Sotto le macerie, imprigionati, sepolti” – a Gaza scomparsi 20.000 minori

Redazione di Palestine Chronicle

25 giugno 2024 – The Palestine Chronicle

Molti di loro sono intrappolati sotto le macerie, imprigionati, sepolti in tombe anonime o separati dalle loro famiglie.

Secondo lorganizzazione non governativa internazionale Save the Children a Gaza oltre 20.000 minori palestinesi risultano dispersi a causa dell’incessante attacco israeliano contro la Striscia.

Molti di loro sono intrappolati sotto le macerie, imprigionati, sepolti in tombe anonime o separati dalle loro famiglie.

In una dichiarazione rilasciata lunedì lorganizzazione benefica con sede nel Regno Unito ha descritto le difficoltà nell’impegno di raccolta e verifica delle informazioni nell’attuale situazione di Gaza, dove continuano gli attacchi terrestri e aerei israeliani.

Lorganizzazione stima che vi siano almeno 17.000 minori non accompagnati e separati dalle loro famiglie, circa 4.000 probabilmente intrappolati sotto le macerie e un numero imprecisato di sepolti in fosse comuni.

“Altri sono stati fatti scomparire con la forza, compreso un numero indefinito di minori arrestati e trasferiti forzatamente fuori da Gaza e la loro ubicazione è sconosciuta alle loro famiglie con denunce di maltrattamenti e torture”, dichiara Save the Children.

Le famiglie sono torturate sulla mancanza di notizie rispetto all’ubicazione dei i loro cari. Nessun genitore dovrebbe essere costretto a scavare tra le macerie o nelle fosse comuni nel tentativo di trovare il corpo del proprio figlio”, afferma Jeremy Stoner, direttore regionale di Save the Children per il Medio Oriente.

Nessun bambino dovrebbe trovarsi solo, senza protezione in una zona di guerra. Nessun bambino dovrebbe essere detenuto o tenuto in ostaggio”, aggiunge.

Genocidio a Gaza

Dal 7 ottobre Israele sta conducendo una guerra devastante contro Gaza e oggi è sotto processo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia per genocidio nei confronti dei palestinesi.

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza nel genocidio israeliano in corso dal 7 ottobre 37.626 palestinesi sono stati uccisi e 86.098 feriti.

Inoltre in tutta la Striscia almeno 7.000 persone risultano disperse, presumibilmente morte sotto le macerie delle loro case.

Organizzazioni palestinesi e internazionali affermano che la maggior parte delle persone uccise e ferite sono donne e minori.

La guerra israeliana ha provocato una grave carestia, soprattutto nel nord di Gaza, con la morte di molti palestinesi, soprattutto minori.

Laggressione israeliana ha anche provocato lo sfollamento forzato di quasi due milioni di persone provenienti da tutta la Striscia di Gaza, costretti nella stragrande maggioranza a rifugiarsi nella sovraffollata città meridionale di Rafah, vicino al confine con lEgitto – in quello che è diventato il più grande esodo di massa dei palestinesi dalla Nakba del 1948.

Israele afferma che il 7 ottobre durante loperazione Al-Aqsa sono stati uccisi 1.200 soldati e civili. I media israeliani hanno pubblicato rapporti che rivelano come quel giorno molti israeliani siano stati uccisi dal fuoco amico”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Che Gaza bruci”: il diluvio di retorica genocida dei soldati israeliani

Younis Tirawi e Eran Maoz

13 giugno 2024 Zeteo

Dentro il genocidio-lampo di Israele, la seconda parte della nostra indagine su Zeteo

Il comandante militare israeliano Gur Rosenblat è esplicito: tutta Gaza, “non solo l’organizzazione di Hamas”, deve essere eliminata e i suoi 2 milioni di abitanti cacciati. La Striscia, scrive sui social, dovrebbe “cessare di esistere”.

Anche se Rosenblat, capo della Brigata di fanteria settentrionale israeliana e vicedirettore generale del Ministero dell’Istruzione del paese, chiarisce in un post su Facebook del 13 ottobre di non parlare in veste ufficiale, non tenta di mascherare i suoi appelli al genocidio. “Persone che sono bestie umane e i loro sostenitori devono pagare un prezzo altissimo, se non con la vita, almeno con l’espulsione”, scrive.

Solo tre giorni dopo un account Instagram con il nome utente @gvrrvznblt, che afferma di essere Rosenblat, ha pubblicato una foto con la didascalia: “Perché non uccidiamo dieci, ventimila gazawi al giorno bombardandoli per ogni giorno in cui i rapiti [gli ostaggi israeliani] non tornano? …follia”.

Nell’invocare una “vittoria decisiva” su Facebook il 20 novembre Rosenblat chiarisce che “soltanto la cancellazione completa e definitiva” di Gaza City, prima della guerra la città più popolosa dell’enclave palestinese, e il “trasferimento dei suoi abitanti nella parte meridionale della Striscia… può portare a qualche cambiamento”.

Una “specie di seconda o terza Nakba”, aggiunge. “Proprio come [il villaggio palestinese di] Sheikh Munis, sulle cui rovine fu fondata Tel Aviv [nel 1948], e molti altri insediamenti arabi furono cancellati, così anche la città di Gaza deve essere cancellata”.

Rosenblat non è solo. Dal 7 ottobre abbiamo trovato sui social media centinaia di post di personale militare israeliano, compresi i comandanti, pieni di odio, di retorica disumanizzante spesso genocida. I post contribuiscono ad accumulare una serie crescente di prove che certificano ciò che le associazioni per i diritti umani e altri hanno definito un modello sistematico di crimini di guerra commessi dalle forze israeliane nella Striscia di Gaza. Inoltre mettono a nudo il vero intento della guerra di Israele contro Gaza. Non è una “guerra difensiva” volta a garantire “il minimo danno ai civili”, come amano affermare Israele e i suoi alleati. Proprio le parole dei soldati suggeriscono che far danno ai civili con morte, distruzione e sfollamento sia, di fatto, l’obiettivo.

Nella prima parte della nostra indagine per Zeteo avevamo considerato le foto disumanizzanti che i soldati hanno condiviso da Gaza. Nella seconda parte documentiamo la retorica genocida che è diventata un tema davvero imperante tra i soldati israeliani, compresi quelli schierati a Gaza. Se non diversamente specificato, i soldati che hanno condiviso i post non hanno risposto alle nostre richieste di commento.

Un progetto per “ridurli in polvere”

L’8 ottobre, su una pagina Facebook, uno che afferma di essere il Colonello riservista Elad Schvartz aveva pubblicato un video con un messaggio per i leader israeliani. “Se entro quattro ore tutti gli ostaggi non verranno rilasciati…, inizieremo a bruciare Gaza”, dice l’ufficiale senior della 91a divisione, vestito con la sua uniforme militare. “Quartiere dopo quartiere.”

A circa 40 miglia di distanza soldati che sembrano appartenere al 5060° Battaglione di Riserva che opera nella città occupata di Hebron, in Cisgiordania, hanno lanciato il loro sentito appello a bruciare le città palestinesi nei territori occupati: “Che il vostro villaggio bruci, che il vostro villaggio bruci”, cantano diversi soldati in un video pubblicato su Instagram da un soldato israeliano.

Gli appelli che chiedevano la distruzione su vasta scala di un popolo e della sua terra non erano solo retorica. Come il mondo ha visto negli ultimi otto mesi sono serviti da piano per la distruzione, documentato non solo dai palestinesi di Gaza ma anche dagli stessi soldati israeliani sul terreno della Striscia che sembravano desiderosi di vantarsi con i loro follower di ciò che avevano pianificato di fare – e di quando lo hanno fatto.

Ciò è stato particolarmente vero per i combattimenti che hanno avuto luogo nel quartiere densamente popolato di Shuja’iyya, a Gaza City dove molti palestinesi avevano cercato rifugio all’inizio della guerra. Quando a dicembre l’esercito israeliano ha fatto irruzione nella zona i blackout nelle comunicazioni hanno reso difficile sapere esattamente cosa stava succedendo. Sarebbe divampata una battaglia feroce.

Almeno due account Instagram che affermavano essere di soldati della brigata Givati hanno condiviso quello che sembrava essere il filmato di un drone che mostrava gli edifici del quartiere in fiamme. Nel video si sente una voce non identificata, presumibilmente un soldato dire che stanno partendo per “l’operazione ottava notte di Hannukah” per bruciare Shuja’iyya. “La faremo vedere ai nostri nemici, che imparino la deterrenza… Li ridurremo in polvere,” aggiunge la voce.

Mohammed Abo Al-Kombz, originario di Shuja’iyya, ha detto a Zeteo che intere parti del quartiere e delle aree vicine sono state date alle fiamme, ciò che sembra essere coerente con quello che si vede nel video.

L’esercito israeliano non ha risposto alle nostre specifiche domande sul filmato o se avesse effettuato un’operazione come quella menzionata nel video. Ma il fatto che il video sia stato caricato sui social media dai soldati israeliani sembra illustrare il messaggio che volevano inviare: “annientare” i palestinesi “riducendoli in polvere”.

Il 19 dicembre il capitano Roi Azran ha pubblicato su Facebook un video di Shuja’iyya che mostrava la distruzione del quartiere. “Ecco Gaza, figlia di puttana. Tutta Shuja’iyya andrà in fiamme”, dice qualcuno nel video.

A gennaio un account Instagram con nome utente alon_dayann che dichiarava essere del soldato israeliano Alon Dayan ha pubblicato un video con un linguaggio simile. “Buongiorno, figli di puttana”, si sente dire un soldato nel video prima di sparare contro quelle che sembrano essere case di civili. La didascalia del video recita in ebraico: “Possa Gaza bruciare con tutti i suoi abitanti”.

Sharon Ohana dei Corpi Combattenti del Genio militare dell’esercito israeliano, in un post di dicembre su Facebook, sembra prefigurare ciò che verrà. Il “destino” di Shuja’iyya, Khan Younis e Rafah “deve essere lo stesso destino della Striscia settentrionale [di Gaza] all’inizio della guerra: sporco e polvere, fuoco e macerie di cemento”, scrive Ohana a dicembre. “… Dobbiamo radere al suolo tutta Gaza!”

Davvero il post di Ohana è solo un brutto scherzo? Ohana chiarisce esplicitamente che non lo è. “ ‘Insieme la spianeremo’ non è uno scherzo ma una dichiarazione inequivocabile scritta con il sangue dai migliori ufficiali dell’IDF attenti alla sicurezza e non per niente…”

Mentre la battaglia infuriava a Shuja’iyya altre unità israeliane stavano invadendo la città di Khan Younis nel sud di Gaza. Il soldato israeliano Peleg Harush ha pubblicato un video su Instagram il 5 dicembre che mostra volute di fumo provenienti da quelle che sembrano essere case di palestinesi. “Ah… Gaza sta bruciando. Bruciate vivi, bastardi”, dice in ebraico una voce nel video.

In un altro post di gennaio dallo stesso account, un soldato che sembra essere Harush invia un messaggio ai residenti di Gaza in ebraico: “Tutto è in rovina, distrutto, bruciato, a pezzi. Non avete nessun posto dove tornare, gazawi. A tutti i cari abitanti di Gaza, non siete cari. Non valete niente… Vi faremo passare un brutto quarto d’ora… Soffrirete ogni secondo per quello che ci avete fatto… Morirete.”

Una cultura dell’impunità

Per un paese che definisce il suo esercito come “il più morale… del mondo”, si potrebbe pensare che tali post avrebbero suscitato dure azioni disciplinari nel tentativo di proteggerne l’immagine generale. Ma come mostra la nostra indagine l’esercito israeliano, almeno pubblicamente, ha adottato poche misure per impedire ai suoi soldati di condividere tali contenuti.

Ciò che abbiamo riscontrato invece è stata una cultura dell’impunità.

Se non diversamente specificato l’esercito israeliano non ha risposto alle domande di Zeteo su soldati o post specifici. Ma un portavoce militare israeliano ha detto a Zeteo in una dichiarazione che “tutti i video, le immagini e i post sui social media” che gli abbiamo segnalato “non sono coerenti con i valori dell’IDF e non riflettono la sua politica”.

Nei “numerosi casi esaminati sembra che l’espressione o il comportamento dei soldati nei filmati siano inappropriati e che altrettanto impropriamente siano stati maneggiati”, ha detto il portavoce, sottolineando, tuttavia, che “l’atto documentato con la dichiarazione che lo accompagna è stato eseguito per scopi militari e in conformità con gli ordini” come nel caso della distruzione di “infrastrutture nemiche”.

“Le autorità competenti erano a conoscenza di molti degli incidenti elencati nella contestazione, ed erano stati esaminati e trattati a livello disciplinare e di comando prima della presentazione della contestazione”, ha detto il portavoce. L’esercito israeliano non ha spiegato cosa comportasse nello specifico l’azione disciplinare.

“I casi che non erano già noti sono stati subito trasferiti per un ulteriore esame e procedura”, ha aggiunto il portavoce. “Nei casi in cui sorga il sospetto di un reato che giustifichi l’apertura di un’indagine, l’indagine viene aperta dalla Polizia Militare.”

Il portavoce militare israeliano Daniel Hagari ha dichiarato ad ABC News all’inizio di quest’anno che l’esercito israeliano è “l’esercito del popolo. E rispettiamo l’essenza, i valori e il diritto internazionale”.

Molti dei post scoperti dalla nostra indagine rimangono online, nonostante le prove che contravvenissero alla politica militare relativa ai social media.

Nel caso di Harush che in un post ha detto: “Figli di puttana possiate bruciare vivi”, l’esercito israeliano ci ha detto a febbraio che il comportamento del soldato era inappropriato ed è stato gestito di conseguenza, senza fornire ulteriori dettagli. Eppure in un post di metà aprile Harush ha scritto “Gaza siamo tornati”, senza aver cancellato gli altri suoi post.

In molti modi i post riflettono in gran parte la società israeliana dopo il 7 ottobre. Una “febbre da genocidio” ha invaso le onde radio, l’industria dell’intrattenimento, i negozi di alimentari e i quartieri del paese, ha scritto a maggio Diana Buttu, collaboratrice di Zeteo. All’inizio dell’anno la stragrande maggioranza degli ebrei israeliani intervistati per un sondaggio ha affermato di ritenere che l’esercito stesse usando “una forza adeguata o troppo scarsa” a Gaza. Molti dei post sui social media trovati nell’ambito di questa indagine avevano ricevuto decine di commenti e like di sostegno.

Post per il genocidio nonostante l’ordine della Corte Interazionale di Giustizia

La decisione dell’esercito israeliano di consentire, anche indirettamente, l’esistenza di questi posti si è già rivelata decisiva. A gennaio la Corte mondiale ha ordinato al governo israeliano di adottare misure per prevenire e punire qualsiasi “incitamento diretto e pubblico al genocidio”, che è punibile ai sensi della Convenzione sul Genocidio. Il Sudafrica, che ha portato il caso contro Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, ha citato diversi post simili di soldati israeliani, incluso almeno uno di quelli da noi precedentemente riportati, come prova di incitamento al genocidio.

L’ordinanza specifica della Corte Internazionale relativa alla prevenzione dell’”incitamento al genocidio”, che faceva parte di un pacchetto di misure provvisorie emesse dalla Corte, era una delle due che ha ricevuto il sostegno dell’allora giudice israeliano Aharon Barak. Eppure, nonostante l’ordinanza della Corte, continuano ad emergere nuovi post dal linguaggio genocida.

Ad aprile un account Instagram che affermava essere di Yehuda Ben Moha, co-fondatore di Eyal Battalion, ha condiviso un video che mostrava quelli che secondo lui erano camion che trasportavano farina, con la didascalia: “Avrei messo del veleno per i ‘non coinvolti’. Anche i camionisti egiziani non li sopportano”. Ben Moha ha rifiutato di commentare il post e l’account è stato reso privato dopo che abbiamo chiesto un commento.

Il 17 aprile un account Facebook che affermava di essere del tenente colonnello Maoz Schwartz del battaglione 7007 ha pubblicato una foto che sembrava mostrare palestinesi sfollati con la forza che fanno il bagno in mare. “Sono su una spiaggia e i nostri ostaggi stanno deperendo in cattività?? Che possano [i gazawi] soffocare! Niente spiaggia, niente piscina, niente!” scrive. “[Tutta] Gaza è una grande area di terroristi, compresi quelli che nella foto fanno il bagno in mare”.

La narrazione militare cade a pezzi

I nostri sforzi investigativi non solo hanno messo in luce gli allarmanti comportamenti dei soldati israeliani, ma hanno anche avuto un ruolo nella causa legale intentata dal Sud Africa contro Israele presso la Corte Internazionale. Tuttavia, il nostro lavoro ha anche attirato la sgradita attenzione dei media israeliani, che hanno rivolto il loro fuoco non contro i soldati impegnati in comportamenti barbari ma contro di noi per averli denunciati.

Portare alla luce quei materiali non è stato facile. Il nostro lavoro non solo ha attirato l’attenzione internazionale sulla situazione reale, ha anche innescato importanti discussioni sulle responsabilità e la giustizia, evidenziando la necessità di un esame più approfondito e completo delle pratiche e delle politiche di fatto all’interno dell’esercito israeliano. Man mano che emergono prove sempre più evidenti, la necessità dell’assunzione di responsabilità diventa sempre più pressante.

In definitiva i post che abbiamo scoperto rivelano un netto contrasto con la narrazione attentamente curata che Israele cerca di diffondere. Nonostante l’esercito israeliano abbia ripetutamente affermato di prendere precauzioni per ridurre al minimo i danni ai civili, le testimonianze di soldati e ufficiali sul campo raccontano una storia decisamente diversa, caratterizzata da distruzione indiscriminata e da una pervasiva cultura dell’impunità che, a nostro avviso, ha fornito ai soldati essenzialmente una tacita approvazione a continuare con le loro azioni senza timore di conseguenze. Le prove raccolte finora sono solo una piccola parte di ciò che c’è.

Ma “l’incitamento al genocidio” è ormai evidente a tutto il mondo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 

 




Lettera aperta al mondo degli accademici e amministratori universitari di Gaza

Accademici e amministratori universitari di Gaza

29 maggio 2024Al Jazeera

Facciamo appello ai nostri sostenitori perché ci aiutino a resistere alla campagna di scuolicidio e a ricostruire le nostre università

Accademici e personale delle università palestinesi di Gaza ci siamo uniti per affermare la nostra esistenza, l’esistenza dei nostri colleghi e dei nostri studenti per insistere sul nostro futuro minacciato da tutti gli attuali tentativi di cancellarci.

Le forze di occupazione israeliana hanno demolito i nostri edifici, ma le nostre università continuano a vivere. Noi riaffermiamo la nostra determinazione collettiva a rimanere sulla nostra terra, per riprendere appena possibile a insegnare, studiare e far ricerca a Gaza nelle nostre università palestinesi.

Facciamo appello ai nostri amici e colleghi in tutto il mondo a resistere alla campagna di scuolicidio in corso nella Palestina occupata, a lavorare con noi per ricostruire le nostre università demolite e a respingere tutti i piani che cercano di bypassare, cancellare o indebolire l’integrità delle nostre istituzioni accademiche. Il futuro dei nostri giovani a Gaza dipende da noi e dalla nostra capacità di rimanere nella nostra terra per continuare a servire le prossime generazioni del nostro popolo.

Lanciamo questo appello sotto le bombe delle forze di occupazione nella Gaza occupata, dai campi profughi di Rafah e dai luoghi dei temporanei nuovi esili in Egitto e negli altri Paesi ospitanti. Lo stiamo divulgando mentre l’occupazione israeliana continua a condurre quotidianamente la sua campagna genocida contro il nostro popolo, tentando di eliminare ogni aspetto della nostra vita collettiva e individuale.

Le nostre famiglie, i nostri colleghi e studenti sono assassinati mentre noi siamo ancora una volta diventati dei senzatetto, rivivendo le esperienze dei nostri genitori e nonni durante i massacri e l’espulsione di massa da parte delle forze armate sioniste nel 1947 e 1948.

Le nostre infrastrutture civiche, università, scuole, ospedali, biblioteche, musei e centri culturali, costruiti nel corso di generazioni dal nostro popolo, sono in rovina a causa di questa premeditata e continua Nakba. Prendere deliberatamente di mira le nostre infrastrutture didattiche è un palese tentativo per rendere Gaza inabitabile ed erodere il tessuto intellettuale e culturale della nostra società. Tuttavia ci rifiutiamo di permettere che tali atti estinguano la fiamma della conoscenza e della resilienza che brucia dentro di noi.

Alleati dell’occupazione israeliana negli Stati Uniti e nel Regno Unito stanno aprendo di nuovo un altro fronte di scuolicidio promuovendo presunti piani di ricostruzione che cercano di eliminare la possibilità di una vita educativa palestinese indipendente a Gaza. Noi respingiamo tutti questi progetti e esortiamo i nostri colleghi a rifiutare qualunque complicità in essi. Noi sollecitiamo anche tutte le università e i colleghi in tutto il mondo a coordinare direttamente con le nostre università ogni sforzo umanitario.

Noi estendiamo il nostro sincero apprezzamento alle istituzioni nazionali e internazionali che ci hanno mostrato solidarietà, fornendo sostegno e assistenza durante questi tempi difficili. Tuttavia sottolineiamo l’importanza di coordinare questi sforzi per riaprire concretamente le università palestinesi a Gaza.

Noi sosteniamo l’urgente necessità di rimettere in piedi le istituzioni educative di Gaza non solamente aiutando gli studenti attuali, ma garantendo la resilienza e la sostenibilità del nostro sistema di educazione terziaria a lungo termine. L’educazione non è solo un mezzo per impartire conoscenza, è un pilastro vitale della nostra esistenza e un faro di speranza per il popolo palestinese.

Pertanto è essenziale formulare una strategia a lungo termine per rimettere in sesto le infrastrutture e ricostruire tutti i servizi universitari. Tuttavia tale impresa richiederà un tempo considerevole e consistenti finanziamenti, mettendo a rischio la capacità delle istituzioni accademiche di sostenere gli interventi e causando la possibile perdita di personale e di studenti e impedendo la riapertura.

Date le presenti circostanze è fondamentale passare rapidamente all’insegnamento online per limitare i disagi causati dalla distruzione delle infrastrutture. Questo passaggio necessita di un’assistenza completa per coprire i costi operativi, inclusi gli stipendi del personale accademico.

Dall’inizio del genocidio le rette degli studenti, la principale fonte di reddito per le università, sono crollate. La mancanza di entrate ha lasciato i dipendenti senza salari, costringendo molti di loro a cercare altrove opportunità di reddito.

Oltre a colpire la sussistenza del personale accademico e amministrativo, questo sforzo finanziario causato dalla deliberata campagna di scuolicidio pone una minaccia esistenziale al futuro delle università stesse.

Bisogna quindi prendere urgentemente delle misure per risolvere la presente crisi finanziaria delle istituzioni accademiche per garantire la loro stessa sopravvivenza. Facciamo appello a tutte le parti interessate a coordinare immediatamente i loro sforzi per sostenere questo importante obiettivo.

La ricostruzione delle istituzioni accademiche di Gaza non è solo una questione di istruzione, è una testimonianza della nostra resilienza, della determinazione e dell’incrollabile impegno per garantire un futuro alle prossime generazioni.

Il destino dell’istruzione terziaria a Gaza appartiene alle università di Gaza, alle loro facoltà, al loro personale, ai loro studenti e a tutto il popolo palestinese. Noi apprezziamo gli sforzi delle persone e dei cittadini di tutto il mondo che operano per porre fine a questo continuo genocidio.

Facciamo appello ai nostri colleghi in patria e a livello internazionale per sostenere i nostri costanti tentativi di difesa e conservazione delle nostre università per il bene del futuro del nostro popolo e della nostra possibilità di restare sulla nostra terra palestinese a Gaza. Abbiamo costruito queste università dalle tende [dei rifugiati del 1987-48]. E dalle tende, con l’aiuto dei nostri amici, le ricostruiremo ancora una volta.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

Firmatari:

Dr Kamalain Shaath, Vice Chairman of the Board of Trustees, Islamic University of Gaza (IUG)

Prof Omar Milad, President of Al Azhar University Gaza, Al Azhar University Gaza

Dr Mohamed Reyad Zughbur, Dean of the Faculty of Medicine, Al Azhar University Gaza

Dr Nasser Abu Alatta, Dean of Students Affairs, Al Aqsa University

Dr Akram Mohammed Radwan, Dean of Admission, Registration, and Student Affairs, University College of Applied Sciences – Gaza

Dr Atta Abu Hany, Dean of Faculty of Science, Al Azhar University Gaza

Prof Hamdi Shhadeh Zourb, Dean of the Faculty of Economics and Administrative Sciences, Islamic University of Gaza (IUG)

Dr Ahmed Abu Shaban, Dean of the Faculty of Agriculture and Veterinary Medicine, Al Azhar University Gaza

Dr Ahmed A Najim, Dean of Admission and Registration, Al Azhar University Gaza

Dr Noha A Nijim, Dean of Economics and Administrative Science Faculty, Al Azhar University Gaza

Prof Hatem Ali Al-Aidi, Dean of Planning and Quality, Islamic University of Gaza (IUG)

Dr Ihab A Naser Dean of Faculty of Applied Medical Sciences, Al Azhar University Gaza

Eng Amani Al-Mqadama, Head of the International Relations, Islamic University of Gaza (IUG)

Dr Mohammed R AlBaba, Dean of Faculty of Dentistry, Al Azhar University Gaza

Dr Rami Wishah , Dean of the Faculty of Law, Al Azhar University Gaza

Prof Basim Mohammad Ayesh, Head of MSc Programme Committee and Professor of Molecular Genetics, Al Aqsa University

Prof Hassan Asour, Dean of Scientific Research, Al Azhar University Gaza

Khaled Ismail Shahada Tabish, Head of Salaries Department, Islamic University of Gaza (IUG)

Prof Mazen Sabbah, Dean of Faculty of Sharia, Al Azhar University Gaza

Dr Ashraf J Shaqalaih, Head of Laboratory Medicine Dept, Al Azhar University Gaza

Dr Mahmoud El Ajouz, Head of Food Analysis Center and Lecturer at the Faculty of Agriculture, Al Azhar University Gaza

Dr Mazen AbuQamar, Head of Nursing Department, Al Azhar University Gaza

Eng Abed Elnaser Mustafa Abu Assi, Head of Engineering Office, Al Azhar University Gaza

Dr Ahmed Rezk Al-Wawi, Vice President of the Islamic University Workers’ Union, Islamic University of Gaza (IUG)

Shareef El Buhaisi, Head of Administration Office at the Faculty of Applied Medical Sciences, Al Azhar University Gaza

Dr Saeb Hussein Al-Owaini, Director of Employees, Islamic University of Gaza (IUG)

Dr Mai Ramadan, Director of the Drug and Toxicology Analysis Centre, Al Azhar University Gaza

Dr Mohammed S M Kuhail, Director of Libraries, Al Azhar University Gaza

Eng Emad Ahmed Ismail Al-Nounou, Director, Technical Department, Al Azhar University Gaza

Eng Ismail Abdul Rahman Abu Sukhaila, Director Engineering Office, Islamic University of Gaza (IUG)

Osama R Shawwa, Director of Administrative Office in the Department of Political Sciences, Al Azhar University Gaza

Adnan A S El-Ajrami, Director of Administrative Office at the Faculty of Medicine, Al Azhar University Gaza

Hashem Mahmoud Kassab, Director of Public Relations and Media Department, Al Azhar University Gaza

Mazen Hilles, Director of Administration of Diploma Programme, Al Azhar University Gaza

Adel Mansour Suleiman Al-Louh , Services Manager, Islamic University of Gaza (IUG)

Hammam Al-Nabahen, Director of IT Services, Islamic University of Gaza (IUG)

Maher Haron Ereif, Audit Department Assistant Director, Al Azhar University Gaza

Khalid Solayman Alsayed, Information Technology Administrator, Al Azhar University Gaza

Dr Amani H Abujarad, Assistant Professor of Applied Linguistics Department of English, Al Azhar University Gaza

Dr Ayman Shaheen, Assistant Professor in Political Sciences, Al Azhar University Gaza

Prof Alaa Mustafa Al-Halees, Faculty of Information Technology, Islamic University of Gaza (IUG)

Prof Basil Hamed, Faculty of Engineering, Islamic University of Gaza (IUG)

Dr Mohamed Elhindy, Assistant Professor in Veterinary Medicine, Al Azhar University Gaza

Prof Bassam Ahmed Abu Zaher, Faculty of Science, Islamic University of Gaza (IUG)

Prof Fakhr Abo Awad, Faculty of Science – Department of Chemistry, Islamic University of Gaza (IUG)

Prof Saher Al Waleed, Professor of Law, Al Azhar University Gaza

Prof Kamal Ahmed Ghneim, Faculty of Arts, Islamic University of Gaza (IUG)

Prof Khadir Tawfiq Khadir, Department of English Language – Faculty of Arts, Islamic University of Gaza (IUG)

Dr Marwan Saleem El-Agha, Assistant Professor of Business Administration, Al Azhar University Gaza

Dr Mona Jehad Wadi, Assistant Professor of microbiology, Al Azhar University Gaza

Dr Mohammed Faek Aziz, Deanship of Quality and Development, Islamic University of Gaza (IUG)

Dr Muhammed Abu Mattar, Associate Professor in Law, Al Azhar University Gaza

Prof Abdul Fattah Nazmi Hassan Abdel Rabbo, Faculty of Science, Islamic University of Gaza (IUG)

Dr Saher Al Waleed, Professor of Law, Al Azhar University Gaza

Dr Sari El Sahhar, Assistant Professor in Plant Protection, Al Azhar University Gaza

Dr Nidal Jamal Masoud Jarada, Law, University College of Applied Sciences – Gaza

Dr Sherin H Aldani, Assistant Professor in Social Sciences, Al Azhar University Gaza

Dr Wael Mousa, Assistant Professor in Food Technology, Al Azhar University Gaza

Prof Mohamed I H Migdad, Faculty of Economics and Administrative Sciences, Islamic University of Gaza (IUG)

Prof Alaa Mustafa Al-Halees, Faculty of Information Technology, Islamic University of Gaza (IUG)

Prof Usama Hashem Hamed Hegazy, Professor of Applied Mathematics, Al Azhar University Gaza

Prof Basil Hamed, Faculty of Engineering, Islamic University of Gaza (IUG)

Prof Tawfik Musa Allouh, Professor of Arabic Literature, Al Azhar University Gaza

Prof Bassam Ahmed Abu Zaher, Faculty of Science, Islamic University of Gaza (IUG)

Prof Zaki S Safi, Professor of Chemistry, Al Azhar University Gaza

Prof Fakhr Abo Awad, Faculty of Science – Department of Chemistry, Islamic University of Gaza (IUG)

Prof Kamal Ahmed Ghneim, Faculty of Arts, Islamic University of Gaza (IUG)

Prof Khadir Tawfiq Khadir, Department of English Language – Faculty of Arts, Islamic University of Gaza (IUG)

Prof Khaled Hussein Hamdan, Faculty of Fundamentals of Religion, Islamic University of Gaza (IUG)

Prof Ata Hasan Ismail Darwish, Professor of Science Education and Curriculum, Al Azhar University Gaza

Prof Hazem Falah Sakeek, Professor of Physics, Al Azhar University Gaza

Prof Mohammed Abdel Aati, Department of Electrical Engineering and Intelligent Systems, Islamic University of Gaza (IUG)

Prof Nader Jawad Al-Nimra, Faculty of Engineering, Islamic University of Gaza (IUG)

Prof Nasir Sobhy Abu Foul, Professor of Food Technology, Al Azhar University Gaza

Dr Rawand Sami Abu Nahla, Lecturer at Faculty of Dentistry, Al Azhar University Gaza

Prof Hussein M. H. Alhendawi, Professor of Organic Chemistry, Al Azhar University Gaza

Prof Ihab S. S. Zaqout, Professor in Computer Science, Al Azhar University Gaza

Dr Rushdy A S Wady, Faculty of Economics and Administrative Sciences, Islamic University of Gaza (IUG)

Dr Abed El-Raziq A Salama, Assistant Professor in Food Technology, Al Azhar University Gaza

Dr Ahmed Aabed, Admin Assistant in Administrative and Financial Affairs Office, Al Azhar University Gaza

Dr Ahmed Mesmeh, Faculty of Sharia and Law, Al Azhar University Gaza

Dr Emad Khalil Abu Alkhair Masoud, Associate professor of microbiology, Al Azhar University Gaza

Dr Alaa Issa Mohammed Saleh, Lecturer at the faculty of Dentistry, Al Azhar University Gaza

Dr Ali Al-Jariri, Continuing Education Department, Al Quds Open University

Dr Arwa Eid Ashour, Faculty of Science, Department of Mathematics, Islamic University of Gaza (IUG)

Dr Hala Zakaria Alagha, Assistant Professor in Clinical Pharmacy, Al Azhar University Gaza

Prof Marwan Khazinda, Professor of Mathematics, Al Azhar University Gaza

Prof Moamin Alhanjouri, Associate Professor in Statistics, Al Azhar University Gaza

Prof Sameer Mostafa Abumdallala, Professor of Economics, Al Azhar University Gaza

Dr Bilal Al-Dabbour, Faculty of Medicine, Islamic University of Gaza (IUG)

Dr Nabil Kamel Mohammed Dukhan, Faculty of Education – Department of Psychology, Islamic University of Gaza (IUG)

Dr Jamal Mohamed Alshareef, Assistant Professor, Linguistics Department of English, Al Azhar University Gaza

Dr Sadiq Ahmed Mohammed Abdel Aal, Faculty of Engineering, Islamic University of Gaza (IUG)

Dr Khaled Abushab, Associate Professor in Applied Medical Sciences, Al Azhar University Gaza

Dr Abed El-Raziq A Salama, Assistant Professor in Food Technology, Al Azhar University Gaza

Dr Emad Khalil Abu Alkhair Masoud, Associate Professor of Microbiology, Al Azhar University Gaza

Dr Hala Zakaria Alagha, Assistant Professor in Clinical Pharmacy, Al Azhar University Gaza

Dr Jamal Mohamed Alshareef, Assistant Professor, Linguistics Department of English, Al Azhar University Gaza

Dr Khaled Abushab, Associate Professor in Applied Medical Sciences, Al Azhar University Gaza

Dr Suheir Ammar, Faculty of Engineering, Islamic University of Gaza (IUG)

Dr Waseem Bahjat Mushtaha, Associate Professor in Dental Medicine, Al Azhar University Gaza

Prof Ali Abu Zaid, Professor of Statistics, Al Azhar University Gaza

Dr Zahir Mahmoud Khalil Nassar, Faculty of Science, Islamic University of Gaza (IUG)

Abdul Hamid Mustafa Said Mortaja, Faculty of Arts, Department of Arabic Language, Islamic University of Gaza (IUG)

Abdul Rahman Salman Nasr Al-Daya, Associate Professor at the Faculty of Sharia and Law, Islamic University of Gaza (IUG)

Ayman Salah Khalil Abumayla, Officer – Student Affairs Department, Al Azhar University Gaza

Abdullah Ahmed Al-Sawarqa, Library, Islamic University of Gaza (IUG)

Ashraf Ahmed Mohammed Abu Mughisib, Faculty of Science, Islamic University of Gaza (IUG)

Mohammed Abdul Fattah Abdel Rabbo, Deanship of Engineering and Information Systems, University College of Applied Sciences – Gaza

Basheer Ismail Hamed Hammo, Faculty of Fundamentals of Religion, Islamic University of Gaza (IUG)

Bssam Fadel Nssar, Faculty of Engineering, Islamic University of Gaza (IUG)

Eng Mohammed Awni Abushaban, Teaching Assistant IT Department, Al Azhar University Gaza

Etemad Mohammed Abdul Aziz Al-Attar, Faculty of Science, Islamic University of Gaza (IUG)

Fahd Ghassan Abdullah Al-Khatib, Engineering Office, Islamic University of Gaza (IUG)

Ibrahim K I Albozom, Administrative Officer Faculty of Arts, Al Azhar University Gaza

Abdullah Ahmed Anaqlah, Faculty of Information Technology, Islamic University of Gaza (IUG)

Ahmed Abdelrahman Abu Saloom, Radiologist at the College of Dentistry, Al Azhar University Gaza

Feryal Ali Mahmoud Farhat, Administrator, Islamic University of Gaza (IUG)

Fifi Al-Zard, Campus Services, Islamic University of Gaza (IUG)

Manar Y Abuamara, Secretary, Al Azhar University Gaza

Hani Rubhi Abdel Aal, Graduate Studies, Islamic University of Gaza (IUG)

Ahmed Abdul Raouf Al-Mabhouh, Faculty of Science, Islamic University of Gaza (IUG)

Ahmed Adnan Al-Qazzaz, Faculty of Information Technology, Islamic University of Gaza (IUG)

Sfadi Salim Abu Amra, Supporting Services Department, Al Azhar University Gaza

Hassan Ahmed Hassan Al-Nabih, Department of English Language – Faculty of Arts, Islamic University of Gaza (IUG)

Hassan Nasr, Information Technology, University College of Applied Sciences – Gaza

Hatem Barhoom, Islamic University of Gaza (IUG)

Tamer Musallam, Lecturer in Business Diploma Programme, Al Azhar University Gaza

Ahmed Adnan Mahmoud Mattar, Information Technology, Islamic University of Gaza (IUG)

Ahmed Jaber Mahmoud Al-Omsey, Islamic University of Gaza (IUG)

Ahmed Khalil Ibrahim Qadoura, Administrator, Islamic University of Gaza (IUG)

Hussein Al-Jadaily, Faculty of Nursing, Islamic University of Gaza (IUG)

Ibrahim Issa Ibrahim Seidem, Faculty of Fundamentals of Religion, Islamic University of Gaza (IUG)

Ezia Abu Zaida, Secretary, Al Azhar University Gaza

Khaled Mutlaq Issa, Faculty of Engineering, Islamic University of Gaza (IUG)

Khalil Mohammed Said Hassan Abu Kuweik, Faculty of Economics and Administrative Sciences, Islamic University of Gaza (IUG)

Ibraheem Almasharawi, Instructor at the Faculty of Agriculture and Veterinary Medicine, Al Azhar University Gaza

Maher Jaber Mahmoud Shaqlieh, Information Technology Affairs, Islamic University of Gaza (IUG)

Mahmoud Abdul Rahman Mousa Asraf, Department of English Language, Islamic University of Gaza (IUG)

Ahmed Mohammed Said Abu Safi, Islamic University of Gaza (IUG)

Ahmed Omar Ismail Al-Dahdouh, Faculty of Information Technology, University College of Applied Sciences – Gaza

Ahmed Salman Ali Abu Amra, Faculty of Sharia and Law, Islamic University of Gaza (IUG)

Ahmed Saqer, Faculty of Science, Department of Mathematics, Islamic University of Gaza (IUG)

Ahmed Younes Abu Labda, Personnel Affairs, Islamic University of Gaza (IUG)

Alaa Fathi Salim Abu Ajwa, Islamic University of Gaza (IUG)

Mahmoud Said Mohammed Al- Damouni, Central Library, Islamic University of Gaza (IUG)

Ghasasn Alswairki, Adminstration Officer at Faculty of Pharmacy, Al Azhar University Gaza

Mahmoud Shukri Sarhan, Faculty of Education, Islamic University of Gaza (IUG)

Mahmoud Youssef Mohammed Al- Shoubaki, Faculty of Fundamentals of Religion, Islamic University of Gaza (IUG)

Majdi Said Aqel, Faculty of Education, Islamic University of Gaza (IUG)

Muahmmed Abu Aouda, Security Department, Al Azhar University Gaza

Majed Hania, Faculty of Science, Islamic University of Gaza (IUG)

Majed Mohammed Ibrahim Al-Naami, Faculty of Literature, Islamic University of Gaza (IUG)

Mamoun Abdul Aziz Ahmed Salha, Information Technology, Islamic University of Gaza (IUG)

Emad Ali Ahmed Abdel Rabbo, Administrator, Islamic University of Gaza (IUG)

Imad Alwaheidi Lecturer in Livestock Production Al Azhar University Gaza

Manar Mustafa Al-Maghari, Medical Department, Islamic University of Gaza (IUG)

Mohammed Bassam Mohammed Al- Kurd, Campus Services, Islamic University of Gaza (IUG)

Marwa Rouhi Abu Jalaleh, Information Technology Department, Islamic University of Gaza (IUG)

Yousif Altaban, Security Department, Al Azhar University Gaza

Hala Muti Mahmoud Abu Naqeera, Student Affairs, Islamic University of Gaza (IUG)

Marwan Ismail Abdul Rahman Hamad, Faculty of Education, Islamic University of Gaza (IUG)

Mohammad Hussein Kraizem, Health Sciences, Islamic University of Gaza (IUG)

Mohammed AlAshi, Faculty of Economics and Administrative Sciences, Islamic University of Gaza (IUG)

Mohammed Hassan Al-Sar, Faculty of Engineering, Islamic University of Gaza (IUG)

Mohammed Ibrahim Khidr Al-Gomasy, Faculty of Education, Islamic University of Gaza (IUG)

Mohammed Juma Al-Ghoul, Faculty of Sharia and Law, Islamic University of Gaza (IUG)

Mohammed Khalil Ayesh, Information Technology, Islamic University of Gaza (IUG)

Faiz Ahmed Ali Hales, Computer Maintenance Department, Islamic University of Gaza (IUG)

Mohammed Taha Mohammed Abu Qadama, Administrator, Islamic University of Gaza (IUG)

Yousef Fahmy Krayem, Lab Technician at Faculty of Agriculture and Veterinary Medicine, Al Azhar University Gaza

Nabhan Salem Abu Jamous, Department of Supplies and Purchases, Head of Storage Section, Islamic University of Gaza (IUG)

Nihad Mohammed Sheikh Khalil, Faculty of Arts – Department of History, Islamic University of Gaza (IUG)

Tamer Nazeer Nassar Madi, Faculty of Information Technology, Islamic University of Gaza (IUG)

Rami Othman Mohammed Hassan Skik, Faculty of Information Technology, Islamic University of Gaza (IUG)

Salah Hassan Radwan, Information Technology, Islamic University of Gaza (IUG)

Salem Abushawarib, Faculty of Economics and Administrative Sciences, Islamic University of Gaza (IUG)

Salem Jameel Bakir Al-Sazaji, Faculty of Information Technology, Islamic University of Gaza (IUG)

Abed Alraouf S Almasharawi, Administrative Officer in the Library, Al Azhar University Gaza

Samah Al-Samoni, Public Relations, Islamic University of Gaza (IUG)

Wafa Farhan Ismail Ubaid, Faculty of Nursing, Islamic University of Gaza (IUG)

Tawfiq Sufian Tawfiq Harzallah, Admission and Registration Department, Islamic University of Gaza (IUG)

Walid Zuheir Aidi Abu Shaaban, Finance and Auditing Department, Islamic University of Gaza (IUG)

Yasser Zaidan Salem Al-Nahal, Faculty of Science, Islamic University of Gaza (IUG)

Youssef Sobhi Abdel Nabi Al-Rantissi, Computer Technician, Islamic University of Gaza (IUG)




Opinione | Perché il bilancio delle vittime di Gaza è probabilmente più alto di quanto riportato

Liat Kozma ,Wiessam Abu Ahmad

28 maggio 2024 Haaretz

Il numero delle vittime e l’incidenza delle malattie e dei decessi dovuti alla mancanza di condizioni sanitarie di base, cibo e assistenza medica richiedono un urgente dibattito pubblico in Israele.

Il numero delle vittime nella Striscia di Gaza negli ultimi sette mesi è spaventoso. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari oltre 34.000 persone sono state uccise e oltre 77.000 ferite e altre 11.000 intrappolate sotto le macerie delle loro case e considerate disperse.

Ma questa è solo una parte del quadro. Riteniamo che i numeri di morbilità e mortalità a Gaza siano in realtà più alti. La nostra conclusione si basa sul confronto con la situazione della sanità pubblica nei campi profughi immediatamente dopo la guerra del 1948 e sulla familiarità con i dati epidemiologici in generale. Riteniamo che il numero delle uccisioni e l’incidenza delle malattie e dei decessi dovuti alla mancanza di condizioni sanitarie di base, cibo e assistenza medica richiedano un urgente dibattito pubblico in Israele.

Una lettura dei documenti storici solleva diversi importanti paralleli, così come differenze, soprattutto a scapito della situazione attuale. Allora come oggi, centinaia di migliaia di persone hanno dovuto lasciare le proprie case senza alcuna possibilità di tornare.

Nel 1948, circa 700.000 rifugiati furono dispersi in Cisgiordania, Gaza e nei paesi arabi. In Cisgiordania una popolazione di 400.000 abitanti assorbì 300.000 rifugiati, mentre 80.000 persone a Gaza accolsero il triplo di rifugiati. Nella guerra attuale l’assedio di Gaza e la chiusura del confine con l’Egitto durante l’inverno hanno costretto circa 1,5 milioni di persone a rifugiarsi a Rafah, un’area con una popolazione normalmente pari a un decimo di quella cifra. L’affollamento è tale da presentare un grave rischio per la salute e la vita.

Nel 1948 e nel 1949 le organizzazioni umanitarie internazionali si sforzarono di prevenire ciò che era considerato un pericolo per la vita di tutte le persone nella regione, non solo dei rifugiati. Una tipologia di intervento è stata la prevenzione della carestia attraverso la fornitura di farina, olio, zucchero e frutta secca, oltre che latte per i bambini (finanziato dall’UNICEF). Questi prodotti, poveri di proteine ​​e vitamine, furono considerati adeguati per un breve periodo fino al raggiungimento di un accordo tra le parti cosa che, come sappiamo, non avvenne mai.

Ma, come notato dalla Croce Rossa Internazionale, già il 7 ottobre le consegne di cibo a Gaza erano state tagliate drasticamente e senza paragone rispetto ai precedenti scontri. La distruzione di quel poco di terreno agricolo esistente ha lasciato gli abitanti di Gaza senza alternative locali.

Ciò che all’inizio della guerra aveva portato all’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e alla povertà si è trasformato nei mesi successivi in ​​una vera e propria carestia, inizialmente nel nord di Gaza e ora per oltre 2 milioni di persone. Ci sono segnalazioni di famiglie che sopravvivono con mangime per bestiame, insetti e piante normalmente non commestibili: un’alimentazione insufficiente e inadatta al consumo umano. Non arrivano abbastanza camion di aiuti, quindi il bisogno di cibo e prodotti di base è lungi dall’essere soddisfatto. Il lancio di provviste è inefficiente, a volte addirittura mortale, e una parte degli aiuti finisce in mare.

Senza un sistema di monitoraggio e con la distruzione delle forze di polizia a Gaza bande di malviventi si appropriano dei pacchi di aiuti e li vendono ai bisognosi a caro prezzo. Quindi il cibo ancora non arriva alla popolazione affamata e il numero dei morti dovuti alla fame è in aumento.

Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari circa il 31% dei bambini sotto i 2 anni nel nord di Gaza e circa il 10% a Rafah soffrono di grave malnutrizione. Non si conosce ancora il numero dei morti per fame, ma è chiaro che molte persone stanno subendo danni irreversibili. Le persone che sopravvivono per mesi nutrendosi di erbacce e mangime per il bestiame non sopravviveranno a lungo.

Il secondo intervento nel 1948 fu dettato dalla consapevolezza che senza acqua pulita e condizioni igieniche adeguate le epidemie trasmesse dall’acqua e dagli insetti sarebbero state fatali per tutte le popolazioni della regione. Per questo motivo le organizzazioni umanitarie ritennero fondamentale fornire acqua potabile e vaccini, implementando al contempo quarantene durante le epidemie e spruzzando frequentemente insetticida. Quest’ultimo si è rivelato tossico nel lungo periodo, ma nel breve periodo salvò le concentrazioni di rifugiati da epidemie letali.

Tuttavia oggi l’acqua pulita è praticamente indisponibile per la maggior parte dei residenti di Gaza. Le organizzazioni umanitarie stimano che tutte le malattie trasmesse dall’acqua siano già diffuse a Gaza. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità il numero dei malati di malattie prevenibili potrebbe presto superare quello delle vittime degli attacchi militari. La mancanza di acqua pulita e di cure mediche può portare allo scoppio di malattie letali trasmesse dall’acqua, persino del colera.

La portavoce dell’OMS Margaret Harris ha detto al Guardian che già all’inizio di novembre la diarrea tra i bambini nei campi di Gaza era oltre 100 volte superiore al livello normale. Senza cure disponibili, ciò può portare alla disidratazione e persino alla morte; la diarrea grave è la seconda causa di morte più comune tra i bambini sotto i 5 anni in tutto il mondo. Sono in aumento anche le infezioni delle vie respiratorie superiori, la varicella e le malattie dolorose della pelle.

Inoltre le aree con un gran numero di cadaveri e parti del corpo insepolte costituiscono un ambiente ideale per i batteri e la diffusione di malattie attraverso l’aria, l’acqua, il cibo e gli animali. In condizioni di elevata densità di popolazione è praticamente impossibile attuare quarantene o spruzzare insetticidi e in mancanza di infrastrutture igienico-sanitarie adeguate è anche impossibile contrastare le malattie trasmesse dall’acqua.

Un terzo intervento nel 1948 fu la realizzazione di cliniche e ospedali. Le organizzazioni umanitarie ampliarono gli ospedali esistenti, ne costruirono di nuovi e aprirono ambulatori medici nei campi e nei centri per rifugiati. Niente di tutto questo sta accadendo oggi. I bombardamenti e il lungo assedio hanno completamente distrutto il sistema sanitario di Gaza. Gli ospedali ancora parzialmente funzionanti soffrono di grave carenza di attrezzature mediche e farmaci.

Già sei mesi fa sono iniziate a circolare notizie di tagli cesarei e amputazioni senza anestesia. Il sistema sanitario non solo non è in grado di fornire trattamenti di routine e cure preventive, ma non è nemmeno in grado di fornire cure di emergenza. La continua assenza di questi tre tipi di trattamenti – di routine, preventivi e di emergenza – può portare a un aumento esponenziale dei tassi di mortalità, di malattie e persino di epidemie. Le malattie croniche – comprese le malattie cardiache, renali, il cancro e il diabete – non vengono curate ed è molto dubbio che i pazienti cronici siano sopravvissuti alla guerra; solo pochi fortunati sono stati in grado di lasciare Gaza per ricevere cure mediche in Egitto.

In questo contesto, il silenzio degli israeliani sta costando vite umane. Anche coloro che mettono in guardia contro una “seconda Nakba” devono riconoscere che i danni della guerra attuale hanno già superato di gran lunga quelli della prima Nakba. E ogni giorno che passa – con la carenza di cibo, di condizioni sanitarie adeguate e di assistenza – aumenta ulteriormente il costo umano. Qualsiasi dibattito sulla guerra deve tenere conto delle sue implicazioni di vasta portata e a lungo termine per tutti coloro che vivono in questa terra.

Liat Kozma è una storica e Wiessam Abu Ahmad è uno studioso di biostatistica presso l’Università Ebraica di Gerusalemme.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Dr. Ghassan Abu-Sittah: “Domani sarà il giorno della Palestina”

Ghassan Abu Sitta

12 aprile 2024 – Mondoweiss

Per noi, tutti noi, parte della nostra resistenza alla cancellazione del genocidio è parlare del domani a Gaza, pianificare la guarigione delle ferite della Gaza di domani. Il domani sarà nostro. Domani sarà il giorno della Palestina.

Il 12 aprile il governo tedesco ha impedito al dottor Ghassan Abu-Sittah di entrare nel Paese per parlare ad una conferenza a Berlino come testimone del genocidio di Gaza. Il giorno prima, l’11 aprile, Abu-Sittah era stato insediato come rettore dell’Università di Glasgow alla Bute Hall dopo la sua vittoria schiacciante con l’80% dei voti. Di seguito è riportata una trascrizione del discorso del dr. Abu-Sittah.

Ogni generazione deve scoprire la propria missione, compierla o tradirla, in relativo anonimato”.

Frantz Fanon, I dannati della terra

Gli studenti dell’Università di Glasgow hanno deciso di votare in memoria dei 52.000 palestinesi uccisi. In memoria di 14.000 bambini assassinati. Hanno votato in solidarietà con i 17.000 minori palestinesi rimasti orfani, i 70.000 feriti – di cui il 50% minori e dei 4-5.000 minori ai quali sono stati amputati gli arti.

Hanno votato in solidarietà con gli studenti e gli insegnanti di 360 scuole distrutte e di 12 università completamente rase al suolo. Hanno espresso solidarietà con i familiari e in ricordo di Dima Alhaj [palestinese di 29 anni, amministratrice per lOMS presso il Centro di ricostruzione degli arti a Gaza City, ndt.] una ex studentessa dell’Università di Glasgow uccisa con il suo bambino e con tutta la sua famiglia.

Allinizio del XX secolo Lenin predisse che il vero cambiamento rivoluzionario nellEuropa occidentale sarebbe dipeso dal suo stretto contatto con i movimenti di liberazione contro limperialismo e con le colonie schiaviste. Gli studenti dellUniversità di Glasgow hanno capito cosa abbiamo da perdere quando permettiamo che la nostra politica divenga disumana. Capiscono anche che ciò che vi è di importante e diverso a Gaza è che essa è il laboratorio in cui il capitale globale elabora la modalità di gestione della sovrappopolazione.

Hanno espresso solidarietà con Gaza e il suo popolo perché hanno capito che le armi che Benjamin Netanyahu usa oggi sono le armi che Narendra Modi userà domani. I quadricotteri e i droni dotati di fucili di precisione – usati in modo così subdolo ed efficiente a Gaza che una notte allospedale Al-Ahli abbiamo accolto oltre 30 civili feriti colpiti fuori dal nostro ospedale da queste creazioni tecnologiche – impiegati oggi a Gaza saranno usati domani a Mumbai, Nairobi e San Paolo. Alla fine, come il software di riconoscimento facciale sviluppato dagli israeliani, arriveranno a Easterhouse e Springburn [quartieri operai di Glasgow, ndt.].

Quindi chi hanno eletto in definitiva questi studenti? Mi chiamo Ghassan Solieman Hussain Dahashan Saqer Dahashan Ahmed Mahmoud Abu-Sittah e, a parte me, mio padre e tutti i miei antenati sono nati in Palestina, una terra che venne ceduta da uno dei rettori dell’Università di Glasgow che mi hanno preceduto. Tre decenni prima che la sua dichiarazione di quarantasei parole annunciasse il sostegno del governo britannico alla colonizzazione della Palestina, Arthur Balfour fu nominato Lord Rettore dellUniversità di Glasgow. “Un’indagine sul mondo… ci mostra un vasto numero di comunità selvagge, evidentemente ad uno stadio culturale non profondamente diverso da quello prevalente tra gli uomini preistorici”, disse Balfour durante il suo discorso in rettorato nel 1891. Sedici anni dopo, questo antisemita ideò lAliens Act del 1905 per impedire agli ebrei in fuga dai pogrom dellEuropa orientale di mettersi in salvo nel Regno Unito.

Nel 1920 mio nonno Sheikh Hussain costruì con i propri soldi una scuola nel piccolo villaggio dove viveva la mia famiglia. Lì gettò le basi per un legame che avrebbe reso leducazione centrale nella vita della mia famiglia. Il 15 maggio 1948, le forze dellHaganah [organizzazione paramilitare ebraica, ndt.] effettuarono la pulizia etnica in quel villaggio e portarono la mia famiglia, che viveva su quella terra da generazioni, in un campo profughi a Khan Younis, ora in rovina, nella Striscia di Gaza. Le memorie dellufficiale dellHaganah che aveva invaso la casa di mio nonno furono ritrovate da mio zio. In queste memorie l’ufficiale nota con incredulità come la casa fosse piena di libri e vi fosse un certificato di laurea in giurisprudenza dell’Università del Cairo appartenente a mio nonno.

Lanno dopo la Nakba mio padre si laureò in medicina allUniversità del Cairo e tornò a Gaza per lavorare nellUNRWA nelle sue cliniche appena aperte. Ma come molti della sua generazione, si trasferì nel Golfo per contribuire a costruire il sistema sanitario di quei Paesi. Nel 1963 venne a Glasgow per proseguire la sua formazione post-laurea in pediatria e si innamorò della città e della sua gente.

E così è stato che nel 1988 sono arrivato a studiare medicina all’Università di Glasgow, e qui ho scoperto cosa può fare la medicina, come una carriera in medicina ti pone a confronto con i momenti più dolorosi della vita della e come, se sei dotato della giusta visione politica, sociologica ed economica, puoi comprendere come la vita delle persone venga modellata, e molte volte distorta, da forze politiche al di fuori del loro controllo.

Ed è stato a Glasgow che ho scoperto il significato della solidarietà internazionale. Glasgow in quel periodo era piena di associazioni che organizzavano momenti di solidarietà con El Salvador, Nicaragua e Palestina. Il Comune di Glasgow è stato uno dei primi a gemellarsi con città della Cisgiordania e l’Università di Glasgow ha istituito la sua prima borsa di studio per le vittime del massacro di Sabra e Shatila. È stato proprio durante i miei anni a Glasgow che è iniziato il mio viaggio come chirurgo di guerra, prima da studente quando sono andato in Iraq in occasione della prima guerra americana nel 1991; poi nel 1993 con Mike Holmes nel Libano meridionale; poi con mia moglie a Gaza durante la Seconda Intifada; poi in occasione delle guerre intraprese dagli israeliani a Gaza nel 2009, 2012, 2014 e 2021 e della guerra di Mosul nel nord dellIraq, a Damasco durante la guerra in Siria e in occasione della guerra nello Yemen. Ma è stato solo il 9 ottobre, quando sono arrivato a Gaza, che ho visto svolgersi il genocidio.

Tutto ciò che sapevo sulle guerre è nulla rispetto a ciò che ho visto. È come paragonare unalluvione con a uno tsunami. Per 43 giorni ho visto le macchine assassine nella Striscia di Gaza fare a pezzi le vite e i corpi dei palestinesi, metà dei quali minori. Dopo il mio rientro gli studenti dellUniversità di Glasgow mi hanno chiesto di candidarmi alla nomina di rettore. Poco dopo uno dei selvaggi di Balfour ha vinto l’elezione.

Quindi cosa abbiamo imparato dal genocidio e sul genocidio negli ultimi 6 mesi? Abbiamo imparato che lo scuolicidio, leliminazione di intere istituzioni educative, sia delle infrastrutture che delle risorse umane, è una componente fondamentale della cancellazione genocida di un popolo: 12 università e 400 scuole completamente rase al suolo; 6.000 studenti, 230 insegnanti di scuola, 100 tra docenti e presidi e due rettori universitari uccisi.

Abbiamo anche imparato, e questo è qualcosa che ho scoperto quando ho lasciato Gaza, che il progetto genocidario è come un iceberg di cui Israele è solo la punta. Il resto delliceberg è costituito da un asse del genocidio. Questo è costituito dagli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania, lAustralia, il Canada e la Francia… Paesi che hanno sostenuto Israele con le armi – e continuano con le armi a sostenere il genocidio – e hanno mantenuto il sostegno politico al progetto genocida perché proseguisse. Non dovremmo lasciarci ingannare dai tentativi degli Stati Uniti di umanitarizzare il genocidio: uccidendo persone col lancio paracadutato di aiuti alimentari.

Ho anche scoperto che a far parte dell’iceberg ci sono dei facilitatori del genocidio. Piccole persone, uomini e donne, in ogni ambito dell’esistenza, in ogni istituzione. Questi facilitatori del genocidio sono di tre tipi:

    • I primi sono quelli la cui razzializzazione e la totale alterizzazione dei palestinesi li ha resi incapaci di provare qualcosa per i 14.000 minori uccisi e che rimangono incapaci di piangere per loro. Se Israele avesse ucciso 14.000 cuccioli o gattini, sarebbero stati profondamente distrutti da tale barbarie.

    • Il secondo gruppo è costituito da coloro che, secondo Hannah Arendt ne “La banalità del male”, “erano privi di qualsiasi motivazione, a parte una scrupolo eccezionale nel badare al proprio tornaconto”.

    • I terzi sono gli apatici. Come dice Arendt, il male prospera nellapatia e non può esistere senza di essa”.

Nellaprile del 1915, un anno dopo linizio della prima guerra mondiale, Rosa Luxemburg scrisse sulla società borghese tedesca. Violati, disonorati, che sguazzano nel sangue… la bestia famelica, il sabba anarchico delle streghe, una piaga per la cultura e lumanità.” Quelli di noi che hanno visto, annusato e sentito ciò che le armi da guerra fanno di proposito al corpo di un bambino, quelli di noi che hanno amputato gli arti incurabili di bambini feriti non possono mai provare altro che il massimo disprezzo per tutti coloro coinvolti nella fabbricazione, progettazione e vendita di questi strumenti brutali. Lo scopo della produzione di armi è distruggere la vita e devastare la natura. Nellindustria degli armamenti i profitti aumentano non solo come risultato delle risorse catturate durante o attraverso la guerra, ma mediante il processo di distruzione di tutta la vita, sia umana che ambientale. Lidea che ci sia la pace o un mondo non inquinato mentre il capitale cresce grazie alla guerra è ridicola. Né il commercio delle armi né quello dei combustibili fossili trovano posto allUniversità.

Allora, qual è il nostro piano, di questo selvaggio” e dei suoi complici?

In questa università faremo una campagna per il disinvestimento dalla produzione di armi e dall’industria dei combustibili fossili, sia per ridurre i rischi dell’università a seguito della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia secondo cui si tratta plausibilmente di una guerra genocida sia per l’attuale causa intentata contro la Germania dal Nicaragua per complicità in genocidio.

Il denaro insanguinato dal genocidio ricavato come profitto da queste azioni durante la guerra sarà utilizzato per creare un fondo per aiutare a ricostruire le istituzioni accademiche palestinesi. Questo fondo sarà a nome di Dima Alhaj, in ricordo di una vita stroncata da questo genocidio.

Formeremo una coalizione di organizzazioni di studenti e della società civile e di sindacati per trasformare lUniversità di Glasgow in un campus libero dalla violenza di genere.

Faremo una campagna per trovare soluzioni concrete per porre fine alla povertà studentesca allUniversità di Glasgow e per fornire alloggi a prezzi accessibili a tutti gli studenti.

Faremo una campagna per il boicottaggio di tutte le istituzioni accademiche israeliane che sono passate dalla complicità con lapartheid e la negazione dellistruzione per i palestinesi al genocidio e alla negazione della vita. Faremo una campagna per una nuova definizione di antisemitismo che non confonda lantisionismo e l’opposizione al colonialismo genocida israeliano con lantisemitismo.

Lotteremo insieme a tutte le comunità alterizzate e soggette a razzismo, compresa la comunità ebraica, la comunità rom, i musulmani, i neri e tutti i gruppi sottoposti a razzismo, contro il nemico comune del crescente fascismo di destra, ora assolto dalle sue radici antisemite da parte di un governo israeliano in cambio del sostegno alleliminazione del popolo palestinese.

Proprio questa settimana abbiamo appena visto come unistituzione finanziata dal governo tedesco ha censurato unintellettuale e filosofa ebrea, Nancy Fraser, a causa del suo sostegno al popolo palestinese. Più di un anno fa abbiamo visto il Partito Laburista sospendere Moshé Machover, un attivista ebreo antisionista, per antisemitismo.

Durante il volo ho avuto la fortuna di leggere We Are Free to Change the World[Siamo liberi di cambiare il mondo] di Lyndsey Stonebridge. Cito da questo libro: “È quando lesperienza dellimpotenza è più acuta, quando la storia sembra più cupa, che la determinazione a pensare come un essere umano, in modo creativo, coraggioso e complesso, è più importante”. 90 anni fa, nel suo Canto della solidarietà”, Bertolt Brecht si chiedeva: Di chi è il domani? E di chi è il mondo?”

Ebbene, ecco la mia risposta a lui, a voi e agli studenti dell’Università di Glasgow: è vostro il mondo per cui lottare. È vostro il domani da realizzare. Per noi, tutti noi, parte della nostra resistenza per la cancellazione del genocidio è parlare del domani di Gaza, pianificare domani la guarigione delle ferite di Gaza. Prenderemo possesso del domani. Domani sarà una giornata palestinese.

Nel 1984, quando lUniversità di Glasgow nominò Winnie Mandela suo rettore nei giorni più bui del governo di P. W. Botha sotto un brutale regime di apartheid sostenuto da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, nessuno avrebbe potuto sognare che in 40 anni uomini e donne sudafricani avrebbero potuto sostenere e difendere davanti alla Corte Internazionale di Giustizia il diritto del popolo palestinese a vivere come liberi cittadini di una libera nazione.

Uno degli obiettivi di questo genocidio è quello di lasciarci affogare nel nostro dolore. Come nota personale, voglio dedicare uno spazio per poter, io e la mia famiglia, piangere i nostri cari. Lo dedico alla memoria del nostro amato Abdelminim ucciso a 74 anni nel giorno del suo compleanno. Lo dedico alla memoria del mio collega dottor Midhat Saidam, uscito per mezz’ora per portare nella loro casa sua sorella perché stesse al sicuro con i figli e non più tornato. Lo dedico al mio amico e collega dr. Ahmad Makadmeh, giustiziato con sua moglie poco più di 10 giorni fa dall’esercito israeliano nell’ospedale di Shifa. Lo dedico al sempre sorridente dottor Haitham Abu-Hani, responsabile del pronto soccorso dell’ospedale Shifa, che mi ha sempre accolto con un sorriso e una pacca sulla spalla. Ma soprattutto lo dedichiamo alla nostra terra. Nelle parole del sempre presente Mahmoud Darwish,

Per la nostra terra, ed è un prezzo della guerra,

la libertà di morire di nostalgia e di incendio

e la nostra terra, nella sua notte insanguinata,

è un gioiello che brilla per chi è lontano, lontano

e illumina ciò che c’è fuori…

Quanto a noi, dentro,

soffochiamo di più!”

E ora voglio concludere con una speranza. Con le parole dellimmortale Bobby Sands, La nostra vendetta sarà la risata dei nostri figli”.

HASTA LA VICTORIA SIEMPRE!

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Un nuovo abisso”: Gaza e la guerra dei cento anni contro la Palestina

Rashid Khalidi

Giovedì 11 aprile 2024 – The Guardian

Sebbene molte cose siano cambiate dal 7 ottobre, gli eventi terribili degli ultimi sei mesi non sono unici e non esulano dalla storia

Per le persone di tutto il mondo, me compreso, le immagini terribili che giungono da Gaza e da Israele dal 7 ottobre 2023 sono ineludibili. Questa guerra incombe su di noi come un’immobile nuvola nera che diventa sempre più oscura e inquietante con il passare delle interminabili settimane di orrore che si succedono davanti ai nostri occhi. Avere amici e parenti lì rende tutto questo molto più difficile da sopportare per molti di noi che vivono lontano.

Alcuni hanno sostenuto che questi eventi rappresentano una rottura, uno sconvolgimento, che questo sia stato “l’11 settembre di Israele” o che si tratti di una nuova Nakba, un genocidio senza precedenti. Certamente, la portata di questi eventi, le riprese quasi in tempo reale di atrocità e devastazioni insopportabili – in gran parte catturate sui telefoni e diffuse sui social media – e l’intensità della risposta globale non hanno precedenti. Sembra di trovarsi in una nuova fase, dove l’esecrabile “processo di Oslo” è morto e sepolto, dove l’occupazione, la colonizzazione e la violenza si stanno intensificando, il diritto internazionale viene calpestato e le placche tettoniche da tempo immobili si stanno lentamente muovendo.

Ma anche se molto è cambiato negli ultimi sei mesi, gli orrori di cui siamo testimoni possono essere veramente compresi solo come una nuova fase catastrofica di una guerra che va avanti da diverse generazioni. Questa è la tesi del mio libro The Hundred YearsWar on Palestine [La Guerra dei Cent’anni contro la Palestina, ndt.]: che gli eventi succedutisi in Palestina a partire dal 1917 sono il risultato di una guerra in più fasi condotta contro la popolazione indigena palestinese da grandi potenti mecenati del movimento sionista – un movimento allo stesso tempo colonialista e nazionalista, che mirava a sostituire il popolo palestinese nella sua patria ancestrale. Queste potenze si sono successivamente alleate con lo Stato-Nazione israeliano nato da quel movimento. Nel corso di questa lunga guerra i palestinesi hanno resistito strenuamente all’usurpazione del loro Paese. Questo quadro è indispensabile per spiegare non solo la storia del secolo scorso e oltre, ma anche la brutalità a cui abbiamo assistito dal 7 ottobre.

Sotto questa luce, è chiaro che non si tratta di una lotta secolare tra arabi ed ebrei che va avanti da tempo immemorabile, e non è semplicemente un conflitto tra due popoli. È un prodotto recente dell’irruzione dell’imperialismo in Medio Oriente e dell’ascesa dei moderni nazionalismi degli Stati-Nazione, sia arabi che ebrei; è un prodotto dei violenti metodi di insediamento coloniale europei impiegati dal sionismo per “trasformare la Palestina nella terra di Israele”, secondo le parole di uno dei primi leader sionisti, Ze’ev Jabotinsky; ed è un prodotto della resistenza palestinese a questi metodi.

Inoltre questa non è mai stata solo una guerra tra il sionismo e Israele da una parte e i palestinesi dall’altra, occasionalmente sostenuta da attori arabi e di altro tipo. Ha sempre comportato l’intervento massiccio delle più grandi potenze dell’epoca dalla parte del movimento sionista e di Israele: la Gran Bretagna fino alla seconda guerra mondiale e da allora gli Stati Uniti e altri. Queste grandi potenze non sono mai state mediatori neutrali o onesti, ma hanno sempre partecipato attivamente a questa guerra a sostegno di Israele. In questa guerra tra colonizzatori e colonizzati, oppressori e oppressi, non c’è stato nulla che si avvicinasse lontanamente all’equivalenza tra le due parti, ma piuttosto un vasto squilibrio a favore del sionismo e di Israele.

Questa tesi è stata crudamente confermata dagli eventi successivi al 7 ottobre, con lo squilibrio di potere evidente nella sproporzione delle dimensioni di morte, distruzione e sfollamento: il rapporto tra palestinesi e israeliani uccisi finora è di circa 25 a 1. Ciò è ulteriormente rafforzato dallo straordinario livello di sostegno politico, diplomatico e militare degli Stati Uniti a Israele, combinato con quello del Regno Unito e di altri Paesi occidentali, in contrasto con il relativamente limitato sostegno militare e finanziario ai palestinesi da parte dell’Iran e di diversi attori non statali.

Sebbene molte cose siano cambiate dal 7 ottobre, gli eventi degli ultimi sei mesi non sono unici e non esulano dalla storia. Possiamo comprenderli correttamente solo nel contesto della guerra secolare intrapresa contro la Palestina, nonostante gli sforzi di Israele di negare la rilevanza del contesto e di spiegarli nei termini della “barbarie” caratteristica dei suoi nemici. Anche se le azioni di Hamas e Israele a partire dal 7 ottobre potrebbero sembrare un cambiamento o una svolta, esse sono coerenti con decenni di pulizia etnica israeliana, occupazione militare e furto della terra palestinese, con anni di assedio e deprivazione della Striscia di Gaza, e con una risposta palestinese a queste azioni spesso violenta.

Comunque vada a finire, questo episodio della lunga guerra contro la Palestina ha chiaramente avuto un profondo impatto traumatico sia sui palestinesi che sugli israeliani. Ciò è vero in termini di numero eccezionale di persone uccise, ferite, disperse, catturate o detenute; distruzione senza precedenti di case e infrastrutture nella Striscia di Gaza; l’enorme numero di famiglie colpite, soprattutto tra i palestinesi; e l’intenso impatto psicologico di questi eventi.

In un breve periodo sono stati arrecati danni immensi alle popolazioni civili palestinesi e israeliane. Il bilancio palestinese di oltre 33.000 morti, insieme a forse 8.000 dispersi e presumibilmente morti, la stragrande maggioranza dei quali civili, è di gran lunga il più alto mai registrato in qualsiasi fase di questa guerra lunga un secolo. Nella guerra del 1947-49 furono uccisi circa 15.000 civili e combattenti palestinesi; nel 1982, durante l’invasione del Libano e l’assedio di Beirut, Israele uccise più di 19.000 civili e combattenti palestinesi e libanesi. Nei sei mesi trascorsi dal 7 ottobre il numero di morti e feriti – circa 120.000 – corrisponde a circa il 5% della popolazione della Striscia di Gaza di 2,3 milioni.

Il bilancio di oltre 800 vittime civili in Israele è il più alto dalla guerra del 1948. Finora sono stati uccisi più di 685 soldati, poliziotti e personale di sicurezza israeliani – più del numero di soldati uccisi nella guerra del Sinai del 1956, nell’invasione del Libano del 1982, nella seconda Intifada e nella guerra del Libano del 2006. Il totale delle vittime israeliane, compresi soldati e civili uccisi e feriti, ha superato quello della guerra del 1967. Inoltre, nell’ottobre dello scorso anno sono stati fatti prigionieri circa 250 civili e soldati israeliani e cittadini stranieri, e più di 100 sono ancora tenuti in ostaggio.

Durante l’intero corso di questa lunga guerra, un numero così elevato di palestinesi e israeliani non era mai stato cacciato dalle proprie case. Mentre tra il 1947 e il 1949 circa 750.000 palestinesi – più della metà della popolazione palestinese dell’epoca – furono sottoposti alla pulizia etnica da quello che divenne Israele, e circa 300.000 nella Cisgiordania e la Striscia di Gaza dopo l’occupazione del 1967, questi numeri sono stati oscurati dalla cifra di circa 1,7 milioni di abitanti di Gaza che Israele ha sfollato dal 7 ottobre. Nel frattempo, almeno 250.000 israeliani sono stati sfollati dagli insediamenti coloniali e dalle città nelle aree al confine con la Striscia di Gaza e il Libano.

Questi shock traumatici hanno avuto un impatto enorme su entrambe le società. In Israele, la violenza del 7 ottobre, in particolare l’elevato numero di civili uccisi, feriti e catturati, con i raccapriccianti risultati diffusi in diretta streaming tramite i social media e ripetutamente trasmessi in televisione, ha avuto un impatto viscerale sull’intero Paese. Gli attacchi hanno evocato ricordi storici di violenza e persecuzione e hanno distrutto il senso di sicurezza che Israele riteneva di aver fornito ai suoi cittadini. Sembra quasi che, nella coscienza pubblica israeliana, dal 7 ottobre il tempo si sia fermato mentre l’effetto bruciante di questo trauma collettivo si ripete come in un ciclo senza fine. Il risultato è stato quello di accelerare lo spostamento verso destra in atto nella società israeliana, con i politici e il discorso pubblico diventati ancora più aggressivi e intransigenti. Gli attacchi hanno provocato un’intensa sete di vendetta, evidente dal modo brutale in cui è stata condotta la guerra di Israele, e il senso di perpetuo vittimismo della nazione è stato rafforzato, nonostante l’immenso squilibrio di potere tra Israele e palestinesi.

Il flusso infinito di immagini della devastazione di Gaza, dell’enorme numero di vittime, delle decine di famiglie completamente spazzate via dagli attacchi dell’intelligenza artificiale israeliana, e della fame e delle malattie causate dalle paralizzanti restrizioni israeliane sul transito di acqua, cibo, medicine, carburante ed elettricità nella Striscia di Gaza – palesi violazioni del diritto internazionale umanitario – hanno traumatizzato i palestinesi ovunque. Genitori e nonni avevano raccontato loro della Nakba e di altri tragici episodi della storia del loro popolo. Ma guardando il paesaggio lunare in cui Israele ha trasformato Gaza, i palestinesi sono comunque rimasti scioccati dallo spietato omicidio di migliaia di civili e dalla vasta distruzione di case, ospedali, scuole, luoghi di culto e infrastrutture, in quello che è stato descritto da un rapporto statunitense storico militare come “una delle più intense campagne di punizione sui civili della storia”. Oltre a dover affrontare per mesi queste orribili realtà i palestinesi sono ossessionati dai ricordi storici della Nakba e dalla domanda su quando e se questa guerra finirà e su come gli abitanti di Gaza potranno mai avere di nuovo una vita normale.

Questi eventi scioccanti hanno avuto eco in tutto il mondo, poiché la serie apparentemente infinita di atrocità che Israele ha inflitto agli abitanti di Gaza è stata vista in tempo reale sui media tradizionali, alternativi e sui social media. Questa è la prima volta che una generazione di giovani in tutto il mondo guarda da mesi tali immagini di carneficina. A gennaio un sondaggio ha rilevato che quasi la metà degli americani tra i 18 e i 29 anni crede che Israele stia commettendo un genocidio. La Palestina è diventata una causa fondamentale per attivisti giovani e meno giovani, unendo varie correnti di opposizione allo status quo globale. Allo stesso tempo, ha diviso le famiglie lungo linee generazionali, mandando in frantumi il compiacente consenso tra i liberali occidentali secondo cui, nonostante i suoi difetti, Israele sarebbe una forza positiva.

Israele è stato accusato dal Sudafrica del genocidio di Gaza davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, che con un voto schiacciante ha accettato di esaminare il caso e ha ordinato misure provvisorie. Questa non è la prima volta che Israele viene accusato di violare il diritto internazionale, accuse che disprezza, ma durante questa guerra il processo ha subito un’accelerazione infliggendo un danno crescente all’immagine internazionale sempre più offuscata di Israele.

La sofferenza che Israele sta provocando a Gaza ha ulteriormente diminuito la sua legittimità, già gravemente compromessa, a livello globale. Al di là della possibilità di una maggiore escalation della guerra in altre parti del Medio Oriente, le scosse di assestamento potrebbero avere conseguenze a lungo termine per la politica interna di Israele, dei palestinesi e degli Stati arabi e regionali, nonché sul futuro di Israele nella regione, e forse anche sull’esito delle elezioni presidenziali americane.

Questa guerra produrrà senza dubbio cambiamenti nella strategia a lungo termine di Israele nei confronti dei palestinesi. L’attacco a sorpresa del 7 ottobre e i successivi fallimenti sul campo di battaglia hanno messo in luce le debolezze della pianificazione militare, dell’intelligence e della sua decantata tecnologia di sorveglianza. Questi fallimenti hanno portato all’uccisione o alla cattura di più di 1.000 soldati e civili israeliani e all’invasione di numerosi insediamenti coloniali di confine, alcuni dei quali non sono stati riconquistati fino al 10 ottobre. Questa è stata una delle peggiori sconfitte nella storia militare di Israele. Questa è anche la prima volta dal 1948 che una guerra viene condotta con un tale grado di ferocia all’interno di Israele. Con la parziale eccezione della Seconda Intifada, in 75 anni Israele non è stato esposto a nulla di paragonabile a questo attacco diretto alla popolazione civile sul suo territorio.

Scosso da questa catastrofica sconfitta, il governo israeliano ha asserito che manterrà a lungo termine il controllo di sicurezza sulla Striscia di Gaza, rifiutandosi di ritirare completamente le sue truppe; il che in pratica equivarrebbe ad una estesa rioccupazione totale o parziale. Considerata la storia dell’enclave, che dal 1948 rappresenta il luogo di più intensa resistenza dei palestinesi all’espropriazione e al dominio da parte di Israele, potrebbe non esserci nel prossimo futuro un termine definito di questa nuova fase del conflitto.

Un altro cambiamento radicato nel fiasco militare del 7 ottobre è che esso rappresenta il temporaneo collasso della dottrina sulla sicurezza di Israele. Questa è spesso chiamata erroneamente “deterrenza”, ma in realtà deriva dall’approccio aggressivo insegnato per la prima volta ai fondatori delle forze armate israeliane – ufficiali come Moshe Dayan, Yigal Allon e Yitzhak Sadeh, membri scelti delle milizie Haganah e Palmach, addestrati alla fine degli anni ’30 da esperti veterani della contro-insurrezione coloniale britannica. La dottrina sostiene che attaccando preventivamente o attraverso una ritorsione con una forza schiacciante e colpendo direttamente le popolazioni civili considerate favorevoli agli insorti il nemico può essere sconfitto in modo decisivo, intimidito in modo permanente e costretto ad accettare le condizioni del colonizzatore. In passato, per quanto riguardava Gaza, questa dottrina – descritta dagli analisti israeliani come “falciare il prato” – prevedeva di colpire periodicamente la popolazione e ucciderne un gran numero per costringerla ad accettare uno status quo di assedio e blocco che durava da 17 anni.

Chiamo questo un crollo temporaneo della dottrina, perché mentre gli eventi del 7 ottobre hanno messo in luce nel fallimento di un approccio basato sulla forza l’esistenza di un problema essenzialmente politico, è chiaro che la leadership israeliana non ha imparato nulla. Invece ha raddoppiato le pratiche precedenti, in linea con l’adagio israeliano: “Se la forza non funziona, usa più forza”. I leader israeliani sembrano aver dimenticato la massima di Clausewitz secondo cui la guerra è una continuazione della politica con altri mezzi.

Nelle parole del sociologo politico israeliano Yagil Levy, nella sua guerra contro Gaza il “quadro politico di Israele è un quadro militare. Netanyahu modella la politica all’interno di un mondo di concetti militari. Non esiste una strategia di uscita politica né una visione politica, che sono l’abc di ogni guerra”. Spinta dal desiderio di vendetta per l’umiliante sconfitta militare e dalla cieca adesione all’antiquata dottrina israeliana sulla sicurezza basata sulla forza, una leadership divisa non ha alcun comune obiettivo politico in questa campagna. Al contrario, brandisce il vuoto slogan della “vittoria completa” e l’idea di ripristinare un atteggiamento aggressivo di “deterrenza”, che è inutile perché manifestamente non è riuscito a scoraggiare gli attacchi in passato, e probabilmente sarà altrettanto inefficace in futuro.

Ci sono ampie prove che il governo israeliano originariamente desiderasse sfruttare l’opportunità offerta dalla guerra per effettuare un’ulteriore pulizia etnica dei palestinesi, sia con la loro espulsione in Egitto che in Giordania, e che, vergognosamente, gli Stati Uniti hanno cercato di persuadere entrambi i Paesi ad accettare questa soluzione, cosa che si si sono rifiutati categoricamente di fare. La forte fazione di coloni all’interno del governo sostiene ancora questo, e spera anche nella possibilità di reinsediarsi nella Striscia di Gaza.

Invece di definire un obiettivo politico preciso un governo israeliano privo di consenso sulla politica ha dichiarato che il suo obiettivo è la completa distruzione di Hamas, un’entità politico-militare-ideologica con diramazioni in tutta la Palestina e nella diaspora palestinese – una missione manifestamente impossibile. Potrebbe essere o meno fattibile per l’esercito israeliano sconfiggere in modo decisivo le forze militari di Hamas nella Striscia di Gaza. Tuttavia, se Hamas riuscisse a mantenere anche solo una frazione delle sue capacità militari dopo molti mesi di combattimenti [Israele] potrebbe rivendicare una vittoria di Pirro. Come scrisse una volta Henry Kissinger: “La guerriglia vince se non perde. L’esercito convenzionale perde se non vince”. Qualunque sia l’esito militare, Hamas non sarà distrutta come forza politica né ideologica.

Alla luce dell’impatto devastante su Israele dell’attacco di ottobre, e nonostante il bilancio feroce della sua risposta, è improbabile che la filosofia della resistenza armata di Hamas scompaia finché non ci sarà la prospettiva di porre fine all’occupazione militare, alla colonizzazione e all’oppressione del popolo palestinese, o di un orizzonte politico che prometta una vera autodeterminazione e uguaglianza palestinese. Pertanto, uno sconvolgimento che avrebbe potuto essere un catalizzatore di cambiamento potrebbe di fatto produrre la continuità della colonizzazione e dell’occupazione, dell’affidamento esclusivo sulla forza da parte della classe dirigente israeliana e della resistenza palestinese armata.

Se le prospettive israeliane sono poco chiare, anche l’orizzonte politico postbellico per i palestinesi è nebuloso. In termini puramente militari, l’entità e la portata dell’attacco di Hamas a ottobre non hanno precedenti. Eppure, facendo ancora riferimento a Clausewitz, è difficile scorgere gli obiettivi politici di Hamas. Nel passato, in vari momenti, Hamas ha proclamato la sua disponibilità ad accettare uno Stato palestinese accanto a Israele, come nella sua dichiarazione di principi del 2017 che considerava “una formula di consenso nazionale la fondazione di uno Stato palestinese indipendente pienamente sovrano e con Gerusalemme come sua capitale sui confini del 4 giugno 1967, con il ritorno di rifugiati e sfollati alle loro case da cui erano stati espulsi.”

D’altro canto, nello stesso documento, Hamas aveva chiesto “la piena e completa liberazione della Palestina, dal fiume al mare,” e ha sistematicamente rifiutato di accettare la legittimità di Israele o di rinunciare alla violenza. Entrambe le tendenze sono state presenti in dichiarazioni contraddittorie fatte dai leader di Hamas da ottobre e in iniziative, precedenti e attuali, rivolte ad unirsi all’OLP e ad altre forze politiche palestinesi, o, alternativamente, a trattarle come rivali di cui prendere il posto.

Dal 7 ottobre entrambe queste tendenze si sono rafforzate fra differenti segmenti del popolo palestinese, con la resistenza armata che trova nuovi sostenitori, specialmente fra i giovani, e altri che cautamente sperano in una svolta nella direzione di uno Stato palestinese, sebbene l’Autorità Palestinese a Ramallah sia disprezzata dalla maggioranza dei palestinesi in quanto appaltatrice della sicurezza per conto dell’occupazione israeliana.

Una constante nei 100 anni di questa guerra è che ai palestinesi non è stato permesso di scegliere chi li rappresenta. Come nel passato, le loro preferenze possono risultare inaccettabili alle potenze, che siano Israele, gli stati occidentali o i loro clienti arabi. Queste potenze stanno probabilmente ancora cercando di imporre la loro scelta su chi rappresenti i palestinesi e chi non sia autorizzato a farlo, con i palestinesi stessi senza una voce in questa decisione. In mancanza di un accordo palestinese su una voce politica unificata e credibile che rappresentanti un consenso nazionale, questo significherebbe che la cruciale decisione sul futuro del loro popolo sarà presa da potenze esterne come è successo molte volte nel passato.

Israele ha presentato questa guerra come mirata esclusivamente contro Hamas, affermando di aver scrupolosamente obbedito al diritto umanitario internazionale, usando una forza “proporzionale” e discriminata e che le morti civili erano “danni collaterali” involontari perché Hamas ha usato i civili come “scudi umani”. I governi occidentali e i media mainstream hanno ripetuto queste affermazioni essenzialmente false, sebbene smentiti dalla morte di oltre 33.000 civili, fra cui, secondo l’Unicef, 13.000 minori, la cacciata di 1,7 milioni di persone e la distruzione, ovviamente intenzionale, della maggior parte delle infrastrutture della Striscia di Gaza con ospedali, impianti di purificazione dell’acqua, fogne, centrali elettriche, sistemi di telefonia e internet, scuole, università, moschee e chiese come obiettivi. Dopo sei mesi di guerra, le dimensioni di questa devastazione e del massacro e la fame di massa causati da Israele sembrano penetrare attraverso la nebbia del pensiero di gruppo perpetuato dai governi occidentali e la maggior parte dei media mainstream che precedentemente avevano ripetuto a pappagallo i punti salienti israeliani anche se ovviamente falsi.

Molti osservatori non accecati da questa fasulla narrazione israeliana vedono correttamente questa guerra come diretta contro la popolazione di Gaza nella forma di punizione collettiva, se non di genocidio. La risultante reazione sdegnata è stata quasi universale nel mondo arabo, in quasi tutti i Paesi musulmani e nella maggioranza dei Paesi del sud globale. In aumento sono le fasce delle popolazioni americane ed europee che hanno risposto in modo simile. Fino a tempi recentissimi questa reazione ha avuto uno scarso effetto sulle politiche di totale sostegno a Israele dell’amministrazione Biden, che vanno poco oltre deboli e palesemente insinceri rimproveri retorici. Per molti osservatori le consegne di armi e munizioni americane che bypassano le garanzie del congresso, la protezione diplomatica di Israele all’ONU, ripetizioni meccaniche dei punti chiave israeliani e la durezza di Biden e dei suoi funzionari verso le sofferenze palestinesi sono viste come elementi dell’attiva partecipazione nel commettere crimini di guerra e genocidio, guadagnando a Biden l’epiteto di “Genocida Joe”.

Dal 7 ottobre la forte simpatia per i palestinesi da parte dei popoli dei Paesi arabi e il loro pubblico sostegno per la loro causa (ove tali espressioni sono permesse e spesso anche dove non lo sono) hanno svelato la deliberata ignoranza dei decisori politici e commentatori occidentali e israeliani che hanno sostenuto che la causa palestinese non è importante per gli arabi e che può essere ignorata. In risposta agli attacchi israeliani contro Gaza ci sono stati mesi con le più vaste manifestazioni popolari mai viste da una decina di anni in numerose città arabe, fra cui Il Cairo, Amman, Manama e Rabat, capitali di Paesi che hanno relazioni diplomatiche con Israele. Alla fine i regimi autocratici che rovinano la regione potrebbero riuscire a reprimere la simpatia dei loro cittadini per i palestinesi e l’ostilità verso Israele. Ciononostante, in futuro, questi governi saranno obbligati a prendere più attentamente in considerazione l’appassionato senso di identificazione del loro popolo con la causa palestinese e ad adattare di conseguenza le loro politiche.

Da ottobre un altro elemento è emerso con grande rilevanza: il valore diseguale che le élite occidentali attribuiscono da un lato alle vite israeliane (identificate come “bianche”) e dall’altro a quelle arabe (identificate come “di colore”). Questo vergognoso doppio standard ha prodotto un’atmosfera tossica, repressiva negli spazi dominati da queste élite negli USA e un po’ meno Europa, specialmente nell’ambito politico, corporativo, dei media e nei campus universitari. L’ondata risultante di caccia alle streghe nei parlamenti, fra imprenditori, nel mondo di cultura e università si è concentrata sulle accuse che sostenere la libertà per i palestinesi e criticare le politiche israeliane o il sionismo sia in un qualche modo antisemita.

Queste asserzioni accettano l’affermazione che Israele e sionismo siano sinonimi di ebraismo, mentre ignorano il posto di rilievo di ebrei più progressisti e giovani che sostengono i diritti dei palestinesi e si oppongono alle azioni del governo israeliano. È totalmente assurdo affermare che l’opposizione al sionismo o al colonialismo israeliano sia per principio antisemita. Se coloro che si sono insediati in Palestina fossero stati scandinavi cristiani perseguitati che si percepissero come missionari mandati da dio per sottrarre il Paese alla sua popolazione indigena non ci sarebbe stato nulla di “anticristiano” nel resistere ai loro sforzi.

Le élite occidentali fra i politici, i media e in altri ambienti che promuovono questa atmosfera maccartista di repressione hanno dimostrato che considerano l’uccisione di civili israeliani più degna di attenzione di quella della morte di 25 volte tanto di civili palestinesi. Perciò, con qualche eccezione, in generale i media mainstream individuano in dettaglio le morti di civili israeliani, descritte come il risultato di atrocità perpetrate da Hamas. In contrasto, molto più frequentemente si descrive il grandissimo numero di morti civili palestinesi collettivamente e in termini passivi e senza nominare l’autore israeliano delle loro uccisioni, come se la causa fosse sconosciuta o un fenomeno naturale. Quindi Israele non uccide: i palestinesi muoiono, Israele non affama i palestinesi, loro soffrono la fame.

Questo approccio palesemente di parte è un’arma a doppio taglio: se nel breve periodo potrà servire a Israele per puntellare un pubblico di riferimento in diminuzione per il suo ritratto distorto della realtà in Palestina, il doppio standard inerente è trasparente alla maggior parte del mondo. È anche ovvio a segmenti crescenti di opinione pubblica in occidente, specialmente i più giovani. Invece di ottenere le loro informazioni dalle offerte dei media tradizionali che presentano le notizie in gran parte attraverso le lenti israeliane queste audience più giovani hanno una gamma variegata di fonti, a cui accedono principalmente tramite media alternativi e i social che offrono un panorama di immagini della morte, distruzione e miseria che Israele infligge sui gazawi. Di conseguenza capiscono perfettamente che un alto grado di censura di queste realtà è imposto dalla faziosità dei media tradizionali per i quali giustamente nutrono un totale disprezzo.

Nonostante una feroce ondata di repressione del sostegno ai palestinesi nella sfera pubblica, fra i giovani la maggiore disponibilità di una più ampia varietà di informazioni ha cominciato ad aver un effetto politico negli USA, particolarmente dopo che l’iniziale impennata di simpatia per Israele in risposta agli attacchi di Hamas è stata sostituita dalla simpatia per i civili palestinesi massacrati e affamati. In un sondaggio oltre il 68% degli americani sostiene un cessate il fuoco permanente a Gaza. Un altro ha mostrato che il 57% degli intervistati disapprovava la gestione della guerra a Gaza di Joe Biden, una cifra che sale a circa il 75% nella fascia di elettori fra i 18 e i 29 anni.

Sin dalla sua elezione a senatore nel 1972, Biden si è votato ai miti su Israele e Palestina che sono prevalenti nella conversazione politica e nei media americani. La sua amministrazione non ha ribaltato nessuna delle politiche che chiaramente favoriscono Israele promulgate dall’amministrazione Trump. Biden ha quindi mantenuto una serie di deviazioni significative dalle precedenti politiche USA, incluso il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, la chiusura del consolato USA a Gerusalemme Est e della missione palestinese a Washington DC, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele e riconoscendo l’annessione israeliana delle Alture di Golan.

Oltre a ciò e ben lontano dall’abbandonare l’approccio distintivo dell’amministrazione di Trump, detto “gli accordi di Abramo”, di ridurre l’importanza della questione palestinese e concentrarsi sulla normalizzazione delle relazioni fra Israele e gli Stati arabi, l’amministrazione Biden ha elogiato queste misure che hanno portato ad aprire le relazioni diplomatiche fra Israele e Emirati Arabi Uniti, Marocco e Bahrain, facendo infuriare i palestinesi. Biden e il suo team sono andati persino oltre. Hanno posto forti pressioni per un accordo di normalizzazione fra sauditi e israeliani che avrebbe schierato lo Stato arabo più influente con Israele, indebolendo ulteriormente i palestinesi e diminuendo ancora di più la prospettiva del loro raggiungimento di qualcuno dei loro obiettivi nazionali.

Sebbene la chimera di un accordo di normalizzazione saudita si scontri potentemente con la realtà dopo il 7 ottobre, rivelando le difficoltà che i regimi arabi avrebbero davanti se entrassero in relazione con un Paese che la vasta maggioranza del loro popolo pensa stia commettendo un genocidio, l’amministrazione Biden non ha mai oscillato nella sua promozione aggressiva dell’idea. L’ha fatto mentre indeboliva i suoi clienti arabi con un sostegno illimitato del selvaggio attacco di Israele contro la Striscia di Gaza, che ha con fermezza appoggiato come “autodifesa”. Questo sostegno include il rifiuto categorico di un cessate il fuoco permanente e la consegna di emergenza di aerei pieni di munizioni e armi, senza le quali Israele non avrebbe potuto sostenere la sua campagna militare. Recentemente sono stati promessi altri cacciabombardieri F-15 e F-35.

Con queste azioni e la sua costante ripetizione della retorica israeliana, Biden ha rafforzato la sensazione che gli USA siano visceralmente ostili verso i palestinesi. Anche quando, mesi dopo, ha finalmente insistito che Israele ponga fine alla fame di massa dei gazawi, questa è stata la risposta non alle immagini di neonati palestinesi emaciati ma alle morti dei volontari stranieri bianchi.

Anche la richiesta dell’amministrazione per la “soluzione a due Stati” suona falsa. Non ci sono segni che gli USA richiedano l’implementazione dei prerequisiti essenziali per una tale soluzione: una fine rapida e completa dell’occupazione militare israeliana durata quasi 57 anni e dell’usurpazione e colonizzazione delle terre palestinesi, che ha portato circa 750.000 coloni illegali sul 60% della Cisgiordania e Gerusalemme Est. L’amministrazione non ha neppure indicato se accetterebbe che i palestinesi scelgano democraticamente i propri rappresentanti.

Senza una decisa applicazione di queste misure la richiesta della “soluzione dei due Stati” è sempre stata priva di significato, una crudele truffa orwelliana. Invece di autodeterminazione, Stato e sovranità palestinesi, manterrebbe in effetti lo status quo in Palestina sotto forma diversa, con una “Autorità Palestinese” collaborazionista e controllata esternamente e mancante di reale giurisdizione o autorità rimpiazzata da uno “Stato palestinese” collaborazionista ugualmente privo di sovranità e indipendenza connessi a un autentico State. Sarebbe una farsa: un arcipelago spezzettato di bantustan sotto il controllo finale di Israele, con supervisione finanziaria e di sicurezza degli USA, dell’Europa occidentale e dei suoi alleati arabi.

Guardando indietro agli ultimi sei mesi, al crudele massacro di civili su scala senza precedenti, con milioni di persone che hanno perso la casa, la fame di massa e le malattie causate da Israele è chiaro che questo segna un nuovo abisso in cui è sprofondata la lotta per la Palestina. Se questa fase riflette gli aspetti di fondo delle precedenti in questi 100 anni di guerra, la sua intensità è unica, e ha creato nuovi e profondi traumi. Non solo non si vede la fine di questa carneficina, sembriamo più lontani che mai da una risoluzione duratura e sostenibile, basata sullo smantellamento delle strutture di oppressione e supremazia e giustizia, uguaglianza totale dei diritti e mutuo riconoscimento.

Rashid Khalidi è autore di libri come The Hundred Years’ War on Palestine: A History of Settler-Colonialism and Resistance (La guerra dei cent’anni contro la Palestina: una storia dell’insediamento dei coloni e della resistenza) (Profile, 2020) e docente di studi arabi moderni presso la Columbia University

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio e Aldo Lotta)




Guerra contro Gaza: brutale il contrasto tra come la Gran Bretagna tratta i rifugiati palestinese e quelli ucraini

Richard Burden

2 aprile 2024 – Middle East Eye

Il governo britannico deve togliere i crudeli ostacoli per i profughi palestinesi che cercano rifugio in Gran Bretagna e contribuire anche a porre fine alle estorsioni a danno dei disperati al valico di Rafah

Rifugiati di Gaza con familiari in Gran Bretagna affrontano sia ostacoli kafkiani da parte del governo inglese che estorsioni sul confine tra Rafah e l’Egitto. Una famiglia che conosco ha fatto l’esperienza di entrambi. Tuttavia, prima di affrontare queste vicende, chiariamo una cosa: il modo per porre fine alle sofferenze a Gaza è un cessate il fuoco immediato e un accesso senza restrizioni nella Striscia.

È assolutamente inaccettabile aspettarsi che i palestinesi lascino la propria patria, benché molti degli estremisti che dominano l’attuale governo israeliano vorrebbero spingerne quanti più possibile oltre il confine con l’Egitto.

La stragrande maggioranza dei palestinesi che vivono a Gaza proviene da famiglie di rifugiati che scapparono lì cacciati dalle proprie case verso nord quando venne creato Stato di Israele nel 1948. I palestinesi la chiamano Nakba, o catastrofe.

Il massacro di Gaza è già più che terribile. Il mondo non deve consentire che l’orrore si trasformi nella Nakba 2.0.

Nessuno suggerisce neppure che la risposta per il popolo ucraino sia andarsene dalla patria di fronte all’aggressione russa. Ma ciò non ha impedito a molti Paesi, compreso il nostro, di aprire le porte per fornire un rifugio sicuro alle famiglie che scappano dal massacro in Ucraina.

Ciò non è altro che la cosa giusta da fare a livello umano e riflette lo spirito della Convenzione Internazionale sui Rifugiati del 1951, di cui Il Regno Unito è uno dei firmatari.

Netto e brutale

Ma il contrasto tra il modo in cui la Gran Bretagna tratta i rifugiati ucraini e quelli che fuggono da Gaza è netto e brutale. Per poter entrare nel Regno Unito chi fugge da Gaza deve dimostrare sia di avere il permesso di ingresso per più di sei mesi che un coniuge o un figlio con meno di 18 anni qui.

Se hai un fratello o una sorella che vive in Gran Bretagna, o sei un anziano vulnerabile con un figlio o una figlia adulti che vivono qui, le norme del Regno Unito ti dicono di scordartelo.

Tali condizioni non sono imposte alle persone che fuggono dall’Ucraina. Infatti, in base al programma “Case per l’Ucraina”, i cittadini britannici sono stati aiutati perché accogliessero in casa loro profughi ucraini, indipendentemente dal fatto che essi abbiano rapporti familiari. E a ragione.

Quando interrogati in parlamento, i ministri britannici spesso dicono che verificheranno casi individuali di palestinesi che scappano da Gaza che i parlamentari porteranno alla loro attenzione. Tuttavia finora ci sono poche prove che le loro parole significhino un granché nella pratica.

Niente obbliga il governo britannico a comportarsi in questo modo. È una decisione politica deliberata da parte sua ed è tempo che i ministri cambino direzione.

Molti membri del parlamento e della Camera dei Lord di vari partiti hanno firmato la lettera aperta della baronessa Bennett al ministro degli Interni che invoca l’introduzione di un regime di visti per i palestinesi modellato su “Case per l’Ucraina”.

Anche due mozioni simili sono state presentate alla Camera dei Comuni.

Tutti questi tentativi meritano il nostro appoggio. Sono necessarie anche azioni, non solo parole, da parte dei ministri britannici.

Estorsione

Ma queste cose sono solo una parte della vicenda. In primo luogo per uscire da Gaza ai rifugiati palestinesi deve essere permesso attraversare il valico tra Rafah e il deserto del Sinai egiziano.

Benché il confine sia direttamente amministrato dall’Egitto, anche Israele ha molta voce in capitolo su chi lo può attraversare e chi no. Dal 7 ottobre non c’è nessun altro modo per lasciare Gaza.

I palestinesi che cercano di andare in Gran Bretagna devono prima inserire il loro nome in una lista fornita alle autorità egiziane e israeliane dal consolato generale britannico a Gerusalemme. Se non sei un cittadino inglese o se non soddisfi i rigidi criteri del governo britannico sulla concessione dei visti non sarai inserito in quella lista.

Anche se la Gran Bretagna inserisce il tuo nome nella lista, ciò non garantisce il permesso di attraversare il valico di Gaza da parte delle autorità egiziane e israeliane.

Se ci sei o sei un palestinese che cerca di andare in un qualunque altro Paese dovrai anche pagare un pesante balzello perché ti sia consentito attraversare fisicamente il valico di Rafah. Di recente ai membri di una famiglia palestinese che conosco sono state fatte pagare quasi 9.000 sterline [oltre 10.000 euro, ndt.] per consentire a una madre con i figli di entrare in Egitto.

So di famiglie a cui è stata chiesta una quantità di denaro anche superiore. I miei amici sono stati sufficientemente fortunati ad avere la disponibilità di quel denaro. Sarebbe semplicemente al di là delle possibilità della stragrande maggioranza dei palestinesi di Gaza, una striscia di terra devastata dalla povertà molto prima dell’ultima invasione israeliana e che non ha avuto un’economia funzionante negli ultimi sei mesi di guerra.

Sembra che nessuno sappia quanto denaro richiesto ai palestinesi al valico di Rafah sia rappresentato da tributi ufficiali del governo egiziano e quanto sia dovuto alla corruzione alla frontiera. In ogni caso si tratta di un’estorsione a danno di persone che a Gaza hanno già vissuto orrori indicibili.

Il governo britannico non solo deve togliere i brutali ostacoli che mette sul percorso dei rifugiati palestinesi che cercano rifugio in Gran Bretagna, soprattutto quando hanno una famiglia o altri rapporti qui. Deve anche, insieme ad altri Paesi, imporre una pressione documentabile sull’Egitto perché finisca l’estorsione a Rafah, sia che derivi da tasse di uscita ufficiali che da iniziative di funzionari corrotti.

Il comune senso del decoro non richiede niente di meno.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle Esta Eye.

Richard Burden è un ex-parlamentare laburista, ministro ombra e presidente del Gruppo Parlamentare Multipartito Gran Bretagna-Palestina. Per oltre 45 anni Burden ha militato in appoggio dei diritti umani e la giustizia in Israele e Palestina. È anche amministratore fiduciario dell’organizzazione benefica Balfour Project e vice presidente degli Amici Laburisti della Palestina e del Medio Oriente (LFPME).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Nel primo intervento dall’inizio della guerra contro Gaza Hamas afferma che “ci sono stati errori” negli attacchi del 7 ottobre

Redazione di MEE

22 gennaio 2024 – Middle East Eye

Il movimento palestinese nega di aver aggredito deliberatamente civili nell’attacco a sorpresa e afferma che il conflitto “non è contro il popolo ebraico”

Hamas ha pubblicato un rapporto di 16 pagine sul suo attacco del 7 ottobre contro alcune comunità del sud di Israele, in cui afferma che ci sono stati “errori” ma nega di aver preso deliberatamente di mira civili. “La nostra narrazione: operazione Inondazione Al-Aqsa”, pubblicato domenica, è il primo resoconto pubblico dell’operazione da parte dell’organizzazione palestinese dall’attacco di tre mesi fa.

L’attacco a sorpresa ha ucciso 1.140 persone, circa 700 delle quali civili, e ha visto circa 240 persone prese in ostaggio a Gaza, di cui più o meno la metà rilasciate in un accordo per lo scambio di prigionieri.

Da allora incessanti bombardamenti israeliani contro la Striscia di Gaza assediata hanno ucciso più di 25.000 palestinesi, in maggioranza donne e bambini. Secondo alcuni resoconti, durante l’offensiva israeliana sono morti almeno 25 ostaggi.

Vorremmo chiarire… la verità su quanto è avvenuto il 7 ottobre, le ragioni che l’hanno motivato, il contesto generale relativo alla causa palestinese così come una smentita delle affermazioni israeliane, e porre i fatti nella luce giusta,” inizia il rapporto.

La parte introduttiva espone il contesto storico e attuale della situazione in Palestina, in un capitolo che spiega perché l’organizzazione ha creduto che l’attacco fosse necessario.

Evidenzia l’esproprio di terre e l’espulsione di massa dei palestinesi durante la Nakba, o “catastrofe”, del 1948 e la guerra del 1967 in Medio Oriente, che portò all’occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme est e di Gaza, così come delle Alture del Golan siriane e del Sinai egiziano.

Continua elencando le azioni più recenti di Israele contro i palestinesi prima del 7 ottobre, tra cui cinque guerre contro Gaza dall’inizio del nuovo secolo e la Seconda Intifada che, sostiene, hanno ucciso più di 11.000 palestinesi

Hamas afferma anche che “attraverso una vasta campagna di costruzione di colonie e l’ebreaizzazione delle terre palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme” Israele ha fatto fallire gli Accordi di Oslo e la possibilità di creare uno Stato palestinese

Il rapporto ricorda: “Solo un mese prima dell’operazione ‘Inondazione Al-Aqsa’ il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha presentato una mappa del cosiddetto ‘Nuovo Medio Oriente’ che raffigurava ‘Israele’ esteso dal fiume Giordano al mar Mediterraneo, comprese la Cisgiordania e Gaza.”

Cita anche le incursioni israeliane nella moschea di al-Aqsa a Gerusalemme, “aggressioni e umiliazioni” dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e i 17 anni di blocco della Striscia di Gaza.

Che cosa ci si aspettava dal popolo palestinese dopo tutto questo? Che continuasse ad aspettare e a contare sull’impotente ONU? O prendesse l’iniziativa nella difesa del popolo, delle terre, dei diritti e dei luoghi santi palestinesi, sapendo che le azioni difensive sono un diritto insito nelle leggi, norme e convenzioni internazionali?” dice.

Forse ci sono stati errori”

Riguardo agli eventi del 7 ottobre il rapporto sostiene che Hamas ha preso di mira postazioni militari israeliane e intendeva “arrestare i soldati del nemico” nel tentativo di fare pressione sulle autorità israeliane per il rilascio di migliaia di prigionieri palestinesi.

Evitare di arrecare danno ai civili, soprattutto bambini, donne e anziani è un impegno religioso e morale di tutti i combattenti delle Brigate Al-Qassam,” afferma, in riferimento all’ala militare di Hamas.

Insistiamo sul fatto che durante l’operazione la resistenza palestinese è stata molto disciplinata e rispettosa dei valori islamici e che i combattenti palestinesi hanno preso di mira solo i soldati dell’occupazione e quelli che hanno impugnato le armi contro il nostro popolo.”

Il rapporto aggiunge che i combattenti di Hamas hanno cercato di evitare danni ai civili “nonostante il fatto che la resistenza non possiede armi di precisione.”

Secondo i dati ufficiali israeliani durante gli attacchi tra le vittime ci sono stati più di 30 minorenni e 100 anziani, oltre a 60 lavoratori stranieri.

Se ci sono stati casi in cui sono stati presi di mira civili, ciò è avvenuto accidentalmente e nel corso di scontri con le forze dell’occupazione. A causa del rapido crollo del sistema di sicurezza israeliano e del caos provocato lungo le aree di confine con Gaza forse c’è stato qualche errore nella messa in atto dell’operazione ‘Inondazione Al-Aqsa’”.

Varie associazioni per i diritti umani hanno chiesto che Hamas, un’organizzazione bandita in molti Paesi occidentali, tra cui USA e Gran Bretagna, venga indagata per i fatti del 7 ottobre.

Amnesty International ha descritto “uccisioni deliberate di civili, rapimenti e aggressioni indiscriminate” durante l’operazione.

Amnesty afferma di aver verificato video che mostrano combattenti di Hamas rapire ed uccidere intenzionalmente civili all’interno e nei dintorni di centri abitati israeliani e analizzato video che mostrano gruppi armati che sparano contro civili durante il festival musicale Nova.

Hamas sostiene che Israele ha ucciso i suoi stessi cittadini

Hamas prosegue smentendo varie affermazioni israeliane riguardo al fatto che sono stati presi di mira i civili, comprese quelle secondo cui i miliziani palestinesi avrebbero decapitato 40 bambini, così come accuse che i combattenti palestinesi avrebbero violentato donne israeliane.

Citando articoli dei mezzi di informazione israeliani Haaretz e Yedioth Ahronoth, ipotizza anche che il 7 ottobre alcuni civili israeliani siano stati uccisi da un elicottero.

I due articoli sostengono che i combattenti di Hamas hanno raggiunto la zona della manifestazione musicale senza sapere in precedenza che ci fosse un festival, dove l’elicottero israeliano ha aperto il fuoco sia contro i miliziani di Hamas che contro i partecipanti al concerto,” afferma.

Cita la “Direttiva Hannibal”, una regola d’ingaggio israeliana che stabilirebbe che si debba evitare ad ogni costo che israeliani vengano presi di ostaggio, persino se ciò comportasse la morte della propria gente.

Hamas menziona anche il fatto che Israele abbia rivisto al ribasso i numeri delle persone uccise il 7 ottobre da 1.400 a 1.200 dopo aver scoperto che 200 corpi bruciati erano di combattenti di Hamas.

Ciò significa che chi ha ucciso i miliziani ha ucciso anche gli israeliani, dato che solo l’esercito israeliano possiede aerei da guerra che il 7 ottobre hanno ucciso, bruciato e distrutto zone israeliane,” dice l’organizzazione.

Aggiunge di avere la certezza che un’inchiesta indipendente “dimostrerebbe la verità della nostra narrazione” e proverebbe la portata delle “menzogne e informazioni fuorvianti da parte israeliana”.

Rifiutiamo lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei”

Più avanti nel rapporto Hamas sollecita la comunità internazionale, indicando gli USA, la Germania, il Canada e la Gran Bretagna, a sostenere gli sforzi perché tribunali internazionali indaghino le azioni di Israele.

Continua affermando che il conflitto non è con il popolo ebraico, ma con “il progetto sionista”. “Hamas non conduce una lotta contro gli ebrei in quanto tali, ma contro i sionisti che occupano la Palestina,” sostiene. “Però sono i sionisti che continuano a identificare ebraismo ed ebrei con il loro progetto coloniale e la loro entità illegale.”

Aggiunge che i palestinesi si oppongono alle ingiustizie contro i civili, incluse “quelle che gli ebrei hanno subito dalla Germania nazista.

Qui ricordiamo che il problema ebraico è stato essenzialmente un problema europeo, mentre i contesti arabi e islamici sono stati, nel corso della storia, un rifugio sicuro per il popolo ebraico e per popoli di altre fedi ed etnie,” sostiene.

Rifiutiamo lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei in Europa per giustificare l’oppressione contro il nostro popolo in Palestina”.

Il rapporto aggiunge che in base alle leggi internazionali la resistenza armata contro l’occupazione è legittima e afferma che le lezioni della storia dimostrano che “la resistenza è l’approccio strategico e il solo modo per la liberazione e la fine dell’occupazione.”

In un altro punto il movimento dice anche di “rifiutare categoricamente” ogni piano internazionale o israeliano per il futuro di Gaza che “serva a prolungare l’occupazione” e che i palestinesi dovrebbero decidere il proprio futuro.

Chiediamo di opporsi ai tentativo di normalizzazione con l’entità israeliana ed essere a favore di un boicottaggio complessivo dell’occupazione israeliana e dei suoi sostenitori,” conclude il rapporto.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Saranno la legge o le considerazioni politiche a influenzare i giudici della Corte Internazionale di Giustizia?

Muhammad Jamil

16 gennaio 2024, Middle East Monitor

Nessuna sentenza però, per quanto giusta, potrà mai ripristinare lo status quo precedente al 1948.

Nessuna causa legale potrà mai abbracciare tutti i dettagli del genocidio al quale il popolo palestinese è sottoposto da più di cento anni. Tutto ebbe inizio con la famigerata Dichiarazione Balfour del 1917, seguita dalla tristemente nota era del mandato britannico, fino alla Nakba del 1948 e alla Naksa del 1967 [letteralmente “la ricaduta”, la seconda diaspora palestinese successiva alla guerra del 1967, ndt.]. Continua ancora oggi con gli eventi nella Striscia di Gaza assediata e bombardata, nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme. Tuttavia, la comparizione di Israele, figlio coloniale e viziato dell’Occidente, per la prima volta davanti al più alto organo giudiziario internazionale come responsabile di almeno alcuni dei suoi crimini, è una vittoria contro l’impunità con cui gli è permesso di agire.

Le migliaia di palestinesi uccisi da Israele nel corso di molti decenni non torneranno mai più in vita; chi è stato reso disabile dovrà conviverci per il resto dei suoi giorni e la Striscia di Gaza avrà bisogno di molti anni, e di miliardi di dollari, per essere di nuovo abitabile.

La causa intentata dal Sudafrica il 29 dicembre presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG), pur rappresentando un’anteprima storica, si è concentrata su quello che viene descritto da molti come il genocidio commesso da Israele contro il popolo palestinese nella Striscia di Gaza a partire dal 7 ottobre. Il team legale sudafricano ha fornito una sintesi degli atti criminali di Israele punibili ai sensi della Convenzione sul Genocidio del 1948.

La CIG ha aperto il dibattito l’11 gennaio per decidere se imporre o meno le misure provvisorie richieste dal Sudafrica prima di decidere sul genocidio vero e proprio. Il Sudafrica ha chiesto nove misure provvisorie, sostanzialmente la sospensione delle operazioni militari e la protezione dei civili dalle continue uccisioni, dagli abusi fisici e psicologici e dalle torture e il rifornimento di forniture mediche, cibo e carburante. Le questioni urgenti non possono essere rinviate fino a quando il caso non sarà concluso poiché potrebbero volerci anni, durante i quali Israele avrà completato la sua missione di espellere ogni palestinese dalla Striscia di Gaza.

L’approccio della CIG non richiede una decisione sulla giurisdizione della Corte in merito al contenuto della richiesta. È sufficiente che il Tribunale si assicuri di avere una giurisdizione apparentemente ragionevole, che i requisiti dell’articolo 9 della Convenzione sul Genocidio [che prevede che le controversie siano sottoposte alla Corte su richiesta di una delle parti, ndt.] siano applicati ad entrambe le parti in causa, e che esista una relazione tra le misure provvisorie e il diritto ad essere protetti.

Il primo requisito è soddisfatto poiché il Sud Africa e Israele hanno sottoscritto la Convenzione sul Genocidio e nessuno dei due ha una riserva valida sull’articolo 9, il quale prevede che la Corte Internazionale di Giustizia sia l’autorità che dirime qualsiasi controversia derivante dall’interpretazione, applicazione, o attuazione delle sue disposizioni.

Quanto al secondo requisito, l’articolo 9 prevede che affinché possa essere stabilita la giurisdizione deve esserci una chiara controversia tra le due parti in causa riguardo all’interpretazione, applicazione o attuazione dell’accordo. La controversia deve essere risolta entro la data di registrazione della causa presso la cancelleria del tribunale.

Malcolm Shaw, membro della difesa israeliana, ha cercato di dimostrare che non esisterebbe una controversia tra lo Stato del Sud Africa e Israele, sostenendo che il Sud Africa non ha avviato una corrispondenza bilaterale con Israele esprimendo le sue preoccupazioni per gli atti commessi da Israele ottemperando così alle disposizioni della Convenzione sul Genocidio.

L’argomentazione di Shaw è debole e priva di fondamento, poiché lo Stato del Sud Africa ha svolto un ruolo pionieristico in testa a tutti i Paesi rivelando il profondo conflitto tra Sud Africa e Israele. Oltre alla corrispondenza bilaterale sugli atti di genocidio, ha rilasciato dichiarazioni in cui denunciava i crimini di Israele e ha ritirato i suoi diplomatici da Tel Aviv, dichiarando che non può essere consentito un genocidio sotto il naso della comunità internazionale.

Inoltre, il Sudafrica, insieme a molti altri paesi, ha deferito i crimini commessi alla Corte Penale Internazionale e si è unito ai molti tentativi del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per fermare i crimini che Israele sta commettendo. Le risultanti risoluzioni delle Nazioni Unite sono state criticate da Israele che ha sostenuto che sarebbero piene di odio e antisemite.

Dunque la controversia tra le due parti in causa è stata stabilita sulla base del riferimento della Corte Internazionale di Giustizia alla sua decisione sulle misure provvisorie nel caso Ucraina-Russia e nel caso Gambia-Myanmar. La Corte non si è basata solo sulla corrispondenza bilaterale, ma anche su dati giornalistici e sull’azione dello Stato a tutti i livelli, individualmente o con altri paesi, che hanno evidenziato la violazione delle disposizioni della Convenzione sul Genocidio.

Nella causa sul genocidio dei Rohingya, intentata dal Gambia contro il Myanmar, l’attenzione della Corte si è concentrata sul valore morale che ha spinto gli Stati a ratificare la Convenzione sul Genocidio e sull’impegno collettivo degli Stati a prevenire il genocidio. Pertanto, non è necessario che lo Stato che intenta la causa sia direttamente interessato dai presunti atti di genocidio. A questo proposito, la Corte ha affermato che le pertinenti disposizioni della Convenzione sul Genocidio sono definite come obblighi erga omnes, nel senso che qualsiasi Stato sottoscrittore della Convenzione sul genocidio, non solo lo Stato particolarmente colpito, può invocare la responsabilità di un altro Stato sottoscrittore allo scopo di verificare la presunta inadempienza dei suoi obblighi nei confronti di tutti e di porre fine a tale inadempienza.

La Corte ha debitamente concluso che il Gambia aveva prima facie la legittimazione a denunciare il conflitto con il Myanmar sulla base di presunte violazioni degli obblighi previsti dalla Convenzione sul Genocidio.

Per quanto riguarda l’ultimo requisito, cioè il collegamento tra le nove misure provvisorie richieste dal Sudafrica con i diritti da tutelare, la Corte ha potuto riscontrare che la maggior parte di questi diritti, per la loro natura, sono strettamente legati alle misure provvisorie, in particolare la sospensione delle operazioni di combattimento e il contrasto a qualsiasi atto di genocidio. Logicamente ciò significa che per fermare le uccisioni, la distruzione, gli abusi fisici o psicologici dei membri del gruppo e gli sfollamenti, e consentire il flusso di tutti i tipi di aiuti, è necessario fermare l’azione militare.

Per quanto riguarda l’elemento intenzionale che costituisce il reato di genocidio, quando viene commesso uno qualsiasi degli atti criminalizzati dalla Convenzione sul genocidio “deve esserci una provata intenzione da parte degli autori di distruggere fisicamente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” in tutto o in parte – clausola nota come “intento speciale” che è solitamente difficile da dimostrare. Nei reati ordinari il pubblico ministero deve scavare nella mente del criminale e nelle circostanze del reato per indagare su di esso e dimostrare l’intento previsto dall’accusa.

Sebbene l’intento non sia un elemento importante da dimostrare in questa fase, il Sudafrica ha presentato decine di dichiarazioni di personale militare, ministri e primo ministro israeliani dimostrando la loro tenacia e determinazione nel commettere il crimine di genocidio, rafforzato dalla massiccia quantità di omicidi e distruzione.

Shaw ha cercato piuttosto banalmente di dare poca importanza a queste affermazioni e ne ha data una diversa interpretazione. Tuttavia le azioni, le parole che le hanno supportate e le loro conseguenze dimostrano l’intenzione di Israele di commettere il genocidio.

In generale, quando la Corte considera i fatti e le prove supportati da schiaccianti statistiche, immagini, video e resoconti internazionali, si sentirà titolata rispetto all’esistenza di una sua giurisdizione di principio che le consenta di imporre misure preventive, e la Corte ne garantirà l’attuazione attraverso le misure che impone. Ciò include l’obbligo per Israele di presentare un rapporto entro una settimana dalla data della sentenza in cui spieghi quali azioni ha intrapreso per attuare quelle misure, e poi di presentare rapporti periodici entro un periodo specificato (ad esempio ogni tre mesi) per tutta la durata dell’udienza della causa originale.

Gli argomenti presentati dalla difesa israeliana ignorano e negano i fatti sul campo. Si è trattato semplicemente di una ripetizione delle falsità che abbiamo sentito durante gli oltre 100 giorni di offensiva militare israeliana contro i palestinesi a Gaza. I civili palestinesi e le infrastrutture civili sarebbero tutti militarizzati, compresi ospedali, luoghi di culto, scuole dell’UNRWA e giornalisti. Questo incolpare le vittime dell’aggressione israeliana sostanzialmente contraddice il fatto che la maggior parte dei palestinesi uccisi e feriti da Israele sono bambini e donne. Anche solo questo suggerisce con forza l’esistenza di un piano di sterminio in cui i civili vengono presi di mira deliberatamente.

Sarebbe sufficiente che i giudici valutassero i fatti a loro presentati e verificassero la presenza dei tre requisiti necessari per respingere le richieste di Israele di cancellare il caso dagli atti pubblici e per sostenere l’imposizione di tutte o della maggior parte delle misure provvisorie. Ciò accadrebbe solo se le misure dell’intesa fossero in teoria implementate e se i giudici agissero in modo indipendente senza alcuna influenza da parte dei rispettivi governi – che nominano i giudici della Corte Internazionale di Giustizia – qualunque sia la loro posizione. In altre parole, saranno la legge o le considerazioni politiche a influenzare i giudici?

Resta anche la questione se Israele attuerà la decisione dei giudici se andasse contro gli interessi percepiti dello Stato sionista. Che Israele sia comparso davanti alla Corte e abbia presentato la sua difesa significa che ha riconosciuto l’autorità della Corte Internazionale di Giustizia ed espresso la propria volontà di attenersi alla sua decisione. Per esperienza, però, sappiamo che Israele è abile nell’eludere e manipolare tali decisioni. Non ha remore a violare il diritto internazionale e a trattarlo con disprezzo.

Sembra che coloro che hanno sostenuto Israele nella sua offensiva genocida continueranno a farlo. Sia gli Stati Uniti che la Gran Bretagna hanno criticato la denuncia del Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato che nella causa la Germania starà dalla parte di Israele. Non sarebbe sorprendente se gli Stati Uniti e il Regno Unito si unissero alla difesa di Israele. Un simile passo aumenterebbe il numero degli imputati responsabili di aver commesso il genocidio, poiché se il genocidio fosse dimostrato questi paesi sarebbero considerati complici.

Altri paesi potrebbero ora essere spinti ad unirsi al Sudafrica e presentare richieste che obblighino gli alleati di Israele a cessare il loro sostegno al genocidio. La Namibia lo ha già fatto, vittima del primo genocidio del XX secolo commesso dalla Germania nel 1904.

La storia verrebbe riscritta per far luce sull’eredità coloniale degli Stati Uniti e dell’Europa, in cui il genocidio delle popolazioni indigene ha avuto un ruolo di rilievo e le cui prove sono schiaccianti e non possono essere negate.

Vorrei esortare tutti i paesi a capire che hanno il dovere di sostenere la causa del Sudafrica con tutti i mezzi possibili. Gli Stati sottoscrittori della Convenzione sulla Prevenzione del Genocidio che non hanno una riserva sull’articolo 9 devono unirsi alla causa per ampliarne la portata e includere tutti i territori palestinesi occupati, poiché anche i crimini commessi dall’occupazione israeliana in Cisgiordania e Gerusalemme devono essere affrontati in base alla Convenzione sul Genocidio.

La priorità, tuttavia, resta quella di fermare con ogni mezzo la barbara aggressione di Israele. Dopo più di 100 giorni, non è più accettabile che 152 paesi dell’ONU siano incapaci di fare qualcosa per affrontare e fermare Israele e i suoi alleati. I Paesi arabi e islamici possono guidare questi tentativi e esserne referenti per salvare ciò che resta della Striscia di Gaza, ma devono smettere di temerne le conseguenze e abbandonare la propria debolezza. Solo allora ci riusciranno.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Da Gaza al Congo: il sionismo e la storia dimenticata del genocidio

Ramzy Baroud

9 gennaio 2024 – Middle East Monitor

Migliaia di chilometri separano l’Uganda e il Congo dalla Striscia di Gaza, ma questi luoghi sono connessi alla Palestina in modi che le tradizionali analisi geopolitiche probabilmente non riuscirebbero a spiegare. Eppure il 3 gennaio è stato rivelato che il governo israeliano di estrema destra di Benjamin Netanyahu sta attivamente discutendo proposte per espellere milioni di palestinesi verso Paesi africani in cambio di un prezzo definito.

Apparentemente la discussione sull’espulsione di milioni di palestinesi da Gaza è entrata nel pensiero mainstream israeliano il 7 ottobre, tuttavia il fatto che questo dibattito continui a oltre tre mesi dall’inizio della guerra di Israele contro Gaza indica che le proposte israeliane non sono l’esito di uno specifico momento storico come l’Operazione Diluvio Al-Aqsa, per esempio.

Anche a una rapida disamina le testimonianze storiche israeliane puntano al fatto che l’espulsione di massa dei palestinesi, nota in Israele come “trasferimento”, era, e resta, una rilevante strategia sionista che mira a risolvere il cosiddetto “problema demografico” dello Stato di apartheid.

Molto prima che il 7 ottobre i combattenti delle Brigate Al-Qassam e altri movimenti palestinesi assaltassero la recinzione che separa l’assediata Gaza da Israele, i politici israeliani avevano discusso in varie occasioni come ridurre la popolazione palestinese complessiva per mantenere una maggioranza ebraica nella Palestina storica. L’idea non era solo limitata agli estremisti oggi al governo in Israele, ma era anche dibattuta da personaggi come l’ex ministro della difesa israeliana Avigdor Lieberman che, nel 2014, suggerì un progetto per un “piano di scambio della popolazione”.

Persino intellettuali e storici ritenuti progressisti hanno sostenuto questa idea, sia in teoria che in pratica. In un’intervista con il giornale israeliano progressista Haaretz nel gennaio 2004 uno dei più influenti storici israeliani, Benny Morris, si rammaricava che il primo ministro israeliano, David Ben-Gurion, non fosse riuscito ad espellere tutti i palestinesi durante la Nakba, il catastrofico evento di massacri e pulizia etnica che portò alla costruzione dello Stato di Israele sopra città e villaggi palestinesi.

Essi includono una memoria ufficiale pubblicata il 17 ottobre della think tank Misgav Institute for National Security and Zionist Strategy e un rapporto diffuso tre giorni dopo dalla testata israeliana Calcalist, [il principale quotidiano finanziario israeliano, ndt.] che riportava un documento che proponeva la stessa strategia.

Che Egitto, Giordania e altri Paesi arabi abbiano apertamente e immediatamente dichiarato la loro totale opposizione all’espulsione dei palestinesi è un’indicazione del grado di serierà di queste proposte ufficiali israeliane.

Il nostro problema è [trovare] un Paese che voglia accogliere i gazawi,” ha detto il 2 gennaio Netanyahu, “e noi ci stiamo lavorando.” I suoi commenti non sono i soli. Il ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich ha detto che “la cosa da fare nella Striscia di Gaza è incoraggiare l’emigrazione.”

È stato allora che il dibattito ufficiale israeliano ha adottato il termine “migrazione volontaria”. Non c’è niente di “volontario” in 2.2 milioni di palestinesi ridotti alla fame che devono affrontare il genocidio mentre vengono spinti sistematicamente verso la zona di confine fra Gaza ed Egitto.

Nella causa presentata alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG), il governo del Sudafrica ha incluso la pulizia etnica di Gaza pianificata da Tel Aviv come uno degli argomenti principali elencati da Pretoria, che accusa Israele di genocidio.

A causa del mancato entusiasmo da parte dei Paesi occidentali filoisraeliani, i diplomatici israeliani stanno facendo il giro del mondo alla ricerca di governi che vogliano accettare palestinesi vittime di pulizia etnica. Immaginate se questo comportamento provenisse da un qualsiasi altro Paese, un Paese che ammazza civili, minori, donne e uomini e poi fa shopping per trovare altri Stati che accettino i sopravvissuti in cambio di denaro.

Israele non solo si fa beffe del diritto internazionale, ma ha anche raggiunto un livello ancora più basso nel comportamento spregevole di qualunque altro Stato, ovunque nel mondo, in qualsiasi momento della storia, antica o moderna. Nonostante ciò il mondo continua a rimanere a guardare, sostenere, come nel caso degli USA e del Regno Unito, o a protestare timidamente o energicamente, ma senza fare neanche un passo significativo per fermare il bagno di sangue a Gaza, o per bloccare la possibilità di scenari veramente terrificanti che potrebbero seguire se la guerra non finisce, e presto.

Tuttavia c’è una cosa che molti forse non sanno: il movimento sionista, l’istituzione ideologica che fondò Israele, prese in considerazione il suggerimento di spostare gli ebrei del mondo in Africa e stabilire là il loro Stato, prima di scegliere la Palestina quale “focolare ebraico”. Il cosiddetto “Schema Uganda” del 1903 fu formulato da Theodor Herzl, il giornalista ateo che fondò il sionismo politico, al sesto congresso sionista. Era basato su una proposta avanza da Joseph Chamberlain, ministro britannico per le Colonie. Alla fine il progetto venne abbandonato, ma i sionisti prima continuarono a cercare altri posti, per poi decidere per la Palestina e stabilirsi là, sfortunatamente per i palestinesi.

Se paragoniamo il linguaggio genocidiario dei leader israeliani di oggi e studiamo i loro punti di riferimento razzisti riguardo ai palestinesi, possiamo vedere una significativa coincidenza con il modo in cui le comunità ebraiche sono state percepite dagli europei per centinaia di anni. L’improvviso interesse sionista per il Congo come “patria” potenziale per i palestinesi illustra ulteriormente il fatto che il movimento sionista continua a vivere all’ombra della sua storia, proiettando il razzismo europeo contro gli ebrei attraverso il razzismo di Israele contro i palestinesi.

Il 5 gennaio Amihai Eliyahu ministro israeliano per il Patrimonio [di Gerusalemme], ha suggerito che gli israeliani “devono trovare delle soluzioni per i gazawi che siano più dolorose della morte.” Non dobbiamo affannarci per trovare un simile linguaggio usato dai nazisti tedeschi contro gli ebrei nella prima metà del Ventesimo Secolo. Se la storia si ripete, lo fa in modo grottesco e crudele.

Ci è stato detto che il mondo ha imparato dalle uccisioni di massa delle guerre precedenti, incluso l’Olocausto e altre atrocità della Seconda Guerra Mondiale. Eppure sembra che le lezioni siano state ampiamente dimenticate. Non solo Israele sta ora assumendo il ruolo di assassino di massa, ma anche il mondo occidentale continua a giocare il ruolo assegnatogli in questa storica tragedia. I leader occidentali o applaudono Israele, o protestano garbatamente, o non fanno assolutamente nulla.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)