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Mansour Abbas non intende far cadere il governo israeliano, per il suo stesso bene

Sama Salaime

19 aprile 2022 – +972 magazine

Il leader di Ra’am ha congelato l’adesione del suo partito al governo in seguito alla violenta repressione ad Al-Aqsa. Ecco perché andarsene non è un’opzione.

La decisione dello scorso fine settimana del partito Ra’am [Lista Araba Unita, ndtr.] di congelare temporaneamente, ma non cancellare, la sua adesione al governo israeliano a seguito delle rinnovate violenze nel complesso di Al-Aqsa [la moschea al-Aqā fa parte del complesso di edifici religiosi di Gerusalemme noto sia come Monte Majid o al-aram al-Sharīf da parte dei musulmani, Har ha-Bayit dagli ebrei, ndtr.] è tanto singolare quanto necessaria. Non c’è nessun politico palestinese in Israele che vorrebbe trovarsi in questo momento nei panni di Abbas. Il suo partito è stato in grado di resistere per 10 mesi come membro di una coalizione debole e in bilico, e ha subito attacchi feroci sia dall’opposizione che dalle fazioni più a destra del governo, in primo luogo dalla ministra dell’Interno Ayelet Shaked [del partito di estrema destra Yamina, lo stesso del primo ministro Bennett, ndtr.].

Di volta in volta la Lista Araba Unita ha resistito, nonostante le critiche mossele, tra l’altro, durante la vicenda riguardante la legge sulla cittadinanza [il 10 marzo la Knesset ha ripristinato una legge che vieta ai palestinesi sposati con cittadini israelo-palestinesi di ottenere la cittadinanza israeliana e di riunire le loro famiglie in territorio israeliano, ndtr.], i tentativi di approvare un bilancio nazionale nonché le demolizioni di case, gli attacchi ai beduini nel Naqab/Negev, la sua posizione sui diritti LGBTQ. Ha perso il deputato Said al-Harumi, uno dei suoi parlamentari più popolari, morto per un attacco cardiaco, così come la fiducia dei suoi elettori dopo che non è stata in grado di affrontare efficacemente i crimini violenti che continuano ad affliggere la società palestinese in Israele.

Nonostante tutte queste crisi, Ra’am è stata in grado di resistere e di promettere ai suoi elettori – e alla comunità araba in generale – che tutto sarebbe andato bene. Ma poi è arrivato il Ramadan.

È difficile sostenere che i vertici del Movimento islamico siano rimasti sorpresi dalla tempistica del mese santo, durante il quale Israele avrebbe dovuto esibire agli occhi dei palestinesi e del resto del mondo gesti senza precedenti a favore dei fedeli musulmani del Paese, inclusi più permessi per lavoratori da Gaza in Israele e l’allentamento del controllo dei movimenti per coloro che desiderano viaggiare dalla Cisgiordania a Gerusalemme occupate.

Abbas e soci non potevano prevedere i quattro attacchi omicidi contro cittadini israeliani che hanno avuto luogo lo scorso mese. La Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani laici, all’opposizione, ndtr.] ha condannato duramente le uccisioni. Mentre l’ondata di attacchi si è placata, almeno per ora, le operazioni militari israeliane nelle città della Cisgiordania sono diventate di giorno in giorno più letali. Tredici palestinesi sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco, tra cui un ragazzo di 17 anni e una vedova di 47 anni madre di sei figli.

Ra’am ha fatto parte di un governo che ha commesso crimini di guerra contro i palestinesi, e il suo imbarazzo è cresciuto sempre più davanti a ogni immagine di minorenni arrestati o di shaheed [“testimone” in arabo, spesso tradotta con il termine “martire”, ndtr.] sepolti a Hebron o a Betlemme. Ma durante questo Ramadan tutti gli occhi sono puntati [su quello che accade, ndtr.] alla moschea di Al-Aqsa, dalle percosse subite da giovani palestinesi e giornalisti da parte degli agenti presso la Porta di Damasco agli attacchi sfrontati e quotidiani presso il complesso di Al-Aqsa durante il fine settimana.

Impossibile nascondere alla vista queste immagini: donne picchiate da agenti di polizia armati di manganelli, anziani spinti e feriti dalle forze di sicurezza, soldati armati fino ai denti che fanno irruzione nella moschea e sparano gas lacrimogeni, attaccano tutto ciò che si muove e arrestano centinaia di persone. Come potrebbe lo stesso movimento che fa l’elemosina ai poveri di Gerusalemme e organizza campi estivi gratuiti per bambini nella moschea fornire il suo sostegno a un governo che un giorno dà ordine di irrompere nella moschea con il pugno di ferro e il giorno dopo di fornire protezione a decine di coloni e attivisti di estrema destra saliti a pregare sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif?

Nel frattempo i social media sono pieni di video satirici su Abbas che vende Al-Aqsa ai coloni. Per molti Abbas e Ra’am avranno le mani sporche del sangue di ogni palestinese che morirà a Gerusalemme.

La critica interna al movimento islamico, che ha proclamato Al-Aqsa una “linea rossa” che Israele non può oltrepassare, non ha fatto che crescere nell’ultimo mese, mettendo Ra’am in un angolo. Non può più rimanere in silenzio quando il presidente della Lista Unita Ayman Odeh, un socialista laico dichiarato, si piazza sui gradini della Porta di Damasco per difendere la santità di Gerusalemme, il presidente di Balad [partito israeliano che si oppone all’idea di uno Stato unicamente ebraico e sostiene la natura bi-nazionale di Israele, ndtr.] Sami Abu Shehadeh corre di studio in studio per spiegare le conseguenze dell’occupazione sui palestinesi, e come tutti questi vari episodi di violenza siano il risultato di questa occupazione, e il presidente di Ta’al [“Movimento arabo per il rinnovamento”, uno dei componenti della Lista Unita, ndtr.] Ahmad Tibi in diretta dal Russian Compound [quartiere di Gerusalemme in cui sorge la Cattedrale russo-ortodossa della Santissima Trinità, ndtr.] annuncia che starà al fianco dei detenuti palestinesi fino alla fine. Alla luce di tutto ciò, cosa restava da fare ad Abbas e al suo partito?

False promesse e sogni irrealizzabili

D’altra parte è chiaro che Abbas non vuole essere l’unico responsabile della caduta del primo governo israeliano che ha accolto cittadini palestinesi nelle sue fila, e non è certo interessato a essere accusato — sia dagli ebrei israeliani che dai palestinesi — del ritorno al potere di Netanyahu.

È proprio per questo che congelare l’adesione del suo partito è il trucco funambolico di cui andava alla ricerca: è un’esibizione di protesta contro un governo che sostiene, priva di qualsiasi minaccia reale di farlo cadere.

Non è ancora chiaro quanto questo patetico tentativo di protesta sia stato coordinato con il primo ministro Naftali Bennett – che ha consentito alla polizia di scatenarsi ad Al-Aqsa – e con colui che dovrebbe succedergli [in base ad un accordo tra i partiti della coalizione di governo, ndtr.], Yair Lapid.

Dal canto loro Bennett e Lapid sanno che devono aiutare il loro partner assediato, almeno fino a dopo il Ramadan. È probabile che nei prossimi giorni vedremo una serie di gesti umanitari rivolti ai palestinesi – in particolare in vista dell’Eid al-Fitr, che segna la fine della ricorrenza – che consentirà loro non solo di pregare a Gerusalemme, ma anche di bagnarsi i piedi nel Mediterraneo. La presenza della polizia nella Città Vecchia probabilmente diminuirà in modo significativo e le ultime preghiere del mese potrebbero trascorrere senza nuove aggressioni verso i palestinesi.

Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti: questo governo non cadrà a causa dei suoi parlamentari arabi. L’esperienza recente ci insegna che i membri del partito di Bennett rappresentano la più grande minaccia all’esistenza della coalizione. Non sarà Ra’am a rovesciarlo, non perché sia soddisfatta del governo, ma perché il futuro del partito dipende da ciò che l’elettore arabo avrà deciso, alla fine, in merito alla bontà della decisione di entrare nel governo Bennett-Lapid. La scommessa fatta da Abbas deve dare i suoi frutti il ​​prima possibile, finché è ancora al governo, altrimenti il ​​suo partito non avrà diritto di esistere.

Sarà accusato, ancora una volta, di aver smantellato la Lista Unita [di cui faceva parte prima delle ultime elezioni, ndtr.] in nome di false promesse e sogni irrealizzabili. Sarà un suicidio politico e la prova determinante che il nuovo e pragmatico corso del movimento islamico è destinato a fallire, e che Mansour Abbas non è ancora pronto ad ammetterlo.

Samah Salaime è un’attivista e giornalista femminista palestinese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Finora nel 2022 Israele ha ucciso 5 volte i palestinesi uccisi nello stesso periodo del 2021

Redazione di MEMO

20 aprile 2022 – Middle East Monitor

In una dichiarazione rilasciata venerdì, l’Euro-Med Human Rights Monitor [ong palestinese con sede in Svizzera, ndtr.] ha affermato che nei giorni scorsi, dopo aver ricevuto luce verde dai politici, le forze di occupazione israeliane hanno intensificato l’uso della forza contro i palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme Est occupate.

L’Euro-Med Human Rights Monitor ha affermato che la sua equipe aveva documentato l’uccisione di 18 palestinesi nella prima metà di aprile, molti dei quali sono stati uccisi in seguito alla dichiarazione del primo ministro israeliano Naftali Bennet rilasciata l’8 aprile in cui ha dato indicazione all’esercito israeliano di combattere una implacabile guerra a ciò che ha descritto come “terrorismo”.

L’Euro-Med Human Rights Monitor ha affermato che “questa mattina [15 aprile] la violenza delle forze di sicurezza israeliane si è estesa alla moschea di Al-Aqsa, in quanto numerose forze di polizia hanno assaltato il piazzale della moschea e attaccato i fedeli all’interno, ferendo più di 150 palestinesi e arrestandone altri 400”.

Nella dichiarazione si afferma che la decisione delle forze di sicurezza israeliane di irrompere nella moschea di Al-Aqsa e l’attacco ingiustificato ai fedeli riflette la temerarietà dei governanti israeliani e un apparente desiderio di inasprire le tensioni.

L’Euro-Med Human Rights Monitor ha aggiunto che “questo può avere gravi ripercussioni sulla stabilità a Gerusalemme e ovunque nei territori palestinesi. E’ quello che è accaduto a maggio dello scorso anno”.

L’Euro-Med Human Rights Monitor ha documentato l’uccisione dall’inizio del 2022 in vari incidenti di 47 palestinesi, inclusi otto bambini e due donne, da parte delle forze di sicurezza israeliane, constatando che il numero è cinque volte superiore a quello degli uccisi nello stesso periodo dello scorso anno, quando il numero era stato di dieci.

L’Euro-Med Human Rights Monitor ha spiegato che l’autorizzazione dei politici israeliani alle forze di sicurezza per operare con “piena libertà per annientare il terrorismo” sembra aver spianato la strada a pretesti infondati per uccidere e vessare civili palestinesi presso i punti di controllo militari e nelle città, villaggi e paesi della Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

L’Euro-Med Human Rights Monitor considera i politici israeliani pienamente responsabili per l’uccisione dei palestinesi, specialmente “donne e bambini disarmati uccisi a sangue freddo e che non stavano rappresentando alcun rischio per le vite dei soldati israeliani”.

Nella dichiarazione l’Euro-Med Human Rights Monitor mette in relazione l’incremento delle uccisioni di palestinesi con le istruzioni impartite alle forze di occupazione il 20 dicembre 2021, che hanno dato il permesso ai soldati nella Cisgiordania occupata di aprire il fuoco su giovani palestinesi che lanciano le pietre e bottiglie molotov.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




“Ogni minuto ad Al-Aqsa veniva ferito un altro palestinese “

Amira Hass

31 maggio 2021 Haaretz

La polizia ha sparato due volte al fotografo Abdel-Afo Bassam in quel violento venerdì sul Monte del Tempio. Questa rubrica sceglie di raccontare ciò che è ordinario, che non fa sensazione, che si ripete.

Il dipartimento del ministero della Giustizia che indaga sulle accuse di cattiva condotta della polizia non indagherà sugli spari contro Abdel-Afo Bassam e sul suo ferimento: anche se è successo nel cuore del complesso della moschea di Al-Aqsa; anche se era chiaro che il giovane gerosolimitano stava fotografando; anche se la polizia gli ha sparato due volte; anche se era uno dei cinque fotografi palestinesi a cui la polizia ha sparato nel luogo sacro quel giorno, venerdì 7 maggio. Quel giorno un’altra decina di fotografi sono stati attaccati da agenti di polizia in altri luoghi di Gerusalemme.

Questa rubrica vuole raccontare ciò che è ordinario, che non fa sensazione, che si ripete, ciò che è stato dimenticato nella foga degli eventi più drammatici. E in Israele niente fa meno notizia che sparare a un palestinese che sta fotografando.

Bassam, 28 anni, fotografo freelance che vive nel quartiere palestinese di Beit Hanina a Gerusalemme Est, quel venerdì è arrivato nella piazza di Al-Aqsa verso le 18. “L’atmosfera era tranquilla e piacevole, le famiglie arrivavano da ogni parte. Dal nord, da Gerusalemme e dalla Cisgiordania», mi ha detto due giorni dopo. La guerra scoppiata il giorno successivo ha interrotto il mio progetto originale di scrivere sui fotografi presi di mira e feriti.

“Ho fatto delle foto all’ora di pranzo”, ha detto Bassam. “In seguito mi sono avvicinato a Bab al-Silsila [Porta delle catene, una delle porte di quello che gli ebrei chiamano il Monte del Tempio e i musulmani chiamano Al-Haram al-Sharif]. Ho visto che c’era molta tensione e la gente si era radunata per vedere cosa stava succedendo. Ma la gente continuava a offrirsi reciprocamente cibo. Verso le 20 ho sentito la prima granata stordente esplodere nella piazza. La polizia si è radunata a Bab al-Silsila, come se avesse intenzione di fare irruzione. Penso che i giovani abbiano lanciato loro bottiglie di plastica vuote, forse pomodori, per cercare di impedire l’irruzione. Non credo che si siano lanciate pietre”, ha raccontato Bassam.

Se la polizia individua poche persone che stanno commettendo crimini, non ti aspetti che attacchi l’intera piazza piena di decine di migliaia di persone, comprese donne e bambini, giusto? Ma hanno attaccato. La chiamata alla preghiera è iniziata circa mezz’ora dopo la prima granata stordente. E anche prima, e fino alla preghiera notturna, i membri del Waqf [fondazione religiosa islamica] hanno gridato dagli altoparlanti, hanno pregato la polizia di non fare irruzione e hanno chiesto alle persone di mostrare moderazione.

Mi hanno sorpreso le granate stordenti che la polizia ha lanciato sulla piazza e il gran numero di militari che hanno fatto irruzione. In modo aggressivo, sparando alle persone con proiettili di metallo dalla punta di gomma – proprio così, in tutte le direzioni. Ho fotografato il primo ferito: indossava una maglietta rossa, era steso a terra. Pochi secondi dopo sono stato colpito al braccio destro. Guarda, c’è ancora il segno sul braccio, tondo come il proiettile. Sono caduto e dei giovani mi hanno portato in clinica.

Eravamo solo in due, il ragazzo con la maglia rossa e io. E poi, nel giro di meno di 10 minuti, nella clinica non c’era più posto. All’interno c’erano almeno 20 feriti. Alcuni avevano ferite alla testa. Ricordo di aver visto un ragazzo, tre o quattro vecchi e una donna che venivano curati. Ero ancora un po’ stordito. I medici hanno messo del ghiaccio nel punto in cui sono stato colpito. Ho preferito andarmene, per far posto a chi aveva ferite peggiori delle mie. Sono rimasto fuori e non potevo credere che stesse accadendo ciò che stava accadendo. Ogni centimetro era pericoloso.

Gli scontri continuavano, ho cercato un posto un po’ sicuro. Ma la sparatoria proseguiva, non c’era minuto senza che una o più persone fossero ferite. I medici lavoravano senza sosta. Ho fotografato persone in fuga verso la Cupola della Roccia (che di solito è destinata a donne e bambini). C’erano altri quattro o cinque fotografi accanto a me e ho visto la polizia che ci puntava i fucili.

Il soldato che mi ha sparato era a circa 50 metri da me. Ero con la mia macchina fotografica, di fronte a lui, in qualche modo ho girato la testa nel momento in cui ha premuto il grilletto e sono stato colpito sotto la scapola destra, alla schiena. Questa volta era uno sparo intenzionale, non casuale”. Poiché il dolore non diminuiva, Bassam è stato visitato e ha scoperto di avere una costola rotta.

Se non mi fossi voltato, mi avrebbe colpito in un punto più vulnerabile. Ho sentito dalle squadre della Mezzaluna Rossa [la Croce Rossa araba, ndtr.] che tre persone hanno perso gli occhi nella sparatoria di quel giorno. Il gran numero di feriti (205) non è un caso.

Sono caduto di nuovo e mi hanno riportato in clinica. Il dolore era peggiore della prima volta e la clinica era più affollata di prima. Ci sono voluti circa 10 minuti prima che i medici avessero tempo per me. Di nuovo mi hanno messo del ghiaccio sulla ferita e sono andati a prendersi cura degli altri: molti erano stati feriti da schegge di granate stordenti e sanguinavano.

Ho visto un ragazzo colpito al petto da un proiettile che sanguinava dalla bocca. Non potevo andarmene, perché continuavano a sparare. Questa volta sono rimasto per circa mezz’ora. Sono uscito e non ho potuto fare foto. Sono stato sorpreso a vedere che la piazza era vuota, solo agenti di polizia ovunque che correvano come pazzi, e tutti i cancelli di uscita dalla piazza erano chiusi, quindi i restanti fedeli non potevano andarsene. La polizia ha chiuso le porte della moschea orientale [la principale] con le catene.

Sono entrato nella Cupola della Roccia, come altri uomini che c’erano entrati per trovare riparo. La gente bloccava le porte in modo che la polizia non facesse irruzione. Ma la polizia ha lanciato granate stordenti alle porte e un poliziotto ha gridato chiedendo a tutti di uscire. Ero vicino alla porta, ho sentito un membro del servizio d’ordine del Waqf dire a un poliziotto: “Dammi cinque minuti e usciranno tutti”. Il poliziotto ha detto: “Un minuto”. Questo ha davvero spaventato la gente, le donne hanno iniziato a gridare, altri sedevano e leggevano il Corano e piangevano. Sono rimasto lì tutta la notte, sveglio, ho recitato la preghiera dell’alba e sono tornato a casa, stanco morto”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Intervista a Khaled Meshaal: l’alto dirigente sostiene che ora è Hamas a guidare la lotta palestinese

David Hearst

25 maggio 2021 – MIDDLE EAST EYE

Parlando a MEE Meshaal chiede a tutti i palestinesi di unirsi in una “rivolta totale” contro l’occupazione israeliana

Hamas è ora alla guida del popolo palestinese perché il ruolo principale di una leadership durante l’occupazione è condurre i palestinesi verso la libertà e la liberazione, ha detto a Middle East Eye Khaled Meshaal, capo dell’organizzazione nella diaspora.

Nella prima intervista in inglese del gruppo militante dal momento del cessate il fuoco con Israele di venerdì scorso, Meshaal invita ad una rivolta totale in “tutte le località” del territorio storico della Palestina: Gerusalemme e la Città Vecchia, la Cisgiordania e l’interno dello stesso Israele.

L’anziano dirigente, alla guida dell’ufficio politico di Hamas fino al 2017, afferma inoltre che il movimento sarebbe pronto a discutere con gli Stati Uniti.

Dice che è strano che l’amministrazione del presidente Joe Biden continui a parlare con i talebani, che hanno combattuto attivamente le truppe statunitensi in Afghanistan per quasi due decenni, e si rifiuti di parlare con Hamas, che non è impegnata a combattere gli Stati Uniti ma dal 1997 è ritenuta da Washington un’organizzazione terroristica.

In un messaggio diretto a Biden Meshaal ha aggiunto: Non vi consideriamo nostri nemici, anche se ci opponiamo a molte delle vostre politiche di parte a favore di Israele e contro i nostri interessi arabi e islamici. Ma non vi combattiamo. Quindi siamo pronti a comunicare con qualsiasi partito senza condizioni.”

Ma avverte che Hamas non sarebbe disposta a cambiare la sua posizione su Israele. “Non importa quanto tempo ci vorrà, questo è il mio messaggio a Biden, agli Stati Uniti e a tutti gli Stati occidentali che continuano a inserire Hamas nelle liste del terrorismo. Dico loro: non importa quanto tempo ci vorrà, Hamas non soccomberà alle vostre condizioni “

Meshaal sostiene che i Paesi arabi che hanno normalizzato le relazioni con Israele non solo hanno pugnalato alle spalle i palestinesi, ma hanno anche danneggiato i loro interessi rischiando di provocare una rivolta popolare.

“Ciò che sperano di ottenere da Israele è un’illusione e una fantasia”, avverte Meshaal. “Anche se non si vergognano, hanno prospettive molto limitate perché l’opinione pubblica sarà contro di loro”.

Hamas ha verificato un aumento del sostegno popolare in Palestina in seguito della sua decisione di lanciare razzi contro Israele in risposta alle aggressioni israeliane alla moschea di al-Aqsa e ai residenti di Sheikh Jarrah.

Tale sostegno viene da aree al di fuori del suo controllo tradizionale dove i suoi membri sono stati sottoposti a ripetuti arresti, ma dalla Cisgiordania e tra i cittadini palestinesi di Israele.

Alla domanda se ritenga che Mahmoud Abbas possegga ancora una qualche autorevolezza come presidente palestinese dopo l’ultimo round di combattimenti, Meshaal ha risposto: Non escludiamo nessuno e non disconosciamo il ruolo di nessuno.

Tuttavia, indubbiamente tutti hanno notato che le credenziali di Hamas e il suo status nella leadership palestinese si sono rafforzati poichè ha guidato la lotta nelle ultime fasi e specialmente in quella attuale”.

Per la prima volta in molti anni le bandiere di Hamas sono state viste sventolare accanto a quelle di Fatah in manifestazioni e proteste a Nablus, e venerdì un imam che si era rifiutato di menzionare Gaza nel suo sermone settimanale ad al-Aqsa è stato costretto a lasciare la moschea a causa della rabbia dei fedeli.

A Gerusalemme e a Umm al Fahm, nel nord di Israele, i manifestanti hanno gridato il nome di Mohamed ad-Deif, il capo dell’ala militare di Hamas, le Brigate al-Qassam, che Israele ha cercato di uccidere durante il recente conflitto.

Meshaal afferma che la funzione primaria della leadership in queste condizioni sia la lotta e la resistenza, e la guida dei palestinesi verso la libertà e la liberazione.

Le elezioni non sono l’unica opzione

Solo poche settimane prima che scoppiassero i combattimenti, Hamas era propenso a contestare le elezioni insieme a Fatah e ad altre fazioni palestinesi prima che le stesse fossero rinviate da Abbas.

Meshaal sostiene che Hamas ha fiducia in se stesso e che sia comunque pronto a presentarsi al ballottaggio, ma che le elezioni non rappresentino l’unica opzione.

Hamas non ha paura di proporsi alla sua gente tramite le urne. Forse altri hanno paura”, ha detto, con un’evidente stoccata ad Abbas.

Ma ha proseguito: Eppure, ancora una volta, le elezioni sono l’unica opzione? È l’unico strumento del sistema di riconciliazione ed in grado di rimettere ordine in casa palestinese? No.”

Meshaal afferma che i palestinesi sono un unico popolo con un’unica causa e invita ad una “rivolta totale in tutti i luoghi”.

A Gerusalemme, dove incombe la minaccia su al-Aqsa, su Sheikh Jarrah, sulla Città Vecchia e su tutta Gerusalemme; in Cisgiordania, dove sono presenti l’occupazione, gli insediamenti coloniali, la scissione dei legami e la confisca di terre; e nella Palestina del 1948, dove vige la discriminazione razziale, i tentativi di espellere e bandire il nostro popolo coll’uso di norme giuridiche; anche la resistenza di Gaza; fino alla diaspora. Tutti sono partecipi della responsabilità della liberazione”.

Mentre Meshaal parlava, i coloni israeliani, sostenuti dalla polizia, prendevano ancora una volta d’assalto al Aqsa.

Alla domanda su cosa abbia indotto Hamas a lanciare nuovamente razzi, Meshaal ha affermato che il cessate il fuoco non era condizionato solo alla cessazione degli attacchi israeliani a Gaza, ma alla fine delle incursioni delle forze di sicurezza israeliane ad al-Aqsa e alla fine dello sfollamento degli abitanti palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah e di Gerusalemme Est.

La battaglia è scoppiata per questi motivi. A tali condizioni cesserà iI lancio da Gaza dei razzi della resistenza”, ha detto.

Tuttavia ha proseguito affermando come ogni area sotto occupazione possa scegliere la propria forma di resistenza.

“Non esiste una formula che vada bene per tutti e nello stesso momento.”

Israele “sta pagando un prezzo”

Meshaal sostiene che l’ultimo conflitto abbia evidenziato il ruolo dei palestinesi che vivono all’interno dei confini della Palestina del 1948.

“Hanno inviato il messaggio che siamo del tutto parte di questo popolo e che vengono in aiuto di al-Aqsa, del quartiere di Sheikh Jarrah e di Gaza proprio come fa ogni altro palestinese che viene in aiuto dell’altro fratello”, dice.

Aggiunge che Israele stia anche pagando il prezzo delle politiche razziste e delle violazioni dei diritti dei suoi cittadini palestinesi, tanto da mettere a nudo la “fragilità” del suo Stato.

È diventato evidente a tutte le comunità palestinesi, arabe e islamiche e alle persone libere di tutto il mondo che Israele sta contando i suoi giorni e che questa occupazione, gli insediamenti, il colonialismo, non hanno futuro nella regione”.

MEE ha chiesto a Meshaal di spiegare in che modo Hamas sia passato da una posizione di contestazione delle elezioni, anche mentre centinaia dei suoi membri venivano arrestati in Cisgiordania, al lancio dei razzi.

In quel momento c’era un acceso dibattito all’interno di Hamas sull’opportunità di contestare le elezioni, dal momento che non sarebbe stato in grado di agire liberamente come partito politico. Alla fine le elezioni sono state rinviate, molti credono annullate, da Abbas che ha usato come scusa il rifiuto di Israele di consentire ai gerosolimitani di votare.

Meshaal ha confermato che c’è stato un “dibattito interno” sull’opportunità di candidarsi alle elezioni in Cisgiordania. Ma ha insistito sul fatto che il principio riguardante la sua candidatura alle elezioni non fosse in discussione.

Spiegando il passaggio dalle urne ai razzi, Meshaal dice che la decisione di annullare le elezioni abbia creato “rabbia e frustrazione” e un senso di stupore: “Perché questo passo?”

Poi sono arrivate le violenze ad al-Aqsa contro fedeli e manifestanti e la minaccia di sfollamento degli abitanti dalle loro case a Sheikh Jarrah.

Accusa Israele di aver iniziato l’aggressione. Afferma che Hamas aveva avvertito Israele, in modo che Israele non fosse sorpreso dal lancio di razzi.

“Quando hanno assalito la moschea di al-Aqsa alla fine del Ramadan la resistenza è stata costretta a rispondere … e la battaglia è iniziata”, prosegue Meshaal.

Sostiene che non c’è contraddizione tra impegnarsi nella battaglia politica attraverso elezioni e alleanze sostenendo la causa e mobilitandosi in suo favore nei forum internazionali, e impegnarsi in combattimenti. Le due battaglie sono collegate fra loro“.

Alla domanda su chi abbia preso la decisione di lanciare i razzi, Meshaal risponde che il movimento ha un’unica leadership, ma ogni singola parte prende le sue decisioni personali.

“Quando la dirigenza di al-Qassam prende una decisione su come portare avanti la lotta decide in conformità con la strategia e l’orientamento comune del movimento. Lo stesso vale per coloro che lavorano nel campo della mobilitazione di massa o delle relazioni politiche. Queste sono decisioni complesse prese di volta in volta durante i percorsi di lavoro. Derivano dalla risoluzione stabilita a livello centrale dalla leadership del movimento”.

Reciprocità di interessi” con l’Egitto

Meshaal riserva parole gentili per l’Egitto, nonostante il presidente Abdel Fatteh el-Sisi abbia organizzato un colpo di stato militare contro il presidente eletto Mohamed Morsi sostenuto dai Fratelli Musulmani e abbia massacrato i suoi sostenitori a Rabaa, oltre ad aver rafforzato l’assedio di Gaza distruggendo i tunnel di Hamas e la parte egiziana del valico di confine di Rafah.

Meshaal dice che il ruolo dell’Egitto negli affari palestinesi è fondamentale, anche se ci sono stati disaccordi.

La reciprocità degli interessi richiede che entrambe le parti lavorino insieme e possano prevedere dei ruoli sui quali concordare e collaborare nonostante le differenti opinioni, come lei ha detto, sulla questione della Fratellanza o altro”.

“Noi di Hamas, sebbene siamo una parte essenziale della Fratellanza, costituiamo un movimento di resistenza e non interferiamo negli affari degli altri, trattando con i Paesi islamici, e con gli altri, in base alla nostra causa e ai relativi interessi, senza interferenze reciproche negli affari di ognuno.

“Pertanto, accogliamo con favore il ruolo egiziano così come accogliamo con favore i ruoli di tutti gli Stati arabi e islamici o di qualsiasi Paese del mondo fintanto che sia inteso a servire il nostro popolo fermando l’aggressione contro di esso e assecondando la sua determinazione”.

Il leader anziano di Hamas ha affermato che gli stati arabi hanno la responsabilità di elaborare una nuova strategia per recuperare la Palestina, Gerusalemme e al-Aqsa e porre fine all’occupazione.

Credo che tutti abbiano capito l’inutilità dei negoziati, l’inutilità del processo di pace e degli accordi di pace con Israele e l’inutilità della normalizzazione. Coloro che avevano visto Israele come parte naturale della regione si sono sbagliati. Alcuni pensavano di poter trarre vantaggio da Israele nel confronto con i loro diversi nemici.

“Tutti sono ormai certi che Israele costituisca il vero nemico della regione e che Israele sia un’entità fragile e che possiamo sconfiggerlo invece di lamentarci delle sue politiche”.

Sostiene che l’Egitto sia scontento delle politiche israeliane nei confronti della Diga del Rinascimento in Etiopia, che il Cairo vede come una minaccia alla sicurezza nazionale. Di certo l’Egitto è scontento delle notizie sui presunti piani israeliani di scavare un canale navigabile alternativo al Canale di Suez.

“Pertanto, invece di sentirci impotenti riguardo alle violazioni e ai piani di Israele, questa è un’opportunità … la resistenza in Palestina e questa grande rivolta del nostro popolo sta dicendo agli arabi, ‘Gente, siamo una sola Ummah [termine arabo che designa la comunità dei fedeli dell’Islam, ndtr.], abbiamo gli stessi interessi, quindi partiamo da questo risultato.’

“Combattiamo un’unica battaglia, non solo per salvare e rivendicare la Palestina, ma anche per proteggere l’intera Ummah”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele e Hamas dichiarano il cessate il fuoco dopo 11 giorni di conflitto 

20 maggio 2021 Al Monitor

Il Gabinetto di Sicurezza di Israele ha approvato all’unanimità una proposta egiziana di cessate il fuoco nell’undicesimo giorno di conflitto con i militanti palestinesi nella Striscia di Gaza, che ha causato più di 200 morti.

Giovedì il Gabinetto di Sicurezza di Israele ha approvato all’unanimità una proposta egiziana di cessate il fuoco, nell’undicesimo giorno di conflitto con i militanti palestinesi nella Striscia di Gaza, che ha causato più di 200 morti.

I rapporti dei media israeliani hanno informato che il cessate il fuoco inizierà venerdì alle 2 del mattino (ora locale), circa quattro ore dopo l’annuncio.

Hamas, il movimento islamista palestinese che dall’inizio delle ostilità il 10 maggio ha lanciato migliaia di razzi contro Israele, ha confermato il cessate il fuoco.

Mercoledì il vice capo politico di Hamas Mousa Abu Marzouk ha sottolineato che il cessate il fuoco sarà un’interruzione dei lanci, non una tregua. I colpi da entrambe le parti probabilmente continueranno fino a quando non inizierà il cessate il fuoco.

I dirigenti israeliani hanno smentito voci secondo cui avrebbero concordato ulteriori condizioni al di là dello stop alle operazioni militari, suggerendo che le ragioni sottostanti al conflitto – le denunce palestinesi di espropriazioni di fronte al mancato raggiungimento di una soluzione a due Stati o altra equa soluzione – continueranno.

I dirigenti di Hamas hanno richiesto che le forze di sicurezza di Israele si astengano dall’entrare nel complesso della moschea di Al- Aqsa e interrompano i tentativi da parte dei coloni israeliani di sfrattare attraverso pratiche legali sei famiglie palestinesi dal quartiere di Gerusalemme Sheikh Jarrah.

La settimana scorsa Israele ha respinto una precedente offerta accompagnata da simili richieste, optando per il proseguo dei bombardamenti mirati contro i comandanti di Hamas e della Jihad a Gaza.

Le bombe israeliane hanno ucciso almeno 230 persone a Gaza, tra cui moltissime donne e bambini. In seguito al lancio di 4.000 razzi all’interno di Israele sono morti dodici israeliani. La gran parte di essi comunque sono stati intercettati dal sistema di difesa antimissile israeliana Iron Dome.

L’annuncio è giunto poche ore dopo che il Presidente USA Joe Biden ha telefonato al Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Dirigenti egiziani hanno condotto la mediazione tra Hamas e Israele. Anche diplomatici del Qatar e della Giordania, come anche funzionari delle Nazioni Unite, sono stati coinvolti nel compito di fare pressione per porre fine al conflitto.

Secondo una lettera del Congresso ottenuta da Al-Monitor, all’inizio di giovedì deputati USA ancora una volta hanno premuto su Biden perché chiedesse un immediato cessate il fuoco.

I rappresentanti democratici Hank Johnson della Georgia e Pramila Jayapal di Washington e leader democratici progressisti, compresa Alexandra Ocasio Cortez di New York, hanno chiesto a Biden di fare pressioni più intense sul governo Netanyahu ed hanno avvertito che non facendolo avrebbe potuto danneggiare ulteriormente la credibilità USA a livello internazionale.

Questa settimana si sono sollevate ulteriori proteste, in larghissima parte di democratici, sia nel Congresso che in Senato, dopo che è stato reso noto che l’amministrazione Biden ha programmato di concedere alla Boeing la licenza per rifornire Israele di armi teleguidate simili a quelle che sarebbero state usate nel conflitto.

La portavoce del Congresso Nancy Pelosi, democratica della California, all’inizio di questa settimana ha chiesto un immediato cessate il fuoco, quando si sono intensificate le critiche su una percepita riluttanza da parte della Casa Bianca a fare pressioni sul governo Netanyahu per un alleggerimento della sua devastante campagna.

Biden mercoledì ha detto a Netanyahu che si aspettava per quella sera una “significativa de-escalation” nel conflitto.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Stavolta è diverso

Ahmed Abu Artema

14 maggio 2021 The Electronic Intifada

Mentre scrivo l’edificio dove vivo qui a Gaza trema incessantemente. Sopra di noi gli aerei da combattimento israeliani F-16 ci attaccano con una bordata apparentemente incessante di bombe.

Mentre scrivo gli eventi si succedono rapidi, quindi sicuramente quando l’articolo verrà pubblicato è probabile che ci saranno stati molti cambiamenti, ma voglio tentare di evidenziare le caratteristiche generali dell’attuale fase di escalation in Palestina.

L’escalation è iniziata a Gerusalemme durante il mese di Ramadan, con una serie di provocazioni messe in atto dalle autorità di occupazione israeliane.

La prima della serie, alla fine di aprile, è stata la decisione di impedire ai palestinesi di radunarsi a Bab al-Amoud [Porta di Damasco, una delle entrate principali alla Città Vecchia, ndtr] in Gerusalemme. Questo ha dato origine a diverse proteste che alla fine hanno costretto Israele a ritirare l’ordine.

Un’altra provocazione – tuttora in corso – che ha attirato qualche attenzione internazionale, è costituita dalle ordinanze di espulsione in corso contro le famiglie palestinesi dalle loro case di Sheikh Jarrah [quartiere prevalentemente palestinese a Gerusalemme Est,ndtr] – una concessione dei tribunali ai coloni israeliani.

Una terza provocazione israeliana è stata l’irruzione nella moschea di al-Aqsa durante la preghiera di venerdì 7 maggio. Le forze israeliane hanno sparato gas lacrimogeni e pallottole metalliche ricoperte di gomma sui fedeli, causando oltre 200 feriti.

In una quarta provocazione i coloni hanno annunciato che avrebbero marciato a Gerusalemme il 10 maggio per celebrare quello che essi definiscono il Giorno di Gerusalemme [festa nazionale israeliana che commemora la riunificazione di Gerusalemme e l’istituzione del controllo israeliano sulla Città Vecchia all’indomani della guerra dei sei giorni nel 1967, ndtr]. L’intenzione era di sfilare vicino alla moschea di al-Aqsa.

Questa marcia è poi degenerata, la mattina del 10 maggio, in una quinta provocazione quando, per la seconda volta in una settimana, le forze israeliane hanno fatto irruzione ad al-Aqsa, attaccando i fedeli che pregavano all’interno e devastando il luogo sacro. Più di trecento palestinesi sono rimasti feriti.

Un’ondata di rabbia

Queste provocazioni si sono protratte per tutto il Ramadan e hanno provocato un’ondata di rabbia che ha investito i palestinesi in tutta la loro patria storica. Sono scoppiate proteste ad Haifa, Giaffa, Ramallah e Gaza.

A Gaza i manifestanti hanno chiesto alle Brigate Qassam, il braccio armato di Hamas, di intervenire. I palestinesi di Gaza hanno sostenuto con forza la necessità di una pronta risposta da parte delle fazioni della resistenza in ritorsione alle violazioni a Gerusalemme.

Ho letto sui social media qualcosa come centinaia di messaggi di attivisti che chiedevano ad Hamas perché la rappresaglia ci mettesse così tanto ad arrivare. Tassisti, negozianti, gente comune: tutti facevano la stessa domanda.

Alla fine è arrivato l’avvertimento da Qassam che i soldati israeliani avevano due ore per evacuare al-Aqsa, togliere l’assedio ai murabitoun – i fedeli che rimangono giorno e notte nel sito per proteggerlo con la loro presenza – e liberare tutti i prigionieri.

Allo scadere del termine fissato, non avendo ricevuto alcuna risposta da Israele, Qassam ha lanciato una raffica di razzi verso Gerusalemme.

L’esercito israeliano ha risposto bombardando la città di Beit Hanoun nel nord della Striscia di Gaza.

Nove persone, compresi tre bambini, sono stati uccisi mentre si preparavano ad interrompere il digiuno.

I combattenti per la libertà di Gaza hanno continuato con le ritorsioni ed Israele ha intensificato i bombardamenti colpendo abitazioni residenziali.

L’aviazione israeliana ha distrutto diverse torri residenziali che ospitavano anche dozzine di sedi di organi di stampa e imprese commerciali.

Israele ha inoltre attaccato stazioni di polizia e vari edifici governativi, tutti obiettivi civili.

Perché è diverso

L’attuale escalation si distingue per il fatto che il popolo palestinese chiedeva una risposta alle pratiche dell’occupazione israeliana. Poiché Hamas ha risposto, esso viene considerato eroico.

Non c’è critica o denuncia della decisione di agire da parte di Hamas, nonostante siano i cittadini a pagare il prezzo più alto dell’aggressione israeliana con la perdita dei propri cari e delle loro case.

Gaza mostra con chiarezza che i palestinesi credono fermamente nella resistenza come via verso la liberazione dall’occupazione.

Questa ondata di combattimenti è significativa anche perché è nata come risposta alle continue violazioni avvenute a Gerusalemme.

Tutti i precedenti casi di escalation da parte di Hamas erano stati provocati da aggressioni israeliane contro la Striscia di Gaza. Così. quando Gerusalemme ha chiesto aiuto a Gaza e questa si è sollevata in sua difesa, si è rafforzato un sentimento nascente di unità nazionale palestinese e si è liberata dall’isolamento la resistenza palestinese di Gaza.

Che si tratti di Gaza o di qualsiasi altro luogo in Palestina, i palestinesi lottano contro l’occupazione che li ferisce ovunque con aggressioni ed abusi.

Questa escalation si è caratterizzata anche per un aumento del livello di sfida all’interno dei movimenti di resistenza. La cancellazione della marcia per il Giorno di Gerusalemme ha rappresentato una delle prime vittorie.

Gli attacchi israeliani contro Gaza hanno sempre comportato sofferenze e tragedie. Tuttavia, stavolta l’escalation viene percepita come particolarmente significativa, come eroica.

In tutta la Palestina la gente aveva un disperato bisogno di qualcuno che la facesse sentire sostenuta e difesa. I palestinesi hanno bisogno di sentire che non sono soli a pagare il prezzo. E’ pertanto estremamente significativo che la resistenza sia esplosa in tutta la Palestina storica.

Israele si è impegnato a distruggere l’identità palestinese, specialmente in città, paesi e villaggi all’interno dei confini del 1948 che ha volutamente tenuto in stato di povertà – le zone cioè dove quell’anno veniva proclamato lo Stato di Israele durante la Nakba, la pulizia etnica della Palestina.

In quelle aree le proteste di massa, le stazioni di polizia incendiate, la sostituzione delle bandiere israeliane con quelle palestinesi, tutto sembra indicare un nuovo risveglio dello spirito palestinese.

I palestinesi sono ancora profondamente radicati nella propria terra, attaccati alla loro identità, il loro profondo senso di unità è più significativo di qualsiasi fattore che li possa tenere separati, e la loro capacità di sopravvivere agli orrori e ai crimini di Israele non finisce mai di sorprendere.

Israele possiede un potente arsenale missilistico e nel tentativo di recuperare la dignità perduta a fronte della resistenza palestinese, Israele continua a commettere crimini contro la popolazione civile di Gaza.

Tuttavia la potenza di Israele non gli garantisce legittimazione né stabilità. Il progetto sionista in Palestina è estraneo a questa terra, e tutti gli sforzi di neutralizzare o rimuovere la presenza palestinese sono falliti da più di settanta anni.

Il popolo palestinese potrà anche indebolirsi, ma non morirà. Ha la volontà di combattere fino alla fine e alla vittoria certa.

Ahmed Abu Artema è uno scrittore residente a Gaza, ricercatore presso il Centro di Studi di Politica e Sviluppo.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




I cittadini arabi di Gerusalemme dimostrano un coinvolgimento senza precedenti nelle proteste a Gerusalemme

Nir Hasson, Yanal Jbareen, Fatima Khamaisi

9 maggio 2021 – Haaretz

Tradizionalmente i cittadini arabi di Israele hanno evitato di unirsi alle lotte dei palestinesi. Tuttavia le recenti proteste di Gerusalemme segnano un radicale cambiamento.

Dei 200 palestinesi feriti nei violenti scontri di venerdì a Gerusalemme, due lo sono stati in modo relativamente grave. Data la partecipazione senza precedenti di cittadini arabo-israeliani agli ultimi incidenti, non è sorprendente che entrambi non siano abitanti di Gerusalemme Est, ma cittadini arabi di Israele.

Secondo Sireen Jbareen, 25 anni, un’esponente di spicco del movimento di protesta dei giovani cittadini arabi, dalla sola città araba di Umm al-Fahm più di 250 manifestanti hanno partecipato alle proteste di venerdì a Sheikh Jarrah. Inoltre le centinaia di dimostranti che venerdì sera si sono scontrate con la polizia nel complesso della moschea di Al-Aqsa erano arrivate da città arabe della parte centro-settentrionale di Israele.

Tuttavia il rapporto tra i palestinesi di Gerusalemme est e i cittadini arabi di Israele è complesso. Da una parte gli arabo-israeliani mediano tra gli abitanti di Gerusalemme est e le autorità israeliane, in quanto la maggioranza di loro ricopre posizioni di spicco nella parte orientale della capitale israeliana (avvocati, presidi di scuola e funzionari di agenzie governative). D’altra parte gli abitanti di Gerusalemme est nutrono risentimento nei confronti dei cittadini-arabo-israeliani benestanti, che, sostengono, hanno dimenticato i loro fratelli di Gerusalemme che soffrono soggetti all’occupazione israeliana.

Negli scorsi anni questo concetto è stato confermato, in quanto solo i palestinesi gerosolimitani hanno partecipato alla lotta di Gerusalemme est. Solo di rado le ondate di protesta a Gerusalemme est, soprattutto riguardo alla moschea di Al-Aqsa, hanno provocato manifestazioni anche altrove in Israele.

Tuttavia nessuno ricorda un coinvolgimento così massiccio di cittadini arabo-israeliani alle manifestazioni di Gerusalemme est. Durante gli ultimi 10 giorni di Ramadan decine di autobus di fedeli, alcuni dei quali hanno preso parte ai recenti scontri con la polizia, sono arrivati nella capitale dalle città e cittadine arabo-israeliane del nord e del centro. Per molti palestinesi, gerosolimitani e non, ciò segna un cambiamento radicale.

La vecchia generazione palestinese, che ha vissuto due intifada all’inizio degli anni ’90 e 2000, “dice che non ne è uscito niente per loro” e che “hanno ormai perso la speranza,” dice Jbareen. “Ora i giovani sentono di dover uscire (e protestare),” aggiunge. Yara, 21 anni, anche lei di Umm al-Fahm, afferma che “ciò che sta avvenendo a Gerusalemme non succede solo ai suoi abitanti,” sottolineando che gli arabi cittadini di Israele lottano affinché gli arabi in tutto Israele possano esercitare il proprio diritto di rimanere sulla loro terra. Gli abitanti di Umm al-Fahm hanno un ruolo centrale nelle proteste degli arabo-israeliani in generale. Tra i manifestanti palestinesi gerosolimitani i giovani di Umm al-Fahm hanno la reputazione di non aver paura della polizia.

Unirsi ai palestinesi di Gerusalemme è strettamente legato alla recente ondata di proteste a Umm al-Fahm contro l’indifferenza della polizia nei confronti della crescente violenza all’interno della comunità araba. Un paio di mesi fa tre organizzazioni di giovani impegnate nel sociale si sono unite per formare l’“United Fahmawi Movement” [Movimento Unitario Fahmawi] (Fahmawi è il soprannome di chi abita a Umma al-Fahm). I suoi dirigenti coordinano sia le proteste contro la polizia a nord che le proteste a Gerusalemme. Anche le reti sociali hanno giocato un ruolo fondamentale nel riunire i giovani sostenitori della lotta. Sabato molti giovani hanno cambiato l’immagine del proprio profilo sulle reti sociali in solidarietà con i feriti negli scontri nel complesso della moschea di Al-Aqsa usando l’hashtag Palestinian Lives Matter [Le vite dei palestinesi contano, in riferimento al movimento degli afroamericani contro le violenze della polizia negli USA, ndtr.].

Recentemente persino la comunità drusa di Israele, che in genere evita di unirsi alle proteste della comunità araba e sicuramente non si fa coinvolgere in quelle dei palestinesi di Gerusalemme, ha iniziato a postare video su social media utilizzando l’hashtag Save Sheikh Jarrah” [Salvare Sheikh Jarrah]. Finora, domenica [9 maggio], l’hashtag ha ricevuto più di 1.5 milioni di condivisioni su Twitter ed è comparso nel pannello di tendenza in Israele e in Cisgiordania.

“Venerdì, quando sono arrivato a Sheikh Jarrah, ho visto chiaramente la separazione razzista,” dice Shadi Nassar, 23 anni, dalla cittadina arabo-israeliana di Arabeh, nel nord. “Gerusalemme è il centro della questione palestinese, senza di essa non c’è liberazione del popolo palestinese, che vive sotto occupazione e un’ingiustizia storica.” Ha aggiunto che i giovani arabo-israeliani stanno andando a Gerusalemme “per esprimere solidarietà agli abitanti di Sheikh Jarrah la cui capitale sia Gerusalemme” così come nella lotta per la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme come capitale.

Lin Jbareen, 17 anni, di Umm al-Fahm, afferma che dopo che “ho visto l’ingiustizia e la sofferenza del (suo) popolo,” ha capito “che la resistenza in ogni sua forma è efficace e quindi sto cercando di fare del mio meglio per partecipare alle manifestazioni e alle iniziative sociali in modo che forse un giorno ci sarà una grande rivoluzione.”

Ibrahim, 18 anni, della città arabo-israeliana di Kafr Kana, sempre nel nord, vede le proteste come un obbligo religioso. “Gli abitanti musulmani di Gerusalemme stanno soffrendo discriminazioni in ogni aspetto della vita, come l’espulsione dal quartiere di Sheikh Jarrah,” dice. “Sono contro le discriminazioni in generale, soprattutto nei confronti dei deboli, e quindi è un mio obbligo religioso appoggiarli,” aggiunge. Yara, 22 anni, della città settentrionale di Baka al-Garbiyeh, sostiene che i cittadini arabo-israeliani giovani si stanno unendo alle ultime proteste “perché siamo un unico popolo, una Nazione, dalla Galilea al Negev, e continueremo ad andare (alle proteste)”, dice.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




A questa famiglia palestinese vivere vicino alla moschea di Al-Aqsa costa molto caro

Aseel Jundi da Gerusalemme est occupata

20 febbraio 2021 – Middle East Eye

Da anni la famiglia Bashiti vive un ciclo senza fine di soprusi israeliani perché rifiuta di abbandonare la propria casa in posizione strategica

Mohammed Bashiti guida con estrema cautela la sua auto in via al-Wad, nella Città Vecchia di Gerusalemme. Al cartello di Bab al-Majlis [quartiere del centro storico di Gerusalemme, ndtr.] gira a destra verso la sua casa e parcheggia la macchina.

Bashiti si avvia con moglie e figlia verso un commissariato della polizia israeliana situato a destra dell’entrata della porta di Al-Aqsa ed entra in casa, solo a un metro dalla moschea di Al-Aqsa [principale edificio religioso della Spianata delle Moschee, ndtr.].

Mohammed, Binar e Baylasan sono gli unici membri della famiglia a cui è consentita questa parziale libertà di movimento. Gli altri tre figli, Hisham, Hatim e Abdul-Rahman, passano la maggior parte del loro tempo nelle prigioni israeliane, in centri di interrogatorio o agli arresti domiciliari.

Per capire le ragioni che stanno dietro queste continue vessazioni israeliane contro la famiglia è sufficiente entrare in casa, con le finestre e il cortile che si affacciano su Al-Aqsa.

Ma, poiché la famiglia conserva la proprietà rifiutandosi di venderla, le autorità israeliane hanno cercato di fare pressione su di loro provocando una difficoltà dopo l’altra, al punto che essi affermano di passare tutti i loro giorni a cercare di spegnere incendi.

I ragazzi Bashiti

Il figlio maggiore di Mohammed, il ventenne Hisham, è in prigione dall’ottobre scorso accusato di aver lanciato molotov contro forze di occupazione nella cittadina di Isawiya, nei pressi di Gerusalemme.

Si sono tenute udienze nei tribunali israeliani, ma non si è ancora raggiunto un verdetto.

Nel contempo il diciassettenne Hatim è stato il più fortunato tra i fratelli, in quanto quest’anno è riuscito a tornare a scuola e a prepararsi per la maturità.

Tuttavia continue angherie, compresi arresti, pongono ancora una minaccia alla sua istruzione e potrebbero spegnere i sogni di sua madre di vedere i figli con le uniformi di diplomati.

Il terzo figlio, Abdul-Rahman, un ragazzo di 16 anni affetto da diabete da quando ne aveva 4, recentemente è stato obbligato a lasciare la sua casa a Gerusalemme in seguito ad accuse poco chiare e attualmente è agli arresti domiciliari nella cittadina di Shuafat, a nord di Gerusalemme.

I servizi segreti israeliani hanno chiesto che i genitori rimangano con lui giorno e notte. Se devono andare nella Città Vecchia, la nonna rimane con lui finché non tornano. Mohammed, 46 anni, parla con Middle East Eye nella piccola casa di Gerusalemme per la quale la sua famiglia sta pagando un prezzo così alto per rimanervi.

Egli afferma che la causa principale che sta dietro tutto questo calvario è la posizione strategica della casa, con vista sulla moschea, oltre al rifiuto della famiglia di prendere in considerazione offerte allettanti perché lascino la proprietà.

Mohammed afferma che la sua famiglia ha delle proprietà nel quartiere di al-Sharaf, che è stato sotto il controllo di Israele dall’occupazione di Gerusalemme est nel 1967.

Nel 2004 denunciò il ministero israeliano degli Affari Religiosi chiedendo la restituzione delle sue proprietà confiscate, una delle quali era stata trasformata in una sinagoga.

Mohammed sostiene che i lavori di ristrutturazione della sinagoga vennero bloccati da un ordine del tribunale perché, riguardo a questa specifica proprietà, essa è effettivamente registrata a nome della famiglia Bashiti, come dimostra il catasto israeliano.

Tuttavia, date le spese elevate della causa e l’enorme pressione che la famiglia ha dovuto affrontare in mancanza di un qualunque appoggio ufficiale da parte palestinese, i Bashiti non ebbero altra scelta che rinunciare a proseguirla.

In seguito alla causa in tribunale le autorità dell’occupazione israeliana accentuarono la pressione su Mohammed ed iniziarono a fare irruzione più spesso nella sua casa di Gerusalemme.

Quando Hisham compì i 13 anni l’esercito israeliano iniziò a vessarlo, come è in seguito avvenuto ad Hatim e Abdul-Rahman.

“I miei tre figli e la loro sorella Baylasan non hanno mai goduto di un’infanzia pacifica,” afferma Mohammed. “Al contrario, la loro infanzia è stata segnata da irruzioni, incursioni, arresti, botte, tortura, separazione e arresti domiciliari. Le autorità dell’occupazione israeliana intendono piegarli perché vanno regolarmente a pregare nella moschea di Al-Aqsa e hanno un buon rapporto con la popolazione della Città Vecchia, una cosa che all’occupazione non piace.”

Un sacco di debiti

Fra le altre ragioni dei maltrattamenti c’è il ruolo della famiglia nella rivolta di Gerusalemme est nell’estate 2017, quando le autorità israeliane installarono metal detector e porte elettriche agli ingressi di Al-Aqsa.

I ragazzi della famiglia Bashiti appoggiarono i manifestanti che tenevano sit-in alla porta di Al-Nather, fornendo loro coperte, cibo ed acqua. Sorvegliarono e ripulirono anche la zona prima del sit-in del giorno successivo.

Mohammed lavora come badante di un anziano, ma qualche mese fa ha anche preso il lavoro di Hisham come guardia giurata per garantirgli uno stipendio mentre è in prigione. I debiti del padre aumentano di giorno in giorno.

A ogni nuovo arresto o separazione, deve pagare multe, soldi per la cauzione e costi legali, oltre a un sacco di altre spese che lo hanno oberato.

Mohammed è preoccupato di come riuscirà a far fronte ai debiti che deve rispettare e sta continuamente cercando nuovi garanti ogni volta che ha bisogno di soldi.

Ormai da anni passa la maggior parte del suo tempo in tribunali e in centri di interrogatorio, in carcere e in banca per cercare prestiti che lo aiutino ad affrontare le spese per gli arresti dei suoi figli. “Ho un armadio pieno di documenti riguardanti gli arresti dei miei tre figli, in cui ci sono decisioni del tribunale, ordini di arresto, ispezioni domiciliari, ammende e onorari,” afferma. “Ma semmai ciò non fa che aggiungere ancora più determinazione e risolutezza a rimanere in questa casa attigua a uno dei luoghi più sacri al mondo.”

L’undicenne Baylasan è seduta vicino a suo padre Mohammed. Mentre gioca con uno dei suoi giocattoli prima che tornino a Shuafat per rispettare l’ordine di risiedere con Abdul-Rahman, ascolta con attenzione quello che lui dice.

Fin dalla prima infanzia Baylasan ha assistito alle persecuzioni israeliane contro la sua famiglia, compresa la detenzione di suo padre e i continui arresti dei suoi fratelli, che sembrano non finire mai.

“Solo da poco ho iniziato ad accettare l’invito alla preghiera del muezzin della moschea di Al-Aqsa, perché per anni ho collegato la sua voce al momento in cui l’esercito attacca la nostra casa e arresta uno dei miei fratelli,” dice Baylasan a MEE.

“Ogni volta che compro vestiti nuovi da mettermi per un picnic con la famiglia o per andare da qualche parte ciò non avviene. Ora mi compro vestiti nuovi per andare a visitare mio fratello Hisham in prigione, dato che è diventata l’unico posto in cui vado.”

Baylasan parla della sua esperienza con l’esercito e i servizi segreti l’hanno perquisita mentre lei ripeteva loro che era lì da sola e non c’era nessun altro da arrestare.

“I colpi alla porta erano terrificanti e ho dovuto aprire. All’inizio ho cercato di controllarmi, ma quando è entrata mia madre ho perso il controllo ed ho iniziato a piangere in modo isterico,” dice.

“Spero che potrò vivere una vita pacifica come una qualunque bambina ovunque nel mondo, perché gli attacchi e le perquisizioni alla nostra casa e gli arresti dei miei fratelli mi terrorizzano e turbano il mio percorso educativo.” 

Mentre suo marito parla, Binar, sua moglie, ascolta in modo composto, ma la sua voce si rompe mentre parla degli anni di vessazioni contro i suoi ragazzi, soprattutto quando menziona il figlio malato, Abdul-Rahman, che è stato arrestato 20 volte in un anno. La scena della sua ultima detenzione è ancora vivida nella sua mente.

Abdul-Rahmam è stato arrestato all’alba del 4 gennaio mentre lui, suo fratello Hatim e due loro amici stavano mangiando sul tetto della casa. Il reparto Yamam della polizia, un’unità antiterrorismo, ha fatto irruzione nella casa e Binar ha sentito le parole “state fermi lì”.

Allora è corsa fuori e ha trovato i quattro giovani a terra e ammanettati, e Abdul Rahman le ha chiesto di dargli dell’acqua e il kit per il diabete. Dopo l’arresto Abdul-Rahman è stato trasferito in ospedale.

In seguito i suoi genitori hanno saputo dal medico di turno che era arrivato dal centro di interrogatorio a Gerusalemme est in uno stato molto grave, che avrebbe potuto portarlo a perdere la vista, in coma o persino alla morte.

Il figlio è rimasto in isolamento per 20 giorni prima di essere rilasciato e messo agli arresti domiciliari, dove in qualunque momento potrebbe essere convocato per essere interrogato. Durante l’ultima detenzione Abdul-Rahman ha perso 10 kg.

Benché Binar sia estremamente preoccupata per il peggioramento delle condizioni di Abdul-Rahman, è ancora più preoccupata per il maggiore, Hisham, negli ultimi quattro mesi detenuto nel carcere di Majedo.

Hisham è stato arrestato a Isawiya dal Mustaribeen, un’unità d’élite israeliana in borghese che si finge palestinese. È stato duramente picchiato e di conseguenza è stato ricoverato in ospedale per tre giorni prima di essere spostato in una cella per gli interrogatori, dove è rimasto 45 giorni.

Quando è andata a visitarlo la prima volta, Hisham ha detto a sua madre: “Durante l’arresto non ho visto niente. Ho solo sentito aprirsi le portiere dell’auto dei Mustaribeen e armare le pistole, pronte a fare fuoco.

“Sono stato gravemente ferito e mi sono svegliato in ospedale.”

Binar dice che tutto quello che spera è avere una vita stabile con tutti i membri della sua famiglia sotto lo stesso tetto e che le autorità israeliane smettano di perseguitare i suoi figli ad ogni minimo segno di disordini, persino quando si dà il caso che in quei momenti siano lontani dalla Città Vecchia.”

Detenuti palestinesi

Anche Muhammad Mahmoud, l’avvocato che rappresenta i ragazzi Bashiti, pensa che la ragione che sta dietro al fatto che questa famiglia sia presa di mira sia la collocazione strategica della loro casa. Le autorità israeliane stanno cercando di spingere il padre alla disperazione con l’intento di obbligarlo ad accettare di abbandonare la sua casa, afferma.

“A un’udienza per il caso di Abdul-Rahman erano presenti un rappresentante del servizio segreto di Gerusalemme, il consigliere giuridico dello Shabak (Il servizio di sicurezza interna di Israele) e il rappresentante incaricato della stanza quattro del centro di interrogatori,” dice Mahmoud.

“Per me era una situazione stridente e ridicola: tutti quegli ufficiali di alto rango erano venuti di persona per un ragazzino a chiedere la prosecuzione della sua detenzione.” Durante la sua carriera l’avvocato ha notato che gli investigatori israeliani evitano di tenere giovani detenuti in isolamento, salvo nei casi che considerano estremi, come presunti tentativi di accoltellamento.

Secondo Mahmoud questo fatto rende la detenzione di Abdul-Rahman in isolamento per un periodo così lungo un mistero e una violazione sia delle leggi israeliane che del diritto internazionale.

Alcune organizzazioni palestinesi, tra cui il Palestinian Prisoners Club [Centro per i Detenuti Palestinesi], la Commission of Detainees’ Affairs [Commissione per le Questioni dei Detenuti], il Prisoner Support [Appoggio ai Detenuti], la Human Rights Association [Associazione per i Diritti Umani] e il Wadi Hilweh Information Center [Centro di Informazione di Wadi Hilweh], hanno pubblicato insieme un rapporto in cui affermano che nel 2020 le autorità dell’occupazione hanno arrestato 4.634 palestinesi, tra cui 543 minorenni e 128 donne.

Gli ordini di detenzione amministrativa [cioè senza capi di imputazione né sentenze di condanna, ndtr.] emessi nello stesso periodo hanno raggiunto il numero di 1.114.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il piano di Israele per eliminare l’influenza turca a Gerusalemme a favore degli Stati del Golfo

Adnan Abu Amer

28 dicembre 2020 – Middle East Monitor

Alla luce dell’attuale serie di accordi di normalizzazione tra gli Stati arabi e l’occupante, Israele sta cercando di attirare i Paesi del Golfo, soprattutto gli Emirati Arabi Uniti (EAU) e l’Arabia Saudita, con un possibile ruolo nel controllo dei luoghi santi della Gerusalemme occupata, competendo così con la Giordania e i palestinesi per prendersi carico di questo importante compito.

L’iniziativa di Israele in questo senso ha provocato tensioni politiche tra le parti coinvolte, nascondendo nel contempo il proprio vero piano, che consiste nel dare a questi Paesi un nuovo ruolo e un’opportunità per ostacolare la crescente influenza turca tra i gerosolimitani, una manovra che pone domande sul successo o il fallimento dell’iniziativa israeliana.

Sembra che il piano di normalizzazione tra gli Emirati Arabi Uniti e l’occupazione sia in corsa contro il tempo per determinare una nuova situazione sul terreno, dato che il ministro israeliano per le questioni di Gerusalemme, il rabbino Rafi Peretz, ha annunciato un progetto per attirare migliaia di turisti emiratini che visitino Gerusalemme. Come egli ha affermato, il piano ha come obiettivo migliorare lo status della città come “capitale di Israele”.

È risultato evidente che il progetto israeliano di attrarre turisti degli Emirati Arabi Uniti, e due milioni di turisti musulmani a Gerusalemme ogni anno, è in sintonia con quanto l’occupazione ha cercato di ottenere negli ultimi dieci anni. Fa parte di un tentativo di sottomettere Gerusalemme e la moschea di Al –Aqsa alla sua asserita sovranità e di evacuarla per impedire che gli abitanti di Gerusalemme sviluppino un settore turistico religioso nazionale e controllino la santa moschea e la sua spianata.

Il piano israeliano deriva dal testo dell’accordo tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele, dato che concede ai musulmani solo il diritto alla moschea di Al-Aqsa e nega loro il resto del Monte del Tempio nel suo complesso. Ciò è conseguenza di una condanna politica e religiosa palestinese che rifiuta di ricevere qualunque visitatore emiratino, arabo o persino musulmano perché preghi nella moschea di Al-Aqsa come parte dell’accordo summenzionato.

I gerosolimitani sono stati i primi ad annunciare il proprio rifiuto dell’accordo di normalizzazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, dato che esso stabilisce il diritto di tutte le religioni monoteiste eliminando l’esclusività per i musulmani. Ciò ha provocato l’indignazione dei palestinesi, che hanno espresso il proprio ripudio attaccando grandi manifesti in tutta Gerusalemme.

Il progetto israeliano mette in evidenza la gravità dell’accordo di normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti. L’idea di patrocinare viaggi degli Emirati per pregare nella moschea di Al-Aqsa è un semplice occultamento del piano di normalizzazione, nonostante il fatto che pregare a Gerusalemme non necessiti di accordi. È un diritto religioso e giuridico sacro, così come la moschea di Al-Aqsa è un diritto esclusivo dei musulmani secondo tutte le religioni e i documenti internazionali, in particolare il riconoscimento da parte dell’UNESCO della moschea di Al-Aqsa come proprietà esclusiva dei musulmani, senza alcun legame con gli ebrei. Tuttavia gli Emirati Arabi Uniti hanno scelto di concedere agli israeliani questo accordo, un diritto che non gli compete.

I gerosolimitani si preparano a ricevere come si meritano quanti verranno a Gerusalemme con il pretesto della normalizzazione. Nessun palestinese permetterà che gli emiratini e altri violino la santità della moschea di Al-Aqsa usando le preghiere in quel luogo per legittimare il loro accordo nullo con Israele. Di conseguenza il popolo di Gerusalemme non accoglierà queste visite per via delle preoccupazioni a Gerusalemme e in Palestina, in generale, per un numero probabilmente crescente di turisti musulmani, soprattutto da Bahrein e Arabia Saudita, che possono venire a pregare a Gerusalemme sotto le pressioni e lusinghe degli Emirati.

Il nuovo piano va di pari passo con l’accordo tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti di accogliere annualmente nello Stato occupante due milioni di turisti musulmani, la maggior parte dei quali visiterà la moschea di Al-Aqsa nel quadro della cosiddetta “pace religiosa”. Nonostante il fatto che nel 2018 98.000 turisti musulmani hanno visitato Gerusalemme e la moschea di Al-Aqsa, Israele ha cominciato ad organizzare l’arrivo di turisti degli Emirati e di altri Stati del Golfo per pregare nella moschea di Al-Aqsa.

I palestinesi credono che il piano israeliano fallirà, in quanto gli emiratini non arriveranno in gran numero, forse a causa dello scontro negli Emirati Arabi Uniti tra la posizione ufficiale e quella del popolo riguardo alla normalizzazione. I turisti degli EAU non saranno centinaia o migliaia. Così la gestione degli emiratini a Gerusalemme è stata preceduta da un piano saudita per mettersi in comunicazione con le personalità di Gerusalemme al fine di garantire un punto di appoggio in città, ma gli abitanti di Gerusalemme si sono rifiutati di recarsi nel Regno.

Insieme all’annuncio del piano israeliano per portare turisti emiratini a Gerusalemme, l’Ong israeliana “Gerusalemme Terrestre” ha rivelato che gli Emirati Arabi Uniti si sono accordati per la prima volta per cambiare lo status quo nella moschea di Al-Aqsa, permettendo agli ebrei di pregare lì e limitando l’accesso dei musulmani solo alla moschea e non a tutto il Monte del Tempio. Di conseguenza il piano israeliano conferma il recente accordo degli Emirati Arabi Uniti riguardo alla moschea di Al-Aqsa, cosa che suscita preoccupazioni e timori in merito alle dotazioni giordane e palestinesi. Ciò è dovuto al fatto che l’accordo intende offrire agli Emirati Arabi Uniti un nuovo ruolo nella moschea di Al-Aqsa, che mette apertamente in discussione la presenza giordana e palestinese come principali supervisori dei luoghi santi della città.

Forse la principale preoccupazione degli abitanti di Gerusalemme riguarda la storia negativa degli Emirati Arabi Uniti, soprattutto dopo che gli emiratini hanno cercato di vendere alle associazioni per la colonizzazione ebraica le case ed i beni immobili comprati ai palestinesi. Ciò fa sì che i palestinesi temano che il prossimo passo possa segnare l’inizio della costruzione della presunta sinagoga con i contributi degli Emirati Arabi Uniti, che hanno già costruito un tempio indù a Dubai ed hanno aperto una sinagoga ad Abu Dhabi.

Nel contempo Israele non ha avuto dubbi nell’adottare tutti i mezzi necessari per sradicare le attività turche a Gerusalemme, sostenendo che i giorni dell’Impero ottomano sono finiti e che la Turchia non ha nulla a che vedere con Gerusalemme e nel contempo che la dichiarazione del presidente turco Erdogan secondo cui Gerusalemme appartiene a tutti i musulmani è esagerata e senza fondamento. Tuttavia ciò che fa infuriare i palestinesi è la notizia dell’appoggio saudita-giordano al piano orchestrato dall’occupante.

Benché i progetti turchi a Gerusalemme siano di carattere assistenziale ed economico, in quanto Israele proibisce ogni attività politica in città, la presenza della Turchia sul posto ha irritato gli israeliani ed i Paesi arabi che cercano di aumentare la propria influenza su Gerusalemme. Tra loro figurano la Giordania e l’Arabia Saudita, dato che qualunque aumento dell’influenza turca in città può ridurre il loro potere e la loro tutela religiosa sui luoghi santi che vi si trovano, benché Gerusalemme sia una causa comune per tutti i musulmani, non solo per gli arabi [i turchi non sono arabi, ndtr.] o i palestinesi.

Il piano di occupazione è motivato dal fatto che l’influenza turca tra gli abitanti di Gerusalemme ha preoccupato per anni i funzionari della sicurezza e i politici israeliani, dato che in molti luoghi della città si possono vedere bandiere e ristoranti turchi. D’altra parte negli ultimi anni la Turchia è diventata la destinazione favorita di decine di migliaia di cittadini di Gerusalemme.

L’informazione sul piano israeliano contro le attività turche a Gerusalemme indica che esiste un consenso tra i diversi decisori politici israeliani riguardo alla convinzione che la presenza della Turchia minacci la sicurezza nazionale di Israele. Quindi lo Stato di occupazione può prendersi il rischio di alimentare le tensioni già esistenti tra Ankara e Tel Aviv su vari dossier spinosi.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




La normalizzazione di Israele potrebbe portare alla divisione della moschea di Al-Aqsa

Mersiha Gadzo

14 settembre 2020 – Al Jazeera

Secondo alcuni analisti una clausola degli accordi Emirati -Bahrain e Israele spalanca la porta alle preghiere degli ebrei nel luogo sacro.

Una frase inserita negli accordi di normalizzazione fra Emirati Arabi Uniti (EAU), Bahrain e Israele, mediati dagli Stati Uniti, potrebbe portare alla divisione del complesso di Al-Aqsa perché viola lo status quo, dicono alcuni analisti.

Secondo un’inchiesta di Terrestrial Jerusalem (TJ) un’organizzazione non governativa israeliana, le affermazioni segnano un “cambiamento radicale dello status quo” e hanno ” conseguenze di vasta portata e potenzialmente esplosive”.

Secondo lo status quo stabilito nel 1967, solo i musulmani possono pregare sull’al-Haram al-Sharif [il Nobile Santuario in arabo, cioè la Spianata delle Moschee, ndtr.], Monte del Tempio, secondo gli ebrei, noto anche come complesso della moschea Al-Aqsa, un’area di 14oo mq.

I non-musulmani possono visitare il sito, ma non pregare. Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, aveva confermato questo status quo in una dichiarazione formale nel 2015.

Tuttavia una clausola inclusa nei recenti accordi fra Israele e gli Stati del Golfo Arabo indica che potrebbe non essere più così.

Secondo la dichiarazione congiunta fra USA, Israele e EAU rilasciata il 13 agosto dal presidente americano Donald Trump: “Come sancito nella Visione di Pace, tutti i musulmani che vengono in pace possono visitare e pregare nella moschea di Al-Aqsa e gli altri siti sacri a Gerusalemme devono restare aperti ai fedeli pacifici di tutte le fedi.”

Ma Israele definisce Al-Aqsa come ‘struttura di una moschea’, come nella dichiarazione, chiarifica la relazione di TJ.

“Secondo Israele (e apparentemente gli Stati Uniti), tutto quello che c’è sul Monte che non sia la struttura della moschea, è definito come ‘uno degli altri siti sacri di Gerusalemme’, aperto a tutti, ebrei inclusi, per pregare,” dice la dichiarazione.

“Questa scelta di terminologia non è né casuale né un passo falso e non può essere vista se non come un tentativo intenzionale, seppure furtivo, di lasciare la porta spalancata alla preghiera ebraica al Monte del Tempio, cambiando così radicalmente lo status quo.”

La stessa dichiarazione è stata ripetuta nell’accordo con il Bahrain, annunciato venerdì.

Khaled Zabarqa, un avvocato palestinese specializzato nelle questioni relative ad Al-Aqsa e Gerusalemme, ha detto ad Al Jazeera che si “dice molto chiaramente che la moschea non è sotto la sovranità musulmana”.

“Quando gli EAU hanno accettato tale clausola, si sono detti d’accordo e hanno dato il via libera alla sovranità di Israele sulla moschea di Al-Aqsa,” ha detto Zabarqa.

“È una chiara e significativa violazione dello status quo legale internazionale della moschea di Al-Aqsa (concepito) nel 1967 dopo l’occupazione di Gerusalemme e secondo cui tutto ciò che si trova all’interno delle mura è sotto la custodia giordana.

Non è un errore innocente’

I palestinesi sono preoccupati da tempo per i possibili tentativi di partizione della sacra moschea, come è successo con la moschea di Ibrahimi [la Tomba dei Patriarchi per gli ebrei, ndtr.] a Hebron.

Nel corso degli anni si è sviluppato un Movimento del Tempio, costituito in gran parte da ” di ebrei religiosi nazionalisti di estrema destra” che cercano di cambiare lo status quo, riferisce TJ.

Alcuni chiedono la preghiera per gli ebrei all’interno del complesso sacro, mentre altri mirano a costruire il Terzo Tempio sulle rovine della Cupola della Roccia che, secondo le profezie messianiche, annuncerebbe la venuta del messia.

Nel corso degli anni, l’ONG israeliana Ir Amim ha pubblicato numerose relazioni di questo gruppo, un tempo marginale, ma che oggi fa parte di una tendenza politica e religiosa dominante e gode di stretti legami con le autorità israeliane.

Questi attivisti credono che permettere agli ebrei di pregare nel complesso e dividere il sito sacro fra musulmani ed ebrei sia un passo verso la sovranità, per raggiungere un giorno il loro scopo finale, la costruzione del tempio.

In anni recenti, un numero crescente di visitatori ebrei hanno cercato di pregare in violazione dello status quo.

Daniel Seidemann, un avvocato israeliano specializzato nella geopolitica di Gerusalemme, ha detto ad Al Jazeera di essere “profondamente preoccupato per quello che sta succedendo “.

“Quello che stiamo vedendo a Gerusalemme è l’ascesa delle fazioni religiose che usano la religione come un’arma. Siamo su una strada che ci porterà a una conflagrazione.

Noi sappiamo che queste clausole, ogni singola parola, sono state elaborate insieme da un gruppo congiunto USA/ Israele. Il passaggio dal termine Haram al-Sharif a quello di moschea di Al-Aqsa non è un errore,” secondo Seidemann.

‘Scritto con astuzia’

Una dichiarazione più sfacciata è stata inclusa nell’ “accordo del secolo”, il piano per il Medio Oriente svelato alla fine di gennaio da Trump e Netanyahu alla Casa Bianca.

Jared Kushner, importante consigliere e genero di Trump, è stato la persona di maggior spicco che ha lavorato alla proposta, mentre a Ron Dermer, ambasciatore israeliano negli USA, è stata attribuita la formulazione dell’accordo.  

Il piano stipula che “lo status quo del Monte del Tempio/Haram al-Sharif dovrebbe rimanere inalterato”, ma nella frase successiva si dice anche che: “persone di ogni fede possono pregare sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif.”

La clausola ha causato polemiche e ha spinto David Friedman, ambasciatore USA in Israele, a tornare sui suoi passi durante l’incontro con la stampa il 28 gennaio. “Non c’è nulla nel piano che imporrebbe modifiche dello status quo senza l’accordo fra tutte le parti,” ha detto.

Un alto funzionario americano, che conosce sia le parti in causa che i problemi, ha detto ad Al Jazeera che “non ha dubbi che il linguaggio nella dichiarazione Israele-EAU è stato scelto con malizia premeditata da parte di Israele, senza una chiara comprensione da parte degli Emirati e con la complicità di mediatori americani incompetenti.”

“La rapida ritrattazione di Friedman della frase contenuta nel piano di Trump attesta che probabilmente Dermer l’aveva inserita e che Kushner non l’aveva capita,” ha rivelato il funzionario in forma anonima.

“Il fatto che sia stato Friedman a ritrattare e non la Casa Bianca significa anche che il linguaggio del piano di Trump è ancora ufficiale e determinante quando si arriverà al dunque… Anche se gli idioti Kushner-Friedman hanno capito le conseguenze, è chiaro che se ne fregano.”

Eddie Vasquez, esperto consigliere e portavoce del Dipartimento di Stato americano, ha riferito in un’email ad Al Jazeera di una scheda informativa pubblicata dopo l’annuncio “dell’accordo del secolo” che dice che lo status quo non verrà modificato.

“Tutti i musulmani sono benvenuti a visitare in pace la moschea di Al-Aqsa,” dice uno dei punti. Ma non si chiarisce perché negli accordi con gli EAU e Bahrain sia stato usato il termine di moschea di Al-Aqsa e non Haram al-Sharif.

Sovranità israeliana su Al-Aqsa’

Gli accordi di normalizzazione arrivano dopo che, la scorsa settimana, le autorità israeliane hanno installato degli altoparlanti sui lati est e ovest del complesso di Al-Aqsa senza il permesso del Waqf, (istituzione islamica).

Il complesso sacro è amministrato dal Waqf islamico con sede in Giordania. Secondo lo status quo, Israele è responsabile solo della sicurezza fuori dai cancelli.

“La polizia israeliana dice che è per motivi di sicurezza, ma noi non riusciamo a vedere questi motivi,” dice Omar Kiswani, direttore del complesso di Al-Aqsa.

“Noi consideriamo questa azione un tentativo di imporre il controllo sulla moschea di Al-Aqsa e di indebolire il ruolo del Waqf nella moschea,” dice Kiswani.

Zabarqa afferma che la Giordania, custode del sito, “non ha alcun potere di trattare con le [autorità] di occupazione “.

“Credo che la Giordania debba cambiare e trovare nuovi alleati, come la Turchia. Dovrebbe usare le relazioni finanziarie e diplomatiche con Israele per far pressione, ma invece sembra così debole da mettersi al fianco degli americani,” aggiunge Zabarqa.

Nel suo rapporto TJ nota che nell’accordo non si parla del Waqf e del suo ruolo autonomo.

“Le rivendicazioni musulmane su Haram al-Sharif/Al-Aqsa sono state trasformate da quelle di proprietario a quelle di ‘ospite benvenuto’ con il diritto di visitare e pregare,” conclude.

Una bomba’

Zabarqa sostiene che la clausola è “rivoluzionaria nella narrazione israelo-americana ” e crede che gli ” EAU abbiano accettato di fare da apripista “.

Zabarqa rileva che nel 2014 gli EAU sono stati coinvolti nel trasferimento della proprietà di oltre 30 edifici a coloni israeliani illegali a Silwan, nella Gerusalemme est occupata.

“Questo ci mostra il ruolo evidente che gli Emirati giocano nel cambiare il termine di status quo con un altro che riconosca la sovranità israeliana su Al-Aqsa,” afferma Zabarqa.

Seidemann dice che martedì, quando gli emiratini e i rappresentanti del Bahrain prenderanno parte alla cerimonia tenuta da Trump alla Casa Bianca per firmare una “storica dichiarazione di pace” con Israele dovrebbero chiedere dei chiarimenti per assicurarsi che lo status quo resti immutato.

Ci sarebbe solo bisogno che Kushner e Netanyahu dicano: ‘Continuo a credere a quello che ho detto nel 2015.’ Nelle ultime due settimane gli è stato chiesto, ma non l’hanno ancora detto. Questa non è ingenuità,” commenta Seidemann.

“Questa è una bomba che le amministrazioni di Trump e Netanyahu lasciano alle successive, al prossimo governo israeliano. Stanno giocando con Haram al-Sharif/Al-Aqsa/ Monte del Tempio. Accenderà una miccia,” dice Seidemann.

“Forse è una miccia lunga, ci sarà un’esplosione, ma non è troppo tardi per evitare che scoppi.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)