio “paese” che risale a cinquemila anni fa. Si scontra con uno Stato il cui nome è stato scelto per farci credere che lo abbiamo letto nella Bibbia e funge cinicamente da fiaccola per il peso morale dell’Olocausto e da rifugio per gli ebrei dal flagello dell’antisemitismo. Si scontra con il fondamentalismo sionista cristiano e un pubblico ulteriormente predisposto attraverso la sistematica disumanizzazione dei palestinesi.

E oltre a tutto ciò la Narrazione Palestinese si scontra con la precondizione che perfino per ridicolizzare la mitologia di Israele i palestinesi devono prima pienamente accettarla.

Come ha affermato Jeremy Ben-Ami del “progressita” J Street [forum statunitense che promuove la leadership americana per una soluzione pacifica e diplomatica ai conflitti arabo-israeliano e israelo-palestinese, ndt.] nel suo articolo per commemorare il 75° anniversario dello Stato israeliano (tutti i corsivi sono miei):

Credo che coloro che sottolineano la Nakba dovrebbero anche riconoscere la legittimità del legame ebraico con la terra di Israele e che anche il popolo ebraico ha diritto all’autodeterminazione. […] se mai dovessimo risolvere questo tragico conflitto tra ebrei e palestinesi, entrambi i popoli dovranno comprendere la narrazione dell’altro, la loro storia di dolore e il loro legame con la stessa terra…”

Si noti che “conflitto” è anch’esso una narrazione a beneficio di Israele.

“… e tutti gli ebrei, spero, un giorno riconosceranno il legame dei palestinesi con questa terra e capiranno perché essi considerano il 1948 una catastrofe…”

I palestinesi devono accettare la narrazione israeliana subito, ma il riconoscimento reciproco? Forse “un giorno”, spera l’autore. Il “legame palestinese” con la propria terra è presentato come un concetto vago, valido solo se “tutti gli ebrei” lo accettano, mentre il legame dei coloni stranieri con quella terra è così naturale da non meritare spiegazioni. E infine, nello stereotipo antisemita, gli “ebrei” sono considerati così chiusi e concentrati su di sé da non arrivare a capire perché altre persone potrebbero considerare una “catastrofe” il totale furto e la pulizia etnica del loro paese – davvero così difficile che:

È improbabile che israeliani e palestinesi si accordino mai su una versione comune della storia

Svilendo ciò che è realmente accaduto ai palestinesi come “versione” – sostituto peggiorativo di “narrazione” – si può rimuoverlo. In effetti, una ricerca su Internet di “Narrazione palestinese” può occupare tutto il giorno, ma ogni volta che viene esposta una Narrazione per mostrare il crimine secolare contro i palestinesi, i propagandisti israeliani se ne impadroniscono per definirla una sorta di credenza, di invenzione nostalgica – nient’altro che “quello che dicono i palestinesi”.

In risposta agli sforzi del professor Rashid Khalidi per impedire agli Stati Uniti di costruire la propria ambasciata a Gerusalemme su terra rubata a palestinesi, tra cui la sua famiglia, un velenoso articolo sul Jerusalem Post affermava che “quello che sta accadendo qui non è tanto una battaglia sulla storia di Gerusalemme quanto una battaglia sulle narrazioni della storia.” Una recensione sullo stesso giornale dell’eccellente The Hundred Years’ War on Palestine [La guerra di cent’anni per la Palestina] del prof. Khalidi inizia proprio col titolo: “Controllare la narrazione palestinese”. Il recensore contrasta la “narrazione” di Khalidi con una litania di invenzioni israeliane la cui stessa logica sarebbe giustamente condannata come incitamento all’odio se le “parti” fossero invertite. Ed è nel contrastare tale razzismo – disumanizzazione – che la narrazione è così cruciale, per assicurare il fallimento della infame congettura di Ben-Gurion secondo cui “i giovani dimenticheranno”.

Riappropriarsi dei termini del dibattito

Solo i palestinesi possono riferire la narrazione palestinese collettiva e individuale. Ma per quelli di noi i cui paesi hanno causato il crimine secolare contro di loro – in particolare il Regno Unito e gli Stati Uniti – la fondamentale responsabilità di porre fine all’eterna complicità dei nostri paesi ricade su di noi. È nostro compito porre fine alla giungla di bugie su cui fa affidamento Israele.

A tal fine propongo un’osservazione generale. Nelle nazioni occidentali che si sono nutrite della mitologia di Israele tendiamo inconsapevolmente a permettere a Israele di controllare i termini del dibattito anche se combattiamo per la causa palestinese. Di una miriade di esempi forse il più semplice con cui illustrare il mio punto è come trattiamo l’uso da parte di Israele dell’accusa di antisemitismo per metterci a tacere.

Quando sul nostro petto viene scarabocchiata la “A” scarlatta di antisemita , la nostra tipica risposta è negare l’accusa: no, non sono antisemita. L’antisionismo non è antisemitismo. Questa risposta è totalmente nei termini di Israele: i suoi propagandisti, non tu, mantengono il controllo e tu rimani “colpevole”.

La risposta deve respingere correttamente l’accusa e includere le parole che la calunnia vorrebbe mettere a tacere: No, non cercare di coprire/nascondere l’apartheid israeliano. Sei sionista. Questo è antisemitismo! Oppure: sto difendendo dei fondamentali diritti umani. Stai insultando gli ebrei come oppositori dei diritti? O ancora: l’unico antisemitismo qui è da parte dei sionisti che in nome degli ebrei difendono l’apartheid israeliano contro la Palestina.

Cito questo come modello, suggerito per ripensarci e liberare tutti i nostri ragionamenti da un contesto ereditato. In questo momento la presa di Israele sull’opinione pubblica sta vacillando, Israele stesso è nel caos politico, le tre sillabe “apartheid” diventano ogni giorno più salde e la realtà che Tel Aviv abbia rubato tutta la Palestina storica non è più negabile . Il pubblico è più aperto alla verità dell’esperienza collettiva e individuale dei palestinesi – e il resto di noi deve fare sempre più pressioni per “delegittimare” lo stato razziale che è causa dell’intera catastrofe.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Settantacinque anni dopo la Nakba i palestinesi di Gaza conservano la loro tradizione attraverso le canzoni

Tareq S. Hajjaj

15 maggio 2023 – Mondoweiss

A 75 anni dalla loro espulsione i rifugiati di Gaza conservano la loro eredità culturale attraverso il folklore e le canzoni che raccontano una storia di resistenza e nostalgia della Palestina

In cerchio, con le mani che battono continuamente il ritmo, si uniscono tutte ai versi di una canzone mentre una donna al centro del cerchio suona un tamburo che tiene appoggiato a un fianco, dando loro il ritmo e le battute. In occasioni simili le donne anziane guidano l’esibizione, trovando un’occasione d’oro non solo per rivivere la tradizione vissuta nella terra d’origine prima del 1948, ma anche per trasmetterla alle generazioni più giovani in modo che non venga mai dimenticata.

Con vestiti colorati e con specchietti, in genere anche poche anziane sono in grado di trascinare con sé le giovani, facendo ripetere loro i versi varie volte, finché non si divertono a ripeterli e li hanno memorizzati, sempre più desiderose che le anziane insegnino loro i versi successivi.

Safia Jawad, 71 anni, veste il costume tipico del suo villaggio d’origine, Isdud (ribattezzato Ashdod dallo Stato di Israele), pieno di ricami fatti a mano e magnificamente intessuti. Inizia lentamente e abilmente con un tono basso a recitare questi versi:

“Veniamo dalla valle per la ragazza con i fianchi attraenti.

Veniamo dal mare per la ragazza con la vita come una ghirlanda di fiori.”

Queste parole risalgono a molti anni prima della Nakba, quando il popolo palestinese era solito celebrare gli avvenimenti con una canzone. Utilizzando solo mezzi semplici, le loro voci o strumenti come il “rebab” [strumento ad arco, antenato del violino, ndt.], creavano nuove canzoni adatte a specifici momenti e contesti.

Safia ha memorizzato una lunga lista di canzoni e versi per i matrimoni, benché non fossero le uniche occasioni a cui venivano riservati canti popolari. Ogni avvenimento, felice o triste, ha una canzone specifica. Esistevano in tutta la Palestina prima della Nakba, dopo la quale questa parte della tradizione palestinese venne trasformata. Le persone che scapparono dalle loro case e giunsero a Gaza come rifugiati portarono con sé le proprie tradizioni. Le conservarono e ripresero durante ogni matrimonio e funerale, fino al punto di tentare persino di diffonderle tra gli abitanti originari di Gaza. In seguito nacquero nuove forme di canzone.

Conservare la tradizione a Gaza

Nel campo profughi di Jabaliya, nel nord di Gaza, Samira Ahmed, 69 anni, e la sua figlia sposata, Sujoud, 36 anni, siedono una vicino all’altra su un divano nel soggiorno. Samira ha difficoltà a ricordare tutte le canzoni che le sono state insegnate dalla defunta madre, sopravvissuta alla Nakba.

Ogni tanto Sujoud ricorda a sua madre qualche canzone, e quando Samira dimentica una parte sua figlia finisce la strofa per lei.

“Nelle occasioni di famiglia come i matrimoni insisto perché ci sia un giorno intero di canzoni tradizionali,” dice Samira. “Ho un tamburo e canto tutte le canzoni che ho imparato. A volte le giovani presenti apprezzano le canzoni e le ripetono con me, altre volte chiedono canzoni moderne,” dice.

Trova che all’inizio le nuove generazioni di ragazze fanno fatica a seguire le canzoni perché sono abituate a quelle moderne, più veloci e con effetti musicali, in altre parole opposte al fluire di quelle tradizionali, che sono lente e prive di ogni altra musica che non sia quella del tamburo.

“Non sono solo canzoni che ripetiamo. Esse rappresentano il nostro orgoglio per la cultura e il folklore con cui i nostri nonni ci hanno cresciuti,” dice Samira a Mondoweiss. “Finché le facciamo rivivere e le rendiamo presenti durante i nostri eventi manterremo sempre la nostra eredità e cultura. Ed è così che conserviamo la nostra patria su ogni altra cosa.”

Samira è cresciuta amando questi canti fin da bambina, quando ascoltava sua madre cantarli durante i matrimoni, dimostrando precocemente un interesse personale. Quando ha avuto una famiglia sua li ha trasmessi ai suoi figli. Ora sua figlia Sujoud sta facendo altrettanto.

Ciononostante Samira teme che questa parte importante della storia della Palestina possa presto andare perduta, in quanto le nuove generazioni si orientano più verso la musica ritmata e moderna. “Difficilmente le persone giovani dimostrano interesse per queste canzoni, ma finché vive anche un solo rifugiato palestinese, non verranno dimenticate,” afferma.

Da parte sua Samira cerca di raccontare aneddoti divertenti riguardo a queste canzoni per avvicinare a loro i giovani, come la storia di una canzone per invocare la pioggia.

“La gente si metteva i vestiti al contrario, usciva nei campi e prendeva con sé un boccale di metallo su cui picchiare e chiedere a Dio la pioggia,” dice.

Questa è la canzone:

“Portaci la pioggia, portaci la pioggia, mio Signore,

per innaffiare le nostre piante rivolte a ovest.

Per favore, bagna le nostre sciarpe, mio Signore,

in modo che abbiamo pane a sazietà.

Per favore, bagna i nostri logori vestiti, mio Signore.

Siamo poveri e non abbiamo nessun luogo in cui andare.

Prima e dopo la Nakba

Per lo più nessuna particolare regione della Palestina è nota esclusivamente per una sua specifica canzone. Piuttosto, alcune canzoni hanno viaggiato in molti luoghi diversi all’interno della Palestina, e poi in ogni luogo le persone vi hanno aggiunto un proprio particolare specifico, rappresentandola attraverso accenti, intonazioni e modifiche del testo caratteristici del luogo. E’ così con molte delle canzoni folkloriche palestinesi.

Haidar Eid, professore di arte e letteratura all’università Al Aqsa di Gaza, raccoglie anche il patrimonio tradizionale che documenta il folklore palestinese e produce musica basata su canzoni tradizionali palestinesi. Un esempio è una canzone sul suo villaggio d’origine, Zarnuqa:

“Se solo la barca mi ha portato qui fosse stata piena di dolci

e avesse attraversato il mare e mi avesse riportato a Zarnuqa.”

Come ricercatore Eid ha scoperto che questa stessa canzone si è diffusa in diverse zone della Palestina, e ognuna di esse ha aggiunto qualcosa di specificamente regionale.

“Ci sono diversi tipi di canzoni e sono cantate in modo diverso nella tradizione palestinese delle canzoni. C’è la zajal, una poesia destinata ad essere cantata in lunghi poemi locali, e il mawwal, un canto prolungato con una voce molto lunga, adatta ad ogni occasione. Ci sono canti nunziali e il tarwidah, di quattro strofe, che comincia come un mawwal e poi inizia la canzone. E ci sono anche canzoni di cordoglio,” spiega Eid.

Una delle canzoni più popolari nei campi profughi di Gaza riguarda un innamorato che si lamenta e piange la sua amata con una strofa e la ripete nella successiva con lo stesso ritmo:

“Sono entrato in un bosco e ho cercato una pera – Oh il mio occhio, oh la mia anima.

Ho trovato la mia amata con un scialle in testa – Oh il mio occhio, oh la mia anima.

Fortunato chi può baciare quello scialle – Oh il mio occhio, oh la mia anima.”

Le donne di Gaza cantano questi versi nella stessa tonalità per 20 volte, mentre la cantante solista dice la prima parte il resto delle donne presenti ripete la seconda. I versi vengono detti nel dialetto locale dei palestinesi che hanno vissuto nella loro terra per centinaia di anni prima che gli israeliani li prendessero e uccidessero o espellessero con la forza.

Resistenza e nostalgia per la Palestina

Dopo la Nakba la vita della gente cambiò, e altrettanto fece il loro patrimonio culturale. E come la musica passò a riflettere la situazione della gente di una specifica regione, così ha fatto con i cambiamenti epocali nella lotta e nel modo di vita del popolo palestinese. Dopo la Nakba molte di quelle canzoni iniziarono a mostrare la natura della lotta dei palestinesi dopo il trauma del 1948, compresa la nostalgia per le loro case e terre e il loro diritto al ritorno. Le canzoni che i profughi palestinesi di Gaza iniziarono a diffondere dopo essere fuggiti dalle proprie case e scoprire che si sarebbero stabiliti a Gaza per un periodo imprecisato di tempo esaltarono le virtù dell’eroismo, del sacrificio e della resistenza.

Haidar Eid lo conferma: “Dopo la Nakba le canzoni palestinesi riguardarono la resistenza e il diritto al ritorno. Dopo l’occupazione e la seconda guerra israeliana nel 1967, che portò all’occupazione del resto della Palestina, le canzoni della resistenza si diffusero in tutta la Palestina. La nostalgia per la Palestina produsse sempre più canzoni,” afferma.

Una delle prime canzoni che si diffuse a Gaza dopo la Nakba riguarda un combattente della resistenza che fa una proposta a una ragazza. La canzone viene cantata con la voce della ragazza che chiede alla sua famiglia di accettarlo, anche se lui non ha di che pagare la dote. Nella canzone la ragazza dice:

“Mamma, dammi al combattente anche per niente – Egli entra nel territorio occupato

portando il suo mitra.

Mamma, dammi al combattente anche solo per un braccialetto – Egli entra nel territorio occupato e in ogni contrada.

Mamma, dammi al combattente anche solo per due soldi – Egli entra nel territorio occupato con il suo kalashnikov.

In tutte le canzoni il ritmo è lo stesso.

Tuttavia quella che forse è la canzone palestinese più nota è “Ya Zarif al-Tul”, diffusa in tutta la Palestina storica e nelle comunità palestinesi della diaspora. La canzone è precedente alla Nakba e si diffuse durante il periodo del mandato britannico. Originariamente cantata in riferimento a un anonimo palestinese “alto e bello” (zarif al-tul) che resiste con successo agli attacchi delle forze sioniste contro un villaggio, la canzone si trasformò e prese significati diversi nei decenni successivi alla Nakba.

La storia racconta di un palestinese che era universalmente visto dagli abitanti di un anonimo villaggio palestinese come una brava persona benché fosse uno straniero, e che lavorava come falegname in cambio di un compenso. Poi, quando un giorno una milizia sionista fece irruzione nel villaggio, con i suoi soldi comprò cinque fucili e li distribuì tra i giovani del villaggio che respinsero con successo l’attacco. Quando la milizia sionista tornò per vendicarsi scoppiò una grande battaglia in cui zarif al-tul sarebbe stato ucciso come un martire.

Un articolo di Khalil al-Ali spiega come si trasformò in seguito la leggenda di zarif al-tul:

“Quando la gente del villaggio raccolse i corpi dei martiri non trovò tra loro zarif al-tul, ed egli non era neppure tra i vivi, come se se ne fosse andato. Gli abitanti del villaggio convennero unanimemente che aveva combattuto coraggiosamente e ucciso più di 20 miliziani sionisti, salvando nel contempo alcuni giovani del villaggio. Con il passare dei giorni zafir al-tul divenne la canzone del villaggio: ‘ya zarif al-tul, dove sei andato…il cuore del tuo Paese è pieno di ferite. Ya zarif al-tul, stammi a sentire: hai lasciato il tuo Paese, eppure per te è meglio la Palestina.’”

Questa canzone si è poi trasformata nei versi con cui oggi è nota a molti:

Ya zarif al-tul, stammi a sentire.

Te ne sei andato in terra straniera, ma per te è meglio il tuo Paese.

Temo che te ne andrai, ya zarif, e troverai un’altra casa

Che incontrerai altre persone e mi dimenticherai.”

Nel corso degli anni il significato storico della canzone è stato per lo più dimenticato e oggi molti la intendono semplicemente una canzone che sottolinea l’importanza della propria casa e patria, soprattutto alla luce dell’espulsione provocata dalla Nakba.

Tuttavia ciò che la canzone di zarif al-tul ci dice è la storia della resistenza all’espulsione e all’oppressione. Al-Ali lo spiega bene:

“La storia racconta che negli anni successivi (alla presunta morte dell’anonimo palestinese) egli venne visto tra i rivoluzionari palestinesi (che resistevano alle forze sioniste) a Giaffa (nel 1948). E molte persone giurarono di averlo visto dietro a Jamal Abdul Nasser a Porto Said, ed altri a Gaza, e altri ancora dissero che era a Beirut prima dell’invasione israeliana del 1982… finché è risultato chiaro che zarif al-tul è ogni combattente della resistenza palestinese, e la canzone continua ad essere ripetuta fino ad oggi, con parole diverse da una versione all’altra.”

Questa storia di resistenza è più antica della Nakba, e le è sopravvissuta.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Al Center for Jewish History alcuni studiosi ebrei osano parlare della Nakba: fischiati

Philip Weiss

1 maggio 2003 – Mondoweiss

Al Center for Jewish History lo studioso Omer Bartov è stato continuamente interrotto e fischiato quando ha descritto la “brutale” espulsione dei palestinesi durante la Nakba. Alcuni gridavano “vergogna!” e una persona è uscita.

Ieri a New York, in occasione del 75esimo anniversario della fondazione di Israele, al Center for Jewish History [Centro di storia ebraica] si è tenuta una conferenza sugli ebrei americani e il sionismo che ha rivelato la notevole tensione all’interno della comunità ebraica in merito al sionismo. 

Tre oratori hanno voluto parlare della Nakba. C’è stata dell’opposizione e in un caso fischi e urla di “Vergogna.” 

Omer Bartov, docente alla Brown University, ha tenuto una conferenza sull’ “Eredità del 1948” in cui ha descritto l’Olocausto e la Nakba come eventi “insanabili”. Ha detto che, se il sionismo è stato la logica risposta al genocidio degli ebrei in Europa, “dopo la Nakba niente potrebbe sembrare più giusto della richiesta dei palestinesi di poter tornare nelle loro terre, da cui furono brutalmente espulsi.”

Bartov, uno studioso dell’Europa orientale, ha affermato che l’impossibilità di spartire la terra indica la strada verso un futuro democratico: “Smantellare le barriere, ammettere che questa terra potrà essere una patria solo quando sarà finalmente la patria di tutti i suoi abitanti.”

Bartov è stato interrotto e fischiato. È stato riferito che alcuni dei presenti avrebbero urlato “Vergogna!” e che una persona è uscita. Ci sono stati anche dei brontolii quando uno dei relatori ha fatto riferimento a J Street! [associazione di ebrei progressisti USA, ndt.] l’accademica canadese Mira Sucharov all’inizio della sua relazione si è rivolta rispettosamente ai disturbatori per cercare di placarli. Ha poi descritto nei dettagli il bombardamento di Giaffa nell’aprile del 1948, durante il quale 68.000 dei 70.000 abitanti del quartiere di Ajami furono “respinti in mare.” Ha poi osservato che quando i suoi parenti si preoccupano per gli ebrei spinti in mare questo è “letteralmente” quello che è accaduto ai palestinesi nel 1948 prima della fondazione dello Stato. (Un argomento che ho sostenuto anch’io.) 

Sucharov ha poi continuato dicendo che nei suoi corsi fa riferimento all’articolo di Ari Shavit sulla pulizia etnica di Lod (o Lydda) apparso sul New Yorker perché alla fine egli dichiara che rifarebbe tutto da capo per ottenere uno Stato a maggioranza ebraica. Lei fa notare che Shavit serve “su un piatto d’argento,” la posizione sionista.

Eric Alterman è stato ancora più penetrante. Ha detto che i palestinesi non accetterebbero nessuna delle tesi sioniste presentate al Center for Jewish History, e naturalmente nessun palestinese è stato invitato a parlare della loro profonda conoscenza del sionismo. Alterman ha detto che 700.000 palestinesi furono espulsi prima del maggio 1948 dalle milizie sioniste, antesignane dell’esercito israeliano, e che terre e proprietà palestinesi furono poi confiscate dallo Stato e date al Fondo Nazionale Ebraico. 

Alterman ha poi detto: “Tutto della vita dei palestinesi è discriminatorio. E non c’è nulla che noi [ebrei] accetteremmo.” 

Ha poi continuato: “Non hanno diritti. A me va benissimo il divorzio fra ebrei americani e Israele” perché i cosiddetti “valori condivisi” fra le due società sono stati un disastro per l’identità degli ebrei americani. 

Alterman ha anche detto che nella comunità ebraica il racconto dell’Esodo [la fuga dall’Egitto narrata nell’omonimo libro della Bibbia] sta “crollando”. E che, questa è la mia parte preferita, gli ebrei sono stanchi che i “neoconservatori” parlino a nome della comunità. 

Alterman e Sucharov sono stati zittiti dal resto degli oratori. “Non risolveremo noi il 1948,” ha detto un altro relatore, David Makovsky, frase in codice per dire “Per favore, smettete di parlare della Nakba”. 

E così tre docenti di storia ebraica, di cui due sono stati importanti sionisti progressisti, hanno espresso una critica nei confronti di Israele piuttosto blanda in un luogo ebraico e c’è stata una gran rabbia. 

Sucharov ha colto questa tensione quando ha detto di essere stata marginalizzata dalla propria famiglia per la partecipazione a una commissione che discuteva se il termine “apartheid” fosse applicabile a Israele/Palestina. Una zia scandalizzata ha telefonato a un’altra e il “risultato è stato un ostracismo ufficiale.” Sucharov non può più far visita alla zia in Israele e non è stata invitata al suo ottantesimo compleanno. “È molto doloroso.” 

Questo è solo un assaggio di quello che presto succederà alla comunità ebraica. Dal massacro israeliano di Gaza nel 2014 ci sono state tensioni sul sionismo nella comunità ebraica e anche all’interno delle famiglie ebree, al punto che i rabbini evitano a tutti i costi l’argomento. 

Nel 2021, durante l’attacco israeliano contro Gaza, 94 studenti e cantori rabbinici hanno firmato una lettera indirizzata al “cuore della comunità ebraica” lamentando la violenza israeliana e “l’espulsione intenzionale di palestinesi.” Alterman dice che a una conferenza di J Street alcuni di questi studenti hanno detto di aver perso il lavoro a causa della lettera, e che “uno piangeva.” (E io ho riferito che la rabbina Angela Buchdahl, una celebrità, dichiarò che non ne avrebbe assunto nessuno.)

Tale tensione che ribolle non può durare. Le forze sono troppo potenti: Israele è troppo incasinato e non può più essere tollerato dai giovani ebrei. E la lobby israeliana, il sostegno ai politici degli ebrei americani, è semplicemente troppo importante per l’esistenza di Israele. Nessuno cederà senza lottare e sarà ben presto guerra aperta. 

Un giorno i giovani ebrei chiederanno che la Nakba sia nominata e consacrata nelle associazioni progressiste ebraiche americane che hanno armato, e negato, la pulizia etnica. Chiederanno l’accettazione dei palestinesi che descrivono la Nakba come un “genocidio.”

PS. Makovsky ha continuato a offrire una visione edulcorata dei valori israeliani. E per un buon motivo: i “valori condivisi” con gli USA. sono un “pilastro” dell’esistenza di Israele. E così Makovsky asserisce (contro ogni evidenza) che le imponenti proteste per la democrazia in Israele “continueranno fino al prossimo ostacolo: la questione palestinese. Ha detto che il governo USA “ha tentato di fare gol” tre volte nei colloqui di pace e che parte della colpa dei fallimenti va ai palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio e Luciana Galliano)




Bollettino dalla Cisgiordania: si stringe la presa di Israele su Gerusalemme e si rafforza lo status della città come magnete per la mobilitazione

Ufficio Palestina di Mondoweiss

24 aprile 2023, Mondoweiss 

La duplice offensiva israeliana contro i palestinesi a Gerusalemme durante il Ramadan e la Pasqua hanno chiarito una cosa: la guerra per affermare la presenza sionista nella città è entrata in una nuova fase.

Sviluppi importanti (20-24 aprile)

Lunedì mattina, 24 aprile, le forze israeliane hanno sparato a Suleiman Ayesh Hussein Oweid, 20 anni, uccidendolo. Oweid è stato ucciso durante un’invasione nel campo profughi di Aqbat Jabr, situato nel distretto di Gerico. Dallo scorso anno la resistenza armata palestinese si è diffusa in tutta la Cisgiordania, compresa Gerico, dove è apparsa la brigata Aqbat Jabr all’inizio di quest’anno quando le forze israeliane hanno ucciso cinque dei suoi combattenti, continuando a prendere di mira e detenere i loro familiari nei mesi a seguire. Oweid è il secondo palestinese ucciso a Gerico nelle ultime due settimane.

  • Sempre lunedì, poche ore dopo l’uccisione di Oweid a Gerico, è avvenuto il tamponamento di un’auto a Gerusalemme. Secondo la polizia israeliana almeno cinque israeliani sono rimasti feriti, compreso un 57enne che ha avuto un attacco di panico. L’uomo che ha effettuato l’attacco sarebbe di Beit Safafa, ultimo quartiere palestinese rimasto a Gerusalemme ovest. Le forze israeliane hanno inflitto severe punizioni collettive alla famiglia dell’uomo, compreso l’arresto da casa di sua moglie. L’uomo è stato identificato come Hatem Abu Nijim, che ha trent’anni e, secondo quanto riferito, una storia di malattia mentale.

  • La scorsa settimana, giovedì 20 aprile, i coloni e l’esercito israeliani hanno attaccato i palestinesi nella città palestinese di Beita, ferendone almeno due con proiettili veri più altri 30 colpiti da asfissia per i gas lacrimogeni. Questo attacco è il più recente di un’escalation contro la città palestinese di Beita dove i coloni israeliani hanno cercato di legalizzare e consolidare la loro annessione forzata del Monte Sbeih di proprietà palestinese. L’ultimo attacco a Beita di simile vasta scala era avvenuto la settimana prima, il 14 aprile, quando i coloni israeliani e l’esercito avevano attaccato i palestinesi a Beita e Beit Dajan, ferendo almeno 58 palestinesi, compreso uno con pallottole rivestite di plastica, metodo ben documentato usato in modo letale contro i palestinesi.

La scorsa settimana i politici israeliani hanno anche proceduto a consolidare l’annessione illegale della Cisgiordania, assegnandole un budget senza precedenti di quasi 13,7 miliardi di dollari per i trasporti. Questo servirà a collegare tra loro più insediamenti in Cisgiordania a spese dei palestinesi. Il budget rappresenta quasi il 25% del totale per i trasporti dei coloni che costituiscono quasi l’8% degli israeliani. La decisione è stata promossa dal Ministro dei Trasporti israeliano Miri Regev e dal Ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich. Entrambi sono noti per il loro fedele e convinto sostegno all’ala destra del Likud e per le politiche anti-palestinesi.

Approfondimenti

Dall’inizio dell’anno l’eterna guerra sionista per Gerusalemme è entrata in una nuova fase. I tentativi israeliani di affermare il controllo sul complesso di al-Aqsa non sono una novità, ma il nuovo governo israeliano sta anche sistematicamente cercando di erodere lo status quo preesistente che tutela i diritti dei palestinesi sulla città. Le invasioni di Ben-Gvir ad al-Aqsa sono l’espressione governativa dei Fedeli del Monte del Tempio [estremisti ebraici ortodossi il cui obiettivo è ricostruire il Terzo Tempio ebraico sul Monte del Tempio e ripristinare la pratica del sacrificio rituale, ndt.] che sono stati a loro volta ulteriormente autorizzati e incoraggiati dalle politiche del nuovo governo. Tutte queste tensioni sono arrivate al culmine nell’ultimo mese, quando le festività musulmane, ebraiche e cristiane hanno coinciso.

Durante le festività musulmane e cristiane, i palestinesi affermano i loro diritti sulla città, ciò che negli ultimi anni ha portato alla nascita di una comunità, una sorta di sfera pubblica in cui l’appartenenza religiosa palestinese è politicizzata e incanalata in un confronto con le autorità coloniali. Questa è la seconda parte della dinamica dell’escalation per cui le autorità israeliane si rifiutano di consentire la mera esistenza di una presenza palestinese sovversiva e autonoma — negli anni precedenti si è già dimostrato quanto possa essere minacciosa la comunità del Ramadan, come nel caso della rivolta di Bab al-Asbat che ha portato all’allentamento delle restrizioni alla circolazione nella Città Vecchia.

Per questo motivo le autorità israeliane hanno lanciato due massicce offensive contro i palestinesi di Gerusalemme durante lo scorso mese;: il primo sui fedeli di al-Aqsa, che ha comportato pestaggi brutali e l’arresto di centinaia di persone, e il secondo contro i fedeli durante la Pasqua quando l’intera Città Vecchia è stata trasformata in una zona militare con soldati e posti di blocco sparsi ovunque.

La doppia offensiva ha chiarito una cosa: la guerra per affermare la presenza sionista in Gerusalemme è entrata in una nuova fase, la cui caratteristica principale è la fusione del fondamentalismo ebraico con il tradizionale ethos laburista sionista di “massimo di terra con il minimo di arabi”. Ma mentre la morsa su Gerusalemme si stringe, cresce il suo status di magnete politico per la mobilitazione popolare. Ciò non si vede solo nelle strade, ma ha addirittura minacciato di far sprofondare la regione in una guerra quando razzi sono stati lanciati verso Israele da Gaza e dal sud del Libano, un’azione a cui Israele ha risposto istericamente.

Sebbene questa volta non sia scoppiata una guerra anche solo il fatto che non sia scoppiata è indicativo, come il successivo allentamento delle restrizioni per i fedeli musulmani palestinesi durante gli ultimi giorni del Ramadan. Semmai dimostra la paura israeliana della risposta palestinese (e araba) ad ampio raggio che potrebbe essere scatenata dalle sue provocazioni a Gerusalemme.

Il guaio è che, mentre queste provocazioni continueranno senza dubbio a buttare benzina sul fuoco, le autorità coloniali non possono fare a meno di continuare ad alimentare le fiamme. Gli interessi dei coloni hanno monopolizzato lo Stato sionista e l’emergere di una comunità palestinese a Gerusalemme è troppo minacciosa perché la si permetta.

Tutto ciò crea tensioni sociali e politiche che rendono inevitabile la continuazione dell’eterna guerra per Gerusalemme.

Numeri chiave

• Più di 100 palestinesi sono stati uccisi dall’inizio dell’anno.

• Almeno 50 palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane la scorsa settimana.

• Ci sono attualmente 4900 detenuti politici palestinesi, 19 dei quali hanno un’età compresa tra i 12 e i 17 anni, dieci dei quali sono detenuti senza processo o accusa.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Dispaccio dalla Cisgiordania: lo stato di guerra dei coloni sionisti

Mondoweiss Ufficio Palestina

10 aprile 2023, Mondoweiss

I recenti attacchi ad Al-Aqsa, i continui arresti e omicidi di combattenti della resistenza e la marcia dei coloni sul monte Sbeih indicano un rinnovato impegno all’etica sionista delle origini. Ciò porterà inevitabilmente a uno scontro di ampia portata.

Principali sviluppi (7–10 aprile)

All’alba di lunedì mattina 10 aprile le forze israeliane hanno invaso il campo profughi di Aqbat Jabr e ucciso il diciottenne Mohammad Fayez Mohammad Oweidat. Durante l’invasione militare sono stati anche arrestati Yasin Omar Izzat Hunaifa e Mohammad Eid Abu Dahouk. Il mese scorso, le forze israeliane hanno invaso Aqbat Jabr e ucciso sei palestinesi.

Lunedì mattina 10 aprile a dir poco sette ministri israeliani hanno guidato migliaia di coloni in una manifestazione sul monte Sbeih nella città di Beita, 13 chilometri a sud-est di Nablus. Almeno un giornalista palestinese è rimasto ferito secondo i giornalisti locali presenti sulla scena, mentre secondo la Mezzaluna Rossa nelle prime due ore più di 121 palestinesi sono stati feriti. Dal 2021 i coloni israeliani hanno cercato di impossessarsi con la forza delle terre nell’area, ma sono stati ostacolati dall’opposizione organizzata dei palestinesi.

Durante il fine settimana l’aviazione israeliana ha lanciato attacchi aerei sulla Siria sostenendo di mirare ad agenti militari iraniani e ad un gruppo armato palestinese assadista [corrente politica del Partito Ba’th che sostiene le politiche di Àsad, ndt.] 

Nonostante gli accordi del comunicato congiunto mediato il mese scorso da Giordania ed Egitto, Israele ha approvato sei nuovi insediamenti in Cisgiordania.

Centinaia di coloni israeliani continuano nel quinto giorno della pasqua ebraica le incursioni armate nel sacro spazio di culto musulmano, il complesso di Al-Aqsa.

A seguito dello speronamento di un’auto venerdì che ha provocato la morte di un italiano e il ferimento di almeno altre quattro persone, la famiglia del palestinese ucciso ha negato la versione della polizia che si sia trattato di un attacco e afferma che si è trattato di un incidente automobilistico.

Approfondimento

La scorsa settimana l’assalto israeliano ai luoghi del Ramadan in Gerusalemme ha minacciato di trasformarsi nel corso della settimana in una guerra a tutto campo, con razzi lanciati dal Libano sulle zone settentrionali ai confini dello Stato israeliano in risposta alle provocazioni israeliane ad Al-Aqsa. Molti avrebbero potuto definire prevedibile questo sviluppo, poiché offre a Netanyahu una comoda scusa per sfuggire alla crisi interna sulla revisione giudiziaria proposta dal suo governo, forzando Israele all’unità di fronte a una minaccia esterna. La gente di Gaza lo prevedeva già da settimane, temendo che la striscia assediata sarebbe stata usata ancora una volta come pedina nelle battaglie interne del regime israeliano. Questo è ciò che ha portato alcuni a credere che la brutale repressione dei fedeli ad Al-Aqsa la scorsa settimana sia stata una deliberata provocazione israeliana per spingere Gaza a rispondere con il lancio di razzi. Quello che nessuno si aspettava era che i razzi provenissero dal Libano.

La direzione della sicurezza israeliana ha insistito sul fatto che non sia stato Hezbollah a lanciare i razzi, ma che ne fossero invece responsabili gli agenti di Hamas – qualsiasi cosa pur di evitare uno scontro diretto con il gruppo politico libanese dominante da cui Israele aveva subito una sconfitta militare durante l’invasione del Libano nel 2006. Gli analisti della sicurezza israeliani hanno fatto eco a questa opinione cauta anche se venata di isteria, ritenendo che l’incidente rappresenti la “situazione più pericolosa e complessa della sicurezza che Israele abbia dovuto affrontare sul suo confine settentrionale dalla seconda guerra del Libano nell’agosto 2006”.

L’esercito israeliano ha bombardato le aree circoscritte da cui erano stati lanciati i razzi; giorni dopo, l’8 e il 9 aprile, altri razzi sono stati lanciati dalla Siria sulle alture del Golan da un gruppo palestinese assadista. Come prima Israele ha risposto in modo insolitamente moderato sparando contro il punto da cui erano stati lanciati i razzi. Gaza, d’altra parte, è stata colpita più duramente poiché un fuoco di fila israeliano ha squarciato i siti di resistenza in diverse parti della Striscia di Gaza e ha alimentato i timori dello scoppio di un’altra guerra su Gaza – che rimane il paravento più conveniente per Israele, il deus ex machina delle crisi politiche israeliane.

Nonostante i disordini nella regione sono continuati gli assalti congiunti dell’esercito israeliano e del movimento dei coloni di destra contro le comunità palestinesi. L’esercito israeliano ha invaso il campo profughi di Aqbat Jabr a Gerico e il campo profughi di al-Ain a Nablus, uccidendo un combattente della resistenza e arrestandone molti, mentre nel villaggio di Beita migliaia di coloni israeliani guidati da Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich hanno marciato verso l’insediamento illegale di Evyatar evacuato (per rioccuparlo), e l’esercito israeliano ha ferito centinaia di contro-manifestanti palestinesi abitanti di Beita.

Il fatto che questo assalto di coloni e militari sia ostinatamente continuato senza badare alla minaccia di guerra dimostra due cose: in primo luogo che la presa da parte dei coloni sul governo israeliano ha reso il regime sionista più audace e più fedele all’ethos liberale sionista delle origini (“massimo di terra con un minimo di arabi”) rispetto a qualsiasi governo lo abbia preceduto, e in secondo luogo che questo impegno preventivo all’espansione coloniale a tutti i costi, privo della razionalità pragmatica della generazione sionista fondatrice – che, in certi momenti, si accontentò di limitare temporaneamente i progetti territoriali a favore del mantenimento della “purezza demografica” anche come tacita concessione alla resistenza armata palestinese – lancerà inevitabilmente e inesorabilmente Israele in uno scontro diretto non solo con i palestinesi ma con chiunque altro tenti di difenderli.

Questa eccezionale circostanza ha solo reso più reale la probabilità di uno scontro militare più ampio. Anche se né il governo israeliano né Hezbollah vogliono veramente tale conflitto, le forze sociali in gioco all’interno di Israele continueranno a creare le condizioni che lo rendono sempre più verosimile.

Tutto ciò è stato reso possibile da un unico filo rosso che passa dalla repressione ad al-Aqsa agli attacchi alla resistenza armata e alle marce dei coloni sul monte Sbeih: il sionismo ha raddoppiato il proprio sforzo verso il suo originale imperativo coloniale, e questo rinnovato impegno significa che l’imminente confronto, indipendentemente dalla forma che prenderà, è più vicino che mai.

Dati importanti

• Dall’inizio dell’anno, nel corso di 100 giorni, più di 98 palestinesi sono stati uccisi dalle forze armate e dai coloni israeliani. A marzo sono stati uccisi 14 israeliani.

• Nel primo trimestre del 2023 Israele ha rinnovato circa 800 ordini di detenzione amministrativa (AD – senza imputazione né processo, ndt.), raggiungendo il record più alto di arresti arbitrari da parte di Israele dal 2003.

• Dal 2021 più di 32.089 palestinesi sono stati feriti dalle forze e dai coloni israeliani, il 92% dei quali in Cisgiordania.

Da gennaio e fino al 30 marzo più di 413 palestinesi sono stati sfollati a seguito delle demolizioni israeliane in Cisgiordania e a Gerusalemme est.

• Dall’inizio dell’anno circa 100 palestinesi sono stati arrestati nella sola Gerico, la maggior parte degli arresti concentrati nel campo profughi di Aqbat Jabr – inclusa l’incarcerazione di parenti stretti dei palestinesi uccisi durante gli omicidi extragiudiziali israeliani.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I media pubblicizzano il rapporto dell’ADL che equipara l’antisionismo all’antisemitismo

Michael Arria

24 marzo 2023 – Mondoweiss

La ricerca annuale dell’ADL sull’antisemitismo negli USA offre una visione distorta del problema perché l’organizzazione conteggia tra le azioni anti-semite le proteste antisioniste contro Israele.

Questa settimana l’Anti-Defamation League [Lega contro la Diffamazione, una delle principali associazioni della lobby filo-israeliana negli USA, ndt.] (ADL) ha reso pubblica la sua ricerca annuale sugli incidenti di antisemitismo negli Stati Uniti. Secondo i dati nel 2022 essi sarebbero aumentati del 36%, con un totale di 3.697 casi. È il numero più alto dal 1979, quanto l’ADL ha iniziato a raccogliere queste informazioni, e un incremento di circa il 500% negli ultimi dieci anni.

Tuttavia un rapido sguardo alla metodologia dell’associazione rivela immediatamente che le sue conclusioni sono discutibili. L’ADL attribuisce esplicitamente azioni e proteste antisioniste contro Israele all’antisemitismo, perché possono mettere a disagio studenti ebrei.

Dichiarazioni pubbliche di opposizione al sionismo, che spesso sono antisemite, sono incluse nella ricerca quando si può stabilire che esse abbiano avuto un impatto negativo su uno o più individui ebrei o associazioni ebraiche identificabili e localizzate,” spiegano gli autori del rapporto. “Ciò è più frequente nei campus dei college, dove alcuni studi hanno mostrato che l’opposizione accesa a Israele e al sionismo può avere un effetto intimidatorio sulla vita di studenti ebrei e aggrava le pressioni percepite da studenti ebrei in aggiunta agli incidenti di cui diamo conto in questa ricerca.”

Come prevedibile le “raccomandazioni” della ricerca includono l’adozione della controversa definizione di antisemitismo dell’IHRA, la promozione degli accordi di Abramo [tra Israele e alcuni Paesi arabi, ndt.] e la mobilitazione contro il movimento nonviolento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni [contro Israele, ndt.] (BDS).

Su Twitter la presidentessa della Foundation for Middle East Peace [Fondazione per la Pace in Medio Oriente] Lara Friedman presenta un istruttivo legame che riduce notevolmente i numeri gonfiati: 241 degli incidenti documentati sono relativi a critiche a Israele o al sionismo e di questi l’ADL ne attribuisce 70 a singole persone legate ad associazioni di attivisti antisionisti.

Friedman evidenzia che, anche accettando la distorta visione dell’ antisemitismo da parte dell’ADL, questi incidenti non costituiscono una parte considerevole dei fatti documentati. Ciononostante nel suo rapporto l’ADL dedica più parole a Israele che a qualunque altro argomento e gli concede uno spazio doppio rispetto a quello dedicato dal suprematismo bianco o alle aggressioni antisemite.

Così in sostanza l’ADL continua a utilizzare una definizione politicizzata di antisemitismo che demonizza la libertà di parola che critica Israele o il sionismo, e gonfia questi numeri molto discutibili dedicando uno spazio sproporzionato ad enfatizzare la minaccia rappresentata dalle critiche a Israele e al sionismo,” conclude Friedman.

Il contenuto del rapporto non è affatto sorprendente. Il direttore dell’ADL Jonathan Greenblatt ha ripetutamente dichiarato di considerare antisemita l’antisionismo. “Come ideologia l’antisionismo ha le sue radici nell’odio,” ha detto al pubblico dell’incontro nazionale dei dirigenti dell’ADL nel 2022. “Esso si basa su un concetto: la negazione di un altro popolo, un concetto alieno al discorso contemporaneo quanto il suprematismo bianco. Richiede una negazione deliberata della storia anche superficiale dell’Ebraismo e della lunga storia del popolo ebraico. E, quando un’idea deriva da una tale sconvolgente intolleranza, essa porta ad azioni sconvolgenti.”

L’ho già detto in precedenza e lo ripeto: l’antisionismo è antisemitismo,” ha affermato nel novembre 2021. “Negare il diritto degli ebrei, unico tra tutti i popoli del mondo, ad avere una patria è antisemitismo. Prendere di mira solo lo Stato ebraico per condannarlo ignorandone altri è un pregiudizio.”

I principali media hanno informato del rapporto, ma hanno ampiamente omesso di respingere le sue affermazioni o di fornire il contesto dell’ideologia politica dell’associazione.

Un servizio dell’NPR [principale rete radiofonica pubblica USA, ndt.] sulle conclusioni dell’organizzazione non cita affatto Israele, la Palestina o il sionismo, né lo fa l’informazione della CNN. L’articolo del New York Times sul rapporto menziona semplicemente che “include alcuni incidenti definiti come antisionisti o contro Israele,” ma accetta la (falsa) affermazione dell’ADL secondo cui “non confonde le critiche generali a Israele o l’attivismo anti-israeliano con l’antisemitismo.”

Greenblatt è stato invitato da PBS Newhour [notiziario televisivo serale USA, ndt.] a parlare del rapporto ed ha apertamente calunniato gli antisionisti senza smentite: “Quando vediamo accaniti attivisti antisionisti nei campus dei college intimidire apertamente, aggressivamente e quasi con gioia studenti ebrei, qualcosa di fondamentale si è rotto nella nostra società,” ha detto al conduttore Geoff Bennett.

Poi Bennett ha esplicitamente ripetuto il discorso dell’ADL chiedendo a Greeblatt di spiegare i falsi dati sui campus. “Ha colpito anche me leggere in questo rapporto dell’aumento del 41% di attività antisemite nei campus dei college e delle università,” ha affermato Bennett. “E continuando a leggere sull’argomento quello che ho imparato è che spesso studenti ebrei affermano che gli abusi sono spesso accentuati quando emergono critiche contro Israele. Dimmi qualcosa in più a questo proposito.”

Nella sua risposta Greenblatt è arrivato fino a suggerire che gli antisionisti sono indirettamente responsabili di scritte naziste.

Beh, vedi, non c’è sicuramente niente di sbagliato nel criticare le politiche dello Stato di Israele,” ha sostenuto Greeenblatt. “È una cosa frequente. Vivere in democrazia significa questo. Lo fa anche l’ADL. Ma l’instancabile ossessione contro lo Stato ebraico, le affermazioni secondo cui stia in qualche modo commettendo un genocidio contro i palestinesi o sia responsabile di suprematismo bianco, se pensi che un Paese, l’unico Stato ebraico al mondo, sia in qualche modo suprematismo bianco o stia commettendo un genocidio, ovviamente, tu – noi non dovremmo poi essere sorpresi quando compaiono svastiche sulla sede dell’associazione ebraica o quando le persone pensano che sia giusto prendere di mira e vittimizzare apertamente studenti ebrei.”

Gli attivisti hanno costantemente insistito perché le associazioni per i diritti umani smettano di lavorare con l’ADL a causa della lunga storia di opposizione ai diritti dei palestinesi e di collaborazione con le forze dell’ordine da parte dell’organizzazione. Nel 2020 una coalizione di associazioni (tra cui American Muslims for Palestine [Musulmani Americani per la Palestina], il Palestinian Youth Movement [Movimento Giovanile Palestinese], Adalah Justice Project [Progetto di Giustizia Adalah] e IfNotNow [SeNonOra]) hanno pubblicato una lettera aperta chiedendo di intervenire.

Benché l’ADL sia integrata nel lavoro di comunità su una serie di problemi, essa ha una storia e un costante comportamento aggressivo contro movimenti per la giustizia sociale guidati da comunità di colore, queer, immigrati, musulmani, arabi e altri gruppi emarginati, schierandosi nel contempo con polizia, dirigenti di destra e perpetratori della violenza di stato,” vi si legge. “Cosa ancora più indignante, spesso ha condotto questi attacchi sotto la bandiera dei ‘diritti civili’.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il sistema carcerario israeliano sta ritardando le cure mediche salvavita di Abdul-Razeq Farraj

KHALED FARAJ

14 MARZO 2023 – Mondoweiss

Il trattamento di Abdul-Razeq Farraj per un tumore maligno è stato ritardato dai servizi penitenziari israeliani, parte di una più ampia politica israeliana di sistematica negligenza delle cure dei prigionieri palestinesi.

Mio fratello, Abdul-Razeq Farraj, che è detenuto nelle carceri israeliane, ha notato per la prima volta delle piaghe nere sul lato sinistro del naso tre mesi fa. Ha informato il medico del carcere e, a seguito di una procedura di screening, l’autorità penitenziaria ha ordinato che fosse trasferito in un ospedale civile per sottoporsi a ulteriori esami. Si è scoperto che questa piaga è un tumore maligno e che è necessario eseguire un’operazione per rimuoverla.

Non sono un medico, ma un semplice confronto tra una foto del tumore che ho visto tre mesi fa e un’altra foto che l’avvocato ha avuto il permesso di scattare questo mese indica cambiamenti visibili per quanto riguarda le sue dimensioni. In effetti, il tumore è cresciuto rapidamente sul lato sinistro del naso di mio fratello.

Un amico chirurgo mi ha in un primo momento informato che il caso non è pericoloso e che una semplice procedura avrebbe rimosso efficacemente il tumore. Questo quando ha visto la prima foto tre mesi fa. Questo mese, tuttavia, dopo aver visto la foto recente e dopo aver consultato altri medici, il mio amico ha notato che è necessaria un’operazione urgente e che l’espansione del tumore è verticale e non solo orizzontale. Qualsiasi ritardo nell’esecuzione dell’operazione porterebbe all’espansione del tumore, ha avvertito. In effetti, quello di cui stiamo parlando qui è un tumore maligno che non deve essere ignorato. L’autorità penitenziaria di Ofer, dove è detenuto mio fratello, ha ritardato la consegna del referto medico al suo avvocato e a un rappresentante di Medici per i Diritti Umani. La relazione è stata finalmente inviata all’avvocato, ma non è altro che un verbale procedurale privo di qualsiasi sostanza.

Il mio amico chirurgo e i suoi colleghi nel Regno Unito sono rimasti sorpresi quando hanno saputo di questo ritardo deliberato nel sottoporre mio fratello all’operazione così necessaria. Infatti era urgente eseguire l’operazione e rimuovere il tumore sin dal dicembre 2022, cioè da quando ha ricevuto per la prima volta la diagnosi. Questo tipo di ritardo da parte delle autorità del servizio penitenziario israeliano nel fornire cure mediche urgenti ai prigionieri palestinesi è chiaramente intenzionale.

Mio fratello Abdul-Razeq è imprigionato da più di tre anni e mezzo. È stato sottoposto a brutali torture nei centri di interrogatorio israeliani durante il suo ultimo arresto nel 2019 ed è attualmente in attesa di processo nei tribunali militari israeliani.

Ma questa non è la prima incarcerazione di mio fratello. Ha trascorso oltre dieci anni della sua vita in prigione secondo la politica arbitraria della detenzione amministrativa, tra il 1995 e il 2018. Ha anche scontato una pena di sei anni tra il 1985 e il 1991. Questi arresti, insieme al suo recente arresto nel 2019, portano a un totale di vent’anni che ha già trascorso nelle carceri israeliane. In particolare, i tribunali militari israeliani hanno sempre ripetuto la stessa accusa di “mettere in pericolo la sicurezza regionale e la sicurezza del pubblico” nella loro lista di imputazioni contro mio fratello, così come nei suoi ordini di detenzione amministrativa che si basano su “fascicoli segreti” a cui né gli avvocati né i loro clienti hanno accesso.

Abdul-Razeq, che ha da poco compiuto sessant’anni, ha passato un terzo della sua vita lontano dalla sua famiglia. Suo figlio, Basil, ha terminato gli studi di dottorato a Ginevra, in Svizzera, e ha iniziato a insegnare alla Birzeit University pochi mesi fa. Suo figlio minore, Wadea, ha terminato gli studi in ingegneria e ha iniziato a lavorare, il tutto mentre il padre era via. La sua compagna di vita, Lamis, ha trascorso metà della sua vita coniugale viaggiando tra prigioni e tribunali militari israeliani cercando di trovare una sorta di temporanea stabilità familiare.

 Sì, Abdul-Razeq è stato punito, in senso letterale, più di una volta, davanti allo stesso tribunale e sotto la stessa accusa. Mentre era fuori di prigione, Abdul-Razeq ha lavorato per molti anni nel giornalismo e nello sviluppo agricolo come parte del suo lavoro nell’ Union of Agricultural Work Committees. Ha impegnato il suo tempo durante il suo primo lavoro a denunciare i crimini israeliani contro i palestinesi, e ha dedicato il secondo a rafforzare la resilienza e la resistenza dei contadini palestinesi sulla loro terra contro le politiche dei coloni israeliani. Abdul-Razeq ha dedicato parte del suo tempo e delle sue energie per porre termine all’occupazione; per la libertà del suo popolo; per la giustizia e i diritti umani.

La preoccupazione che ho per mio fratello questa volta non è simile agli anni precedenti quando era in detenzione amministrativa. Allora l’intera famiglia avrebbe atteso la sua “presunta” data di rilascio; mia madre – che la sua anima riposi in pace – i suoi fratelli e sorelle, moglie e figli sarebbero al solito delusi da un altro rinnovo della detenzione per la seconda, terza, quarta e anche decima volta.

Questa volta è diverso. Mio fratello Abdul-Razeq non è più giovane, né ha la forza che aveva una volta. In secondo luogo, il suo caso riguarda una malattia che si sta rapidamente diffondendo. In terzo luogo, la nostra preoccupazione è aumentata con l’ascesa dell’estrema destra israeliana dato il suo ruolo importante nell’amministrare lo stato colonizzatore, in particolare dato che il colono criminale, condannato ed estremista Itamar Ben-Gvir ha ricevuto l’autorità sul servizio penitenziario israeliano come parte delle competenza del suo ministero di recente costituzione come ministro della sicurezza nazionale. In quarto luogo, la politica israeliana di trascurare le necessità mediche dei nostri prigionieri è diffusa e i nostri prigionieri sono lasciati soli ad affrontare il loro destino.

Fornire cure mediche ai detenuti è uno dei diritti più inalienabili a cui dovrebbero avere accesso. In effetti è noto come l’occupazione israeliana abbia una lunga storia, comprovata dai nomi e dalle testimonianze dei prigionieri, di trascuratezza nelle cure mediche dei prigionieri arabi e palestinesi.

Le organizzazioni mediche e per i diritti umani devono coordinare collettivamente gli sforzi per fare pressione sull’occupazione israeliana affinché fornisca le cure mediche necessarie a tutti i prigionieri malati. Questa è la sua responsabilità legale e “morale”. Infine la nostra richiesta è la libertà e il diritto alle cure mediche per Abdul-Razeq e i suoi compagni nelle prigioni coloniali israeliane.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)

 




‘I palestinesi sono animali’ – Perché molti ebrei israeliani approvano il pogrom dei coloni

Philip Weiss

7 marzo 2023 – Mondoweiss

C’è un’opinione diffusa tra molti israeliani: ok, questa è la situazione, comunque loro sono animali, comportiamoci allo stesso modo”, dice Amos Harel riguardo alla visione israeliana degli attacchi dei coloni contro i palestinesi.

Un importante giornalista israeliano la scorsa settimana ha spiegato agli ebrei americani che molti nella società israeliana approvano il “pogrom” dei coloni contro il villaggio palestinese di Huwwara perché considerano i palestinesi “animali” ed accettano come normale l’occupazione.

Parlando all’associazione della lobby filoisraeliana ‘Israel Policy Forum’ (IPF), Amos Harel del quotidiano Haaretz [principale quotidiano israeliano di centro sinistra, ndt.] ha detto che la furia dei coloni a Huwwara il 26 febbraio, che ha ucciso un palestinese e distrutto negozi e automobili, ricorda il Ku Klux Klan che terrorizzava i neri nel sud [degli USA, ndt.], o i pogrom russi contro gli ebrei.

Susie Gelman, presidentessa dell’IPF, ha quindi chiesto se gli israeliani provassero orrore per Huwwara e se il pogrom potesse aprire gli occhi a coloro che hanno rimosso gli orrori della Cisgiordania. Harel ha detto che la maggioranza non prova orrore, che Huwara potrebbe essere “il lato oscuro della luna” benché disti 45 minuti dalla periferia di Tel Aviv.

E per molti israeliani il pogrom è assolutamente giustificabile, occhio per occhio:

La maggioranza degli israeliani rimuove ciò che accade nei territori [occupati, ndt.], non va a visitarli…Per la maggior parte delle persone è una specie di realtà oscura che avviene altrove e che non ha praticamente niente a che fare con loro…

Molti israeliani che hanno saldi principi si sentono malissimo riguardo a quanto è accaduto. Altri dicono: ‘Gli sta bene, bisogna fare così: occhio per occhio, dente per dente’. E purtroppo ciò che sentite è quanto affermano anche alcune persone di destra, non solo i politici di estrema destra.

C’è un’opinione tra molti israeliani: ok, questa è la situazione, comunque loro sono animali, comportiamoci allo stesso modo. Questo spaventa moltissimo, e penso che sia uno dei risultati o delle implicazioni di una lunga occupazione. Io sono nato dopo la Guerra dei Sei Giorni [nel 1967, ndt.], questa è la realtà che conosco. Molte altre persone non pensano neanche più a questo. Fa parte della realtà – gli ebrei stanno sopra, gli arabi sotto, le cose stanno così. Ma ovviamente sul lungo termine questo non può durare per sempre. Ci sarà un alto prezzo morale da pagare per questa situazione, soprattutto se si pone all’interno dell’equazione anche la religione, che a mio avviso è parte del problema.”

È importante sottolineare che quando si tratta di rimuovere gli orrori dell’occupazione i capi degli ebrei sionisti americani sono stati centrali nel soffocare questa consapevolezza negli USA. L’‘Israel Policy Forum’ è tra le associazioni filoisraeliane che hanno agito a Washington per fornire a Israele un’assoluta impunità politica per le sue violazioni delle Convenzioni di Ginevra nell’insediare e popolare colonie per 55 anni, al punto che ora ci sono più di 700.000 coloni ebrei soggetti a leggi differenti rispetto ai palestinesi che vivono sotto occupazione.

Per esempio, l’‘Israel Policy Forum’ ha difeso Israele dalle accuse di “apartheid” avanzate da importanti associazioni per i diritti umani. Nondimeno Harel ha detto che i recenti cambi nell’amministrazione sotto il governo Netanyahu non fanno che rafforzare le accuse, ponendo i palestinesi della Cisgiordania sotto la competenza del Ministero della Difesa e i coloni ebrei sotto l’autorità del Ministero delle Finanze.

[Harel] ha motivato l’uso di termini come “pogrom” e “KKK” relativamente alla furia dei coloni, seguita all’uccisione di due coloni israeliani da parte di un palestinese armato di fucile sulla strada principale di Huwwara:

Questo è il termine che utilizzano i media israeliani: è stato un pogrom. E’ stato compiuto da decine, se non centinaia, di coloni che hanno dato fuoco a negozi e case in tutto il villaggio di Huwwara…La cosa più sconcertante forse è stato il fatto che l’esercito israeliano non ha agito, non è intervenuto, ci è voluto molto tempo…prima che iniziasse a impedire ai coloni ulteriori rappresaglie…Sembrava che un uragano fosse passato per la strada principale del villaggio…E’ stato molto preoccupante da un punto di vista strategico – significa maggiore escalation e maggiore violenza…E dal punto di vista etico…ciò che abbiamo visto, e mi scuso per il brutale linguaggio che sto usando, è stato un KKK locale scatenato per tutte le strade di Huwara: è qualcosa che come ebrei e israeliani non possiamo permettere.”

I ministri di destra fascisti nella coalizione di Netanyahu pensano che “forse una nuova Nakba non è una cattiva idea, una deportazione di palestinesi.”, ha detto Harel. “Sono le persone che fanno parte della struttura decisionale. Non sono dei fanatici. Sono le persone su cui Netanyahu fa affidamento.”

Harel prevede che a causa delle proteste senza precedenti in Israele Netanyahu non andrà avanti con la riforma giudiziaria che ha predisposto, e che alla fine il governo cadrà perché l’estrema destra sarà delusa da Netanyahu e lo abbandonerà.

Ha anche detto che la presenza nelle manifestazioni di riservisti dell’esercito e di altre forze di sicurezza ha dato loro un carattere “militarizzato”, ma le rende più efficaci in quanto rappresentano “il cuore, l’anima e la spina dorsale della società israeliana.”

Se parlate con i funzionari, sono tutti molto preoccupati (dalle proposte di riforma di Netanyahu)… Ex importanti membri del Mossad [servizi segreti israeliani per l’estero, ndt.) e funzionari dello Shin Bet [servizi segreti interni, ndt.] partecipano alle manifestazioni…C’è qualcosa di molto militaresco nelle proteste israeliane, ma anche di patriottico…E’ così che bisogna fare. Usare i generali, le uniformi e le truppe per far valere la propria autorità, se volete, per farsi sentire.”

Philip Weiss

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss.net e ha fondato il sito nel 2005-06.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’ambasciatore degli Stati Uniti Tom Nides afferma che i palestinesi non hanno bisogno di diritti, hanno solo bisogno di “soldi”

Philip Weiss

23 febbraio 2023 – Mondoweiss

La scorsa settimana l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele Tom Nides ha tenuto un’intervista con David Axelrod ed è stato quanto mai sincero – e il risultato è sorprendente: Israele ora è “in fiamme” e i palestinesi non hanno pari diritti. Ma i palestinesi non hanno bisogno di diritti, hanno solo bisogno di “soldi”.

E cosa tiene Nides sveglio la notte? Qual è la sua “più grande paura”? Israele ha “perso l’efficacia di una propria narrazione” nei campus universitari negli Stati Uniti, anche tra i giovani ebrei!

Quindi i palestinesi vengono uccisi in ogni dove perché resistono all’occupazione e la preoccupazione e il timore dell’ambasciatore è che nelle università non venga più diffusa la versione filo-israeliana. Che le persone che sostengono Israele abbiano paura di farsi avanti!

Non penso che si possa ottenere una dimostrazione migliore del ruolo narcisistico della lobby israeliana dello scambio Axelrod-Nides del 16 febbraio. Nides è un tipo simpatico, un affabile uomo d’affari di Duluth i cui legami familiari nella comunità ebraica ufficiale hanno spinto la sua carriera nel Partito Democratico, fino a un incarico di grande fiducia da parte di Joe Biden. E cosa gli interessa davvero? Promuovere Israele nelle università.

In realtà è solo un galoppino filo-israeliano, ma lo è anche Axelrod: entrambi questi potenti accoliti sessantenni si scavalcano a vicenda per mostrare il loro attaccamento emotivo a Israele in quanto presunta democrazia, tralasciando del tutto le uccisioni dei palestinesi. Forse la fase più sconvolgente di questa performance è il momento in cui Nides si vanta di andare a ogni shiva [rituale religioso ebraico in occasione di un lutto, ndt.] per ogni israeliano ucciso da “terroristi” e poi si lamenta che vengano uccisi anche dei palestinesi innocenti – senza alcun accenno ai loro funerali, perché non ci va.

Questo razzismo anti-palestinese è profondamente radicato nella nostra politica, ma il fatto che Nides se ne vanti dovrebbe essere imbarazzante. Ed è un liberal” [progressista, ndt.] ! Il quale ci dice che i palestinesi vogliono “denaro” non diritti.

Sentiamo cosa hanno da dire Nides e Axelrod.

Nides critica il governo Netanyahu per aver portato avanti i piani per privare la magistratura dei poteri e legalizzare gli insediamenti. “Stiamo dicendo al Primo Ministro, come dico ai miei figli, tira i freni, rallenta… Stai andando troppo veloce”. Questo era il titolo della notizia.

Axelrod afferma che le critiche di un ambasciatore e anche del presidente Biden sono “molto insolite”.

Nides si dice entusiasta della democrazia israeliana e spiega quanto sia importante questa percezione per il settore commerciale e per gli Stati Uniti che difendono Israele.

Prima di tutto, questa è una democrazia piena di vita, come dimostrano le decine di migliaia di persone che protestano ogni sabato… La realtà è che il 72% di questo Paese ha votato per la quinta volta in due anni. È incredibile. In America possiamo solo sognarlo…

Alla fine dei conti gli Stati Uniti non si trovano nella posizione di dire e dettare a Israele come scegliere la loro Corte Suprema. Per essere chiari, l’unica cosa che lega i nostri Paesi è un sentimento di democrazia, un senso delle istituzioni democratiche.

È così che difendiamo Israele alle Nazioni Unite, è così che difendiamo i valori che condividiamo.

E gli Stati Uniti non rinunceranno mai a difendere Israele. Lo dice Biden. Nides:

Senti, la cosa più importante è che questa relazione tra Stati Uniti e Israele sia indissolubile, che è l’indicazione che ho ricevuto dal presidente quando ho accettato questo lavoro. Come tu sai, David… Joe Biden si preoccupa davvero per Israele. Crede nel suo cuore e nella sua anima, nelle sue kishke [viscere in ebraico, ndt.], come diremmo noi ebrei…. Ha detto: non è necessario essere ebreo per essere sionista».

Noi ebrei” è un segnale; entrambi i personaggi si lasciano andare. Axelrod e Nides si scambiano la loro buona fede sionista e il reciproco “orgoglio per Israele”. Axelrod, 68 anni, ex braccio destro di Barack Obama, dice di essere cresciuto a New York in una famiglia di immigrati, che hanno messo insieme i soldi per mandare i loro nonni in Israele. “Qualcosa di cui io e la mia famiglia siamo sempre stati orgogliosi è questa democrazia piena di vita… una democrazia che prospera in una parte del mondo che in realtà non ha mai visto una democrazia”. E non danneggerebbe “l’anima di Israele” la perdita di indipendenza della magistratura?

“Ci tengo molto a Israele”, dice Nides. Ha visitato il Paese per la prima volta a 15 anni, alla fine degli anni ’70. E in questo momento gli ebrei americani sono preoccupati che i cambiamenti di Netanyahu possano minare la “democrazia” israeliana: “Gli ebrei americani e non solo gli ebrei liberal riformatori come me, ma anche gli ebrei moderati e conservatori sono piuttosto preoccupati”. (Per la cronaca, questa settimana sul New York Times Peter Beinart ha demolito il concetto di democrazia ebraica. “Non puoi salvare la democrazia in uno Stato ebraico”. Non tutti gli ebrei americani sono stupidi e venduti.)

Axelrod chiede se Nides si preoccupi della “sfilacciatura” di quel sostegno ebraico americano nel caso Israele prendesse una svolta antidemocratica e le politiche espansionistiche di Israele venissero proseguite (come è stato per 56 anni)? Questo è ciò che tiene Nides sveglio la notte:

“Quello che veramente mi preoccupa, David, che mi tiene sveglio la notte, è quanto succede nei campus universitari. Questo mi fa preoccupare davvero… E’ molto difficile per un ragazzo ebreo o non ebreo intervenire e parlare di Israele. Abbiamo perso l’efficacia della nostra narrazione nei campus universitari e dobbiamo concentrarci su questo… Ho fatto una registrazione su Hillel [antico rabbino ebreo, ndt.]… Ho detto: ascoltate ragazzi, abbiamo perso questa efficacia della nostra narrazione, potete essere a favore sia di Israele che del popolo palestinese! In qualche modo abbiamo perso questa efficacia di una nostra narrazione nei campus universitari. Si può sostenere la discussione dicendo di avere a cuore sia il popolo palestinese che Israele. Va bene, non c’è niente di sbagliato in questo!”

Axelrod interviene dicendo che si può essere “contrari al terrorismo e alla brutalità che gli israeliani hanno conosciuto ed essere critici quando vengono limitati i diritti umani dei palestinesi”. Limitati: bell’eufemismo!

Nides confessa la sua più grande paura:

“Ciò che mi preoccupa più di ogni altra cosa è la prossima generazione, ok? La prossima generazione di ragazzi che frequentano i campus universitari e i dottorati. Questa è la mia più grande paura. Sì, Israele deve realizzare un maggiore impegno nella comunicazione. Devono comunicare in modo che i giovani credano che Israele sia un Paese democratico, in cui i diritti delle persone sono protetti.”

I due esperti discutono della soluzione dei due Stati. “A questo punto sembra una tipologia di espressione vuota”, sostiene Axelrod; e Nides dice che si tratta di una “visione”, ma il denaro è più importante per i palestinesi.

“Ascolta, non sto sognando. Non sono un sognatore. Ecco perché mi concentro sulle cose che fanno la differenza, ragazzi. Mi sveglio ogni giorno e cerco di fare qualcosa che aiuti il popolo palestinese. E queste cose sono i soldi. Come ricorderai, sotto l’amministrazione Trump hanno tagliato tutti i fondi per i palestinesi, tutto. Sotto l’amministrazione Biden negli ultimi due anni abbiamo fornito loro circa 750 milioni di dollari di assistenza diretta al popolo palestinese. Questo è reale, è concreto. E’ qualcosa che fa davvero la differenza…”

Alla gente non interessa la politica ma i soldi: La persona media non si sveglia… e dice: oh dov’è la mia soluzione a due Stati? No, si sveglia e dice: dove trovo lavoro? posso guadagnarmi da vivere? posso comprare un’auto? Queste sono cose concrete.” Proprio come la convinzione di Trump/Kushner nella “pace economica”, non nei diritti.

Nides afferma in tono difensivo di trascorrere la maggior parte del suo tempo a cercare di portare cose concrete ai palestinesi.

“Mentre inseguiamo questo tipo di idea di una soluzione a due Stati . Io passo il 60% del mio tempo cercando di aiutare il popolo palestinese. OK? Trascorro il mio tempo cercando di far aprire il ponte Allenby [varco di confine tra Giordania e Territori Palestinesi Occupati, ndt.] 24 ore su 24, 7 giorni su 7… Spingo in modo aggressivo per ottenere un accordo sul 4g, in modo che i palestinesi abbiano 4g e non 2g sui loro telefoni… Si tratta di fare cose per il popolo palestinese. Dicono: ‘Oh Tom, sono piccole cose…’ Non mi interessa. Istruzione, assistenza sanitaria… Il palestinese medio si sveglia ogni giorno, proprio come l’israeliano medio, e tutto quello che vuole è sicurezza, lavoro, libertà e opportunità, niente di più…”

Nides pensa che Netanyahu si ritirerà a causa dell’economia: L’unica cosa che sta attirando l’attenzione del primo ministro, come dovrebbe essere, è l’impatto economico che questo può avere. Credo, forse sto sognando, forse, ma credo che prevarranno le menti più assennate.” (Proprio quello che fa il BDS quando prende di mira l’apartheid.)

Nides ripete che Israele è in fiamme. “Come ho detto 100 volte al primo ministro non possiamo dedicare tempo alle cose a cui insieme teniamo se il giardino è in fiamme”. E quando il ministro della polizia Itamar Ben-Gvir è salito al Nobile Santuario [la moschea di Al Aqsa di Gerusalemme, la seconda più antica moschea dell’Islam, ndt.] – “per creare problemi, a mio avviso … .. questo è il tipo di assurdità che a mio avviso infiamma le cose”.

Non preoccuparti, qualunque cosa faccia Israele, gli Stati Uniti lo difenderanno:

“Proprio su questo non esistono dubbi. Copriamo saldamente le spalle a Israele, sia per quanto riguarda la sua sicuerezza che alle Nazioni Unite.”

Nides poi si vanta:Mi sono recato allo shiva [servizio funebre, ndt.] di ogni famiglia di ogni israeliano ucciso da un terrorista nell’ultimo anno e mezzoCapisco la minaccia a cui si trova esposto Israele.”

E che dire di tutti i palestinesi uccisi? Axelrod fa riferimento all'”uso eccessivo della forza in Cisgiordania”.

“Mi si spezza il cuore, ok, mi si spezza il cuore quando un palestinese innocente viene ucciso, ma certamente mi si spezza il cuore quando un ebreo innocente esce da una sinagoga e viene falciato da un terrorista… È terribile.”

Quei palestinesi non hanno diritti, ma guai parlare di dar loro diritti perché questo metterebbe fine al sogno sionista. Nides:

“In definitiva, il motivo per cui sostengo una soluzione a due Stati è che salvaguarderebbe Israele come Stato democratico ebraico. Fino a quando qualcuno viene da me e dice: “Hey Tom, ho questa nuova idea che potresti avere uno Stato unico e salvaguardare uno Stato democratico ebraico – è fantastico, mostramelo. Non è possibile, e quando qualcuno mi esporrà un modo in cui far sì che 3 milioni di persone che vivono in Cisgiordania ottengano gli stessi diritti dei 9 milioni di persone che vivono in Israele, dimostrando che sia possibile, allora ne potremo discutere. Ma purtroppo non è così. Ed è per questo che è importante mantenere in vita la visione di una soluzione a due Stati.”

In conclusione: sono contro la parità di diritti. E 2 milioni di persone a Gaza sono al di là delle mie preoccupazioni. E io sono un liberal. E Joe Biden ha bisogno della lobby israeliana.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)