New York Times e il podio del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite accusano Israele di apartheid

 PHILIP WEISS  

28 agosto 2022, Mondoweiss

Peter Beinart sul New York Times: le influenti organizzazioni ebraiche che denunciano come antisemiti i rapporti che accusano Israele di praticare l’apartheid sono una “minaccia alla libertà”.

Va da sé che nel dibattito pubblico degli Stati Uniti in merito alla questione israeliana le voci ebraiche abbiano un grosso peso e le voci sioniste un peso ancora maggiore. Ebbene, questa settimana, giovedì e venerdì, due influenti ex sionisti ebrei hanno dato il loro sostegno alle accuse di apartheid contro Israele – sul New York Times e al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – ed entrambe le dichiarazioni hanno avuto ampia risonanza.

L’ex negoziatore israeliano Daniel Levy [presidente del US/Middle East Project, con sede a Londra e New York; ndt.] ha tenuto un discorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite esortando le principali potenze a rendersi conto del fatto che la loro ipotesi di partizione è defunta. E “l’insieme sempre più consistente di accademici, giuristi e dell’opinione pubblica che accusa Israele di perpetrare l’apartheid nei territori sotto il suo controllo” sta guadagnando terreno tra le Nazioni di tutto il mondo.

E Peter Beinart [noto editorialista, giornalista e commentatore politico progressista statunitense, ndt.] ha pubblicato un editoriale sul New York Times che accoglie quasi completamente la definizione di apartheid data da Human Rights Watch e Amnesty International. L’articolo è un attacco alle organizzazioni ebraiche “influenti” che denunciano quei rapporti come presunti antisemiti, organizzazioni che rappresenterebbero una “minaccia alla libertà”. Beinart ha affermato che l’American Jewish Committee [dal 1906 una delle più antiche organizzazioni filosioniste degli USA, ndt.] e l’Anti-Defamation League [organizzazione mondiale nella lotta all’antisemitismo, ndt.] – e Deborah Lipstadt, incaricata di occuparsi di antisemitismo sotto Biden – stanno abbandonando il tradizionale impegno nei diritti umani per un cieco sostegno a Israele e si stanno schierando con i dittatori arabi per giustificare i crimini di Israele.

Entrambe le affermazioni hanno avuto un grande impatto. “Quando gli ex negoziatori israeliani come Daniel Levy parlano pubblicamente dell’apartheid in Israele non è forse ora che il Canada, che ha svolto un ruolo di primo piano a livello internazionale contro l’apartheid sudafricano, si alzi dalla panchina filo-israeliana e difenda i diritti umani in Israele e Palestina?” scrive un ex ambasciatore canadese.

I sionisti liberali sono infuriati e spingono per i due Stati. Independent Jewish Voices [rappresentanza degli ebrei canadesi impegnati per la giustizia sociale e i diritti umani, ndt.] stila una lunga lista di quanti sostengono l’accusa di apartheid. Khaled Elgindy [direttore del Programmma Palestina e Affari Israelo-Palestinesi del Middle East Institute di Washington, ndt.] dice dell’analisi di Levy secondo cui Israele non potrà mai raggiungere la sicurezza espropriando e opprimendo i palestinesi: “Che qualcosa di così ovvio e sensato debba essere affermato in modo così esplicito e ripetuto è sia sconcertante che inquietante”. J Street [associazione liberal americana che promuove la soluzione a due Stati, ndt.] sembra ignorare entrambe le affermazioni.

Questa la sezione centrale del monito di Levy. C’è solo uno Stato, ed è l’apartheid. Il futuro di Israele è a rischio. Sono notizie vecchie, ma nuove per il Consiglio di Sicurezza:

Sappiamo che alcuni sviluppi possono essere allo stesso tempo politicamente scomodi e politicamente rilevanti. L’insieme sempre più rilevante dell’opinione accademica, giuridica e pubblica che accusa Israele di perpetrare l’apartheid nei territori sotto il suo controllo è esattamente uno sviluppo di quel tipo.

La definizione data da studiosi e istituti palestinesi, successivamente esaminata e approvata dalla comunità israeliana per i diritti umani guidata da B’Tselem, è ora diventata la definizione legale per Human Rights Watch e quest’anno anche per Amnesty International. Ecco cosa risulta dall’incapacità di riconoscere le responsabilità e di lavorare per i due Stati.
Per quanto sia scomodo per alcuni, esorto quest’aula a non sottovalutare il significato a lungo termine e la direzione di ciò che sta accadendo. Lo scorso marzo a Ginevra agli incontri del Consiglio per i Diritti Umani, tutti gli Stati rappresentati nel gruppo africano, nel gruppo arabo e nel gruppo OIC [Organizzazione per la Cooperazione Islamica intergovernativa fondata nel 1969 da 57 Stati, ndt.], hanno fatto riferimento a questa situazione di apartheid.

Non sorprende che tutto ciò abbia eco e risonanza in quelle parti del mondo che hanno sperimentato l’apartheid e il colonialismo di insediamento e poi affrontato la decolonizzazione…

Deve essere un richiamo a reagire. Settantacinque anni fa le Nazioni Unite proposero la partizione come paradigma politico per la Terra Santa. Oggi quella terra è di fatto unita sotto un unico potere. In assenza di un’inedita azione di vasta portata per essere conseguenti con la partizione, i nostri successori in quest’aula dovranno discutere del compito di raggiungere l’uguaglianza in una realtà indivisa.

Ecco ora l’inizio dell’editoriale di Peter Beinart sul New York Times riguardo all’uso improprio dell’accusa di antisemitismo per difendere Israele. Israele è solo un altro governo “repressivo” che cerca di screditare i diritti umani.

Lo scorso aprile, quando Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto accusando Israele di “crimini di apartheid e persecuzione”, l’American Jewish Committee ha affermato che le argomentazioni del rapporto “a volte rasentano l’antisemitismo”. A gennaio, quando Amnesty International ha pubblicato il proprio studio in cui si afferma che Israele pratica l’apartheid, l’Anti-Defamation League ha predetto che “probabilmente porterà a un aumento dell’antisemitismo”. L’AJC e l’ADL hanno anche reso pubblica una dichiarazione insieme ad altri quattro noti gruppi ebraici americani che non solo hanno accusato il rapporto di essere parziale e impreciso, ma anche affermato che il rapporto di Amnesty “alimenta quegli antisemiti che in tutto il mondo cercano di minare l’unico Paese ebraico sulla Terra”.

I difensori dei governi repressivi spesso cercano di screditare le associazioni per i diritti umani che li criticano.

Il discorso di Beinart è degno di nota perché segna fino a che punto le organizzazioni ebraiche si sono dedicate ai diritti civili nel periodo precedente alla guerra del 1967. Da allora hanno abbandonato quell’impegno, nell’era di Israele militante e mentre la comunità ebraica organizzata è diventata sempre più conservatrice.

Ecco gli incisivi paragrafi sulle organizzazioni ebraiche che rappresentano una “minaccia alla libertà”.

Ora che qualsiasi critica allo Stato ebraico viene accolta con accuse di fanatismo anti-ebraico, importanti organizzazioni ebraiche americane e i loro alleati nel governo degli Stati Uniti hanno trasformato la lotta contro l’antisemitismo in mezzo non per difendere i diritti umani ma per negarli. La maggior parte dei palestinesi vive come cittadini di seconda classe all’interno dei confini di Israele o come non cittadini apolidi nei territori occupati da Israele nel 1967 o oltre i confini di Israele perché loro o i loro discendenti sono stati espulsi o fuggiti e non gli è stato permesso di tornare. Ma secondo la definizione di antisemitismo promossa dall’Anti-Defamation League, dall’American Jewish Committee e dal Dipartimento di Stato, i palestinesi sono antisemiti se chiedono la sostituzione di uno Stato che favorisce gli ebrei con uno che non discrimini in base all’etnia o alla religione.

Con amara ironia, la campagna contro “l’antisemitismo” condotta da influenti gruppi ebraici e dal governo degli Stati Uniti è diventata una minaccia alla libertà. Viene utilizzata come arma contro le organizzazioni per i diritti umani più rispettate al mondo e come scudo per alcuni dei regimi più repressivi del mondo. Abbiamo bisogno di un’altra lotta contro l’antisemitismo. Dovrebbe perseguire l’uguaglianza degli ebrei, non la supremazia ebraica, e includere la causa dei diritti degli ebrei in un movimento per i diritti umani in generale. Nello sforzo di difendere l’indifendibile in Israele, l’establishment ebraico americano ha abbandonato quei principi.

Beinart scredita anche Deborah Lipstadt come lacchè nelle relazioni di normalizzazione fra Israele e alcune dittature repressive.

A giugno la signora Lipstadt ha incontrato l’ambasciatore saudita a Washington e inneggiato a “i nostri obiettivi condivisi di superare l’intolleranza e l’odio”. Da lì è volata in Arabia Saudita, dove ha incontrato il Ministro degli Affari Islamici e ha riaffermato “i nostri obiettivi condivisi di promuovere la tolleranza e combattere l’odio”. Negli Emirati Arabi Uniti si è incontrata con il Ministro degli Esteri, che ha definito un “sincero partner nei nostri obiettivi condivisi” – avrete indovinato – “di promuovere la tolleranza e combattere l’odio”.

Tutto ciò non ha senso.

Il discorso di Levy è notevole perché ha messo in evidenza le recenti atrocità commesse da Israele, le uccisioni di bambini palestinesi e della giornalista Shireen Abu Akleh, e le incursioni fasciste contro sette organizzazioni palestinesi per i diritti umani con un pretesto infondato.

Dopo lo shock manifestato lo scorso anno dal Segretario Generale Guterres per il numero di bambini palestinesi uccisi e mutilati dalle forze israeliane, questo mese continuiamo a vedere la stessa tendenza e la sofferenza tra i giovanissimi a Gaza. Abbiamo assistito all’uccisione di chi riferisce e denuncia questi crimini, e Shireen Abu Akleh è stata l’ultima giornalista a pagare con la vita.

E ora questo attacco a coloro che documentano gli abusi e difendono i diritti umani, così come a chi fornisce servizi alla comunità, con le operazioni di Israele contro sei importanti organizzazioni della società civile palestinese… In seguito alla definizione da parte delle autorità israeliane delle sei ONG come terroriste, un certo numero di Paesi ha dichiarato che non erano state loro fornite prove convincenti. La scorsa settimana, gli uffici di quelle organizzazioni sono stati perquisiti e chiusi e i loro operatori interrogati.

Sono (come al solito) speranzoso che queste due affermazioni rappresentino un segno che l’establishment statunitense si stia finalmente rendendo conto della morte della soluzione dei due Stati e che il BDS guadagnerà prestigio politico. Come ha commentato insieme a me Donald Johnson, “Le cose sono cambiate a sufficienza perché i crimini israeliani non possano essere sempre cancellati o istericamente negati”.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




La sovranità illegale sulla terra palestinese

Mella Jongebloed

27 agosto 2022 – Mondoweiss

La violenza dei coloni a Hebron svela il vero volto coloniale del progetto sionista, e il mondo non può continuare a guardare mentre esso va avanti.

Passa un gruppo di undici giovani coloni, di età compresa tra i quindici e i diciotto anni. Li accompagnano due soldati a piedi e li affianca un veicolo militare. Lungo il ciglio della strada ci sono degli avamposti dove i soldati tengono sempre le armi pronte. I coloni ci dicono in ebraico qualcosa che non capiamo, i loro volti mostrano un’arroganza che non si addice alla loro età. Lungo la strada, a pochi metri, vediamo uno di loro sputare addosso a un palestinese che siede sulle scale davanti a casa sua. Nel passargli davanti pensiamo che quell’uomo sia muto. Borbotta parole incomprensibili, indica con le braccia i coloni, apparentemente sconvolto ma incapace di dire cosa sia successo.

È il giugno del 2022. Ho preso una pausa dai miei studi e sto trascorrendo tre mesi a Hebron, dall’inizio di maggio all’inizio di agosto. Sono solidale con la causa palestinese da quando ho appreso dell’occupazione nell’ambito dei miei studi sul Medio Oriente. Ma per diventare credibile nella difesa di questa causa ho voluto vivere la situazione in prima persona.

E l’ho sperimentata.

Dai piccoli gesti di violenza, come sputare addosso a un palestinese, danneggiare le finestre delle case palestinesi e far chiudere i battenti agli esercizi commerciali, fino a quasi uccidere un uomo disarmato nella sua terra, la vita a Hebron è piena di violenza da parte dei coloni. Fino ad oggi in Cisgiordania, sebbene la presenza di coloni sia illegale, i progetti di colonizzazione sono cresciuti e si sono intensificati. A Hebron circa 800 coloni ebrei vivono nel cuore della Città Vecchia. Al di fuori della città vecchia, negli insediamenti chiamati Kiryat Arba e Giv’at Ha-Avot, risiedono altri 8.000 coloni.

I palestinesi sono impotenti contro i coloni che, contrariamente a loro, possono portare i mitra a tracolla e sono costantemente scortati da un numero sproporzionato di soldati. I coloni agiscono come i sovrani illegali del territorio palestinese, rendendo la vita dei palestinesi insopportabile anche nella piccola porzione di Palestina su cui sono stati lasciati sopravvivere. Dato che Israele cerca di impedire ai turisti di recarsi in Cisgiordania intimidendoli è mio dovere testimoniare ciò che ho visto.

Nuovi vicini

Il 28 luglio dei coloni hanno occupato una casa palestinese all’inizio di via Shuhada. Questa strada era il principale centro di vita di Hebron, fino a quando non fu in gran parte chiusa ai palestinesi dopo il massacro del 1994 nella moschea di Ibrahimi, quando Baruch Goldstein, un medico estremista sionista, uccise 29 palestinesi in preghiera. La sua tomba è ancora visitata e venerata dai coloni.

La casa occupata dai coloni è una delle più belle della strada. Le pietre gialle sembrano aver preso il colore dal sole e dalla casa si può vedere la Moschea Ibrahimi e il resto della Città Vecchia.

Il primo giorno centinaia di coloni sono saliti lungo le scale di metallo appena installate che conducono alla casa di proprietà palestinese. Vengono costantemente sorvegliati da una ventina o una trentina di soldati, posizionati sul tetto, sui balconi e intorno alla casa. Quando sul tetto un gruppo di giovanissimi coloni tira fuori la prima bandiera israeliana, i vicini palestinesi osservano intimiditi.

Già accerchiati da 21 posti di blocco militari da ogni lato, con telecamere montate su ogni muro e con a fianco una casa di proprietà di coloni, crescerà la presenza di coloni e soldati violenti e, insieme, le violazioni dei diritti umani che sono parte integrante della vita quotidiana. Un palestinese che abita di fronte alla casa dice che ha già difficoltà a dormire. I coloni spesso bevono molto e maltrattano i vicini palestinesi. Ci lanciano pietre e ci maledicono, dice.

Souvenir in frantumi

Um Mahmoud, che vive con il marito e i figli accanto ai coloni, subisce tali molestie almeno ogni settimana. Solo due giorni fa alle 22:00 i coloni hanno lanciato pietre e bottiglie di birra contro la loro casa.

Durante le feste ebraiche i soprusi sono più gravi che mai. “L’anno scorso hanno lanciato uova, verdure marce e frutta, e hanno mandato in pezzi un sacco di cose”, spiega. “L’albero di limoni, le piante, le finestre, tutto è stato danneggiato e hanno lanciato pietre contro la nostra auto di famiglia”.

“I soldati, quando arrivano, spesso non fanno nulla o arrestano uno di noi”, spiega Um Mahmoud. Suo figlio Said, di 18 anni, è rimasto in prigione un mese e mezzo, e suo figlio Wadia, di 17 anni, una settimana. “Riesci a immaginare quali effetti hanno queste cose su un adolescente?” Sospira.

Nelle vecchie strade di Hebron la violenza dei coloni aleggia sopra la vostra testa. Sassi, sedie rotte, bottiglie vuote e quant’altro sono sparsi sulle reti tese sopra le strade a protezione degli abitanti. Un negoziante mi dice che i coloni gettano continuamente acqua sporca dalle loro finestre danneggiando i prodotti dei commercianti. Uno di loro, Bader Tamimi, ha un negozio proprio di fronte a un insediamento coloniale ebraico. I soldati controllano da una torre di guardia il suo negozio che viene regolarmente attaccato dai coloni. Il 9 agosto hanno iniziato a lanciare pietre contro il negozio, i commercianti e i clienti.

Il lancio di pietre era più intenso del solito. Siamo andati a cercare i soldati perché li fermassero, ma dopo essere usciti dalla loro postazione hanno iniziato a spararci addosso lacrimogeni e granate stordenti”.

Tour dei coloni

Questa non era la prima volta. Durante i settimanali “tour dei coloni” gruppi nutriti di coloni scortati da soldati visitavano la città vecchia di Hebron e il più delle volte molestavano i palestinesi lungo strada. Il negozio di Bader è stato spesso preso di mira a sassate. Mi mostra i lacrimogeni scagliati contro il suo negozio.

“Sia i coloni che i soldati vogliono renderci impossibile lavorare qui, o anche solo condurre le nostre vite”, dice.

Incastrati tra i coloni

La famiglia al-Ja’bari abita esattamente tra gli insediamenti coloniali di Kiryat Arba da una parte e Giv’at Ha-Avot dall’altra. Un sentiero che collega gli insediamenti attraversa proprio il loro terreno. Nel 2006 i coloni hanno posizionato sulla terra di al-Ja’bari una grande tenda con la funzione di sinagoga. Nonostante una sentenza del tribunale israeliano del 2015 secondo cui la tenda avrebbe dovuto essere rimossa, l’esercito ha permesso ai coloni di continuare a usarla. Ogni sabato accorrono a decine, mentre nelle festività ebraiche il numero sale a centinaia. Le Nazioni Unite hanno documentato molteplici attacchi alla famiglia da parte dei coloni: dagli spari al lancio di pietre, all’irruzione dentro casa, fino al vandalismo. I coloni hanno anche rubato bestiame e raccolti. Secondo la famiglia, a causa delle aggressioni da parte dei coloni ogni loro componente ha dovuto in una qualche circostanza essere ricoverato in ospedale. Ultimo il 64enne Abdul Karem al-Ja’bari.

Tubo di ferro

Nel corso di un tour politico da lui guidato l’attivista e difensore dei diritti umani Badia Dwaik ci ha informato di una aggressione avvenuta contro gli al-Ja’bari il giorno prima, il 17 giugno. Dwaik ha deciso di non portarci in quella zona di Hebron per motivi di sicurezza. Circa una settimana dopo sono andata con Badia a visitare Abdul Karem al-Ja’bari, chiamato anche Abu Anan. Aveva testa e braccio bendati. Più calmo di quanto ci si potesse aspettare, ci ha raccontato cosa era successo.

Ogni anno Abu Anan raccoglie le sue olive, e così stava facendo anche quest’anno. Alcuni soldati hanno attraversato il suo terreno, seguiti da un gruppo di coloni. Uno dei coloni camminava da solo. Secondo Abu Anan il suo aggressore era il figlio del direttore del consiglio dell’insediamento coloniale di Kiryat Arba e faceva parte di un gruppo di coloni che lo avevano minacciato una settimana prima. Erano andati via dopo che Abu Anan ha chiamato la polizia. Questa volta il colono si è fermato sul luogo in cui lui stava raccogliendo le sue olive. E’ rimasto lì per un po’ e sembrava studiare la situazione. Poi si è allontanato, continuando a camminare fino a raggiungere la propria casa nell’insediamento coloniale.

Inginocchiato e con gli occhi rivolti a terra, Abu Anan ha proseguito la raccolta e non ha notato il gruppo di coloni che si avvicinava alle sue spalle. Uno dei coloni lo ha colpito alla nuca. Il telefono di Abu Anan era caduto a terra, quindi ha raccolto il telefono, si è alzato e si è voltato, guardando negli occhi il suo aggressore. Questi indossava una maschera, ma i suoi vestiti erano riconoscibili; era lo stesso uomo. Il colono aveva nelle mani un tubo di ferro, la cui estremità era affilata come un coltello. Ha colpito Abu Hanan sulla testa. Al.Ja’bari a causa dell’adrenalina non sentiva ancora la profonda ferita nella sua testa. Si è accorto che dietro al colono ce n’erano all’incirca altri dodici con in mano dei bastoni.

Sangue e spray al peperoncino

L’aggressore di Abu Anan aveva nell’altra mano uno spray al peperoncino e ha iniziato a spruzzarglielo in faccia, ma Abu Anan è riuscito a farglielo cadere di mano con il telefono. Poi il colono lo ha colpito di nuovo in testa con maggiore violenza. Ha poi raccolto una pietra di circa cinque chili e l’ha lanciata contro Abu Anan, che ha alzato la mano per difendersi e si è ritrovato con un braccio rotto.

Nel frattempo gli occhi di Abu Anan iniziavano a bruciare. Erano stati raggiunti dallo spray al peperoncino e il sangue che usciva della ferita alla testa fluiva fino agli occhi. Mentre Abu Anan cercava di scappare il colono lo ha colpito alla testa un’ultima volta, per poi scappare con un gruppo di altri coloni che avevano assistito alla scena nei pressi dell’ingresso dell’insediamento coloniale. Con una mano fratturata e il sangue che sgorgava dalle tre profonde ferite alla testa, al-Ja’bari ha iniziato a correre in strada fino alle porte di Kiryat Arba. Ha gridato aiuto in ebraico ai soldati.

Abu Anan è morto”

I soldati israeliani hanno chiamato un’ambulanza, ma quando è arrivata l’ambulanza israeliana è comparso sul luogo uno dei più famigerati coloni di Kiryat Arba, Ofer Hanna. Secondo Abu Anan, questi ha impedito a chiunque, compreso il personale dell’ambulanza, di prestare aiuto. Ofer ha iniziato ad inventare una storia, dicendo che al-Ja’bari era stato aggredito perché era entrato nella tenda, situata sul suo terreno, che funge da sinagoga. Nel frattempo è arrivata un’altra ambulanza israeliana, oltre a otto soldati e alla guardia di sicurezza dell’insediamento. Dalle 9 alle 10 del mattino non è stato prestato ad al-Ja’bari nessun primo soccorso. Gli operatori dell’ambulanza erano evidentemente spaventati da Ofer e rimanevano semplicemente a guardare. Terrorizzata per suo marito, il cui sangue dall’estremità della mano scorreva giù per tutto il corpo, la moglie di al-Ja’bari ha chiamato la Mezzaluna Rossa Palestinese. Alla fine è arrivata un’ambulanza palestinese e ha trasportato al-Ja’bari in ospedale.

Nel frattempo, sotto gli occhi dei figli di al-Ja’bari, i coloni avevano tirato fuori un grande altoparlante davanti alla stazione di polizia dell’insediamento, situato a una cinquantina di metri dalla casa di al-Ja’bari. Cantavano “Abu Anan è morto”.

Impunità dei coloni

I medici hanno detto ad al-Ja’bari che non potevano credere che fosse ancora vivo. Sono stati necessari trenta punti di sutura alla testa. Il suo braccio è stato interamente ingessato. I medici gli hanno prescritto cinquanta giorni di riposo.

Ma non è morto. Quando la notizia ha raggiunto i coloni un gruppo di una ventina di persone ha iniziato ad attaccare la casa di al-Ja’bari, come si può vedere dalle riprese delle telecamere di sicurezza dell’abitazione. Le pietre sono finite sul tetto e hanno colpito il muro. Un colono ha cercato di distruggere l’auto di uno dei figli di Abu Anan. Quando la moglie di Abu Anan, Samira al-Ja’bari, ha chiamato la polizia, i coloni sono scappati.

Domenica l’amministrazione civile israeliana ha chiamato al-Ja’bari e gli ha proposto di sporgere denuncia alla stazione di polizia. Il governatore militare ha detto che i responsabili dovevano essere puniti. La polizia israeliana ha radunato in una stanza i coloni presumibilmente coinvolti, in quanto tutti inquadrati dalle telecamere posizionate dagli israeliani a ogni angolo di strada. Al-Ja’bari ha indicato con precisione chi aveva fatto cosa. Tra i presenti c’erano tre figli di Itamar Ben-Gvir, avvocato e membro della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.]. L’ufficiale di polizia ha detto ad Abu Hanan: sono sicuro che stai dicendo la verità. Questi coloni dovrebbero andare in prigione. Il giorno successivo, dopo aver trascorso una notte in carcere, tutti i coloni sono stati rilasciati senza accusa.

Restare a guardare

Oltre il 90% dei casi di violenza dei coloni rimane impunito, come riporta l’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din. Che stiano lanciando pietre contro negozi e case palestinesi, sputando e imprecando contro i palestinesi, prendendo illegalmente il controllo di case di proprietà palestinese o tentando di uccidere un anziano palestinese, i coloni sono protetti dai soldati e raramente puniti per i loro crimini. Con questo i soldati israeliani a Hebron stanno inviando un messaggio al mondo intero: noi stiamo a guardare mentre i padroni illegali della Cisgiordania fanno quello che vogliono.

Gli stranieri tendono a confortarsi al pensiero che questi coloni debbano essere i più estremisti, e non tutti gli israeliani siano come loro. Ma il numero crescente di israeliani che si trasferiscono in insediamenti illegali in Cisgiordania e i ricchi benefici che ricevono dal loro governo suggeriscono che questi coloni non appartengano al versante più estremista dello spettro [politico] israeliano, ma facciano piuttosto parte della famigerata prima linea del piano con cui Israele intende estendere il suo progetto coloniale.

Una sporca impresa coloniale

Naturalmente la colonizzazione della Cisgiordania è un’estensione della precedente occupazione delle terre colonizzate nel 1948, ora conosciuta come “Israele propriamente detto” e ampiamente accettata come status quo. Ma chi ricorda ancora gli oltre 400 villaggi e città palestinesi che vi furono cancellati, e chi ricorda ancora i 750.000 palestinesi che furono cacciati dalle loro case durante la Nakba del 1948? Vedere la situazione in Cisgiordania chiarisce come il 78% della Palestina storica, rappresentato dai territori colonizzati nel 1948, non sia mai stato abbastanza.

Tutti coloro che ancora sostengono la soluzione dei due Stati chiudono un occhio sul fatto che Israele non ha mai mostrato alcun rispetto per la sovranità dei palestinesi. Come dimostrano la violenza dei coloni e l’accanita protezione nei loro confronti da parte dei soldati, la pulizia etnica dei palestinesi continua ogni giorno e l’obiettivo finale del progetto sionista è cacciarli tutti dalla Palestina storica, anche da quel poco di terra che resta loro.

Non sorprende che Israele cerchi di impedire ai turisti di andare in Cisgiordania; qui il marciume e l’abiezione del progetto sionista sono messi a nudo, sotto gli occhi di tutti gli spettatori. L’ho visto e continuerò a raccontare queste storie finché il mondo non somiglierà più ai soldati che stanno a guardare.

Mella Jongebloed

Mella Jongebloed è una giornalista e blogger, studiosa di Studi Medio Orientali e Filosofia.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Come Ibrahim al-Nabulsi è diventato il “Leone di Nablus”

Mariam Barghouti

15 agosto 2022 Mondoweiss

Ibrahim Al-Nabulsi ha dimostrato che è possibile riaccendere lo spirito di resistenza di una nuova generazione. Ecco perché Israele lo ha ucciso.

Huda, o Um Eyad, madre di Ibrahim al-Nabulsi, combattente della resistenza ucciso a 18 anni, siede accanto alla sua unica figlia e unica sorella di Ibrahim, Shahd al-Nabulsi, 23 anni.

L’abito blu scuro di Shahd contrasta con il suo pulito velo viola. C’è una macchia sotto le sue mani, sul lato sinistro dell’abito. Leggermente più scura del resto del vestito, sembra fuori luogo. Um Eyad cattura il mio sguardo. «È il sangue di Ibrahim, questa macchia», dice. Proprio il giorno prima, il 9 agosto, Um Eyad ha perso il suo terzogenito, Ibrahim, che non avrebbe più compiuto i 19 anni in ottobre.

Nel pomeriggio, il cimitero Gharbiyyeh di Khallet al-Amoud a Nablus si è appesantito di tre corpi. Ibrahim al-Nabulsi, Hussein Taha e Islam Subuh vi riposano in pace. I tre sono stati uccisi il 9 agosto nella città vecchia di Nablus, nella Cisgiordania settentrionale occupata, in un’operazione militare israeliana in coordinamento con l’intelligence israeliana.

Um Eyad è ora facilmente riconoscibile – i social media palestinesi sono stati inondati dalla sua immagine che fendeva la folla di migliaia per lo più uomini che assistitevano al funerale dei martiri, portando il cadavere del “Leone di Nablus“.

Era un quadro diverso dalle immagini comuni di uomini che trasportano i morti. Non lo faceva perché era il corpo di una nuova icona palestinese – era suo figlio.

Il 10 agosto, all’interno della piccola sala di comunità nel quartiere Khallet Al-Amoud della Città Vecchia di Nablus, le donne sedevano in abiti neri a contrasto con le luminose sciarpe bianche sulle teste. Le spalle coperte da kuffiyeh palestinesi bianche e nere rendevano più facile a coloro che porgevano le condoglianze distinguerle dal resto della folla di donne in lutto.

Il più giovane dei martiri, Hussein Taha, aveva solo 16 anni quando fu ucciso. Sua madre e sua sorella sedevano accanto a Um Eyad, in lacrime e sorrisi stentati nel riconoscere gli ospiti che si radunavano. Anche il maggiore dei martiri, Islam Subuh, 32 anni, è stato ucciso nella battaglia, un evento che segna ora una nuova era della resistenza armata palestinese.

La stanza era piena di madri, mogli e sorelle di martiri palestinesi uccisi dal regime coloniale. Sulla scena continuavano ad arrivare autobus con le famiglie dei martiri di Jenin e altre zone della Cisgiordania. Le giovani donne della piccola città di Khallet al-Amoud si muovevano rapidamente per servire caffè – una tradizione del lutto in Palestina – e acqua per la sete delle persone in lutto col caldo.

“Gli avevo comprato un cappellino”, ha detto a Mondoweiss Shahd, 23 anni, il giorno dopo l’assassinio di suo fratello Ibrahim nel municipio a poche centinaia di metri dalla casa di famiglia. Trattenendo le lacrime, Shahd si dispera di non aver potuto darglielo. Fa un respiro e sussurra una preghiera, “al-hamdulilah [lode a Dio]”, un’espressione di umiltà e gratitudine per il proprio destino, comunemente ripetuta sia nei momenti di difficoltà che di gioia.

“Era così amato nella comunità”, ha detto a Mondoweiss Haifa, la zia di al-Nabulsi, 41 anni. “Era anche così ribelle e tenace. È cresciuto in queste strade, non sono strade facili in cui crescere, specialmente nei primi anni di infanzia”.

Ibrahim è nato nel 2003, nel pieno della Seconda Intifada, quando la città natale di Nablus era costantemente sotto assedio da parte dell’esercito israeliano.

Dalla sua nascita, ogni anno sempre più bambini palestinesi come lui venivano uccisi e arrestati dall’esercito israeliano. Proprio l’anno scorso, il 2021, è stato documentato come il più letale per i bambini palestinesi dal 2014, per via degli attacchi israeliani da parte di coloni e militari.

Incastrato tra le antiche mura

Nella Città Vecchia, ogni angolo reca le tracce di una battaglia che i palestinesi hanno combattuto contro i coloni o l’esercito israeliano. E se no le vecchie mura sono segnate da pietre più recenti, di ristrutturazioni seguite alle parziali distruzioni della città durante le invasioni.

La città vecchia di Nablus è piena di manifesti di palestinesi uccisi, da combattenti della resistenza a bambini trattenuti ai posti di blocco. Poster appena stampati con foto di al-Nabulsi e dei suoi compagni caduti decorano le pareti. Alcuni striscioni sembrano più vecchi dello stesso al-Nabulsi, ma in agosto il quartiere di Faqous nella Città Vecchia si è riempito della storia del “Leone di Nablus” palestinese.

“Fammi una foto, fammi una foto”, dice uno dei bambini, chiamandomi mentre mi dirigo verso il quartiere di Al-Faqous, alla ricerca delle tracce dell’assalto israeliano del 9 agosto.

Il bambino, con il suo cane Luka, posa con gli amici. Mentre il fotografo scatta la foto, noto una collana sul collo del ragazzo, con la foto di un altro ragazzo. La collana somiglia ad altre che avevo visto prima sul collo delle donne nella sala del lutto, immagini di familiari uccisi o imprigionati.

Gli ho chiesto chi era nella foto. «Un mio amico », dice con un sorriso timido.

Subito ho pensato che fosse suo padre, suo fratello o suo zio, perché nella cultura palestinese queste collane non servono semplicemente per commemorazione o esibizione, ma sono autentiche testimonianze della perdita di una persona cara per mano dell’occupazione. Non mi ero resa conto che la foto fosse di un altro ragazzo.

L’amico del ragazzo era Ghaith Yamin, il sedicenne ucciso a Nablus con un colpo di arma da fuoco alla testa mentre si trovava sul tetto di casa sua, vicino alla Tomba di Giacobbe, quando lo scorso 24 maggio l’esercito israeliano ha fatto irruzione nella città.

In qualche modo ho capito l’ostilità di cui parlava Haifa solo poche ore prima ricordando l’infanzia di al-Nabulsi. La continua violenza a cui hanno assistito bambini, giovani e adulti palestinesi di ogni ceto e in modi così diversi si sentiva più cocente mentre il ragazzo cercava di confortare Luka, che si era messa ad abbaiare.

La luna sorta e alta in cielo, la moschea Khudari nella Città Vecchia fa eco alla chiamata alla preghiera maghrebina, “Allahu Akbar [Dio è grande]”. Un mantra islamico che significa umiltà; i vicoli risuonano ricordando che solo Dio è grande e il resto è solo umanità. La luce dorata che baluginava pochi istanti prima è scomparsa e la porta crivellata di proiettili dove sono stati uccisi al-Nabulsi e Subuh diventa invisibile.

Un gruppo di uomini nelle vicinanze segue la mia intrusione. Eppure, se un turista fosse passato vicino non si sarebbe reso conto del delitto perpetrato lì solo due sere prima.

Il cucciolo testardo

Secondo chi l’ha conosciuto, prima di diventare un combattente della resistenza al-Nabulsi era un tipico adolescente, leale e aggressivo allo stesso tempo. Le storie che sua zia raccontava mi hanno ricordato molti uomini, un tempo ragazzi, che ho incontrato nelle città della Palestina. Al-Nabulsi è ricordato da bambino come un “Nimrood”, termine preso a prestito dalla storia biblica di Nimrod per indicare lo spirito di un ribelle che rifiuta di sottomettersi all’autorità.

I vicoli di Al-Faqous e le macerie lasciate dall’esercito israeliano all’interno dell’edificio in cui fu assassinato al-Nabulsi richiamano alla memoria le violente invasioni dell’esercito israeliano nel 2002 a Nablus e Jenin.

All’epoca, la Città Vecchia era obiettivo di una spietata campagna militare di bombardamenti e scontri di strada, che danneggiavano non solo i rifugi, i mezzi di sussistenza e le persone palestinesi, ma distruggevano anche reperti storici in una città fra le più antiche al mondo. È stato anche il momento in cui le autorità e i ministri israeliani hanno impostato la famigerata politica del “fuoco aperto”.

Quasi esattamente due decenni dopo la scena sembra familiare ai residenti. Il sangue di al-Nabulsi, o forse Subuh, è schizzato sui muri all’interno della casa demolita, segnando il luogo della loro ultima resistenza. Se non avessimo avuto le torce sarebbe stato difficile capacitarci dell’entità del crimine. In un angolo di quella che sembra essere stata usata come cucina c’era un unico sacchetto di pane pita e una padella. Tra i detriti anneriti c’era il marrone e giallo brillante di una tavoletta di cioccolato Aero, mai aperta.

La dichiarazione di due decenni fa, quando nei primi anni 2000 il governo israeliano stava decidendo di lanciare un attacco, sembra ancora attuale: “Israele agirà per sconfiggere l’infrastruttura del terrore palestinese in tutte le sue sezioni e componenti; a tal fine, sarà intrapresa una vasta azione fino a quando questo obiettivo non sarà raggiunto”. In quegli anni, intere città erano sottoposte al coprifuoco, e le persone potevano uscire di casa solo per fare la spesa ogni tre o quattro giorni ad un’ora stabilita.

La pandemia mondiale di COVID-19 ha forse dato al mondo un piccolo assaggio di cosa significhi essere costretti a rimanere chiusi in casa per lunghi periodi di tempo, anche se senza la costante minaccia di bombe e morte che incombe su di te da ogni parte. Nell’infanzia di al-Nabulsi, questa non solo era la norma, era anche imposta dai carri armati e dalle truppe paramilitari israeliane che hanno in seguito ammesso di aver commesso crimini di guerra.

Ancora ai nostri giorni i ministri israeliani giustificano quei crimini esaltandone la capacità di scoraggiare l’attività di resistenza. Eppure, più di due decenni dopo, la falsità delle affermazioni di Israele è evidente nella persistenza della resistenza palestinese. Ciò sottolinea che la strategia militare di Israele non solo si è rivelata inefficace, ma fa anche un uso ambiguo della voce “sicurezza nazionale” per nascondere le politiche criminali di pulizia etnica

Ibrahim al-Nabulsi, nato anche lui al culmine della Seconda Intifada palestinese, divenne rapidamente una leggenda nelle strade palestinesi e tra la sua generazione. La resistenza palestinese si è scontrata con carri armati, missili e distruzioni di massa. Circa un mese prima di nascere, al-Nabulsi ancora nel grembo materno, i militari israeliani demolirono un edificio di 7 piani come punizione collettiva usando l’artiglieria pesante sulle case dei civili. Solo tre anni prima, un’immagine di Faris Odeh, il bambino che affrontava un carro armato militare israeliano a Gaza, si diffuse in tutto il mondo, impersonando la battaglia tra il proverbiale David palestinese che affronta un imponente Golia israeliano.

I primi anni dell’infanzia di al-Nabulsi hanno coinciso con i crimini militari israeliani nei campi profughi di Jenin e Nablus tra il 2001 e il 2004. Nonostante la conferma e l’ampia documentazione, i comandanti e i soldati israeliani non sono ancora stati incriminati.

A quel tempo, anche la Cisgiordania stava esplodendo grazie ai combattenti della resistenza armata palestinese. Nel marzo 2002 il regime israeliano lanciò l’Operazione Scudo di Difesa, che ha una sorprendente somiglianza con l’attuale campagna lanciata esattamente 20 anni dopo nel marzo di quest’anno, Operazione Break the Wave. Che comprende l’operazione Breaking Dawn, l’attacco di tre giorni alla Striscia di Gaza in cui sono stati uccisi decine di civili, compresi molti bambini.

Un dispaccio ufficiale dell’esercito israeliano ha definito i “risultati” dell’operazione Scudo di Difesa in termini di arresto di “molti terroristi ricercati” e sequestro di “quantità enormi di armi” da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Questo ha segnato il momento in cui la strategia israeliana di sradicare sistematicamente i rifugi della resistenza palestinese ha portato all’emarginazione di gruppi armati come la Brigata dei martiri di Al-Aqsa (l’ala militare di Fatah) all’interno del panorama politico della Cisgiordania. Secondo quanto riferito, Al-Nabulsi era diventato un membro proprio di quella brigata, che, nonostante la campagna di repressione israeliana e la collusione dell’Autorità Nazionale Palestinese nel disarmo, è riuscita a sopravvivere e riorganizzarsi, stabilendo una presenza crescente anche se tenue in luoghi come Jenin e la Città Vecchia di Nablus.

Le parole della madre di al-Nabulsi, Um Eyad, mi risuonano ancora nelle orecchie quando diceva: “Non voglio concedergli nemmeno le mie lacrime. Ibrahim è un martire, al-hamdulilah». Queste parole non sembravano consolare davvero il suo dolore, ma almeno consentivano di collocarlo in una speranza di cambiamento.

Dopo essere scoppiata a gridare in ospedale quando il dottore ha annunciato scusandosi “istash-had [è stato martirizzato]”, Um Eyad ha in seguito detto a una folla di persone in lutto: “Si sbagliano se pensano di aver ucciso Ibrahim. Tutti sono Ibrahim”.

Considerando quelle parole ho pensato alla forza di questa donna, a come ha messo da parte il proprio dolore per dimostrare a tutti il vero significato del sacrificio di Ibrahim. Poi ho detto fra me e me una preghiera: che nessuna madre sia messa nella posizione di trovare in qualche modo la forza di portare come simbolo il nome del figlio ucciso.

Dopo aver raccontato diverse storie di famiglie di martiri e aver assistito al dolore di mia madre quando suo nipote fu ucciso nella Seconda Intifada, ho appreso necessariamente un diverso tipo di dolore. Non è semplicemente la perdita di un figlio, un fratello, un marito, una figlia, una sorella o una moglie: è la brutalità della perdita per mano di un regime criminale. Una volta una madre lo descrisse come qualcosa di simile a un costante bruciore nel petto.

Mai nascosto, Al-Nabulsi era connesso alla sua realtà

“È stato come un film dell’orrore, continuo a ricordare i giorni dell’invasione”, ha detto a Mondoweiss accanto al luogo dell’assassinio S., una vicina. “Era così gentile.”

Ha ricordato quando negli ultimi mesi lo vedeva camminare per la Città Vecchia, sfuggendo a diversi tentativi di omicidio israeliani.

“Continuo a non crederci”, dice Shahd, sorella di al-Nabulsi, mentre la sua piccola Mariam si slancia col magro corpo sulle scale di cemento sotto il vestito blu scuro della madre.

Nel mese prima della sua uccisione la Città Vecchia ha visto al-Nabulsi più della sua stessa famiglia. “Mi dispiace, non verrò con te sul luogo [dell’assassinio]”, mi ha detto il ricercatore palestinese residente nella Città Vecchia di Nablus Bassel Kittaneh, da un tetto di fronte alla moschea più vicina al luogo dove al-Nabulsi è stato ucciso. Ha spiegato scusandosi: “Non sono ancora pronto”.

Giorni dopo l’uccisione di al-Nabulsi, Taha e Subuh, i quartieri della Città Vecchia erano ancora pieni di vita. Nonostante la terribile perdita, c’è stata una rinnovata fiamma di sfida che il suo personaggio ha acceso – una dimostrazione di rispetto per come un giovane quale al-Nabulsi sia stato in grado di compattare la forza di uno degli apparati di sicurezza più potenti del mondo, i Servizi di sicurezza generali (Shin Bet) e l’esercito israeliano, per chiedere il suo assassinio.

Secondo testimoni e residenti della Città Vecchia di Nablus e delle città vicine, al-Nabulsi non si è mai nascosto. Quando lo si vedeva camminare non era necessariamente con orgoglio, ma con una postura che faceva pensare a uno che si assumesse delle responsabilità. Chiunque in Palestina sfogliando TikTok troverà i post di residenti di Nablus che hanno filmato Nabulsi mentre camminava per la Città Vecchia, chiamandolo per nome e scattandosi selfie con lui che sorrideva quasi imbarazzato. Era quasi come se lo stessero salutando, sapendo che prima o poi sarebbe stato martirizzato.

“Era sincero e gentile nei suoi rapporti”, mi ha detto Kittaneh.

Eppure, nonostante la forza e la sfida dimostrate da al-Nabulsi negli scontri, è discutibile che al-Nabulsi costituisse la minaccia che i media e i portavoce militari israeliani hanno fatto credere. Ma ciò che Nabulsi rappresentava – la minaccia di riaccendere lo spirito di resistenza armata in Cisgiordania – era qualcosa che Israele non era disposto a lasciar accadere. In effetti, l’esercito israeliano ha preso di mira i palestinesi sospettati di resistenza armata e li ha assassinati extragiudizialmente come parte dell’operazione ‘Breaking the Wave’.

Funzionari delle Nazioni Unite e organizzazioni per i diritti umani hanno costantemente segnalato la recente intensificazione da parte dell’esercito israeliano delle campagne contro i palestinesi, ricorrendo persino alla pratica illegale della detenzione amministrativa di avvocati per i diritti umani e usando forza letale contro manifestanti palestinesi disarmati.

Il tutto è parte di una strategia di “controllo dell’escalation”, un approccio coercitivo per controllare l’intensificarsi della resistenza in modo da porre l’altra parte in una posizione di svantaggio riducendo la sua capacità di reazione. Anche l’intelligence israeliana e le unità militari hanno dato il via libera e rilanciato la strategia di sparare per uccidere in tutta la Cisgiordania. Ciò è avvenuto mesi prima dell’attacco a Gaza nella prima settimana dell’agosto di quest’anno.

Eppure, nell’assordante sete di annessione e apartheid di Israele, Ibrahim Al-Nabulsi, non ancora 19enne, ha detto addio alla Città Vecchia di Nablus combattendo, armato solo di un fucile.

Secondo i testimoni, Israele ha usato missili a spalla ad alta tecnologia per bombardare il suo rifugio, con fori dei proiettili dappertutto sulla porta di metallo. Un filmato che si dice sia di al-Nabulsi mostra un giovane che spara goffamente con una pistola durante una precedente invasione militare. Senza un addestramento militare formale e con armi obsolete, al-Nabulsi non ha mai avuto una vera possibilità.

Il miracolo è stato che, nonostante l’attacco spietato, in qualche modo al-Nabulsi è uscito vivo dalla devastazione. La morte è stata dichiarata in ospedale circa un’ora dopo.

Il ruggito del leone per la liberazione

L’ascesa di una nuova generazione palestinese di resistenza armata sembra aver creato l’effetto contrario a ciò che l’esercito e il controspionaggio israeliani speravano in termini di “deterrenza”.

“Perfino durante l’ultima ondata di ripresa della resistenza abbiamo visto anche la nascita di nuova vita a Nablus”, ha spiegato Kittaneh a Mondoweiss. “La Città Vecchia sta riacquistando rilievo e il suo antico senso di importanza.”

Kittaneh ha scontato 15 anni con l’accusa di affiliazione alle Brigate Palestinesi Izz el-Din al-Qassam, l’ala militare di Hamas. Fu arrestato lo stesso anno in cui nacque al-Nabulsi. Con la città di Nablus che si stende all’orizzonte alle sue spalle, Kittaneh riflette sulla sua giovinezza. “Ogni generazione reagirà in modo diverso, ma ogni generazione reagirà”, dice a Mondoweiss.

Per garantire il controllo dell’escalation, Israele ha deciso di creare un effetto collettivo di shock e terrore nei palestinesi. Ciò include gli omicidi extragiudiziali di palestinesi come le decine di persone uccise nella prima metà di quest’anno, o l’incarcerazione di bambini di appena 12 anni.

Questa tattica, come ha spiegato la pluripremiata giornalista Naomi Klein, garantisce di infliggere danni emotivi, mentali o fisici in modo progressivo nel tempo, per paralizzare lentamente una popolazione fino all’inerzia. “Lo shock svanisce, ma non quando te lo aspetti, come nel momento preciso della liberazione. . . le esperienze di shock convivono con l’eredità della paura per anni “, ha spiegato Klein in un’intervista.

Le agenzie e i resoconti hanno definito il giovane combattente “comandante supremo” e “militante esperto”, ma al-Nabulsi ha vissuto un’altra vita, quella con i suoi amici e la sua famiglia. “Quando gli chiedevamo perché andasse avanti, rispondeva: ‘Sto facendo rivivere lo spirito di resistenza di un’intera generazione'”, ha detto Shahd a Mondoweiss. Sembra che la resistenza continui ad alimentarsi col riconoscere che non esiste un’infanzia palestinese.

“Quello di cui Israele non ha tenuto conto è che, quando la gente della Città Vecchia ha visto l’esercito israeliano entrare e fare irruzione a Nablus in pieno giorno per arrestare i giovani o assassinarli in quel modo orrendo…” Kittaneh si interrompe mentre dice così, fermandosi un attimo prima di continuare. “La cosa non ha spaventato di più le persone. Al contrario, ha spinto ancora di più i palestinesi verso lo scontro”.

È sempre più evidente che la profondità della sfida di al-Nabulsi e di Subuh deriva dal riconoscimento del fatto che gli è stata rubata l’infanzia, il suo stesso diritto di essere. Mi ricorda le immagini dei bambini che, per quanto piccoli e magri, in qualche modo raccoglievano la forza di affrontare i soldati, rifiutandosi di essere terrorizzati da loro.

Una ninna nanna per la famiglia

Una bambina dorme in grembo alla madre nonostante il caldo di metà pomeriggio a Nablus. Entrano ed escono donne sconosciute che si sporgono sul suo piccolo corpo per rendere omaggio alle tre famiglie che hanno perso i loro figli, uno di soli 16 anni.

“Hayat”, mi dice una donna anziana, indicando la piccola che dorme tra le sue braccia durante il funerale. È la nipote di al-Nabulsi.

«Il suo nome significa vita», dice la donna.

Se al-Nabulsi è celebrato come il “Leone di Nablus”, era anche conosciuto come lo zio giovane e ribelle, critico di tutto ciò che gli era stato detto, impegnato per la sua libertà e la libertà di tutti coloro che lo circondavano, inclusa Hayat .

Pochi giorni dopo la sua morte, la famiglia di Ibrahim si è riunita una sera nella casa di Nablus. La zia di Ibrahim ha continuato a disperarsi per l’assenza del nipote dalle loro vite. “Quando ci sediamo a tavola e la sedia di Ibrahim è vuota sentiamo la sua mancanza”, dice tristemente. “E quando in qualche modo viviamo un momento di gioia, cominciamo tutti a dire ‘se solo Ibrahim fosse con noi.'”

Mariam Barghouti è corrispondente senior dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gli israeliani uccidono tre combattenti della resistenza a Nablus e un ragazzo a Hebron

Yumna Patel

9 agosto 2022Mondoweiss

A meno di 48 ore dal cessate il fuoco tra Israele e il movimento per il Jihad Islamico palestinese a Gaza l’esercito israeliano uccide 3 combattenti della resistenza a Nablus innescando proteste in Cisgiordania.

Martedì mattina tre combattenti della resistenza, tra cui un minore, sono stati uccisi dalle forze israeliane durante un raid militare nella città vecchia di Nablus, nella parte settentrionale della Cisgiordania occupata. 

I tre combattenti appartenevano alla Brigata dei Martiri di Al-Aqsa, l’ala militare del movimento Fatah. Sono stati identificati come Ibrahim Nabulsi, 19 anni, comandante della brigata, Islam Subuh, 32 anni, e Hussein Jamal Taha, 16 anni. 

Ci sono informazioni contrastanti dei media sull’età di Nabulsi, ma un funzionario del Ministero della Salute ha confermato a Mondoweiss che aveva 19 anni. 

Confermando le loro morti, Il Ministero della Salute palestinese ha aggiunto che Nabulsi è stato ucciso con una pallottola alla testa, Subuh è stato colpito alla parte superiore del torace e Taha al cuore. Il ministero ha detto che nel raid sono stati feriti almeno altri 40 palestinesi. 

Ibrahim Nabulsi

Nelle prime ore del mattino di martedì le forze israeliane hanno compiuto un raid nella Città Vecchia e circondato una casa dove si pensava Nabulsi abitasse, scatenando uno scontro a fuoco tra i combattenti della zona. L’esercito ha anche usato missili lanciati a spalla contro l’abitazione per costringere Nabulsi a uscire. 

Nabulsi era ricercato dalle forze israeliane per la sua appartenenza alle brigate Al-Aqsa e sarebbe sfuggito a numerosi tentativi di arrestarlo e assassinarlo. A febbraio le forze israeliane avevano ucciso tre palestinesi appartenenti alle brigate mentre erano nella loro auto a Nablus. Allora avevano affermato che Nabulsi era uno dei loro obiettivi. 

Alla fine di luglio in un raid nella Città Vecchia in cui anche Nabulsi era un obiettivo, l’esercito israeliano aveva ucciso Muhammad Azizi, 25 anni, e Abdul Rahman Subuh, 28 anni, entrambi appartenenti alle brigate. Nabulsi che era molto rispettato a Nablus e in Cisgiordania come un combattente coraggioso e intrepido, aveva presenziato al funerale dei suoi compagni il 25 luglio, rafforzando ulteriormente la sua fama di eroe.

Proteggete la patria’

Martedì, in un messaggio vocale ampiamente condiviso sui social palestinesi e registrato probabilmente poco prima di essere ucciso, Nabulsi ha detto: 

Vi amo tanto. Amo mia madre. Se diventerò martire proteggete la nostra patria dopo che me ne sarò andato. Le mie ultime volontà che affido a voi sono che, sul vostro onore, non abbandoniate le armi. Sono circondato e sto andando verso il martirio.”

Martedì il suo messaggio, con foto e video, ha inondato i social, mentre i palestinesi partecipavano al funerale di colui che molti considerano un eroico caduto. 

Sono diventati virali i video della mamma di Nabulsi che dice, rivolgendosi alla folla davanti all’ospedale a Nablus: “Loro hanno ucciso Ibrahim, ma ci sono centinaia di Ibrahim. Voi siete tutti Ibrahim. Siete tutti miei figli,” e, facendo il segno di vittoria, ha aggiunto “Ibrahim era vittorioso.”

A Nablus martedì pomeriggio centinaia di palestinesi hanno partecipato all’imponente corteo funebre per Nabulsi, Subuh e Taha. 

L’intera Cisgiordania si è fermata e i distretti dei territori occupati hanno annunciato uno sciopero generale in segno di lutto per i combattenti uccisi. 

Dopo i funerali sono state segnalate proteste in varie città della Cisgiordania. I media palestinesi hanno riferito che un diciassettenne, Momin Yassin Jaber, è stato ucciso durante gli scontri con soldati israeliani a Hebron, nel sud della Cisgiordania. 

L’assassinio di Nabulsi, Subuh e Taha è avvenuto a meno di 48 ore dal cessate il fuoco fra Israele e il movimento per il Jihad islamico palestinese a Gaza. Venerdì Israele ha lanciato un attacco di tre giorni contro la Striscia che ha causato la morte di 44 palestinesi, tra cui 16 minori. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Le forze israeliane uccidono un minore durante un’incursione nel campo profughi di Jenin

Yumna Patel

Mercoledì 3 agosto 2022 – Mondoweiss

Secondo Defense for Children International – Palestine, un cecchino israeliano dal tetto di un edificio residenziale nel campo profughi ha sparato nella schiena a Dirar al-Kafrayni da una distanza di circa 90 metri. È il diciottesimo minore palestinese ad essere ucciso dall’inizio del 2022.

Lunedì notte le forze israeliane hanno colpito e ucciso un ragazzo palestinese di 17 anni durante una incursione nel campo profughi di Jenin, portando a 18 dall’inizio dell’anno il bilancio dei minori uccisi dal fuoco israeliano.

Secondo Defense for Children International – Palestine (DCIP) Dirar al-Kafrayni di 17 anni è stato colpito alla schiena ed ucciso da un cecchino israeliano alle 22:35 circa di lunedì 1 agosto. Il ministero della sanità palestinese ha informato che Kafrayni aveva 17 anni, mentre secondo il Defense for Children International – Palestine DCIP era un sedicenne.

Secondo il DCIP, un cecchino israeliano dal tetto di un edificio residenziale nel campo profughi ha sparato a al-Kafrayni da una distanza di circa 90 metri. Il proiettile è entrato nella schiena dalla spalla destra e si è dilatato nel suo corpo, causando una “grave emorragia interna” ha affermato il DCIP.

È stato dichiarato morto poco prima delle 23. Il ministero della Sanità ha riferito che un secondo palestinese è stato ferito con proiettili veri e che è in condizioni di gravità moderata.

Al-Kafrayni è stato colpito durante un’incursione militare israeliana su larga scala nel campo profughi di Jenin, durante la quale le forze israeliane hanno arrestato Bassam al-Saadi, un importante dirigente del gruppo palestinese Jihad Islamica. Durante l’operazione è stato arrestato anche il genero di Al-Saadi, Ashraf al-Jada.

I mezzi d’informazione palestinesi hanno riferito che le forze israeliane hanno violentemente arrestato al-Saadi dopo aver circondato la sua casa nel campo profughi. A quanto si dice la moglie di al-Saadi, Nawal, è stata ferita durante l’arresto e trasportata in ospedale per le cure. Video e foto effettuate dopo l’incursione mostrano pozze di sangue sul pavimento della casa della famiglia al-Saadi.

L’incursione israeliana nel campo ha provocato uno scontro a fuoco tra i combattenti della Jihad Islamica e l’esercito israeliano. In una dichiarazione la Jihad Islamica ha affermato che al-Kafrayni faceva parte del gruppo e che in seguito all’arresto di al-Saadi i combattenti del gruppo hanno dichiarato lo stato di allerta.

Al-Saadi è un ex-prigioniero politico ed è il più importante membro del movimento della Jihad Islamica nella Cisgiordania occupata. È stato recentemente rilasciato nel 2020 dopo una sentenza che lo ha costretto a due anni di prigione. Secondo Al Jazeera il suo ultimo arresto nel 2018 è avvenuto dopo una ricerca per localizzarlo di cinque anni da parte dell’esercito israeliano.

Due dei figli di al-Saadi sono stati uccisi dall’esercito israeliano durante l’invasione del campo su larga scala e letale durante la seconda Intifada nel 2002.

Il campo profughi di Jenin è stato l’obiettivo di decine di incursioni su larga scala da parte dell’esercito israeliano dall’inizio dell’anno, nel tentativo di sopprimere il crescente movimento di resistenza armata nel campo, di cui le ali militari dei movimenti Jihad Islamica e Fatah sono le più attive.

L’11 maggio le forze israeliane hanno colpito e ucciso la giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh, una giornalista esperta di Al Jazeera, mentre stava coprendo una incursione nel campo.

Dall’inizio dell’anno 80 palestinesi sono stati uccisi da o sono morti come risultato della violenza dell’esercito israeliano e dei coloni, secondo la documentazione di Mondoweiss. La grande maggioranza degli uccisi sono stati colpiti durante raid notturni, come quello di lunedì scorso nel campo profughi di Jenin.

Almeno sette dei palestinesi uccisi nel 2022 sono stati colpiti durante incursioni nel campo profughi di Jenin.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Testimoni sostengono che il sedicenne palestinese è stato ucciso dal fuoco dei coloni israeliani

Mariam Barghouti  

1 agosto 2022 – Mondoweiss

Testimoni oculari dicono che Amjad Abu Alia è stato ucciso dal fuoco proveniente dal luogo in cui si trovavano dei coloni israeliani ripresi mentre sparavano e tiravano pietre contro i palestinesi nella zona.

Sabato 30 luglio la città di al-Mughayyir ha reso l’estremo omaggio a uno dei suoi figli, Amjad Nashaat Abu Alia, ucciso il giorno precedente, venerdì 29 luglio. 

Abu Aliaa aveva solo sedici anni quando è stato ucciso mentre cercava di sfuggire a coloni e soldati israeliani che stavano sparando proiettili veri e tirando pietre contro manifestanti palestinesi disarmati nel paesino del distretto di Ramallah, nella Cisgiordania occupata. 

Abu Alia stava partecipando a una protesta con abitanti della cittadina e attivisti che provenivano da fuori nel tentativo di contenere l’escalation, nel corso delle ultime settimane, di attacchi da parte dei coloni contro il loro villaggio.

I manifestanti disarmati che sventolavano bandiere palestinesi e gridavano slogan contro l’espansione degli insediamenti sono stati accolti da coloni israeliani provenienti dal vicino avamposto illegale di Adei-Ad. L’esercito israeliano ha anche lanciato lacrimogeni e sparato pallottole di gomma contro i dimostranti. 

Il colono armato insieme al soldato si confronta con un palestinese nel giorno dell’uccisione del ragazzo sedicenne. Foto :Hadi Sabarna

Secondo i testimoni oculari anche parecchi coloni israeliani armati hanno attaccato manifestanti e giornalisti e tirato pietre contro di loro mentre i soldati stavano a guardare senza intervenire. 

La violenza dei coloni insieme a quella dell’esercito ha aggravato lo scontro e i giovani palestinesi del villaggio hanno risposto lanciando pietre. Le riprese video dei giornalisti presenti mostrano i soldati israeliani che sparano proiettili veri contro i dimostranti mentre i coloni tirano pietre verso i palestinesi.

Testimoni oculari e giornalisti hanno detto a Mondoweiss che anche vari coloni armati hanno sparato proiettili veri verso i palestinesi. Resta da confermare se la pallottola che ha ucciso Abu Alia provenisse dai soldati israeliani o dai coloni. 

Dopo essere stato colpito al petto da proiettili veri, Abu Alia è stato portato in ospedale dove poco dopo ne è stata dichiarata la morte. Almeno due altri palestinesi sono stati feriti con proiettili veri: uno, colpito alla coscia, è in condizioni critiche. Tre altri sono stati colpiti da pallottole di acciaio ricoperte di gomma.

Laila Ghannam, governatrice di Ramallah, ha detto ai giornalisti: “Noi non abbiamo ancora indagato a fondo, ma i testimoni affermano che lo sparo che ha colpito il ragazzo proveniva dalla parte dei coloni, non da quella dell’esercito.”

Secondo Haaretz l’esercito israeliano ha ammesso di essere “a conoscenza della denuncia” dell’uccisione di un palestinese, ma non ha approfondito. Questa è una posizione consueta dell’esercito israeliano. Abu Alia è il diciassettesimo minore palestinese ucciso dalla violenza israeliana dall’inizio di quest’anno. 

Coloni armati di pistole e M16: ‘È stato spaventoso’

Hadi Sabarna, un fotogiornalista palestinese sulla scena nel momento in cui Abu Alia è stato ucciso, ha detto a Mondoweiss che sia i soldati israeliani che i coloni hanno sparato verso il ragazzo. 

È stato spaventoso, c’era una giovane colona vestita casual con un telefonino in una mano e una pistola nell’altra.”

la colona armata di pistola .Foto : Hadi Sabarna

C’erano anche coloni con i loro M-16 [fucili d’assalto dell’esercito USA]. Era come se l’esercito li stesse addestrando a sparare e attaccare e intervenisse solo a favore dei coloni,” continua Sabarna.  

Maher Naasan, un attivista palestinese presente durante la protesta, anche lui ferito al petto da un proiettile ricoperto di gomma, ha detto a Mondoweiss che “il ragazzo [Abu Alia] era stato preso di mira dai coloni. Non costituiva in alcun modo una minaccia alle loro vite.”

Naasan aggiunge che i coloni hanno provocato l’escalation della situazione fin dall’inizio, quando sono apparsi alla protesta armati di pistole e hanno cominciato ad attaccare i manifestanti palestinesi.  

Sabarna spiega che non è stato solo l’esercito, ma che anche uno dei coloni ha sparato contro Abu Elia nel momento in cui sparavano i soldati. 

Ricordando la scena vicino alla strada principale di al-Mughayyir, Sabarna spiega: “Amjad e altri giovani si stavano allontanando dai coloni che lanciavano sassi.”

I soldati hanno inseguito gli shabab (giovani) sparando contro di loro mentre i coloni continuavano ad attaccare stando alle loro spalle.” 

Sabarna dice che soldati e coloni continuavano a prendere di mira i giovani che a questo punto cercavano di sfuggire alla violenza armata: “Gli shabab  tiravano pietre per difendersi.” I coloni e l’esercito hanno continuato a sparare contro i palestinesi e alla fine ne hanno colpiti tre, incluso Abu Alia. 

Amjad aveva sete, ho visto che quando gli hanno sparato aveva una bottiglia d’acqua in mano,” ricorda Sabarna. “L’ha aperta, ma non è riuscito a bere, correva con la bottiglia in mano.” 

Attacchi di coloni imbaldanziti

Al-Mughayyir è una cittadina di 3.102 abitanti a 27 km a nord est di Ramallah. Per anni la comunità ha subito la continua minaccia di attacchi sempre più intensi dei coloni e le annessioni forzate con l’esercito israeliano in prima linea. 

Solo poche settimane fa, il 10 luglio, ad al-Mughayyir alcuni coloni hanno attaccato un palestinese le cui ferite hanno richiesto il ricovero in ospedale. Nel gennaio 2019 un gruppo di coloni armati ha attaccato la cittadina e ucciso il trentottenne Hamdi Naasan e inseguito e ferito oltre 30 altri abitanti.  Nonostante i tentativi dei giovani palestinesi di lanciare pietre contro i coloni come deterrente, in quell’occasione nove palestinesi sono stati gravemente feriti con proiettili veri e ricoverati in ospedale.

Tutto ciò continua a succedere. Le nostre proteste pacifiche avvengono a fronte della violenza da parte dei coloni che hanno chiuso gli ingressi al villaggio, aggredito noi e i pastori nella zona,” dice Naasan.

Nel 2011 e nel 2014 in due occasioni separate i coloni israeliani di Adei-Ad hanno dato fuoco alla moschea di al-Mughayyir, profanando un luogo di culto. L’avamposto di Adei-Ad, fondato da un gruppetto di coloni israeliani nel 1998, è illegale ai sensi di leggi internazionali e israeliane. 

Nonostante l’ordine di abbandonare gli avamposti agli inizi degli anni 2000, i coloni ci mantengono una presenza e frequentemente attaccano i palestinesi nelle zone circostanti, anche ad al-Mughayyir. C’è un progetto di inglobare Adei-Ad nella vicina colonia di Amihai, legalizzando in tal modo l’avamposto. 

Noi viviamo in mezzo a un esercito che blocca l’accesso alle nostre terre e caccia i palestinesi con il pretesto delle ‘aree militari chiuse,’ eppure, non si sa come, permette a civili e cittadini israeliani di muoversi a loro piacimento,” dice Naasan. 

Fa tutto parte del tentativo dei coloni di cacciarci via.” 

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Accusare di apartheid non basta: un’intervista a Miloon Kothari, Alto Commissario ONU per i diritti umani 

David Kattenburg

25 luglio 2022 – Mondoweiss

Miloon Kothari, Alto Commissario ONU per i diritti umani chiarisce perché l’apartheid non basta a spiegare le cause alla radice della crisi palestinese.

Il viaggio di Joe Biden in Israele, nella Palestina occupata e in Arabia Saudita è finito in un lampo.

La Dichiarazione di Gerusalemme firmata da Biden e dal premier israeliano Yair Lapid cita le “ostilità con Hamas durate undici giorni nel maggio 2021,” e riafferma l’impegno di Washington a fornire a Israele, una potenza nucleare, 1 miliardo di dollari destinati alla difesa missilistica (oltre ai 3,8 miliardi che già riceve) e ad aiutare Israele a costruire “sistemi di armi laser ad alta energia” per difendersi da Iran e dai suoi “terroristi per procura.”

Nella Dichiarazione è degno di nota il riferimento al conflitto del maggio 2021 in cui furono uccisi oltre 250 gazawi, di cui 66 minori, e furono feriti migliaia di palestinesi. In seguito a quell’attacco il Consiglio ONU dei Diritti Umani (HRC) ha istituito una Commissione di Inchiesta per identificare “le cause profonde” degli undici giorni di violenza.

La Commissione ha presentato il suo primo rapporto al Consiglio ONU per i Diritti Umani il 7 giugno, probabilmente mentre si stilava la Dichiarazione di Gerusalemme di Biden e Lapid. A giudicare dal contenuto, il sostegno incondizionato che gli USA hanno sempre offerto a Israele sarà più complicato.

Il nome completo è lunghissimo e la dice lunga. Secondo Ia “Commissione d’Inchiesta indipendente e internazionale (COI) sui Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est e Israele”, “Israele” è effettivamente un unico Stato dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo], uno Stato chiaramente di apartheid, ma dove il problema fondamentale sono i coloni.

Navanethem (Navi) Pillay, giurista sudafricana con straordinarie credenziali (vedi sotto), presiede la Commissione, con l’australiano Chris Sidoti, consulente per i diritti umani, e Miloon Kothari, accademico e attivista indiano per i diritti umani e difensore del diritto alla casa.

Dopo il primo rapporto della Commissione, Mondoweiss ha intervistato Miloon Kothari. Le sue opinioni sono schiette e taglienti.

Un mandato sulle cause profonde

A differenza delle passate commissioni d’inchiesta dell’ONU sul “conflitto” in Medio Oriente, il mandato della Commissione Pillay non ha limiti temporali, non è soggetto a rinnovi annuali né a restrizioni nell’esame del conflitto che ha portato alla sua costituzione. Al contrario, le è stato detto di procedere con calma ed esaminare le “cause profonde sottostanti alle tensioni ricorrenti.”

E, in contrasto con le passate commissioni e i passati relatori speciali sui Territori Palestinesi Occupati (OPT), la Commissione è stata incaricata di esaminare la situazione sia nei Territori che in Israele “propriamente detto”, (“Israel itself,” come definito nel rapporto di giugno della Commissione).

“Quindi essenzialmente stiamo esaminando la situazione dei diritti umani dal fiume al mare,” dice Kothari a Mondoweiss. “Ci sono somiglianze dentro e fuori la Linea Verde [il confine tra Israele e la Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967, ndt.] e quindi bisogna fare dei collegamenti.”

Il rapporto di giugno della Commissione sottolinea questi collegamenti.

“L’impunità alimenta il crescente risentimento fra il popolo palestinese nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme Est e in Israele … La continua occupazione dei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme Est, il blocco di Gaza che dura da 15 anni e la pluriennale discriminazione entro i confini di Israele sono tutti intrinsecamente legati e non possono essere analizzati singolarmente” [corsivo aggiunto].

Miloon Kothari approfondisce il discorso.

“Ciò che è emerso nei territori occupati dal ’67 è già successo entro la Linea Verde fin dal ’48: i livelli di discriminazione, le leggi differenziate e lo spossessamento dei palestinesi in Israele,” dice Kothari a Mondoweiss. “Così io penso sia importante fare questa distinzione, ma anche tracciare dei parallelismi.”

Più facile a dirsi che a farsi. Israele non permetterà alla Commissione Pillay l’ingresso nello “Stato Ebraico” e l’Egitto non la lascerà entrare a Gaza (per ora). Quindi i commissari hanno incontrato palestinesi e israeliani ad Amman e in Europa. Una delegazione di trenta accademici ebrei israeliani, giornalisti ed ex diplomatici ha incontrato la Commissione a Ginevra.

Kothari dice a Mondoweiss: “In generale erano d’accordo con noi e ci hanno incoraggiato a continuare. L’ambasciatore israeliano non ha risposto a una richiesta di un incontro a Ginevra. Se pensano di avere qualcosa da dire dovrebbero lasciarci entrare e spiegare il loro punto di vista sull’intera situazione. Comunque non abbiamo perso la speranza. Continuiamo a provare. E a sperare che, prima o poi, ci permettano di entrare.”

Un’occupazione permanente

Una delle osservazioni più esplicite del primo rapporto della Commissione (limitato in questa fase alla revisione dei risultati delle precedenti commissioni ONU e dei relatori speciali) si riferisce all’apparente permanenza dell’occupazione israeliana.

“La Commissione nota la forza della prova indiziaria credibile che indica in modo convincente che Israele non ha intenzione di porre fine all’occupazione, attua chiaramente politiche per assicurare il controllo completo sui Territori palestinesi occupati e opera per alterare la demografia tramite il mantenimento di un contesto repressivo contro i palestinesi e favorevole ai coloni israeliani,” afferma il rapporto.

Come ha fatto notare Michael Lynk, ex relatore speciale ONU, un’occupazione belligerante “permanente” secondo il diritto internazionale è un ossimoro. Miloon Kothari va oltre.

“È stata illegale fin dagli inizi,” dice Kothari a Mondoweiss.

“Mi spingerei a sollevare la domanda sul perché (Israele è) membro delle Nazioni Unite. Perché… il governo israeliano non rispetta i propri obblighi come Stato membro dell’ONU. In realtà, sia direttamente che tramite gli Stati Uniti, cerca sempre di minare il funzionamento dell’ONU.”

E Kothari e gli altri commissari sostengono che Israele pratica il grave crimine di apartheid.

Citando osservazioni del Comitato ONU sui diritti Civili e Politici, la Commissione Pillay nota il “sistema a tre livelli sistema giuridico (israeliano) che concede uno stato civile, diritti e protezione legale differenziati a seconda che si tratti di cittadini ebrei israeliani, cittadini palestinesi di Israele e palestinesi residenti a Gerusalemme Est.”

Inoltre nel suo rapporto iniziale la Commissione sottolinea che “Israele applica una parte sostanziale della sua legislazione interna ai coloni israeliani in Cisgiordania, mentre i palestinesi sono soggetti alla legge militare israeliana.”

Limiti dell’apartheid

Ma la Commissione Pillay non è ancora pronta a uscire dal limbo dell’apartheid.

“L’apartheid è un paradigma/quadro per capire la situazione, ma non è sufficiente,” dice Kothari a Mondoweiss.

“Dobbiamo includere il colonialismo, temi generali come la discriminazione, l’occupazione e altre dinamiche per ottenere un quadro completo delle cause alla radice della crisi attuale… porre fine all’apartheid non porrà fine alla crisi dell’occupazione per il popolo palestinese … il tema dell’autodeterminazione richiede molti altri cambiamenti.”

Ma la Commissione Pillay “in futuro arriverà al tema dell’apartheid perché prenderemo in esame la discriminazione in generale, dal fiume al mare.” dice Kothari.

Nel frattempo la Commissione sta raccogliendo dati forensi per presentarli alla Corte Penale Internazionale (ICC) e alla Corte Internazionale di Giustizia.

“Il nostro lavoro consiste nel formare un archivio di tutte le testimonianze che riusciamo a raccogliere e poi, al momento appropriato, consegnarlo agli organi giudiziari che possono agire,” dice Kothari.

Documentare lo spossessamento

Il segretariato della Commissione Pillay ha a sua disposizione competenze in materia di indagine e consulenza legale, dice Kothari, ed è in contatto con la ICC. A giugno Kothari e i suoi colleghi si sono recati presso la Corte Penale Internazionale, dove hanno incontrato Nazhat Shameem Khan (nessun rapporto con il procuratore capo Karim Khan), la sostituta procuratrice e il suo team.

Mentre raccoglie testimonianze legali per futuri casi giudiziari, la Commissione Pillay progetta anche di individuare “la responsabilità di terzi” dalle “alte parti contraenti” della IV Convenzione di Ginevra. L’articolo 1 della Ginevra IV richiede loro di “rispettare e garantire il rispetto della convenzione in ogni circostanza.”

Fra i temi che la Commissione prenderà in esame con parti terze come USA, Canada e UE ci sono il trasporto di armi in Israele e il coinvolgimento delle loro imprese nell’occupazione a quanto pare permanente di Israele e l’impresa delle colonie, palesemente illegale.

“Speriamo di convincere questi Paesi ad andare oltre l’ideologia e la cieca fiducia in qualsiasi cosa faccia Israele,” dice Kothari.

La Commissione ha in mente di andare in Libano, Giordania, Egitto, Siria e Nord America, per parlare con la diaspora palestinese.

“Ci sono rifugiati che storicamente sono stati espropriati nei territori occupati,” dice Miloon Kothari a Mondoweiss.

Per documentarlo la Commissione userà dati geospaziali che “mostrano molto chiaramente… fino a che punto le dimensioni dell’occupazione si siano consolidate in Cisgiordania e i danni arrecati, per esempio, dal blocco di Gaza.”

Il rapporto della Commissione presenterà questi e altri risultati nel suo secondo rapporto all’Assemblea Generale dell’ONU nella terza settimana di ottobre 2022.

Pressioni politiche

Alcuni membri della Commissione andranno due settimane negli USA per partecipare a tavole rotonde in università e incontrare i parlamentari che siano interessati a incontrarla.

Kothari attira l’attenzione di Mondoweiss sull’Atto di Eliminazione della COI (Commissione di inchiesta). Appoggiato da 73 Repubblicani e 15 Democratici (inclusi Henry Cuellar, Josh Gottheimer e Ritchie Torres), la Risoluzione 7223 della Camera (dei Rappresentanti) chiede una riduzione del 25% degli stanziamenti USA per il Consiglio per i diritti umani che sembra corrispondere al lavoro della Commissione Pillay.

Niente fa arrabbiare gli alleati di Israele più della presidentessa sudafricana della Commissione. Navi Pillay è stata oggetto di attacchi al vetriolo dal momento della sua istituzione.

Le credenziali di Pillay sono notevoli. La prima donna ad aprire uno studio legale nella sua provincia natale di Natal, ha difeso attivisti anti-apartheid incarcerati a Robben Island, è stata giudice dell’Alta Corte del Sud Africa e poi del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda. Pillay al momento fa parte della Corte Internazionale di Giustizia, della Commissione Internazionale contro la pena di morte e del Consiglio Consultivo dell’Accademia Internazionale dei Principi di Norimberga. Presiede inoltre l’inchiesta para-giudiziaria sulla Detenzione nella Repubblica Popolare Democratica di Corea.

Le sue credenziali non fanno vacillare i suoi oppositori negli USA o in Canada. La [lobby filoisraeliana canadese] B’Nao Brith ha fatto pressione sul governo canadese per farla licenziare ed è stata consigliata (o almeno così dice) di parlare direttamente con Bob Rae, l’ambasciatore canadese.

“Su suggerimento di Rae,” riferisce la BBC, ha anche “richiesto l’aiuto della missione canadese a Ginevra.”

Global Affairs Canada (dipartimento del Governo canadese) a cui è stato chiesto se la BBC avesse veramente chiesto alla missione canadese a Ginevra di far licenziare la dott.ssa Pillay, “educatamente” mi ha detto che non hanno “nulla da aggiungere.”

Dopo il rapporto della Commissione del 7 giugno, quando la porta della stalla era spalancata e i buoi scappati, il Canada si è unito agli Usa e ad altri venti Paesi nella condanna del lavoro della Commissione. La loro lettera al Consiglio per i diritti umani esprime “profonda preoccupazione” circa il mandato “aperto” della Commissione senza “clausola di caducità, data finale o limiti precisi.”

“Nessuno è al di sopra del controllo,” sottolinea la lettera. “Dobbiamo lavorare per opporci all’impunità e promuovere il principio di responsabilità sulla base di criteri applicati in modo coerente e universale.”

Comunque, continua la lettera, “noi crediamo che la natura del COI… dimostri ulteriormente la lunga e sproporzionata attenzione verso Israele da parte del Consiglio… Noi continuiamo a credere che questo esame lungo e sproporzionato debba terminare e che il Consiglio debba affrontare tutti i temi riguardanti i diritti umani, indipendentemente dal Paese, in modo imparziale.”

Miloon Kothari concorda che ‘il Consiglio debba affrontare tutti i temi riguardanti i diritti umani, indipendentemente dal Paese, in modo imparziale”, ma respinge la “doppiezza” e il “doppiopesismo” contenuti nel resto della lettera.

“Quando si parla di Ucraina, il diritto internazionale diventa molto, molto importante,” ha detto a Mondoweiss. “E si procede a testa bassa facendo notare tutte le violazioni commesse dalla Russia. Ma le stesse violazioni di occupazione e spossessamento compiute da Israele non ricevono lo stesso trattamento.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il New York Times e il Dipartimento di Stato collaborano sfacciatamente con l’insabbiamento dell’assassinio di Abu Akleh da parte di Israele

JAMES NORTH

5 luglio 2022 Mondoweiss

Ieri il Dipartimento di Stato USA ha seguito l’antica tradizione di divulgare notizie che il governo vuole insabbiare durante una vacanza, e il New York Times lo ha assecondato. Gli Stati Uniti hanno ammesso – quasi 2 mesi dopo che la giornalista palestinese americana Shireen Abu Akleh è stata uccisa a colpi d’arma da fuoco – che l’esercito israeliano è stato “probabilmente responsabile”, ma poi hanno aggiunto che i funzionari americani “non hanno trovato motivo di credere che ciò sia stato intenzionale, ma piuttosto il risultato di tragiche circostanze durante un’operazione militare guidata dall’IDF.”

L’operazione di copertura [delle responsabilità israeliane, ndt.] da parte degli Stati Uniti è sfacciata. Non sorprende che il Dipartimento di Stato sperasse che gli americani fossero troppo distratti dai fuochi d’artificio del 4 luglio per prestare attenzione.

Non c’è nulla di nuovo nel “rapporto” del Dipartimento di Stato. Indagini precedenti, inclusa una tardiva dello stesso New York Times, avevano già confutato il tentativo israeliano di incolpare “miliziani palestinesi” per l’omicidio. A quel punto Israele, e i suoi complici statunitensi nell’inganno, hanno cercato di concentrarsi sul proiettile che ha ucciso la rispettata giornalista. L’inchiesta americana ha rilevato che la pallottola è troppo “danneggiata” per arrivare a una “chiara conclusione” su da dove essa sia partita.

I giornalisti del New York Times hanno agito come stenografi dell’insabbiamento USA/Israele fino al 20° paragrafo, quando hanno permesso alla famiglia di Abu Akleh di interromperlo brevemente dicendo: “L’attenzione sul proiettile è sempre stata fuori luogo ed è stato un tentativo da parte israeliana di volgere la narrazione a proprio favore, come se si trattasse di una specie di poliziesco che potrebbe essere risolto con un test forense di tipo CSI [Crime Scene Investigation, indagine della polizia scientifica, nonché nome di una fortunata serie televisiva statunitense, ndt.].”

Ma l’elemento più sorprendente nell’operazione di copertura degli Stati Uniti è l’assoluta convinzione che non sia stata uccisa intenzionalmente. Diamo un’occhiata ai fatti. Le truppe israeliane che hanno sparato erano a diverse centinaia di metri di distanza. Un primo proiettile ha colpito Shireen Abu Akleh alla testa. Un secondo ha colpito alla schiena un altro giornalista che le stava accanto, Ali al-Samoudi. Almeno altri due proiettili hanno colpito l’albero vicino a cui si trovava. Chi può credere che un tiratore scelto israeliano addestrato, sparando all’impazzata, avrebbe potuto colpire accidentalmente due persone da una tale distanza?

Il Times non ha fatto alcun tentativo di intervistare i testimoni oculari che erano con Abu Akleh quando è morta. Il resoconto del Washington Post ha citato la rispettata organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem la quale ha sostenuto che “le probabilità che i responsabili dell’uccisione di Shireen Abu Akleh saranno ritenuti responsabili sono quasi inesistenti”, ma il Times ha avuto molte difficoltà a trovare Il numero di telefono di B’Tselem.

Le uniche domande senza risposta sull’uccisione di Abu Akleh sono:

Il soldato israeliano che le ha sparato ha agito da solo? O stava seguendo degli ordini? E quanto in alto nella catena di comando arriva l’insabbiamento?

A meno che i funzionari statunitensi non abbiano effettivamente interrogato i soldati israeliani, non c’è modo di dire che l’omicidio non sia stato “intenzionale”.

Ancora una volta bisogna rivolgersi all’autorevole quotidiano israeliano Haaretz per un resoconto accurato. Il giornalista per le questioni riguardanti la sicurezza, Amos Harel, non ha paura di dire la verità: “per quanto riguarda Israele, è molto improbabile che venga aperta un’indagine penale da parte della polizia militare”.

Harel riassume così la situazione:

Il primo ministro Yair Lapid e il capo di stato maggiore dell’IDF [Forze di Difesa Israeliane] Aviv Kochavi vivono tra la loro stessa gente. L’ultima cosa di cui hanno bisogno ora è un’indagine penale contro un soldato…

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




La polizia israeliana attacca un altro funerale palestinese a Gerusalemme

Yumna Patel

17 maggio 2022 – MondoWeiss

Lunedì notte la polizia israeliana ha attaccato il funerale del palestinese Walid al-Sharif nella Gerusalemme est occupata, ferendo decine di partecipanti al corteo funebre. Al-Sharif, di 23 anni, è stato colpito alla testa con un proiettile d’acciaio ricoperto di gomma dalle forze israeliane il 22 aprile durante un’incursione israeliana alla spianata della Moschea di Al-Aqsa.

Lunedì notte la polizia israeliana ha attaccato il funerale del palestinese Walid al-Sharif nella Gerusalemme est occupata, ferendo decine di partecipanti al corteo funebre. Al-Sharif, di 23 anni, è stato colpito alla testa con un proiettile d’acciaio ricoperto di gomma dalle forze israeliane il 22 aprile durante un’incursione israeliana alla spianata della Moschea di Al-Aqsa nel mese sacro del Ramadan, che ha causato decine di feriti.

Una ripresa video del 22 aprile mostra le forze israeliane che assaltano la spianata e aprono il fuoco contro la folla. Dopo uno sparo nella sua direzione, si vede al-Sharif cadere a terra e rimanere immobile, prima di essere portato via dalle forze israeliane.

Nonostante il video e le dichiarazioni di testimoni e della famiglia di al-Sharif, la polizia israeliana ha negato di avergli sparato, sostenendo che è morto per le ferite riportate cadendo a terra. Testimoni oculari e Al Jazeera hanno riferito che i responsabili israeliani dell’ospedale “hanno rifiutato di fornire una causa precisa della morte.”

Al-Sharif è rimasto in condizioni critiche in ospedale durante le scorse tre settimane, finché è morto a causa delle ferite il 14 maggio. Le forze israeliane hanno trattenuto il suo corpo restituendolo alla sua famiglia per la sepoltura lunedì.

Secondo quanto riportato dai media locali, migliaia di palestinesi si sono radunati nella spianata della moschea di Al-Aqsa quando il corpo di al-Sharif vi è stato portato dalla sua famiglia per celebrare la preghiera funebre.

Dopo la preghiera migliaia di partecipanti hanno trasportato il suo corpo dalla moschea al cimitero fuori dalla Città Vecchia.

Il video circolato sui social media mostra le forze di polizia pesantemente armate che attaccano il corteo funebre quando si dirige da Al-Aqsa al cimitero.

Secondo il giornalista di Al Jazeera Wajd Waqfi la polizia israeliana ha aggredito le persone in lutto e ha impedito loro di esibire bandiere palestinesi, arrestando decine di palestinesi. La polizia israeliana ha riferito di 20 arresti.

L Mezzaluna Rossa palestinese ha riferito che 71 palestinesi sono stati feriti da proiettili d’acciaio rivestiti di gomma, granate assordanti e pestaggi. Almeno 13 persone hanno dovuto essere ricoverate in ospedale.

E’ stato riferito che almeno uno dei feriti si trovava in gravi condizioni dopo essere stato colpito ad un occhio da un proiettile rivestito di gomma. Il ferito è risultato essere Nader al-Sharif, un parente del deceduto.

Il Centro di Informazioni Wadi Hilweh a Silwan (quartiere di Gerusalemme est, ndtr.) ha affermato che al-Sharif era in condizioni critiche ed è stato curato al Centro Medico Shaare Zedek a Gerusalemme. Il centro ha aggiunto che le forze israeliane hanno fatto irruzione nella sua stanza di ospedale cacciando fuori i membri della sua famiglia.

L’attacco della polizia israeliana al corteo funebre ha innescato scontri a Gerusalemme est che sono proseguiti fino a notte, con i palestinesi che hanno lanciato pietre e ordigni incendiari contro le forze israeliane.

La polizia israeliana ha riferito che sono stati feriti sei agenti e ha rilasciato una dichiarazione affermando che le sue forze “hanno agito con decisione contro centinaia di delinquenti e violenti rivoltosi che…hanno intrapreso azioni violente contro le forze di polizia mettendo a rischio le loro vite.”

Dirigenti sia palestinesi che giordani hanno condannato l’attacco al funerale, che ha avuto luogo pochi giorni dopo che la polizia israeliana aveva attaccato il funerale della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh a Gerusalemme est.

L’attacco al funerale di Abu Akleh, che è stato ampiamente diffuso in televisione, ha provocato indignazione in tutto il mondo, essendo circolati sui social media dei video della polizia israeliana che aggredisce le persone che portano la bara.

I poliziotti israeliani hanno sostenuto di essere stati attaccati da lanci di pietre, benché le loro accuse siano state smentite dalle riprese video e dalle affermazioni di testimoni oculari.

Un nuovo video diffuso dall’ospedale St.Joseph di Gerusalemme, da cui ha preso avvio il corteo funebre per Abu Akleh, mostra decine di poliziotti pesantemente armati che durante il funerale invadono l’ospedale, compreso il reparto di emergenza, aggredendo il personale medico, i pazienti e le persone in lutto.

Un’altra ripresa di una videocamera di sorveglianza mostra la polizia che lancia una granata fumogena verso l’ospedale prima di farvi irruzione.

L’agenzia di informazioni Wafa ha riferito che l’ospedale ha comunicato di aver contattato uno studio legale per “esaminare la possibilità di sporgere una denuncia contro le autorità di occupazione israeliane riguardo alla violenza della polizia”.

Yumna Patel

Yumna Patel è la direttrice del notiziario sulla Palestina per Mondoweiss

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




In che modo Israele progetta di “colonizzare” la parte restante di Gerusalemme

ARAB 48

9 Maggio 2022 – Mondoweiss

Un nuovo catasto israeliano a Gerusalemme est potrebbe portare alla confisca di vaste aree di proprietà palestinesi. Ahmad Amara valuta le terribili implicazioni per il popolo di Gerusalemme e per il futuro della città.

Il progetto israeliano di accatastare i territori di Gerusalemme est, che è stato formalmente stilato attraverso un decreto del governo con il titolo “Decreto 3790 finalizzato alla riduzione delle carenze socioeconomiche e alla promozione dello sviluppo economico a Gerusalemme est” minaccia ciò che resta dei terreni di Gerusalemme, poiché Israele prevede di accatastare l’intera Gerusalemme est occupata attraverso un comitato supervisionato dal Ministero della Giustizia. I lavori del comitato dovrebbero concludersi entro la fine del 2025.

Israele doveva completare il processo di attribuzione/accatastamento del 50% del territorio di Gerusalemme Est durante il quarto trimestre del 2021. Tuttavia, poiché la procedura sembra essere complicata, Israele prevede che il lavoro non andrà avanti facilmente in tutti i quartieri di Gerusalemme Est. Pertanto il comitato incaricato ha deciso di avviare zone pilota in diverse aree. Inoltre il processo è stato rallentato anche dalla diffusione nell’ultimo anno del Covid-19, che tuttavia continua.

Una valutazione della situazione pubblicata dal Madar Research Center [centro di ricerca indipendente palestinese sugli aspetti politici, sociali, economici e culturali delle questioni israeliane, ndtr.] afferma che Israele sostiene che l’accatastamento dei terreni di Gerusalemme est aumenterebbe le entrate della municipalità di Gerusalemme di centinaia di milioni di shekel [uno shekel equivale a 28 centesimi di euro, ndtr.], così come aumenterebbe le entrate dei gerosolimitani che potrebbero beneficiare dell’accatastamento, oltre all’assegnazione di circa 550.000 dunum [55.000 ettari, ndtr.] per zone industriali che impiegherebbero forza lavoro palestinese.

Tuttavia la registrazione delle terre potrebbe essere utilizzata di fatto per far avanzare irreversibilmente la colonizzazione israeliana, il che porterebbe alla confisca di vasti terreni di Gerusalemme est, che poi sarebbero ufficialmente registrati come proprietà demaniale.

Durante l’ultimo mezzo secolo di occupazione e annessione della città Israele ha già confiscato vaste aree di Gerusalemme Est a favore di grossi insediamenti coloniali israeliani. Israele ha soffocato la naturale espansione dei gerosolimitani palestinesi creando nuove situazioni nell’area. Pertanto l’accatastamento dei terreni di Gerusalemme est, in base a quanto avviene oggi rispetto alla situazione precedente all’occupazione del 1967, consoliderebbe i cambiamenti coloniali a Gerusalemme est e faciliterebbe il furto repentino di altre terre con pretesti giuridici.

Arab 48 [emittente online di informazioni in lingua araba, ndtr.] ha intervistato su questo aspetto e sulle sue implicazioni per le terre e le persone di Gerusalemme e il futuro della città il ricercatore, docente e avvocato Dr. Ahmad Amara, specializzato in diritto fondiario e diritto internazionale. Il Dr. Amara è un avvocato specializzato in contenzioso internazionale, docente presso la New York University di Tel Aviv e ricercatore presso lo studio di consulenza legale dell’Università Al-Quds. La sua ricerca si concentra sull’intersezione tra diritto, storia e geografia, con particolare attenzione al diritto fondiario ottomano nella Palestina meridionale e a Gerusalemme. Di recente ha pubblicato Emptied Lands – A Legal Geography of Bedouin Rights in the Negev [Terre svuotate – Una geografia giuridica dei diritti dei beduini nel Negev, ndtr.], con Alexandre Kedar e Oren Yiftachel, e attualmente sta lavorando alla ricerca sul controllo del territorio e sull’ebraizzazione attraverso vari strumenti legali incentrati su Silwan e Sheikh Jarrah [quartieri prevalentemente palestinesi di Gerusalemme Est oggetto negli ultimi anni di ripetuti sfratti violenti da parte delle forze di polizia israeliane, ndtr.].

Arab 48: Le intenzioni di Israele di sfruttare tutti gli strumenti legali, amministrativi e progettuali a favore dei suoi piani di colonizzazione sono chiare, ma per favore mi spiega cos’è l’attribuzione/accatastamento di una proprietà fondiaria e qual è la procedura?

Amara: una semplice attribuzione di una proprietà terriera costituisce praticamente la registrazione dei diritti fondiari, cioè l’affermazione dei diritti del proprietario sulla propria terra con riferimento ad un determinato appezzamento di terreno, ad un’area specifica in centimetri su una mappa e ad un certificato catastale.

L’attribuzione delle proprietà fondiarie fu introdotta in Palestina dagli inglesi e dagli ottomani prima di loro. Il Tapu [catasto] che conosciamo è una procedura ottomana. Nel contesto temporale delle normative e delle riforme amministrative e legali ottomane, la legge sul Tapu è stata introdotta a metà del XIX secolo, in un momento in cui l’Impero Ottomano intraprendeva il suo tentativo di agire come uno Stato moderno centralizzato e cercava di compilare quante più statistiche e dati possibili sulla popolazione e sul territorio. La legge ottomana sul Tapu fu emanata nel 1860, mentre la legge fondiaria ottomana venne promulgata nel 1958. Questa legge ha avuto un ruolo importante nella confisca israeliana delle terre palestinesi nel Negev, in Galilea, in Cisgiordania e a Gerusalemme.

Dopo gli ottomani giunse la Gran Bretagna e stabilì una nuova procedura di attribuzione/accatastamento di una proprietà fondiaria basata su accurate mappe di rilevamento e su una lottizzazione in blocchi e appezzamenti. La procedura faceva anche parte della politica britannica di controllo delle terre demaniali e di trasferimento di alcune di queste terre agli insediamenti coloniali sionisti. Israele ha seguito e applicato la stessa procedura di accatastamento fondiario.

Per quanto riguarda l’iter burocratico relativo all’attribuzione/accatastamento, lo Stato fa una dichiarazione relativa alla registrazione, i richiedenti interessati devono presentare la loro richiesta fondiaria, quindi la procedura è regolata da diverse norme e regolamenti che portano alla pubblicazione di una tabella delle rivendicazioni fondiarie e in seguito di una tabella dei diritti fondiari. Pertanto, chiunque rivendichi un diritto otterrebbe la registrazione e pubblicazione del suo nome per una verifica da parte del responsabile degli insediamenti fondiari.

Arab 48: Riguardo la terra che nessuno rivendica, rimane proprietà dello Stato?

Amara: il responsabile delle attribuzioni fondiarie è obbligato a ricercare, approfondire e stabilire i diritti sulla terra, indipendentemente dal fatto che lo Stato abbia presentato un reclamo per uno specifico terreno. Il pericolo sta in ciò che Israele cerca di registrare a suo favore come terra pubblica o statale — Proprietà degli Assenti [la Legge sulle Proprietà degli Assenti, emanata nel 1950, fu creata ad hoc al fine di acquisire la proprietà su beni e immobili delle migliaia di profughi palestinesi che furono espulsi dalle forze ebraiche verso i Paesi arabi confinanti, ndtr.] e proprietà appartenenti agli ebrei da prima del 1948. Il rischio esiste perché nel processo di attribuzione Israele è la controparte e l’arbitro.

Come è noto, la terra presumibilmente appartenuta agli ebrei prima del 1948 è amministrata dal “Custode generale”, mentre la proprietà degli assenti [palestinesi costretti ad abbandonare la terra] è gestita dal “Custode delle proprietà degli assenti”. Entrambi sono presenti nel Comitato per l’assegnazione del titolo fondiario, che comprende anche rappresentanti del comune di Gerusalemme. Questi comitati attualmente si riuniscono e sono operativi. C’è una società che lavora specificamente al rilevamento e alla mappatura, e hanno già iniziato con blocchi di terreni pilota a Beit Hanina, Jabal al-Mukabbir, Sheikh Jarrah e Beit Safafa, un’operazione supervisionata dal Ministero della Giustizia israeliano.

Arab 48: Lei ha sottolineato che questa attribuzione del titolo fondiario è la continuazione di un processo avviato dal Mandato Britannico prima del 1948, che aveva obiettivi di controllo coloniale LAO [Law and Administration Ordinance, Ordinanza sulla legge e l’amministrazione, con cui lo Stato di Israele riconobbe validità alle leggi del Mandato britannico, ndtr.] della terra.

.Amara: Il processo è più di una semplice confisca. La procedura britannica di attribuzione della proprietà fondiaria, iniziata nel 1928, mirava a suddividere e controllare le “terre statali” e a facilitare la loro destinazione a favore della colonizzazione ebraica, come delineato nella Sezione 6 del Mandato britannico sulla Palestina.

Il secondo obiettivo era rispondere alla richiesta della leadership sionista di registrazione dei terreni per facilitarne l’acquisto e per proteggere meglio i diritti dell’acquirente. In questo contesto, notiamo che anche se gli inglesi fino al 1948 avevano accatastato solo il 20% del territorio della Palestina, la registrazione avveniva principalmente nelle aree in cui erano ubicati insediamenti coloniali ebraici, cioè principalmente in Galilea e sulla costa, mentre non troviamo tali registrazioni, per esempio, in Cisgiordania.

Come è noto, l’accordo tra i leader sionisti prevedeva tre modi per prendere il controllo della terra in Palestina: il primo era con la forza, come facevano tutte le potenze coloniali (conquista), il secondo era attraverso leggi autoritarie e decisioni di confisca delle terre, che non era possibile in assenza di sovranità, mentre il terzo era l’acquisto e l’accatastamento dei terreni, quindi la registrazione era fondamentale per loro.

La prima cosa che fecero gli inglesi quando colonizzarono la Palestina fu chiudere gli uffici Tapu (del catasto), e la successiva fu formare la Commissione Abramson, che suggerì l’emissione di due ordinanze, la Land (Mahlul) Ordinance del 1920 e la Land (Mawat) Ordinance del 1921. Tra il 1928 e il 1948 il mandato britannico è stato in grado di accatastare 5,2 milioni di dunam [520.000 ettari, ndtr.] di terra su un totale di 26 milioni di dunam [2.600.000 ettari, ndtr.] della Palestina e, se osserviamo la mappa di accatastamento, vediamo che esiste una somiglianza significativa tra la mappa di accatastamento e la mappa della partizione della Palestina.

Arab 48: Quindi, l’attribuzione della proprietà fondiaria era al servizio del sionismo anche prima della creazione di Israele. Come sarà sotto la sovranità israeliana, e a Gerusalemme in particolare?

Amara: Il movimento sionista aveva contribuito alla stesura delle leggi fondiarie britanniche. A volte venivano inviati progetti di legge all’Agenzia ebraica [istituita nel 1923 col compito di facilitare l’immigrazione ebraica in Palestina e l’acquisto di terre dai proprietari arabi e di pianificare le politiche generali della leadership sionista, ndtr.] per un commento ed era importante che la terra fosse assegnata e accatastata nelle aree di attrito in cui la terra veniva acquistata, per radicare lì i diritti degli insediamenti coloniali ebraici.

Per quanto riguarda l’attuale attribuzione della proprietà fondiaria a Gerusalemme, le esperienze passate in Galilea e nel Negev suggeriscono che Israele ha cambiato molte delle leggi e regolamenti britannici e ottomani, in particolare per quanto riguarda la definizione di diritti e regole probatorie, incluso il ruolo dei comitati di villaggio locali, il peso di testimonianze orali che confermano che una certa persona possiede la terra e il dato empirico del possesso della terra.

L’esperienza successiva al 1948 fu molto diversa da quella precedente. Sebbene poco più di 2 milioni di dunum [200.000 ettari, ndtr.], meno del 5% della terra, siano stati acquistati dalle istituzioni sioniste prima del 1948, lo Stato di Israele ora controlla il 95% della terra. Ciò è stato ottenuto attraverso una serie di leggi e procedure come la legge sulla proprietà degli assenti, la legge sull’acquisizione di terreni e l’ordinanza sui terreni (acquisizione per finalità pubbliche).

Le prime attribuzioni di proprietà fondiarie dopo il 1948 iniziarono a Gerusalemme ovest nei villaggi e nei quartieri di Ein Karem, Deir Yassin e al-Talibiya, e l’obiettivo era legittimare il controllo israeliano sulle terre di queste aree, sapendo che Gerusalemme era classificata come Corpus Separatum nell’ambito del Piano di spartizione delle Nazioni Unite [l’area di Gerusalemme si sarebbe dovuta trovare sotto un regime internazionale, con uno status speciale per la sua comune importanza religiosa, ndtr.].

Tuttavia, negli anni ’50 e ’60 si avviò il processo di attribuzione in Galilea e fu legato all’imposizione di una sovranità e agevolazione del processo di colonizzazione ebraica di fronte ai timori dell’indipendenza della regione da Israele o alla minaccia della sua annessione a un Stato arabo. Naturalmente ha giocato un ruolo importante nel processo anche la politica di ebraizzazione della Galilea.

Arab 48: Sentiamo spesso parlare della dichiarazione di Ben-Gurion dell’epoca, in cui diceva, dopo un viaggio in Galilea, di essersi sentito come se si trovasse in un Paese arabo.

Amara: L’attribuzione delle proprietà fondiarie in Galilea è connessa con l’ebraizzazione di quest’area, cosa che sta avvenendo oggi anche a Gerusalemme, ma ciò che ci preoccupa di questa esperienza è il modo in cui Israele in quella circostanza ha implementato il processo di attribuzione delle proprietà fondiarie. Le autorità israeliane hanno negato tutte le testimonianze orali su cui si era fatto affidamento durante la registrazione degli insediamenti nel periodo del Mandato britannico e hanno escluso le registrazioni fiscali come prova della proprietà. Confiscando così ingiustamente vaste aree di terra.

I dati specifici riportano che a seguito di questo accordo e della conseguente confisca 8.000 ricorsi vennero presentati ai tribunali israeliani da proprietari terrieri palestinesi, l’85% dei quali fu respinto.

Nel Negev l’attribuzione venne annunciata nel 1974, nelle aree in cui era stata trasferita ed era concentrata la maggior parte dei beduini e, dopo l’annuncio, furono presentate 3.220 richieste sulle terre in assegnazione. Tuttavia, Israele scelse di congelare queste richieste e di negoziare principalmente un risarcimento monetario con i ricorrenti. Tuttavia, nel 2004 era stato evaso solo il 15% circa di queste richieste.

Dopo il 2004 Israele ha iniziato a presentare controrivendicazioni nei confronti delle famiglie arabe del Negev, e ad oggi sono 500-600 le cause giudiziarie, 300-400 delle quali sono state risolte a favore di Israele. Ad oggi la magistratura israeliana non ha riconosciuto alcuna rivendicazione di proprietà da parte di arabi del Negev. Nel nostro libro sul Negev, Emptied Lands, mostriamo come Israele stia svuotando la terra della sua popolazione indigena e della sua storia, sostenendo che queste terre sono terre “mawat”, morte [nel diritto ottomano, terreni non coltivati che venivano per questo incamerati dallo Stato, ndtr.], e quindi “terre statali”, e che i beduini sono intrusi in queste terre.

Arabo 48: Quindi, sta dicendo che le attribuzioni fatte da Israele in diverse aree palestinesi erano preventivamente volte a confiscare e a porre sotto controllo la terra, e questo è ciò che accadrà a Gerusalemme est?

Amara: L’ironia è che subito dopo l’occupazione di Gerusalemme Est Israele ha bloccato l’accordo sulla proprietà fondiaria avviato dalla Giordania, durante il quale era stato accatastato il 30% delle terre della Cisgiordania.

Durante gli ultimi 50 anni di occupazione, Israele ha confiscato 24.000 dunum [2.400 ettari, ndtr.], che costituiscono il 38% della terra di Gerusalemme est, sulla base principalmente di una legge britannica del 1943 che autorizzava la confisca di terre a fini di interesse pubblico.

Quindi riteniamo che l’annuncio dell’attribuzione miri a contrattare con la gente ciò che resta della terra. Sappiamo che le istituzioni che cercano di continuare a controllare le terre palestinesi sono presenti nel comitato, come il “Custode generale” e il “Custode delle proprietà degli assenti” e altri, e sono pronte a sequestrare ulteriori terre palestinesi con vari pretesti e leggi israeliane. In effetti, il solo Keren Kayemet” (Fondo nazionale ebraico) ha annunciato che aprirà per l’accatastamento 17.000 schedari di proprietà terriere presenti nei suoi archivi, inclusi 2.050 schedari di appezzamenti di terreno a Gerusalemme est.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)