Netflix e Israele: un rapporto speciale

Belen Fernandez

24 settembre 2019 – Middle East Eye

Come numerose piattaforme dell’intrattenimento, Netflix si è fatta inglobare nell’industria della hasbara israeliana

Nel 2016 l’ambasciata israeliana negli Stati Uniti ha twittato riguardo all’espansione di Netflix a livello globale: “Per circa 5 giorni all’anno il tempo non è buono…@Netflix, ora in Israele!”

Certo, che fortuna che Israele sia riuscito a fondarsi su terra rubata con un clima così favorevole. E, parlando di fortuna, Netflix si è dimostrato un vero dono del cielo per lo Stato ebraico per molto più di cinque giorni all’anno. Come numerose piattaforme di intrattenimento, Netflix si è fatta inglobare nell’industria della hasbara [propaganda, ndtr.] israeliana.

Onorare il Mossad

L’ultimo prodotto filo-israeliano per abbellire gli schermi degli utenti a pagamento è la serie in sei parti “La Spia” di Netflix, con Sacha Baron Cohen che interpreta l’agente del Mossad [servizio segreto per l’estero, ndtr.] israeliano Eli Cohen, giustiziato a Damasco nel 1965.

Prevedibilmente la serie umanizza Cohen in quanto umile, amorevole e zelante patriota impegnato in un nobile inganno a favore degli innocenti israeliani sotto attacco da parte dell’ignobile Siria. Non si fa alcun riferimento al ruolo prevalente di Israele come aggressore-provocatore, mentre la sua storia di stragi di massa al servizio di disegni predatori a livello regionale è – come al solito – sparita sotto il mantra dell’“autodifesa”.

Ma “La Spia” è solo l’inizio. Cercate “Israele” su Netflix e sarete bombardati da ogni sorta di offerte, da “Dentro al Mossad” a “Fauda”, una serie su “un importante agente (che) ritorna in servizio dalla pensione per dare la caccia a un combattente palestinese che pensava di aver ucciso”. Nel trailer, apprendiamo che “Abu Ahmad ha sulle mani il sangue di 116 israeliani” e che “nessun altro terrorista ne ha uccisi così tanti: uomini, donne, bambini, anziani, soldati.”

Non importano, allora, gli episodi della vita reale come quella volta in cui nel 2014 l’esercito israeliano ha avuto sulle sue mani il sangue di 2.251 palestinesi, compresi 299 donne e 551 minorenni. Quello che interessa alla propaganda israeliana è invertire il rapporto tra carnefice e vittima, cosicché il terrorismo istituzionalizzato di Israele a danno dei palestinesi sarebbe in qualche modo per sua natura una reazione, mentre le vittime di più di settant’anni di aggressioni israeliane si ritrovano nel ruolo degli aggressori.

La morale della storia

La lista di Netflix continua. Vi sono ospitati anche due film intitolati “L’angelo” e “La spia caduta sulla terra”, usciti rispettivamente nel 2018 e nel 2019, e riguardanti lo stesso personaggio: l’egiziano Ashraf Marwan, genero del defunto presidente Gamal Abdel Nasser.

Nel loro libro “Spies Against Armageddon: Inside Israel’s Secret Wars” [Spie contro l’Armageddon: dentro le guerre segrete di Israele] Dan Raviv e Yossi Melman notano che nel 1973 Marwan è stato il coordinatore del complotto libico-egiziano-palestinese per abbattere un aereo della linea aerea israeliana El Al in Italia, in risposta all’abbattimento da parte di Israele di un velivolo libico che aveva ucciso le 105 persone a bordo.

Marwan consegnò personalmente i missili richiesti a incaricati palestinesi a Roma, ma “il piano fallì…Quello che i cospiratori libici, egiziani e palestinesi non hanno mai saputo è il segreto riguardante Marwan: era un agente al soldo del Mossad, uno dei migliori che Israele abbia mai avuto.”

Mentre per gli arabi la morale della storia è forse che fare la spia per Israele è un buon modo per raggiungere una fama postuma su Netflix, questo specifico aneddoto dovrebbe anche annullare concretamente le affermazioni israeliane di avere a cuore il benessere e la sicurezza dei propri cittadini.

Poi c’è “When Heroes Fly” [Quando volano gli eroi], la serie del 2018 su quattro veterani dell’esercito israeliano traumatizzati dalla guerra del 2006 in Libano; solo per il fatto che Israele fece la grande maggioranza delle uccisioni ed altri danni non significa che il ruolo di vittima dovrebbe essere tolto ai suoi soldati.

Un articolo di Haaretz ci assicura che “il nuovo thriller israeliano di Netflix ‘When Heroes Fly’ è divertente quasi quanto ‘Fauda’” e la serie è “abbastanza avvincente da soddisfare chiunque abbia perso ‘Fauda’ nella propria vita.” Di certo è difficile pensare a qualcosa di più divertente di una guerra e di un trauma.

Ultimo ma non per importanza, c’è il film di Netflix “Il Centro Immersioni del Mar Rosso”, sui tentativi da salvatore bianco del Mossad negli anni ’80 di evacuare gli ebrei etiopi attraverso il Sudan verso la Terra Promessa (ovviamente per molti la terra in questione non sarebbe risultata così promessa, come possono probabilmente testimoniare gli etiopi a cui sono stati somministrati a forza farmaci contraccettivi o a cui la polizia israeliana ha sparato).

Il film è diretto da Gideon Raff, che ha ideato anche “La Spia” e “Hatufim”, che ha ispirato la serie razzista considerata da tutti la preferita, “Homeland” [Patria] – alla quale Raff ha contribuito. Discussione su come trovare il proprio posto.

Spettacolo vergognoso

Evidentemente non c’è niente di contraddittorio riguardo agli israeliani che compiangono la morte e l’espulsione in Etiopia – e all’imperativo morale di salvare le vittime – quando tutta l’impresa israeliana è costruita su, proprio così, morte ed espulsione.

Nel 1948 la Nakba vide centinaia di villaggi palestinesi distrutti, l’uccisione di 15.000 palestinesi ed altri 750.000 costretti a fuggire dalle loro case. Da allora il modello della pulizia etnica è solo continuato, punteggiato da veri e propri picchi di massacri.

In quello che non può che essere descritto come un’esibizione di totale spudoratezza, “The Red Sea Diving Resort” include battute come questa, detta da una bionda agente israeliana: “Non siamo tutti solo dei rifugiati?”

Il film finisce ricordando che “attualmente ci sono più di 65 milioni di rifugiati in tutto il mondo”; al diavolo il fatto che, grazie a Israele, di palestinesi rifugiati ce ne sono oltre sette milioni.

E mentre nel film un agente sostiene che c’è “un altro sanguinoso genocidio” che sta avvenendo in Etiopia, ma che “a nessuno gliene fotte niente perché avviene in Africa”, il tentativo di genocidio di Israele per spazzare via l’identità palestinese non merita evidentemente la stessa preoccupazione.

A conti fatti la mia ricerca di “Palestina” su Netflix – e lo stesso vale per “Libano” e “Siria” – ha prodotto in buona misura la stessa ampia scelta di thriller con spie israeliane e altre “piacevolezze”. Quando ho tentato di cercare “Nakba”, il principale risultato è stato “Bad Boys II” [Cattivi ragazzi 2, serie poliziesca USA, ndtr.], interpretato da Martin Lawrence e Will Smith; un po’ più in basso si trova “The Red Sea Diving Resort”.

Sparizione

Recentemente ho contattato Netflix per avere risposte alle critiche sul fatto che funge da mezzo per la propaganda israeliana, ed ho ricevuto la seguente dichiarazione da un portavoce: “Ci occupiamo dell’industria dell’intrattenimento, non dei media o della politica.

Comprendiamo che non tutti gli spettatori apprezzano tutta la programmazione che offriamo. È per questo che abbiamo una vasta gamma di contenuti da tutto il mondo – perché crediamo che le grandi storie arrivino da qualunque parte. Tutti gli spettacoli di Netflix mostrano la classificazione e l’informazione per aiutare gli utenti a prendere le proprie decisioni su quello che va bene per loro e per le loro famiglie.”

La mia attenzione era rivolta anche ad alcuni esempi dei “diversi contenuti arabi che si trovano nel servizio e in via di sviluppo”, di cui il primo è “comici del mondo”, uno spettacolo che ospita 47 comici internazionali – quattro dei quali mediorientali.

Ma i comici del Medio Oriente sono molto lontani dagli apprezzamenti per “The Spy” – che, come ogni spettacolo di intrattenimento centrato su Israele, è intrinsecamente politico – e il solo fatto che su Netflix ci sia un “contenuto arabo” non significa che faccia qualcosa per umanizzare o contestualizzare la lotta dei palestinesi.

Il rapporto speciale di Netflix con Israele potrebbe essere redditizio per chi ne è coinvolto, ma, contribuendo ad alzare gli indici di gradimento di Israele in un’esibizione di brutalità che è già durata per settant’anni di troppo, la compagnia è totalmente complice nella sparizione dei palestinesi operata da Israele.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Belen Fernandez  è autrice di Exile: Rejecting America and Finding the World [Esilio: rifiutare l’America e trovare il mondo”] e di “The Imperial Messenger: Thomas Friedman at Work” [“Il messaggero dell’impero: Thomas Friedman [giornalista del NYT noto per le sue posizioni filoisraeliane] al lavoro]. È una collaboratrice della rivista “Jacobin” [“Giacobino”, rivista della sinistra radicale USA, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Negazionismo e Nakba

Quando scoppia la bolla del negazionismo: un kibbutz israeliano di fronte alla Nakba

Salman Abu Sitta

5 settembre 2019 – Mondoweiss

 

Cosa succede quando un popolo è rinchiuso in una bolla in cui la “verità” ha un solo libro da leggere, da seguire e a cui ubbidire, e poi improvvisamente la bolla scoppia e il sole risplende su una verità completamente nuova, verificabile, chiara e corretta?

Ciò è quello che succede ai kibbutz [comunità agricole sioniste con proprietà collettiva, ndtr.] di Nirim, Nir Oz, Magen e Ein Hashloshla. Questi quattro kibbutz vennero fondati dopo la Nakba del 1948 sulla mia terra, Al Ma’in (65,000 dunum – 6.500 ettari). Al Ma’in è stato ed è da secoli il luogo d’origine della mia famiglia, Abu Sitta, ora rifugiata nella Striscia di Gaza e altrove.

Eitan Bronstein Aparicio, fondatore di “De-Colonizer” [De- Colonizzatore] (fondatore in precedenza di “Zochrot”, un gruppo israelo-palestinese che insegna la Nakba agli israeliani), ha fatto scoppiare la bolla. Eitan ha allestito una mostra piccola e semplice. Ha raccolto mappe, libri, video e una foto aerea della RAF [aviazione militare britannica, ndtr.] di Al Ma’in nel 1945, che mostra campi e l’aspetto principale del villaggio e le ha collocate in due stanze e un cortile. La mostra si è tenuta il 25 luglio 2019 nella “Casa Bianca”, l’unico edificio palestinese sopravvissuto alla demolizione del villaggio da parte degli israeliani nel 1948 e trasformata da Haim Peri, un artista di Nir Oz, in una galleria d’arte.

Eitan ha invitato i coloni di Al Ma’in e della zona circostante ad andare a vedere la mostra. Il suo messaggio era semplice. Quella era la gente che viveva qui e che ora è rifugiata a due chilometri di distanza dietro il filo spinato nella Striscia di Gaza. La presentazione lasciava intendere che Israele aveva preso la loro proprietà ed ora ci vivete voi.

Nonostante il fatto che il numero dei visitatori è stato modesto, probabilmente tra quaranta e cinquanta, le reazioni sono state indicative di gente a cui è stata negata la verità, le vittime del fatto di aver messo a tacere la Nakba.

Le considerazioni, e persino le minacce, più irate sono venute da un vecchio abitante di un kibbutz, di più di 80 anni, che aveva assistito e partecipato all’attacco contro Al Ma’in. La milizia Haganah [principale gruppo armato sionista prima della nascita di Israele, ndtr.] attaccò Al Ma’in il 14 maggio 1948 con 24 veicoli blindati, distrusse e bruciò case, demolì la scuola costruita nel 1920, fece saltare in aria il pozzo e il mulino a motore. Ad essa resistettero coraggiosamente per alcune ore 15 difensori palestinesi armati di vecchi fucili. Da bambino vidi le rovine fumanti del mio villaggio mentre ero ammassato insieme ad altri bambini e donne in una forra lì vicino. Non avevo mai visto un ebreo prima di allora e non sapevo chi fossero gli aggressori o perché fossero venuti a distruggere le nostre vite.

Il 14 maggio 1948 diventai un rifugiato.

Quel giorno sulle rovine del mio Paese, la Palestina, Ben Gurion proclamò lo Stato di Israele.

In seguito all’attacco e all’occupazione, nel periodo tra il 1949 e il 1955 sulla terra di Al Ma’in vennero costruiti i quattro kibbutz. La famiglia Abu Sitta, che era allora composta da circa 1.000 persone ed ora da circa 10.000, diventò rifugiata, per lo più nella Striscia di Gaza.

I coloni anziani, che erano presenti nel 1948, hanno accusato Eitan di eversione e gli hanno consigliato di trovare un altro Paese in cui emigrare. Hanno minacciato di dire alle autorità di negare l’ingresso a visitatori stranieri che potrebbero andare proprio per vedere la mostra. Ironicamente questi anziani sono stati i primi a visitare la mostra, probabilmente per trovare il modo di spiegare la loro storia negazionista.

Ovviamente la loro storia non merita neppure una replica. Hanno detto che lì non c’era nessuno: “Siamo arrivati dove c’era un deserto vuoto.” Come spiegare i campi coltivati nelle foto aeree? Chi li aveva seminati? La casa in cui è stata sistemata la mostra, il pozzo e il mulino a motore, le rovine che si trovano ancora lì, come li possono spiegare?

Il colono più anziano di Nirim, Solo (cioè Chaim Shilo o Solo Weicheck), 94 anni, un tedesco di origini russe, era indignato quando un giornalista britannico gli ha chiesto ripetutamente: “Perché non permettete alla famiglia Abu Sitta di tornare a casa?”

I coloni anziani hanno detto che quelle case erano state costruite dagli inglesi. Si tratta di una strana affermazione, in quanto chiunque abbia una conoscenza anche approssimativa della storia palestinese sa che abbiamo combattuto contro i britannici fin dalla [dichiarazione] Balfour. In particolare, il mio fratello maggiore Abdullah era il leader della rivolta del 1936-1939 nel distretto meridionale. Lui e i suoi compagni espulsero i britannici dal distretto di Beer Sheba per un anno, dall’ottobre 1938 al novembre 1939.

I coloni anziani sostengono di aver comprato le terre. Ma nessuno potrebbe fornire una prova di essere proprietario, legalmente o in altro modo, di un solo appezzamento di terreno per miglia e miglia.

La risposta più comune di giovani e anziani è stata: “Abbiamo vinto la guerra. Quando mai il vincitore ha restituito quello che ha vinto?”

Affermare che essere forti nella vittoria contro una controparte debole sia una giustificazione per un crimine solleverebbe la Germania nazista dai suoi crimini perché avrebbe potuto commettere e commise quei crimini. In base alla stessa argomentazione, i britannici sarebbero assolti da ogni colpa per il massacro di Amritsar  del 1919 [le truppe inglesi spararono contro la folla che assisteva ad un comizio nella città indiana, uccidendo più di 300 persone, ndtr.], i russi per aver giustiziato ufficiali polacchi nella foresta di Katyn nel 1940 [truppe sovietiche sterminarono più di 20.000 tra ufficiali e prigionieri polacchi, ndtr.] e i francesi per aver gettato in mare centinaia di prigionieri algerini da voli della morte con elicotteri nel 1957 [durante la “battaglia di Algeri” combattuta dal movimento di liberazione algerino, ndtr.].

I coloni hanno ripetuto il solito vecchio ritornello: “Noi abbiamo accettato il piano di spartizione [della Palestina tra arabi ed ebrei, approvato dall’ONU nel 1947, ndtr.], voi no. Sarebbe possibile che la Francia concedesse più di metà del Paese agli immigrati africani?”

Se i coloni fossero stati informati, avrebbero saputo che il piano di spartizione era una semplice raccomandazione, senza alcun valore giuridico vincolante. L’ONU non aveva l’autorità di dividere Paesi e lo disse. Oltretutto l’ONU, e sorprendentemente gli USA, lasciarono cadere il piano di spartizione a favore dell’amministrazione fiduciaria sulla Palestina da parte dell’ONU.

Nessuna fonte israeliana lo cita. I poveri coloni sarebbero gli ultimi a saperlo.

I coloni hanno sostenuto che “se non ci aveste fatto una guerra, tra di noi ci sarebbe stata la pace.” Ciò è molto strano. Non ricordo che la mia famiglia o qualunque altro gruppo di palestinesi abbia schierato un esercito ed abbia marciato verso la Polonia e la Russia per attaccarvi gli ebrei. É vero il contrario. Allora, chi ha scatenato la guerra? Non sanno rispondere.

Ciò che sicuramente non sanno è che l’abbandono del piano di spartizione a metà del marzo 1948 innescò un fondamentale avvenimento nella storia della Nakba. Ben Gurion [leader sionista e primo capo del governo israeliano, ndtr.] decise di conquistare la Palestina e ordinò di mettere in pratica immediatamente il piano Dalet [che prevedeva l’espulsione dei palestinesi dalla Palestina, ndtr.].

Di conseguenza iniziò l’invasione sionista della Palestina. In sei settimane, dal primo di aprile al 14 maggio 1948, l’Haganah conquistò località cruciali in Palestina e fondò sul terreno Israele, dopo che Herbert Samuel [politico ebreo sionista inglese nominato alto commissario del Mandato britannico sulla Palestina, ndtr.] (1920-1925) [periodo in cui Samuel fu alto commissario in Palestina, ndtr.] aveva definito le sue fondamenta giuridiche 28 anni prima.

In quelle sei settimane 220 villaggi, comprese molte cittadine, vennero attaccati e spopolati, quasi metà di tutti i rifugiati palestinesi vennero espulsi e vennero commessi 22 degli oltre 50 massacri avvenuti nel corso della Nakba. Durante quelle stesse sei settimane vennero condotte 17 operazioni militari da nove brigate. In ogni attacco ci fu una superiorità numerica di 10 a 1 contro i difensori. In totale Israele organizzò 31 operazioni militari per occupare parecchie regioni della Palestina, incrementando così il proprio controllo dal 6% della Palestina alla fine del Mandato [britannico] al 78% a metà del 1949. Vennero occupate nuove terre per formare una solida spina dorsale dalla pianura della costa centrale fino a Merj bin Amer e alle rive occidentali del fiume Giordano da Beisan a Metulla.

Quella fu la vera invasione della Palestina. Fu un’invasione sionista.

Ecco Adele Raemer, una nuova colona di Nirim. Arrivò dal Bronx [quartiere di New York, ndtr.] nel 1975 per insediarsi sulla mia terra. Scrive un blog sulla sofferenza dei kibbutz nell’‘enclave di Gaza’ e si lamenta degli aquiloni palestinesi che incendiano i ‘suoi’ campi di grano. Ho risposto dicendo che quelli sono i miei campi di grano. Le ho detto che ricordo che da bambino mi veniva permesso di sedermi sulla nostra mietitrebbia.

Ha voluto sapere: “Da quanto tempo la famiglia Abu Sitta ha vissuto ad Al Ma’in?”

Mi sono rifiutato di rispondere. Avrei potuto replicare che il nome Abu Sitta era sulle mappe di Allenby [generale britannico che sconfisse i turchi in Medio Oriente, ndtr.] quando conquistò Beer Sheba nel 1917, che il mio trisnonno fu citato per nome in un documento ottomano del 1845 riprodotto al Cairo e a Gerusalemme. Avrei potuto dirle che il nome Abu Sitta (Padre di Sei) venne coniato verso il 1720 in considerazione del fatto che il mio progenitore era un ben noto cavaliere accompagnato dalla scorta di sei compagni.

Mi sono rifiutato di rispondere perché non devo provare la mia discendenza a una colona i cui parenti sono arrivati di nascosto su una nave da uno shtetl [villaggio ebraico dell’Europa dell’est, ndtr.] sulle spiagge della Palestina nel cuore della notte.

Le sue lamentele sulla dura vita a Nirim sono state riprese da suo cugino, Gil Troy, un docente di storia all’università McGill [università canadese con sede a Montreal, ndtr.]. La formazione accademica non lo salva dai limiti della bolla della negazione. In risposta al devastante attacco israeliano contro Gaza dell’agosto 2014 [l’operazione “Margine protettivo”, ndtr.] ha scritto che Nirim venne fondato nel 1946, cioè prima della Nakba. Falso. Venne fondato sulla mia terra nella primavera del 1949, dopo che fummo attaccati ed espulsi. Egli ammira la “vera comunità di coltivatori”, ma omette di menzionare che venne fondata su una proprietà rubata e che i proprietari la vedono da dietro il filo spinato a due chilometri di distanza. Egli loda i coloni in quanto “agricoltori che persino sotto il continuo fuoco tendono la mano ai loro vicini gazawi, sconcertano il mondo con la loro straordinaria generosità ebraica, sionista e democratica.”

La bolla negazionista ha impedito al dotto professore di notare che la popolazione di 247 villaggi spopolati è stata ammassata nella stretta Striscia di Gaza con una densità di 7.000 persone per km2, mentre i coloni vagano sulla loro terra con una densità di 7 persone per km2.

Lo stesso Nirim ha 173 membri e le loro famiglie sfruttano 20.000 dunam (2.000 ettari) della mia terra, mentre la mia famiglia estesa, Abu Sitta, è composta da 10.000 rifugiati che vivono a due chilometri di distanza.

Il dotto professore parla del “confine” di Israele. Dovrebbe sapere che Israele non ha mai avuto un confine né per sua stessa ammissione né per le leggi internazionali. Probabilmente si riferiva alla linea dell’accordo di armistizio del 24 febbraio 1949. Ma il secondo articolo di questo accordo stabilisce che esso non concede diritti a Israele, né riguardo alla sua sovranità né alla proprietà di terre occupate.

Senza dubbio il dotto professore non sa che il confine di cui parla è solo una linea temporanea di ‘modus vivendi’ concordata nel febbraio 1950. La vera linea di armistizio è tre chilometri all’interno della terra occupata da Israele nel 1948, il che fa sì che Nirim, Ein Hashlosha e Nir Oz si trovino nella Palestina non occupata, nota ora come Striscia di Gaza.

Questo solo pensiero terrorizzerebbe i coloni e trasformerebbe la mostra di Eitan in una bomba di fatti che minerebbe tutte le loro rivendicazioni. Ma ciò non è stato citato.

È stranamente assente da ogni discussione l’orrendo stupro e l’uccisione di una ragazzina araba di 12 anni catturata da un plotone di Nirim nell’agosto 1949. I soldati di un plotone l’hanno violentata a turno, poi le hanno sparato e l’hanno sepolta. L’unico segno fu la sua mano che spuntava dalla fossa poco profonda. Ben Gurion citò brevemente questo fatto nel suo diario di guerra. Nessuno fa riferimento a questo crimine, neppure i coloni più anziani, come Solo, che all’epoca erano lì.

Ma c’è un raggio di speranza, un raggio così tenue da mettere in evidenza la dimensione della negazione. È una risposta di Efran Katz, un colono di Nir Oz. Vale la pena di citarlo integralmente:

Quello che oggi ho visto qui è stato molto toccante e persino doloroso. Nonostante abbia vissuto qui per più di 35 anni, sento la necessità e la speranza di tornare alla terra e riviverla con le emozioni passate, di riviverla con la cultura e i costumi vostri, degli abitanti.

Una terra non è un mattone. Una terra è un valore, è radici, è l’amore per un luogo. Non c’è posto per la deportazione. Il mio cuore è con voi.

Ai coloni può sembrare che la bolla della negazione sia un luogo sicuro in cui nascondersi. La logica è chiara. Se un crimine viene rivelato, chi lo ha commesso sarebbe un criminale meritevole di una punizione e obbligato a un risarcimento. La mostra di Eitan è un chiaro promemoria.

Ma ora non è rimasto molto spazio per nascondersi nella bolla della negazione. Quando tutto il mondo saprà del crimine, la giustizia li raggiungerà e il risarcimento sarà un prezzo molto pesante da pagare.

 

Salman Abu Sitta è fondatore e presidente della “Palestine Land Society” [Società Palestinese della Terra], di Londra, che si dedica alla documentazione sulla terra e il popolo palestinesi. É l’autore di sei libri sulla Palestina, compresi il compendio “Atlante della Palestina 1917-1966”, edizione in inglese e in arabo, l’“Atlante del viaggio di ritorno” e oltre 300 documenti e articoli sui rifugiati palestinesi, il diritto al ritorno, la storia della Nakba e i diritti umani. Gli viene attribuita una vasta documentazione e cartografia della terra e del popolo palestinesi di oltre 40 anni. La sua acclamata autobiografia “Mappare il mio ritorno” descrive la sua vita in Palestina e la sua lunga lotta in quanto rifugiato per tornare in patria.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




Due spettri si aggirano: sovranismo* e razzismo.

Ugo Giannangeli

luglio 2019

Nota redazionale: pubblichiamo volentieri su Zeitun questo contributo di Ugo Giannangeli, giurista e da anni impegnato nella solidarietà con la lotta del popolo palestinese per la libertà e la giustizia. Partendo da un articolo scritto da Patrizia Cecconi, anche lei nota attivista a favore dei palestinesi, Giannangeli disegna il contesto giuridico internazionale e suggerisce la necessità di collegare le varie lotte contro razzismo e discriminazione con quella contro le politiche di Israeliane, che è diventato un modello sia ideologico che pragmatico per ogni tipo di sovranismo.

L’articolo di Patrizia Cecconi a cui fa riferimento la prima parte del contributo è il seguente:

https://www.pressenza.com/it/2019/07/uno-spettro-si-aggira-ma-non-e-il-comunismo/

Nell’articolo pubblicato su Pressenza il 23 luglio Patrizia Cecconi, sull’onda dello sdegno per l’ennesimo crimine sionista (la demolizione di palazzi costruiti a Sur Bahig nella zona A della Palestina con tanto di autorizzazione della ANP), ripercorre le tappe più importanti della marcia del sionismo, individuandone conseguenze nefaste non limitate all’area mediorientale. L’articolo ricorda la assoluta inanità del Diritto universale umanitario, la vanificazione della legalità internazionale a partire dalle Convenzioni di Ginevra; ricorda l’insipienza dell’Onu, l’impunità assoluta di Israele; ricorda la nascita di Israele sulla base di una preteso diritto su quella terra promessa agli ebrei dal loro dio, l’interesse delle potenze occidentali all’insediamento di uno Stato “occidentale” in Medio Oriente e giunge a definire “nuova Shoah” la tragedia del popolo palestinese, precisato il significato della parola ebraica e fatto il dovuto distinguo tra la volontà nazista di eliminazione degli ebrei e la volontà sionista di espulsione di tutti i palestinesi dalla loro terra.

Cecconi ricorda infine il ricatto dell’accusa di antisemitismo che va a colpire qualsiasi critica al disegno sionista e alla politica di Israele e torna, in conclusione, sul concetto di “ falsa legalità” che governa Israele ma non gli impedisce di essere ritenuto una democrazia: l’Alta corte di giustizia, ad esempio, ha attribuito la patente di legalità anche a questo ultimo crimine di demolizione creando la nuova figura del “crimine legale” con insanabile e inconciliabile contrapposizione tra la pretesa legalità interna e la legalità internazionale. L’articolo forse per questa sua capacità di sintesi, forse per la narrazione sofferta (si leggano le ultime righe) ha provocato in me una reazione: di fronte a queste verità palesi e inoppugnabili da decenni, come dimostrato anche dalla necessità di fare ricorso alla farsa dell’accusa di antisemitismo in assenza di qualsiasi possibilità di contrasto reale, che senso ha continuare a denunciare l’inanità del diritto internazionale e l’inutilità dell’Onu? Dopo 71 anni di violazioni ha senso ancora attribuire la perenne impunità sionista solo a un certo benevolo lassismo nei confronti di Israele derivante principalmente dalla Shoah (Golda Meir fu facile profeta: “Dopo la Shoah tutto ci sarà permesso”)? La prima insubordinazione alla legalità internazionale risale al 1948 (risoluzione 181); i primi crimini di guerra e contro l’umanità risalgono allo stesso anno (la Nakba), senza tenere conto dei crimini sionisti precedenti la nascita dello Stato (il terrorismo ebraico di Irgun e Banda Stern); gli ultimi crimini sono dell’altro ieri.

Mai una sanzione, mai qualcosa che andasse al di là del buffetto sulla guancia, buffetto puntualmente dato dall’ONU anche per queste ultime demolizioni. Nulla dopo il parere della Corte di giustizia de L’Aia sulla illegalità del muro nel 2004; nulla dopo la risoluzione n. 2334 del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 26 dicembre 2016 di condanna delle colonie. Non solo, ma ad ogni timida critica ad Israele, e, soprattutto, ad ogni modesta concessione ai diritti dei palestinesi, Israele ha sempre risposto contrattaccando: ammessa la Palestina all’Onu come Stato osservatore? Il giorno dopo deliberate nuove colonie; ammessa all’Unesco? Nuove colonie; sottoscritta la adesione palestinese al Tribunale penale internazionale? Nuove colonie. Gli attacchi sono a largo raggio: all’ UNRWA; al Consiglio dei diritti umani definito da Yair Lapid “Consiglio per i diritti dei terroristi”; ai sostenitori del Bds, a livello nazionale con la legge che ne vieta l’ingresso in Israele, a livello internazionale con la richiesta (accolta in alcuni casi) di leggi o sentenze repressive e criminalizzanti il movimento.

Questo sul piano delle relazioni. Sul terreno, ai bombardamenti indiscriminati di civili inermi nelle varie “ operazioni” contro Gaza nel 2008/ 2009, 2012, 2014 ha fatto seguito lo sterminio mirato di vecchi, donne, bambini, medici, infermieri, giornalisti durante la Grande marcia del ritorno. L’Occidente ha parlato solo di “uso eccessivo della forza”! Dobbiamo allora dare ragione a Trump quando, quattro giorni dopo la risoluzione n.2334, ha twittato: “L’ONU è un club dove le persone si riuniscono, chiacchierano e si divertono”?

Tutto questo, rapidamente riassunto in una sintesi incompleta, è sotto gli occhi di tutti, è palese, incontrovertibile da sempre. Sono giunto allora a una conclusione e attendo speranzoso una smentita: non è forse tutto voluto e pianificato? Se non dal 1948, almeno dal 1967 quando tutti hanno tifato Israele credendo alla frottola della guerra difensiva e continuando a crederci anche dopo che tre generali israeliani protagonisti della guerra dei 6 giorni nel 1972 hanno smentito la versione ufficiale. Cos’è la legge sullo Stato nazione del luglio 2018 che proclama Israele Stato degli ebrei e solo degli ebrei se non un atto di guerra al diritto internazionale? Se le colonie, fresche della condanna ad opera della risoluzione n.2334, sono da valorizzare e incrementare; se Gerusalemme, definita unica e indivisibile, è proclamata capitale dello Stato ebraico in spregio al diritto internazionale, quale significato attribuire a questi articoli della legge se non che Israele è autorizzato a fare quello che vuole? Se non c’è reazione agli omicidi mirati sul border di Gaza, c’è da stupirsi se il dovere di soccorso dei profughi in mare è diventato un diritto e infine un crimine da pagare con la galera? L’imbarbarimento indotto dalle leggi e dalle pratiche israeliane dilaga a favore dei sovranismi e dei razzismi nel mondo. Quale Stato è più sovranista e più razzista, ora anche per legge, di Israele? Chi, se non Israele, faceva affari con il Sudafrica dell’apartheid in violazione del boicottaggio internazionale? E’ casuale il feeling di Israele con Orban e tutti i Paesi di Visegrad o non c’è forse una comunanza di amorosi sensi politici ed economici? Così si può chiudere un occhio, anzi entrambi, sull’antisemitismo (questo sì, vero) di questi signori (Orban: “noi perdoniamo la vostra occupazione, voi il nostro antisemitismo”).

Fermiamoci un attimo a casa nostra: Renzi va alla Knesset e neppure cita la questione palestinese; Salvini prosegue il “lavoro” di Minniti sui profughi, va in Israele, attacca Hezbollah e si trova in buona sintonia con Netanyahu; è stata approvata una legge che aumenta la pena se l’istigazione all’odio razziale riguarda la Shoah; pende un progetto di legge di criminalizzazione del Bds. Il servilismo è assoluto; l’omaggio ad Israele è obbligatorio per chiunque aspiri a carriere politiche.

Se tutto ciò è vero, com’è vero, ha senso continuare a fare riferimento alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo di cui Israele viola praticamente tutti gli articoli, alle Convenzioni di Ginevra, pacificamente applicabili ai Territori occupati e continuamente violate, alle convenzioni internazionali a tutela dei bambini, metodicamente imprigionati in Israele, o contro la tortura, regolarmente praticata, si veda l’ultimo rapporto di B’Tselem? ( per inciso: quanto sdegno, mentre scrivo, attorno alla benda sugli occhi del giovane assassino statunitense del carabiniere a Roma quando questa pratica è normalmente in uso contro le migliaia di prigionieri palestinesi nella più assoluta indifferenza!); ha senso sperare in una sentenza della Corte penale internazionale (dinanzi alla quale pende un procedimento fermo da anni in fase preliminare) la cui attività istruttoria andrebbe a scontrarsi inevitabilmente con l’omertà anzi la complicità dell’autorità israeliana che mai consegnerebbe gli indagati o fornirebbe prove a loro carico? Mai Israele ha collaborato con le commissioni d’inchiesta dell’Onu anzi ne ha impedito addirittura l’ingresso sul proprio territorio (Goldstone docet), figuriamoci con un Tribunale internazionale cui neppure ha aderito e di cui contesta la giurisdizione.

Immagino la critica più immediata a questa mia reazione: ma cos’altro abbiamo a disposizione? Rispondo: il rafforzamento delle lotte, migliorando il loro coordinamento. In particolare il Bds ma in generale tutte le lotte. Perché devono essere distinte le lotte a favore dei profughi (costretti a fuggire da guerre e carestie quasi sempre indotte dall’Occidente) da quelle per i palestinesi che, invece, vogliono rimanere nella loro terra? Quelle per il disarmo, quando Israele detiene armi atomiche ma non sottoscrive trattati di non proliferazione, e testa armi e sostanze sperimentali sui gazawi? Quelle contro il razzismo sempre più diffuso e che riprende piede in Europa anche nella sua veste militarizzata con la recente scoperta di vere e proprie organizzazioni armate neonaziste (ad esempio in Ucraina) quando è Israele a distinguere i diritti della propria popolazione su base etnica e religiosa? Quelle contro il TAV e per la tutela del territorio e dell’ambiente, quando Israele è un reticolato di muri, filo spinato, checkpoints, by pass roads e colonie? Quelle per la riaffermazione di principi fondamentali proclamati nell’immediato dopoguerra e poi mano a mano affondati nella palude della impunità di Israele. I Paesi occidentali hanno appoggiato la nascita di Israele come avamposto occidentale contro la cosiddetta barbarie araba. Da tempo l’Occidente e il suo avamposto soffrono di un grave deficit di valori e di democrazia. Da quando le guerre sono state chiamate umanitarie o sono diventate operazioni di polizia internazionale imperialismo e capitalismo hanno avuto gioco più facile dovunque. Paesi sovrani sono stati distrutti (Jugoslavia, Libia, Iraq), con altri si è tentato in vario modo (Siria, Venezuela), altri sono in guerra perenne ( l’Afghanistan da 18 anni). La lotta per i diritti del popolo palestinese si inserisce a pieno titolo in questo contesto di lotte: contro l’imperialismo, contro il capitalismo, contro il razzismo, contro la guerra.

Occorre sviluppare la solidarietà internazionale e mobilitare un sostegno popolare internazionale, così come fa il BDS per la Palestina, movimento che non a caso si vuole criminalizzare fingendo di dimenticare che analogo strumento è stato usato vittoriosamente contro il Sudafrica e contro i boicottatori dei neri negli USA.

Tornando in conclusione all’uso del diritto, faccio mie le parole di Nicola Perugini e Neve Gordon nel loro splendido “Il diritto umano di dominare”: “Se l’uso della legge conferisce legittimità al dominante, bisogna creare un cortocircuito che combini i diritti umani a discorsi e pratiche di emancipazione per spezzare il nesso tra legge e legittimità; ci sembra che questa possa essere una raccomandazione valida per tutti quei contesti nei quali l’osservanza della legge, invece che la sua critica, riproduce i meccanismi della dominazione” ( op.cit. pagg. 209-210). Si pensi al caso delle leggi razziali del 1938 che conferivano “legittimità” all’odio razziale o, oggi, ai decreti sicurezza che rendono “legittime” le stragi nel mare.

Sul piano internazionale l’uso dell’arma giuridica è stato parificato al ricorso al terrorismo. Perugini e Gordon ricordano un rapporto del Pentagono intitolato “La strategia di difesa nazionale degli Stati Uniti d’America” in cui si legge: ”La nostra forza di Stato nazionale continuerà ad essere messa in discussione da coloro che useranno la strategia dei deboli ricorrendo a forum internazionali, cause giudiziarie e terrorismo” (op.cit.pag.99). Ben in sintonia Israele:” Nel novembre 2010 il Ministero degli Affari esteri israeliano pubblicò un lungo rapporto dal titolo” La campagna per diffamare Israele” nel quale sosteneva che “ ……….. se il teorico militare tedesco Carl von Clausewitz ha affermato che la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi, bisogna riconoscere che anche la guerra giuridica è la continuazione della attività terroristica con altri mezzi” (op. cit. pag. 102).

Questa opera denigratoria (anzi: criminalizzante) nei confronti dello strumento giuridico potrebbe indurre a pensare che, quindi, questo strumento qualche timore lo suscita e che, quindi, il suo uso potrebbe portare a risultati positivi. Così non è: si vuole semplicemente tacitare ogni forma di critica e dissenso.

In un mondo senza regole, senza arbitri e senza voci critiche conta solo una legge, quella della forza, sia essa politica, militare, economica, mediatica.

Per questo la lotta per i diritti del popolo palestinese è in realtà una lotta per i diritti di noi tutti.

Luglio 2019 Ugo Giannangeli

*In questo contesto uso il termine “sovranismo”, dai molteplici significati, per intendere la pretesa di uno Stato di non rispettare normative sovranazionali anche se sottoscritte e ratificate.




La polizia israeliana espelle una famiglia palestinese a Gerusalemme est, mentre entra un gruppo di coloni

Redazione di MEE

10 luglio 2019 – Middle East Eye

La famiglia Siyam ha sostenuto una battaglia legale di 24 anni sulla proprietà contro il potente gruppo di coloni “Elad”

Mercoledì la polizia israeliana ha espulso una madre con i suoi quattro figli dalla loro casa nel quartiere della Gerusalemme est occupata di Silwan per consegnarla all’organizzazione di coloni “Elad”.

Negli ultimi 24 anni Jawad Siyam, un importante attivista locale che ha condiviso la titolarità della proprietà con la sua famiglia, è stato impegnato in una interminabile battaglia legale contro la ricca e potente “Elad” riguardo alla proprietà.

Secondo i media locali, è stato arrestato durante lo sfratto di sua sorella e dei suoi figli.

Dagli anni ’90 la famiglia Siyam ha vinto vari ricorsi nei tribunali israeliani contro Elad, ma il gruppo di coloni ogni volta ha presentato appello e esibito documenti ai giudici per dimostrare il proprio possesso della proprietà.

Lo scorso mese il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha sentenziato a favore di Elad, una potente organizzazione il cui patrimonio è stimato ammontare a oltre 300 milioni di shekel (circa 74 milioni di euro).

Ora alla famiglia Siyam sono rimaste solo due unità abitative di un edificio di otto unità, dopo che Elad ne ha ottenute quattro.

Altre due unità immobiliari sono andate alla “Custodia israeliana delle proprietà di assenti” – un ente coloniale istituito in seguito alla Nakba (Catastrofe) del 1948 per prendere il controllo delle proprietà di palestinesi fuggiti dalla repressione durante la creazione dello Stato di Israele.

Secondo testimoni, mercoledì membri di Elad hanno occupato l’ultimo appartamento dei Siyam, buttando fuori gli effetti personali della famiglia, cambiando le serrature, erigendo cancelli tra loro e i Siyam e tagliando alberi in giardino.

Il capo di Elad, David Beeri, è stato filmato mentre esaminava la proprietà e poi stringeva la mano a un ufficiale della polizia israeliana. Nel 2017 Beeri ha ricevuto il Premio Israel alla carriera.

Jawad Siyam è il fondatore e direttore del centro d’informazione “Wadi al-Hilweh”, una Ong che intende fornire informazioni ai media e all’opinione pubblica sulle attività israeliane di colonizzazione nei quartieri di Silwan e Wadi al-Hilweh e e sugli scavi e i tunnel realizzati sotto le case palestinesi dalle autorità israeliane.

A lungo i palestinesi hanno accusato Israele di cercare di “ebraicizzare” la Gerusalemme est occupata e di cacciare i suoi 300.000 abitanti palestinesi per avere il controllo totale sulla città santa.

I due quartieri si trovano a sud delle mura della Città Vecchia di Gerusalemme e nei pressi della moschea di Al-Aqsa. Il quartiere è stato una zona di attività dei coloni e delle autorità israeliane, dove vengono tuttora effettuati scavi sotto le case dei palestinesi per trovare la perduta Città di Davide.

Negli ultimi 30 anni Elad ha occupato circa 75 case palestinesi. Lo scorso mese l’ambasciatore USA in Israele David Friedman e l’inviato della Casa Bianca per il Medio Oriente Jason Greenblatt hanno partecipato all’inaugurazione di un discusso tunnel sotto Silwan.

Il progetto del tunnel, chiamato dal governo israeliano “Via del pellegrinaggio”, è stato costruito nel corso degli ultimi otto anni con il sostegno di Elad. Passa sotto il quartiere in maggioranza palestinese di Wadi al-Hilweh.

Dal 1995 l’Autorità Israeliana per le Antichità, con l’appoggio della fondazione di coloni “Ir David”, ha scavato siti archeologici a Wadi al-Hilweh, ufficialmente per creare una nuova attrazione turistica e scoprire nella zona prove dell’esistenza della trimillenaria “Città di David”.

Il completamento del progetto della nuova “Città di David”, compreso un viale di stile romano costruito su strade che hanno ospitato generazioni di palestinesi, rafforzerebbe la posizione dei 450 coloni illegali che attualmente vivono a Silwan sotto scorta pesantemente armata, ed emarginerebbe i 10.000 abitanti palestinesi del quartiere.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Come i cristiani evangelici rischiano di incendiare il Medio Oriente

Jonathan Cook

8 luglio 2019 – Middle East Eye

TB Joshua è l’ultimo di una serie di predicatori filo-sionisti che si interessano a Israele – e i palestinesi ne pagheranno le conseguenze

Il recente arrivo del più popolare telepredicatore evangelico africano, TB Joshua, per rivolgersi a migliaia di pellegrini stranieri a Nazareth, ha prodotto un insieme di costernazione e di rabbia nella città dell’infanzia di Gesù.

C’è stata un’opposizione generalizzata da parte di movimenti politici di Nazareth, così come tra i gruppi comunitari e i leader religiosi, che hanno invocato un boicottaggio dei suoi due raduni. Si è aggiunto anche il consiglio dei mufti [autorità religiosa islamica, ndtr.], che ha descritto gli eventi come “una linea rossa per la fede nei valori religiosi.”

I raduni di Joshua, che includono episodi di esorcismo in pubblico, hanno avuto luogo in un anfiteatro all’aria aperta su una collina sopra Nazareth originariamente costruita per i fedeli del papa. Il luogo è stato utilizzato da papa Benedetto nel 2009.

Il pastore nigeriano, che ha milioni di seguaci in tutto il mondo e si autodefinisce un profeta, ha sollevato l’ostilità locale non solo perché il suo modello di cristianesimo si allontana di molto dalle più tradizionali dottrine delle chiese mediorientali. Rappresenta anche una tendenza dei cristiani stranieri, guidati da una lettura apocalittica della Bibbia, che si intromettono ancor più esplicitamente in Israele e nei territori palestinesi occupati – e in un modo che aiuta direttamente le politiche del governo israeliano di estrema destra.

Incremento del turismo di cui c’è molto bisogno

Nazareth è la più grande comunità palestinese in Israele sopravvissuta alla Nakba, o catastrofe, del 1948, che cacciò la maggioranza della popolazione autoctona da gran parte della propria patria e la sostituì con uno Stato ebraico. Oggi un quinto dei cittadini israeliani è palestinese.

La città e le sue immediate vicinanze includono la più alta concentrazione di palestinesi cristiani della regione. Ma ha a lungo patito dell’ostilità delle autorità israeliane, che hanno privato Nazareth di risorse per impedire che diventasse una capitale politica, economica o culturale della minoranza palestinese.

La città praticamente non ha terre su cui espandersi o zone industriali per ampliare le proprie risorse economiche, e Israele ha rigidamente limitato le sue possibilità di sviluppare un’adeguata industria turistica. La maggioranza dei fedeli vi passa brevemente per visitare la basilica dell’Annunciazione, il luogo in cui l’angelo Gabriele avrebbe detto a Maria che avrebbe portato in grembo Gesù.

Le autorità municipali di Nazareth hanno approfittato dell’occasione di sfruttare la pubblicità, e le entrate, fornite dalla visita di Joshua. La speranza a lungo termine del Comune è che, se la città potesse attirare almeno una piccola parte dei più di 60 milioni di cristiani evangelici degli USA e gli altri milioni in Africa ed Europa ciò fornirebbe un’enorme spinta all’economia della città.

Dati recenti mostrano che il turismo evangelico verso Israele è costantemente aumentato, rappresentando ora circa un settimo di tutti i visitatori dall’estero.

Giocare con il fuoco

Ma, come indicano le conseguenze negative della visita di Joshua, Nazareth potrebbe giocare con il fuoco incoraggiando questo tipo di pellegrini a interessarsi maggiormente alla regione. La maggior parte dei cristiani locali comprende che gli insegnamenti di Joshua non sono rivolti a loro – e, di fatto, probabilmente li danneggiano.

Il pastore nigeriano ha scelto Nazareth per diffondere il suo messaggio, ma si è trovato di fronte la viva opposizione di quanti credono che stia utilizzando la città solo come scenario per la sua più grande missione – che appare totalmente indifferente al dramma dei palestinesi, sia di quelli che vivono in Israele in luoghi come Nazareth o di quelli sotto occupazione.

A Nazareth le fazioni politiche hanno sottolineato i “legami di Joshua con circoli di estrema destra e dei coloni in Israele.” Egli avrebbe avuto incontri riguardo al fatto di avviare attività nella Valle del Giordano, il luogo in cui si ritiene che sia stato battezzato Gesù, ma anche la spina dorsale agricola della Cisgiordania. L’area è presa di mira dal governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu per l’espansione delle colonie e la possibile annessione, condannando di conseguenza i tentativi di creare uno Stato palestinese.

Una visione dell’Apocalisse

Durante la sua visita in Israele, Joshua ha anche avuto modo di parlare con figure importanti del governo, come Yariv Levin, uno stretto alleato di Netanyahu, che è stato titolare di due ministeri considerati fondamentali dalla comunità evangelica: quello del turismo e quello dell’integrazione in Israele di nuovi ebrei immigrati dagli USA e dall’Europa.

Nella comunità evangelica molti, compreso Joshua, pensano che sia loro dovere incoraggiare gli ebrei a spostarsi dai loro Paesi d’origine alla Terra Promessa per anticipare la fine del mondo, che sarebbe stata profetizzata dalla Bibbia.

Questa è l’Assunzione in cielo, quando Gesù ritornerà per costruire il suo regno sulla terra e i buoni cristiani prenderanno il loro posto al suo fianco. Tutti gli altri, compresi gli ebrei che non si saranno pentiti, è implicito, bruceranno nel fuoco eterno dell’inferno.

Il dirupo sulla valle di Megiddo, dove Joshua e i suoi discepoli si sono riuniti, offre una veduta su Tel Megiddo, il nome attuale del sito biblico di Armageddon, dove molti evangelici credono avverrà presto la fine del mondo.

Accelerare la seconda venuta

Questi cristiani non sono semplici osservanti di un progetto divino rivelato, sono parte attiva, cercando di avvicinare la fine del mondo.

Difatti i traumi del conflitto israelo-palestinese – i decenni di spargimenti di sangue, colonizzazione ed espulsione violenta dei palestinesi – non possono essere compresi separandoli dall’influenza dei dirigenti cristiani dell’Occidente in Medio Oriente nello scorso secolo. Essi hanno progettato in molti modi l’Israele che oggi conosciamo.

Dopotutto i primi sionisti non furono ebrei, ma cristiani. Un forte movimento cristiano-sionista – noto allora come “restaurazionismo” – sorse all’inizio del XIX° secolo, anticipando e influenzando pesantemente la sua successiva controparte ebraica.

La particolare lettura “restaurazionista” della Bibbia comportava che essi credessero che la seconda venuta del Messia avrebbe potuto essere accelerata se il popolo eletto da dio, gli ebrei, fosse tornato alla Terra Promessa dopo 2.000 anni di presunto esilio.

Charles Taze Russell, un pastore USA della Pennsylvania, viaggiò in tutto il mondo dagli anni ’70 dell’Ottocento in poi implorando gli ebrei di fondare un focolare nazionale per sé stessi in quella che allora era la Palestina. Produsse persino un progetto su come uno Stato ebraico potesse essere creato là. Lo fece circa 20 anni prima che il giornalista ebreo viennese Theodor Herzl pubblicasse il suo famoso libro che delineava uno Stato Ebraico.

Il laico Herzl non si interessava molto di dove questo Stato ebraico sarebbe stato fondato. Ma i suoi seguaci – profondamente consapevoli della presa del sionismo cristiano nelle capitali occidentali – concentrarono la propria attenzione sulla Palestina, la Terra Promessa biblica, nella speranza di conquistarsi potenti alleati in Europa e negli USA.

Parola d’ordine per i seguaci di Herzl

L’appoggio dell’impero britannico era particolarmente prezioso. Nel 1840 Lord Shaftesbury, che grazie a sua moglie era in rapporto con Lord Palmerston, in seguito primo ministro, pubblicò sul “London Times” un’inserzione che sollecitava il ritorno degli ebrei in Palestina.

Il sionismo cristiano fu un importante fattore che influenzò il governo inglese nel 1917 per l’emanazione della Dichiarazione Balfour – di fatto un impegno della Gran Bretagna che divenne la matrice per la creazione di uno Stato ebraico sulle rovine della patria della popolazione autoctona.

Scrivendo a proposito della dichiarazione, lo storico israeliano Tom Segev ha osservato: “Gli uomini che l’hanno prodotta erano cristiani e sionisti e, in molti casi, antisemiti.” Ciò perché i cristiani sionisti partivano dal presupposto che gli ebrei non si potessero integrare nei loro Paesi d’origine. Invece avrebbero potuto servire come strumenti del volere di dio, spostandosi in Medio Oriente in modo che i cristiani potessero essere redenti.

Edwin Montagu fu l’unico ministro del governo britannico ad opporsi alla Dichiarazione Balfour, ed era anche l’unico membro ebreo. Avvertì – per buone ragioni – che il documento si sarebbe “dimostrato un terreno comune per gli antisemiti in ogni Paese al mondo.”

Lotta fino all’Assunzione”

Mentre un secolo fa gli ebrei sionisti guardavano alla potenza imperiale britannica perché li appoggiasse, oggi il loro patrono sono gli USA. I portabandiera del sionismo cristiano hanno goduto di una crescente influenza a Washington a partire dalla guerra dei Sei Giorni del 1967.

Questo processo ha raggiunto il suo apice sotto la presidenza di Donald Trump. Si è circondato di una miscela di estremisti ebrei e cristiani sionisti. Il suo ambasciatore in Israele, David Friedman, e il suo inviato in Medio Oriente, Jason Greenblatt, sono ferventi sostenitori ebrei delle colonie illegali. Ma, a quanto pare, alla Casa Bianca ci sono anche importanti cristiani, come il vice presidente Mike Pence e il segretario di Stato Mike Pompeo.

Prima che entrasse nel governo, Pompeo era stato chiaro riguardo alla sua fede evangelica. Nel 2015 ha detto a una congregazione: “È una lotta senza fine…fino all’Assunzione in cielo. Siatene parte. Partecipate alla lotta.”

Lo scorso marzo ha appoggiato l’idea che Trump possa essere stato mandato da dio per salvare Israele da minacce come l’Iran. “Confido che dio stia lavorando qui,” ha detto alla Rete Televisiva Cristiana [CBN una rete televisiva americana di produzione religiosa evangelica molto conservatrice ndtr].

Nel contempo Pence ha affermato: “La mia passione per Israele sgorga dalla mia fede cristiana…È veramente il più grande privilegio della mia vita essere il vicepresidente di un presidente che si preoccupa così profondamente del nostro più prezioso alleato.”

Il gigante addormentato si risveglia.

Lo scorso anno lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme da parte di Trump, svuotando di significato qualunque accordo negoziato del conflitto israelo-palestinese, era inteso a compiacere la sua base cristiana sionista. Circa l’80% degli evangelici bianchi ha votato per lui nel 2016 ed egli avrà bisogno del loro appoggio di nuovo nel 2020 se spera di essere rieletto.

Non a caso la nuova ambasciata USA a Gerusalemme è stata consacrata da due importanti telepredicatori evangelici, John Hagee e Robert Jeffress, noti per il loro appoggio fanatico a Israele – così come per i loro occasionali accessi antisemiti.

Più di un decennio fa Hagee, fondatore di “Cristiani Uniti per Israele”, disse ai delegati di una conferenza organizzata dall’AIPAC, principale gruppo lobbystico di Israele a Washington: “Il gigante addormentato del sionismo cristiano si è svegliato. Ci sono 50 milioni di cristiani che applaudono in piedi lo Stato di Israele.”

Le attività del gruppo di Hagee includono pressioni sul Congresso per dure leggi a favore di Israele, come la recente legge “Taylor Force” che taglia drasticamente il finanziamento USA all’Autorità Nazionale Palestinese, il governo provvisorio palestinese. Il gruppo è anche attivo nel contribuire a far pressione a favore di leggi a livello statale e federale che penalizzino chiunque boicotti Israele. Per gli evangelici USA e altrove Israele è sempre più una questione fondamentale. Un sondaggio del 2015 mostrava che circa i tre quarti credono che avvenimenti in Israele siano stati profetizzati nel Libro dell’Apocalisse della Bibbia.

Molti si aspettano da Trump che completi una catena di eventi messi in movimento da politici britannici un secolo fa – e in numero sempre maggiore sono direttamente coinvolti nella speranza di accelerare il processo.

Legami più stretti con i coloni

La visione israeliana di una “riunificazione degli esiliati” – incoraggiando gli ebrei di tutto il mondo a spostarsi nella regione in base alla “legge del ritorno” – corrisponde perfettamente alla fede dei cristiani sionisti in un progetto divino per il Medio Oriente.

Anche gli sforzi dei coloni estremisti ebrei di colonizzare la Cisgiordania, la maggior parte di un qualunque futuro Stato palestinese, si accorda con la concezione dei cristiani sionisti della Cisgiordania come il “cuore biblico”, un’area che gli ebrei devono possedere prima che Gesù ritorni.

Per queste ragioni gli evangelici stanno sviluppando rapporti sempre più stretti con gli estremisti religiosi ebrei israeliani, soprattutto nelle colonie. Recenti iniziative hanno incluso programmi di studio della Bibbia, on line e presenziali, condotti da ebrei ortodossi, spesso coloni, destinati specificamente a cristiani evangelici. I seminari sono disegnati per rafforzare la narrazione dei coloni, così come per demonizzare i musulmani e, per estensione, i palestinesi.

Il corso più popolare offerto da “Root Source” [Sorgente Principale], una di queste iniziative, è intitolato “Islam: idee e inganni”. Utilizza il Vecchio e il Nuovo Testamento per sostenere l’argomentazione secondo cui l’Islam “è estremamente pericoloso”.

Pochi mesi fa Haaretz, il principale giornale progressista israeliano, ha pubblicato un’inchiesta sul crescente afflusso di volontari e finanziamenti evangelici nelle colonie illegali in Cisgiordania – il principale ostacolo per raggiungere una soluzione dei due Stati.

Una sola organizzazione USA, “Hayovel”, ha portato più di 1.700 volontari cristiani negli ultimi 10 anni per contribuire a una colonia nei pressi di Nablus, nel cuore della Cisgiordania.

Affluisce denaro degli evangelici

Un crescente numero di iniziative simili è stato agevolato da nuove norme introdotte lo scorso anno dal governo israeliano per finanziare gruppi cristiani sionisti come Hayovel perché promuova all’estero le colonie.

È molto più difficile sapere esattamente quanto denaro degli evangelici affluisca nelle colonie, a causa della mancanza di trasparenza riguardo alle donazioni USA fatte da chiese e istituzioni benefiche. Ma l’inchiesta di Haaretz stima che nell’ultimo decennio siano stati investiti più di 65 milioni di dollari.

Dieci anni fa Ariel, una colonia posta nel pieno centro della Cisgiordania, ha ricevuto da John Hagee Ministries [Sermoni di John Hagee] 8 milioni di dollari per un centro sportivo. Un altro gruppo evangelico, “J. H. Israel”, vi ha speso 2 milioni di dollari per un centro per una leadership nazionale.

Altre associazioni benefiche cristiane che storicamente hanno finanziato progetti in Israele stanno sempre più prendendo in considerazione anche l’assistenza alle colonie.

Se un piano di pace di Trump, che dovrebbe essere reso pubblico alla fine di quest’anno, sostenesse l’annessione di parti della Cisgiordania, come ampiamente previsto, probabilmente scatenerebbe un nuovo e anche maggiore flusso di denaro degli evangelici nelle colonie.

Immune alla ragione

Proprio questo è il problema per i palestinesi, e per il Medio Oriente in generale. I cristiani sionisti si stanno ancora una volta immischiando, che si tratti di funzionari del governo, leader o comunità di una chiesa. L’influenza degli evangelici si può riscontrare dagli USA e il Brasile all’Europa, all’Africa e al Sudest asiatico.

I governi europei generalmente hanno preoccupazioni più concrete e pressanti che realizzare profezie bibliche per giustificare politiche di divide et impera in Medio Oriente. Vogliono soprattutto il controllo sulle risorse petrolifere della regione, e possono garantirsele solo attraverso il potere militare per impedire che Nazioni rivali vi si affermino.

Ma l’acritico sostegno di decine di milioni di cristiani in tutto il mondo, la cui passione per Israele è immune alla ragione, fanno il lavoro per quei governi accettando come niente fosse guerre e furto di risorse.

Sia Israele che l’Occidente hanno tratto beneficio dall’aver creato l’immagine di un impavido Stato ebraico circondato da barbari arabi e musulmani decisi a distruggerlo. In conseguenza di ciò, Israele ha goduto di una sempre crescente integrazione nel blocco delle potenze occidentali, mentre ai governi occidentali sono stati offerti facili pretesti per interferire nella regione, direttamente o delegando questa intromissione a Israele.

La ricompensa per Israele è stata l’appoggio incondizionato da parte degli USA e dell’Europa, mentre opprime ed espelle dalle loro terre i palestinesi.

Con una base evangelica dietro di lui, Trump non ha la necessità di offrire argomenti plausibili prima di agire. Può spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme o approvare l’annessione della Cisgiordania, o attaccare l’Iran.

Schierarsi contro i nemici di Israele

Da questo punto di vista qualunque nemico Israele sostenga di avere – i palestinesi o l’Iran – diventa automaticamente acerrimo nemico di decine di milioni di cristiani evangelici. Netanyahu comprende la crescente importanza di questa acritica lobby straniera, mentre la posizione sua e di Israele precipita tra gli ebrei USA progressisti, inorriditi dalla deriva verso destra dei governi che vi si susseguono.

Nel 2017 Netanyahu ha detto a una folla di evangelici a Washington: “Quando dico che non abbiamo migliori amici dei sostenitori cristiani di Israele, so che siete sempre stati con noi.” Per i palestinesi questa è una brutta notizia. La maggior parte di questi evangelici, come T.B. Joshua, sono in larga misura indifferenti o ostili al destino dei palestinesi – anche dei palestinesi cristiani, come quelli di Nazareth.

Un recente editoriale di Haaretz ha evidenziato che Netanyahu e i suoi politici stanno ora “adoperandosi per rendere gli evangelici – che appoggiano il rifiuto radicale di Israele riguardo ai palestinesi – l’unica base dell’appoggio americano per Israele.”

La verità è che questi cristiani sionisti vedono la regione attraverso un unico, esclusivo prisma: qualsiasi cosa contribuisca all’imminente arrivo del messia è ben accetta. L’unico problema è tra quanto tempo il “popolo eletto” da dio si riunirà nella Terra Promessa.

Se i palestinesi ostacolano Israele, queste decine di milioni di cristiani stranieri saranno assolutamente contenti di vedere la popolazione autoctona di nuovo cacciata – come lo è stata nel 1948 e nel 1967.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. È l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un dipartimento del ministero della Difesa israeliano è incaricato di nascondere le prove della Nakba – da “Haaretz”

Jonathan Ofir

5 luglio 2019 MondoWeiss

Israele ha un dipartimento segreto del ministero della Difesa incaricato di far sparire documenti relativi alla Nakba. Oggi il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato un‘estesa inchiesta di Hagar Shezaf intitolata “Seppellire la Nakba: come Israele ha sistematicamente nascosto le prove dell’espulsione degli arabi nel 1948”.

Il dipartimento è chiamato “Direzione della sicurezza dell’Istituzione della Difesa”, con l’acronimo in ebraico MALMAB. In ebraico risulta persino più ossessivo, perché le parole “Difesa” e “Sicurezza” sono le stesse (‘Bitahon’), quindi sarebbe “Direzione della Sicurezza per l’Istituzione della Sicurezza”. Quindi, da cosa l’istituzione della sicurezza si sta proteggendo?

Apparentemente si tratta della ricerca di documenti relativi a informazioni sensibili che riguardano il programma nucleare segreto di Israele. Ma è chiaro che il dipartimento si è occupato di informazioni sulla pulizia etnica della Palestina nel 1948 (e anche di espulsioni successive) in quanto minaccia strategica. Quindi documenti che sono già stati approvati dal censore per essere declassificati, già pubblici e citati, sono stati di nuovo messi in cassaforte per ordine di questi funzionari.

Per parecchi decenni il dipartimento segreto ha fatto sparire documenti. Alla fine degli anni ’80 le prove documentali relative ad avvenimenti della Nakba da parte di storici quali Benny Morris, Ilan Pappe e Avi Shlaim, noti anche come “Nuovi Storici”, sono diventate un problema per lo Stato, in quanto mettevano in dubbio la versione della propaganda israeliana e confermavano in larga misura quella che era stata derisoriamente definita la “narrazione palestinese”. Yehiel Horev, l’ufficiale che ha fondato e guidato il dipartimento per due decenni, fino al 2007, non è stato per niente reticente riguardo alla sua subdola motivazione. Alla domanda riguardo a un documento problematico che Morris aveva già citato nel 1986, Horev ha detto:

Non ricordo il documento a cui lei si riferisce, ma se l’ha citato e quello stesso documento non è là (cioè dove Morris dice che sia), allora i fatti di cui parla non sono affidabili. Se dice: ‘Sì, ho il documento,’ non lo posso discutere. Ma se dice che è scritto là, potrebbe essere vero o falso. Se il documento fosse già stato reso pubblico e fosse rinchiuso in archivio, direi che è una follia. Ma se qualcuno l’ha citato, c’è una differenza tra il giorno e la notte riguardo alla validità della prova che ha citato.

In altre parole, l’obiettivo del lavoro è minare la credibilità di quanti hanno già citato quei documenti.

Il documento specifico a cui ci si riferisce nella domanda non è un documento qualunque. È un documento del 30 giugno 1948 chiamato “L’emigrazione degli arabi della Palestina”, redatto dal servizio di intelligence militare israeliana, che elenca le ragioni della fuga dei palestinesi. Vengono elencati undici motivi in ordine di importanza, di cui i primi tre sono:

1. Operazioni ostili ebraiche (Haganah/IDF [principale milizia sionista/esercito israeliano, ndtr.] dirette contro insediamenti arabi;

2. Gli effetti delle nostre (Haganah/IDF) operazioni ostili contro insediamenti (arabi) vicini…(…soprattutto la caduta di grandi centri nei dintorni);

3. Operazioni di dissidenti (ebrei: Irgun Tzvai Leumi e Lohamei Herut Yisrael [altre due milizie sioniste ultranazionaliste e dedite al terrorismo fin dagli anni ‘30, ndtr.]).

In seguito il documento riepiloga i fattori e conclude:

Per riassumere le sezioni precedenti, si potrebbe pertanto dire che l’impatto delle “azioni militari ebraiche (Haganah e dissidenti) sulla migrazione è stato decisivo, in quanto circa il 70% degli abitanti ha lasciato le proprie comunità ed è emigrato in conseguenza di queste azioni.

A conferma che queste sono state le principali e fondamentali ragioni della fuga dei palestinesi, il documento attesta che i palestinesi per lo più se ne andarono per il timore immediato e a causa delle ostilità dirette, e non, come sosteneva la versione della propaganda israeliana, perché “i leader arabi glielo avevano detto.” Tale documento si riferisce alla responsabilità in termini di espulsione attiva dei palestinesi, indicando la nozione di pulizia etnica – che Ilan Pappe ha esplicitato nel suo libro fondamentale del 2006 “La pulizia etnica della Palestina.”

Dopo aver scritto l’articolo nel 1986, Morris ha citato questo documento anche in libri successivi. Ho fatto riferimento a questo in precedenti articoli, citando queste parti cruciali.

Quel documento è molto esteso. Nel bel mezzo della Nakba descrive già nei minimi dettagli lo spopolamento di 219 villaggi e 4 città, di 239.000 palestinesi. La campagna di pulizia etnica era in pieno svolgimento, e in sei mesi avrebbe riguardato lo spopolamento di 500 villaggi e città e circa 750.000 palestinesi. Il documento contiene 29 pagine ed è meticoloso in modo agghiacciante. Elenca il numero di abitanti in ogni località “durante un periodo normale”, in modo molto preciso (per esempio: Salihiyya – 1.520”; “Mansura – 360”) e poi elenca la ragione dello spopolamento (ad esempio: “Ein Zaytoun – distruzione del villaggio da parte nostra”; Qabba’a – nostro attacco contro di loro”). In genere viene elencata la direzione della fuga (per esempio: Qabba’a – “Libano”).

Quindi, che ne è di questo documento? C’è stato un incidente, una crepa nel muro del negazionismo. Benché sia diventato riservato dopo essere già stato citato, e nonostante il gruppo di lavoro del Malmab avesse ordinato che rimanesse segreto, pochi anni dopo ricercatori di Akevot, un istituto di ricerca che si dedica a documentare questioni relative ai diritti umani nel conflitto israelo-palestinese, trovarono una copia del testo e lo mostrarono alla censura militare – che ne autorizzò senza condizioni la pubblicazione. A quanto pare i dipartimenti deputati a nascondere le prove non hanno comunicato in modo corretto tra di loro. Questo documento fondamentale ora si può trovare integralmente grazie ad Akevot.

Ma il sistema di occultamento retroattivo continua a funzionare. Haaretz racconta la recente vicenda della storica israeliana Tamar Novick, che ha scoperto un documento del 1948 presso l’archivio Yad Yaari [centro di documentazione e studio su alcuni movimenti sionisti, ndtr.] di Givat Haviva [centro di documentazione del movimento dei kibbutz, ndtr.]. Il documento afferma:

Safsaf (in origine un villaggio palestinese nei pressi di Safed) – 52 uomini sono stati presi, legati uno all’altro, hanno scavato una fossa e sono stati colpiti a morte. Dieci si stavano ancora contorcendo. Sono arrivate le donne, chiedendo pietà. Sono stati trovati i corpi di 6 anziani. C’erano 61 corpi. Tre casi di stupro, uno a est di Safed, una ragazzina di 14 anni, e quattro uomini colpiti e uccisi. A uno hanno tagliato le dita con un coltello per prendergli l’anello.

Continua descrivendo altri massacri, saccheggi e violenze. Il documento in sé non era firmato (benché fosse nella documentazione del funzionario del dipartimento arabo del partito di sinistra MAPAM Yosef Vashitz) ed era tagliato a metà, per cui Novick ha deciso di consultarsi con Morris – che aveva citato avvenimenti simili nei suoi scritti. Le descrizioni di Morris sono prese da un altro documento (un rapporto del membro del Comitato Centrale del MAPAM Aharon Cohen), che proveniva anch’esso dallo stesso archivio. Quindi Novick è tornata a Givat Haviva per confermare i due documenti, ed ha scoperto che quello citato da Morris non c’era più.

In un primo tempo ho pensato che forse Morris non era stato preciso nelle sue note, che forse aveva fatto un errore,” ricorda Novick. “Mi ci è voluto del tempo prima di prendere in considerazione la possibilità che il documento fosse semplicemente scomparso.” Quando ha chiesto ai responsabili dove fosse il documento, le è stato detto che era stato messo sottochiave allo Yad Yaari per ordine del ministero della Difesa.

La Malmab ha fatto sparire anche documenti successivi. Per esempio una testimonianza del geologo Avraham Parnes relativa a un’espulsione di beduini nel 1956:

Un mese fa abbiamo visitato Ramon (cratere). Nella zona di Mohila alcuni beduini sono venuti da noi con le loro greggi e le loro famiglie e ci hanno chiesto di mangiare con loro. Ho risposto che avevamo molto lavoro da fare e non avevamo tempo. Nella nostra visita di questa settimana abbiamo di nuovo visitato Mohila. Invece dei beduini e delle loro greggi c’era un silenzio di morte. Una serie di carcasse di cammelli era sparsa nella zona. Abbiamo saputo che tre giorni prima l’IDF aveva ‘tolto di mezzo’ i beduini e le loro greggi erano state sterminate – i cammelli a fucilate, le pecore con le granate. Uno dei beduini, che ha iniziato a protestare, era stato ucciso, gli altri erano scappati…Due settimane prima era stato loro ordinato per il momento di rimanere dov’erano, poi era stato ordinato di andarsene e per accelerare le cose più di 500 capi erano stati massacrati…L’espulsione era stata realizzata ‘in modo efficace’.

La lettera continua citando quello che aveva detto uno dei soldati a Parnes, secondo la sua testimonianza:

Non se ne sarebbero andati se non avessimo fatto fuori le loro greggi. Una ragazza di circa 16 anni si è avvicinata a noi. Aveva una collana di perline di serpenti d’ottone. Le abbiamo strappato la collana e ognuno di noi ha preso un pezzetto come souvenir.

Recenti interviste, come quelle rilasciate all’inizio degli anni 2000 dal centro Yitzhak Rabin, sono state quasi tutte fatte sparire dalla Malmab, come questa sezione con il generale (della riserva) Elad Peled, intervistato dallo storico Boaz Lev Tov:

Peled: “Guarda, lascia che ti racconti qualcosa ancora meno piacevole e più crudele riguardo alla grande incursione a Sasa (villaggio palestinese nell’Alta Galilea). L’obiettivo era in effetti di scoraggiarli, di dire loro: ‘Cari amici, il Palmach (le truppe d’assalto dell’Haganah) può raggiungere ogni posto, voi non siete al sicuro.’ Quello era il cuore dell’insediamento arabo. Ma cosa abbiamo fatto? Il mio plotone ha fatto saltare 20 case con tutto quello che c’era dentro.”

Lev Tov: “Mentre la gente vi stava dormendo?”

Peled: “Penso di sì. Quello che avvenne là: arrivammo, entrammo nel villaggio, piazzammo una bomba nei pressi di ogni casa e poi Homesh suonò una tromba, perché non avevamo radio, e quello era il segnale perché (le nostre forze) se ne andassero. Corremmo all’indietro, gli artificieri rimasero, schiacciarono i pulsanti, era tutto rudimentale. Accesero la miccia o premetterono sul detonatore e tutte quelle case sparirono.”

Fortunatamente Haaretz ha avuto le trascrizioni integrali.

Questa ‘task force’ chiamata Malmab ha anche lanciato minacce contro archivisti. Menahem Blondheim, direttore dell’archivio presso l’Istituto di Ricerca Harry S. Truman dell’Università Ebraica di Gerusalemme, ricorda i suoi scontri con funzionari della Malmab nel 2014:

Ho detto loro che i documenti erano vecchi di decenni e che non potevo immaginare che ci potesse essere alcun problema di sicurezza che potesse giustificare una restrizione al loro accesso per i ricercatori. Mi hanno risposto: ‘Mettiamo che ci sia una testimonianza secondo cui durante la guerra d’indipendenza [la guerra tra milizie israeliane, Paesi arabi e palestinesi nel 1947-48, ndtr.] i pozzi vennero avvelenati?” Ho risposto: “Bene, quella gente dovrebbe essere processata.”

Haaretz nota come “il rifiuto di Blondheim portò a un incontro con un funzionario più importante del ministero, solo che questa volta l’atteggiamento che riscontrò fu diverso e vennero fatte minacce esplicite. Alla fine le due parti raggiunsero un compromesso.”

A quanto pare questo intervento di un ente segreto del ministero della Difesa sta provocando un considerevole dissenso negli archivi di Stato. Circa un anno fa, il consigliere giudiziario degli archivi di Stato, l’avvocatessa Naomi Aldouby, ha scritto un parere intitolato “Documenti negli archivi pubblici secretati senza autorizzazione.” Secondo lei la politica di accessibilità agli archivi pubblici è di esclusiva competenza del direttore di ogni istituzione. Gli storici sospettavano che questo ente segreto esistesse, perché ne avevano trovato tracce. Benny Morris:

Ne ero a conoscenza. Non ufficialmente, nessuno mi ha informato, ma ci ho avuto a che fare quando ho scoperto che documenti che avevo visto nel passato ora sono secretati. C’erano documenti dell’archivio dell’esercito che avevo usato per un articolo su Deir Yassin [villaggio palestinese in cui nel 1948 avvenne la strage più nota, ndtr.) e che ora sono secretati. Quando sono andato nell’archivio non mi è più stato possibile vedere l’originale, per cui ho sottolineato in una nota (nell’articolo) che l’archivio di Stato aveva negato l’accesso ai documenti che avevo reso pubblici 15 anni prima.

Questa scomparsa di documentazione in precedenza disponibile è parte di un più generale modello di segretezza. Secondo il direttore di Akevot , Lior Yavne, l’archivio dell’IDF, che è il più grande di Israele, è quasi del tutto inaccessibile. L’archivio dello Shin Bet (servizio di sicurezza [interna]) è “totalmente chiuso salvo una manciata di documenti.” Nel 1998 la riservatezza dei documenti più antichi dello Shin Bet e del Mossad [servizio di sicurezza esterno, ndtr.] doveva scadere (dopo 50 anni). Nel 2010 esso è stato retroattivamente esteso a 70 anni, e lo scorso febbraio a 90 anni, nonostante l’opposizione del Consiglio Supremo degli Archivi.

Lo storico Tuvia Friling, che fu capo archivista tra il 2001 e il 2004, dice che una delle ragioni principali per cui diede le dimissioni fu questo intervento da parte della Malmab. Afferma che in un primo tempo accettò il suo intervento con il pretesto che i documenti sarebbero stati messi su internet e che essa operava con il mandato di impedire che segreti nucleari divenissero accessibili a tutti, ma poi censurarono altre cose:

La secretazione posta su documenti riguardanti l’emigrazione araba nel 1948 è esattamente un esempio di quello che temevo. Il sistema di conservazione e archiviazione non è un’arma delle relazioni pubbliche dello Stato. Se c’è qualcosa che non ti piace – bene, così è la vita. Una società sana impara anche dai propri errori…Lo Stato può imporre riservatezza su alcuni dei suoi documenti – la domanda è se la questione della sicurezza non agisca come una sorta di copertura. In molti casi è già diventata una beffa.

Il fondatore della Malmab Yehiel Horev ha detto a Hagar Shezaf:

Quando lo Stato impone riservatezza, il lavoro pubblicato viene danneggiato perché lui (Morris) non ha il documento.

Shefaz gli chiede:

Ma nascondere documenti presenti nelle note di libri non è un tentativo di chiudere la porta della stalla dopo che i buoi sono già scappati?

Horev:

Se qualcuno scrive che il bue è nero, se il bue non è fuori dalla stalla, non puoi dimostrare che lo sia davvero.

Ma il bue è davvero nero. Un’altra intervista che la Malmab ha tentato di nascondere è quella con il generale Avraham Tamir (sempre tratta dalle interviste del Centro Yitzhak Rabin). Tamir dice:

Ben Gurion stabilisce come politica che dobbiamo demolire (i villaggi) in modo che non abbiano dove tornare. Cioè, tutti i villaggi arabi.

Proprio come la sistematica distruzione dei villaggi durante la Nakba, l’agenzia segreta israeliana Malmab “per la sparizione di documenti” sta cercando di far sparire le tracce della Nakba, in modo che gli storici non possano avere “nessun posto in cui tornare” in termini di ricerche, persino quando si tratta di verificare una documentazione storica critica già citata. La Malmab cerca di riportare i “buoi” della Nakba nella stalla – in modo che per dimostrare che “il bue è nero”, per dimostrare che c’è stata una Nakba, l’onere della prova spetti agli storici. E allora tutto diventa una discussione tra “narrazioni”.

Come dice Horev:

C’è ogni sorta di narrazione. Alcuni dicono che non ci fu nessuna fuga, solo espulsioni. Altri che ci fu una fuga. Non è bianco o nero. C’è una differenza tra la fuga e quelli che dicono che furono espulsi con la forza. È un’immagine diversa.

Hover e Israele sanno, precisamente, che nella stragrande maggioranza dei casi si trattò di una questione di espulsione forzata e del terrore di tale espulsione che si sparse tra le comunità palestinesi. Cercano di nascondere proprio i documenti che confermano ciò in termini chiari. La logica di questa negazione è evidente: intende scongiurare il problema della colpa per l’espulsione, per la pulizia etnica, in modo da negare la responsabilità per il ritorno dei rifugiati. Perché l’espulsione dei palestinesi è stata una necessità assolutamente fondamentale per il sionismo e Israele nei termini dell’”equilibrio demografico” in uno Stato “ebreo e democratico”. Conservare questo “equilibrio”, e negare il ritorno ai rifugiati è un obiettivo centrale del sionismo, e lo è stato dalla creazione di Israele.

La doppia presenza del termine “sicurezza” nell’acronimo Malmab è indicativo del suo opposto, l’insicurezza. Questa è l’intrinseca insicurezza morale israelo-sionista, che deriva dalla consapevolezza che il progetto sionista è basato per la sua stessa esistenza sullo sradicamento di altri. C’è una profonda consapevolezza in ogni sionista: non si potrà mai ottenere la sicurezza se non verrà posto rimedio al torto della (continua) pulizia etnica. Invece di affrontarlo, Israele pratica la negazione, nella speranza che se esso ne andrà via. Ma non lo farà. Questo bue è decisamente nero.

Jonathan Ofir è un musicista, conduttore e blogger / scrittore israeliano che vive in Danimarca.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Segni di esclusione razziale: razzializzare il colonialismo di insediamento israeliano

Andy Simons

2 aprile 2019 Middle East Monitor

Recensione del libro di Ronit Lentin

Data di pubblicazione : agosto 2018 Editore: Bloomsbury Academic , Paperback : 269 pagine

Nell’accusa politica distorta e ambigua di oggi alcuni principi rimangono immutati. Ronit Lentin, sociologa del Trinity College di Dublino, si è da tempo specializzata nei rapporti razziali e il suo libro scava nelle basi razziste di Israele. Di conseguenza il razzismo collettivo degli ebrei bianchi di Israele supera decisamente ogni confronto.

Un pregio dell’analisi è teoretico, in quanto utilizza gli scritti di Patrick Wolfe, David Theo Goldberg e Giorgio Agamben per vedere come modelli filosofici ed economici facciano leva sulla differenza razziale. Nel suo contesto universitario l’autrice deve mostrare gli esempi accademici nella condanna del sistema legale distorto dei sionisti. Si potrebbe essere tentati di andare a leggere i loro lavori.

Ma, a meno che uno non faccia parte di una università prestigiosa, non si soffermerà su tali libri ed ha il mio permesso di saltare questi passaggi. Perché spaccare il capello in quattro per esprimere una definizione esatta del “colonialismo di insediamento” quando il lettore di questo libro è già al corrente dell’ingiustizia? Fortunatamente in questo volume non ce n’è bisogno perché Lentin ha puntato i riflettori su molteplici luoghi oscuri.

Un altro filone che esplora è quello della storia politica, e in questo ha avuto da molto tempo colleghi quali lo studioso Ilan Pappé che lo scrive chiaramente, citando come lei estrae il razzismo dal profondo del cuore israeliano. La materia prima del razzismo si trova ovunque, da parte dei contabili finanziari come dei compilatori di precedenti giuridici. Per quanto riguarda il sistema giudiziario sionista, ci si chiede perché non crolli sulle sue stesse tremolanti colonne. Il primo “decreto per la protezione del popolo” di Hitler è stato permanentemente applicato al giusto tipo di persone, consentendo che la contraddizione discriminatoria procedesse indisturbata. Questa è una lezione che avrebbe dovuto essere appresa dall’Olocausto ebraico, ma la legittima potenza ebraica ha adottato la stessa fiaccola della superiorità ariana nazista.

Il libro insiste sul fatto che la razza, in politica, deve voler dire cura. In medicina, per esempio, gli ebrei arabi, essendo più scuri di pelle, sono stati maltrattati nel modo in cui un medico nazista infliggeva malattie agli ebrei del campo e come nell’esperimento Tuskegee sui maschi negri in Alabama [dal 1932 al 1972 afroamericani malati di sifilide non vennero curati con la penicillina per poter studiare l’evoluzione della malattia, ndtr.]. Uno dei dottori razzisti israeliani era parente dell’autrice. Riguardo alla cittadinanza, un altro esempio, la “Legge del Ritorno” dello Stato [di Israele] nel 1991 è stata modificata per consentire l’arrivo di un milione di ebrei russi e dei loro familiari non ebrei per incrementare la popolazione bianca di Israele. Vagliando la disciplina dell’“esercito più morale al mondo” [autodefinizione dell’esercito israeliano, ndtr.], è risultato che l’IDF [esercito israeliano] aveva organizzato stupri di massa durante la Nakba e che ci sono crescenti aggressioni sessuali persino nei confronti di donne ebree che oggi fanno il servizio militare per il governo militarista. E riguardo alla geografia, la modalità dello Stato sionista è semplicemente di accerchiare le comunità arabe sulla mappa, ai lati di ogni strada.

Come viene giustificato il razzismo? Già prima del Mandato Britannico [sulla Palestina] gli abitanti arabi erano visti come ‘inferiori’ e la colonizzazione della Palestina necessitava di essere illuminato dal progresso europeo e americano. E il giovane Israele mantenne semplicemente le “Norme di Difesa (Emergenza)” del governo del Mandato, che includevano la maggior parte delle principali perversioni dell’applicazione delle leggi degli ebrei israeliani riguardo agli autoctoni non ebrei, dai processi a civili nei tribunali militari alle efficienti demolizioni di case, alla censura.

I tribunali sionisti si aggrappano a qualunque giustificazione, compresi la stessa Dichiarazione Balfour [con cui nel 1917 il governo britannico si impegnò a favorire la creazione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndtr.], i decreti del Mandato britannico, la risoluzione 181 dell’ONU che riconosceva lo Stato di Israele e persino sentenze della Bibbia. La colonizzazione è considerata un’impresa quasi sacra, in quanto tiene fede alla cosiddetta missione e il modo di vita ebraici, imitando il patriottismo USA come una sorta di religione.

Oltre all’ingegnosa strutturazione delle leggi, c’è sempre l’azione immediata di polizia o esercito. Il caso dell’espulsione dei beduini di Umm al-Hiran del 2017 ha implicato l’intenzionale uso di armi da fuoco contro una comunità disarmata e che non stava protestando. Giornalisti e parlamentari della Knesset sono stati esclusi dalla scena. Due anni prima il villaggio di Al-Araqib era stato demolito e ai suoi abitanti erano stati addebitati dal governo i costi della demolizione! Ciò che rende questo modo di agire più di una semplice prosecuzione della ‘pulizia etnica’ è stata anche la revoca della loro cittadinanza. Questa è stata una punizione perché i beduini non se ne sono andati nel resto del Medio Oriente o non sono semplicemente morti. Non importa che siano stati rinchiusi là dal nuovo Stato militarizzato dopo il 1948.

Il capitolo sul genere deve soddisfare le esigenze della razza, e ci sono forse troppe questioni da presentare. Un aspetto imprevisto è il rapporto d’interesse dello Stato israeliano per il delitto d’onore palestinese, in quanto questo, ovviamente, ne ridurrebbe la comunità.  Ma ci sono troppe tentazioni per l’autrice, determinando una deviazione dal percorso relativo alla discriminazione razziale. La decolonizzazione della Palestina, da parte dei palestinesi o di questi ultimi insieme agli ebrei israeliani, è un indispensabile punto di discussione. Eppure il capitolo sulla teoria della liberazione si allontana dalla vera e propria questione del libro riguardo a ebrei contro i goy [non ebrei] arabi.

Qui buona parte del frutto marcio è raccolto da fonti libere in rete, molte delle quali sioniste. Non ero a conoscenza del fatto che “quasi tutti” i palestinesi cittadini di Israele che hanno espresso critiche su Facebook durante il massacro del 2014 a Gaza [operazione “Margine protettivo”, ndtr.] sono stati interrogati dai servizi di sicurezza dello Stato. E stranamente mi sono perso la dichiarazione di Netanyahu sulla manifestazione razzista-fascista del 2017 a Charlotteville, Virginia [una manifestante antirazzista venne investita e uccisa da un suprematista bianco, ndtr.]: “Riguardo a voi, ebrei americani che avete fronteggiato questi nazisti laggiù – nazisti che odiano voi democratici progressisti, insieme ai vostri amici negri, musulmani, immigrati e gente di sinistra – beh, ve la siete andata a cercare…Arrangiatevi.”

O forse la vostra disapprovazione diventerà permanente leggendo un sondaggio d’opinione Pew [istituto di ricerca Usa, ndtr.] del 2016 secondo cui il 48% degli ebrei israeliani e il 59% degli ortodossi vuole l’espulsione degli arabi. Lentin ci ricorda che il parlamentare prediletto dai coloni, Naftali Bennett, ha reso legittime risposte razziste agli esami. Un ministro dell’Educazione può fare cose del genere, un balsamo per il cosiddetto ‘trauma del colono’, e ottenere pure l’approvazione dell’opinione pubblica.

Quindi uno dei pregi di questo libro sono le molte prove raccolte su internet, incoraggiandovi a fare altrettanto. Utilizzando una serie di piattaforme pubbliche, Lentin lo ha fatto per voi: se siete un attivista antirazzista per i diritti dei palestinesi, questa è una guida per il consumatore che riempirà innumerevoli sacchetti della spesa di ingiustizie basate sulla discriminazione razziale. Se il carrello pieno di orrori di questo libro ha un difetto, è che ve ne si trovano troppi da prendere, ma i sionisti continuano semplicemente a costruire scaffali su cui impilarli.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rifugiati: l’”accordo del secolo” di Trump è destinato al fallimento

Mustafa Abu SneinehChloé Benoist

19 giugno 2019 – Middle East Eye

La proposta segue lo stesso percorso di altri inutili negoziati del passato e minaccia lo status di milioni di palestinesi

In un conflitto centrato sulla relazione tra terra e popolo, la questione dei rifugiati palestinesi è stata il punto su cui sin dall’istituzione dello Stato di Israele si sono incagliati gli sforzi diplomatici – e sembra che il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente americano Donald Trump non faccia eccezione a questa regola.

Israeliani e palestinesi hanno sempre aspramente dissentito su chi sia un rifugiato, su quali diritti abbia e su quale dovrebbe essere il suo destino a lungo termine, visto che gli innumerevoli tentativi da parte della comunità internazionale di raggiungere un consenso sulla questione hanno sempre fallito.

.

L’ultima proposta, questa volta da parte dell’amministrazione Trump, sembra non solo orientata al fallimento proprio come i negoziati precedenti, ma addirittura fondata sul tentativo di eliminare completamente il problema dei rifugiati.

A milioni in tutta la regione

Circa 750.000 palestinesi sono fuggiti o sono stati cacciati con la forza dalle loro case da gruppi paramilitari ebrei nel 1948 alla nascita dello Stato israeliano.

Secondo i dati delle Nazioni Unite all’epoca quel numero corrispondeva a più della metà della popolazione palestinese. A settant’anni da quel moderno esodo, quasi 5,5 milioni di quei palestinesi e dei loro discendenti sono registrati come rifugiati presso le Nazioni Unite.

Circa 2,2 milioni di rifugiati vivono in decine di campi profughi tra la Cisgiordania e Gaza occupate, mentre la maggioranza degli altri vive nei paesi confinanti di Giordania, Libano e Siria.

Il “diritto al ritorno” per i palestinesi sfollati a causa del conflitto è stato stabilito nella risoluzione 194 approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1949 e ribadito dalla stessa istituzione in un’altra risoluzione nel 1974, che ha definito la sua attuazione “indispensabile per la soluzione della questione palestinese”.

È sostenuto da altre risoluzioni e convenzioni internazionali, che affermano in modo più generale il diritto delle popolazioni al ritorno nella propria patria.

La lotta per il diritto al ritorno

Ma il diritto al ritorno è stato a lungo considerato da Israele come una minaccia demografica alla sua auto-identificazione come Stato ebraico. Secondo i dati della Banca Mondiale la popolazione di Israele nel 2017 era di 8,7 milioni, di cui circa il 20% cittadini palestinesi di Israele.

Di conseguenza, la posizione di Israele nei negoziati è improntata al rifiuto di accettare la potenziale prospettiva di milioni di palestinesi che ritornano alle proprie case.

Gli accordi di Oslo del 1993 istituirono l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) come organismo governativo ad interim, con l’obiettivo dichiarato di creare uno Stato palestinese indipendente entro la fine del secolo.

L’accordo prevedeva il raggiungimento di una soluzione permanente del conflitto entro cinque anni, dopo di che un accordo su questioni di “status finale” – come gli insediamenti israeliani, il destino di Gerusalemme e dei rifugiati – sarebbe stato presumibilmente concluso durante una seconda fase dei negoziati.

Ma quando nel 1999 si arrivò alla scadenza dei cinque anni, tutti i tentativi di raggiungere un accordo permanente erano falliti.

Tra il 2000 e il 2001, quando l’allora presidente americano Bill Clinton cercò di raggiungere un nuovo accordo durante i vertici di Camp David e Taba, la posizione israeliana oscillò.

A Camp David, il famoso ritiro presidenziale nel Maryland, l’allora capo dello staff israeliano, Gilead Sher, scrisse che i negoziatori israeliani avevano chiaro come qualsiasi accordo che consentisse ai rifugiati di ritornare avrebbe previsto nientemeno che 100.000 persone.

Fu anche discussa l’istituzione di un fondo internazionale tra i 10 e i 20 miliardi di dollari per aiutare i rimanenti rifugiati a reinsediarsi permanentemente nei Paesi di accoglienza – lo scenario preferito da Israele.

Ma quando le parti si incontrarono di nuovo sei mesi più tardi nella località egiziana di Taba, gli israeliani cercarono di far abbandonare del tutto l’ipotesi.

In una riunione di gabinetto in vista del vertice di Taba, il governo israeliano affermò che una delle sue posizioni imprescindibili nei colloqui era che “Israele non permetterà mai ai rifugiati palestinesi il diritto di tornare nello Stato di Israele”.

I negoziatori discussero dei risarcimenti ai rifugiati palestinesi, ma di nuovo non fu possibile raggiungere alcun accordo. I negoziatori palestinesi discutevano la restituzione e il risarcimento in base a valutazioni legate alle proprietà [perse dai profughi e che si trovavano nel territorio diventato israeliano, ndtr.], mentre gli israeliani discutevano del risarcimento solo nei termini di una somma fissa.

I summit di Camp David e Taba si svolsero in tempi molto vicini alle elezioni statunitensi e israeliane, ciò che condannò i colloqui a non raggiungere mai una conclusione positiva.

.

Nel 2004, Tzipi Livni, all’epoca ministro israeliano per l’Integrazione degli Immigrati e politicamente di centro, aveva convinto il presidente degli Stati Uniti George W. Bush a far proprio il totale rifiuto di Israele del diritto al ritorno – una posizione intransigente, che in seguito il Segretario di Stato americano Condoleeza Rice disse come l’avesse colpita in quanto ” strenua difesa della purezza etnica dello Stato israeliano”.

Israeliani e palestinesi hanno continuato a dissentire sulla questione dei rifugiati nei successivi importanti colloqui di pace avviati dal 2013 al 2014 dal Segretario di Stato americano John Kerry.

Netanyahu ha respinto il diritto al ritorno dei palestinesi e ha posto come requisito per la pace il riconoscimento di Israele come Stato ebraico, ma il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha rifiutato, sostenendo che questo avrebbe compromesso le rivendicazioni dei profughi palestinesi di tornare alle loro case.

L’ UNRWA nel mirino

Adesso, il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, insieme alla sua decisione di porre fine ai finanziamenti statunitensi per l’UNRWA, l’UN Relief and Works Agency (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro) che sostiene i milioni di profughi palestinesi, sembra essere un tentativo di rimuovere completamente il problema dal tavolo dei negoziati.

Creato dalle Nazioni Unite nel dicembre 1949 come organizzazione temporanea, da allora l’UNRWA ha fornito istruzione, assistenza sanitaria, infrastrutture e servizi di soccorso di emergenza ai palestinesi sfollati, oltre a dare lavoro a migliaia di persone nei territori occupati.

Operando in Giordania, Siria, Libano, Cisgiordania e Gaza, l’UNRWA vede il suo mandato rinnovato ogni tre anni ed è finanziato quasi interamente da contributi volontari degli Stati membri delle Nazioni Unite, tra cui gli Stati Uniti, che sono stati per decenni il maggior donatore.

Lo scorso agosto si è saputo che Trump intendeva cambiare la politica degli Stati Uniti nei confronti dei rifugiati palestinesi in modo che i discendenti degli sfollati del 1948 e della guerra arabo-israeliana del 1967 non venissero calcolati.

Ciò ridurrebbe il numero a circa 500.000, ossia a circa un decimo del numero attualmente riconosciuto e supportato dall’UNRWA.

Ciò ha anche portato Washington ad allinearsi ad Israele, che sostiene che ereditare lo status di rifugiato, dalla prima generazione di palestinesi sfollati ai loro discendenti, vale solo per i palestinesi e di per sé “perpetua il conflitto”.

Accogliendo con favore la fine dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che gli Stati Uniti “hanno fatto qualcosa di molto importante bloccando i finanziamenti per l’agenzia di perpetuazione dei rifugiati nota come UNRWA”.

“Sta finalmente iniziando a risolvere il problema. I fondi devono essere presi e utilizzati per aiutare veramente a reinserire i rifugiati, il cui numero reale è una frazione del numero indicato dall’UNRWA “, ha detto. “Questo è un cambiamento molto positivo e importante, e lo sosteniamo.”

Netanyahu ha anche sottolineato le differenze tra le definizioni di rifugiato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e dell’UNRWA, e ha chiesto all’UNHCR di assumere gradualmente il mandato dell’UNRWA.

La definizione dell’UNHCR esclude dallo status di rifugiato chiunque abbia successivamente acquisito la cittadinanza di un altro Paese, mentre l’UNRWA conta come rifugiati anche quanti abbiano un’altra cittadinanza e i discendenti della prima generazione sfollata dalla propria terra.

L’UNRWA ha ripetutamente smentito le accuse di trattamento speciale per i rifugiati palestinesi e ha addossato direttamente la responsabilità della continua crisi dei rifugiati all’inconcludente processo di pace.

Perché Trump perseguita i rifugiati?

Nel frattempo, l’interruzione dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA ha proiettato ulteriore incertezza e scompiglio nel futuro di milioni di palestinesi in tutta la regione.

Trump ha sostenuto che gli Stati Uniti hanno elargito grandi contributi finanziari ai palestinesi senza ottenerne abbastanza “apprezzamento o rispetto” – sottintendendo che i tagli agli aiuti siano un mezzo per esercitare pressioni sui leader palestinesi nei negoziati del piano di pace detto “accordo del secolo”.

Nonostante le risoluzioni e le convenzioni internazionali che hanno posto la questione dei rifugiati, per lo più i passati colloqui di pace non hanno affrontato in modo concreto il destino dei palestinesi in esilio.

Alcuni vedono quindi lo smantellamento dell’UNRWA da parte di Trump e le sue pressioni per rimuovere la maggioranza dei palestinesi dalla lista dei rifugiati come parte di un piano per portare a termine un accordo in cui uno dei principali punti controversi nella precedente serie di colloqui sia semplicemente rimosso dalla discussione.

Tuttavia, alcuni osservatori hanno sottolineato che la lunga storia statunitense di finanziamento dei palestinesi è perfettamente in linea con il suo sostegno a Israele.

Sostengono che l’esternalizzazione degli aiuti umanitari, ad organizzazioni internazionali e a potenze mondiali, ha permesso a Israele di sganciarsi dalla sua stessa responsabilità come potere occupante di provvedere alle popolazioni civili sotto il suo controllo, come definito dal diritto internazionale.

Queste preoccupazioni sembrano essere condivise da alcuni dirigenti israeliani. A settembre, è stato riferito che i responsabili della sicurezza israeliana hanno sollecitato il loro governo a trovare una fonte alternativa per gli aiuti a Gaza nel timore che la fine dei finanziamenti dell’UNRWA potesse portare a un ulteriore deterioramento della situazione umanitaria nell’enclave e ad un’eventuale guerra.

Il precipitoso calo degli aiuti, quindi, potrebbe ritorcerglisi contro – poiché i profughi palestinesi, la maggior parte dei quali continua a resistere con fermezza nella speranza di tornare in patria, potrebbero avere ora ancora meno da perdere.

(traduzione di Luciana Galliano)




La pulizia etnica di Israele in Palestina non è storia – continua ad avvenire

Ben White

22 Maggio 2019 – Middle East Eye

Ciò che avviene in Cisgiordania e a Gerusalemme est non è solo un’occupazione militare.

Le congetture riguardo al “piano di pace per il Medio Oriente” della Casa Bianca continuano a dominare le informazioni sui media israeliani e dei palestinesi; l’ultimo esempio è dato dall’annuncio di un “workshop” a giugno ospitato dal Bahrein per incoraggiare gli investimenti nell’economia palestinese.

Tuttavia, con l’eccezione della Striscia di Gaza – e solo parzialmente e in modo selettivo – viene posta una minima attenzione agli sviluppi sul terreno nei territori palestinesi occupati.

In Cisgiordania e Gerusalemme est il paradigma dell’occupazione militare è insufficiente da solo per comprendere che cosa stia accadendo –vale a dire, una pulizia etnica.

Che cos’è una pulizia etnica?

La recente Giornata della Nakba ha portato – almeno in alcuni ambiti – ad una riflessione sulle espulsioni di massa e sulle atrocità che hanno accompagnato la fondazione dello Stato di Israele. Ma la pulizia etnica non è un evento storico in Palestina: sta succedendo adesso.

In un saggio del 1994 sulla definizione di pulizia etnica, il giurista Drazen Petrovic ha evidenziato “l’esistenza di una sofisticata politica che sottende a singoli eventi”, eventi, o prassi, che possono comprendere diverse “misure amministrative”, come anche violenze sul territorio da parte di attori statali e non statali.

Lo scopo, ha scritto Petrovic, potrebbe essere definito come “una modificazione irreversibile della struttura demografica” di una particolare area, e “il conseguimento di una posizione più favorevole per uno specifico gruppo etnico risultante da negoziati politici basati sulla logica della divisione lungo linee etniche.”

Questa è una corretta descrizione di ciò che sta avvenendo oggi in tutti i territori palestinesi occupati per mano delle forze dello Stato israeliano e dei coloni israeliani.

In parecchie località lo Stato e i coloni stanno lavorando congiuntamente per modificare forzatamente – attraverso “misure amministrative” e violenze – la composizione demografica locale.

Prendete la Valle del Giordano, lungo il lato orientale della Cisgiordania, dove le famiglie palestinesi sono costantemente e ripetutamente evacuate con la forza dalle loro case, a volte per giorni, dalle forze di occupazione israeliane, per esercitazioni di addestramento militare.

Secondo un reportage di Haaretz, gli abitanti di Humsa – per fare un esempio – sono stati evacuati con la forza dalle loro case decine di volte negli ultimi anni. “Anche se ogni volta ritornano”, sottolinea l’articolo, “alcuni di loro sono esausti ed abbandonano le loro case per sempre.”

Non sono incidenti isolati

Nell’aprile 2014 un colonnello israeliano ha detto in una riunione della commissione parlamentare che nelle zone della Valle del Giordano “dove abbiamo significativamente ridotto la quantità di addestramenti, sono cresciute le erbacce” –intendendo indicare con questo termine le comunità palestinesi. “È qualcosa che dovrebbe essere presa in considerazione”, ha detto.

Recentemente un abitante di Khirbet Humsa al-Fawqa – una piccola comunità nel nord della Valle del Giordano – ha detto a Middle East Eye: “Non so se stanno realmente svolgendo un’esercitazione militare. A volte ci fanno evacuare e non fanno niente. Il loro scopo è costringerci a lasciare la zona definitivamente.”

Intanto l’Ong israeliana per i diritti umani B’Tselem all’inizio del mese ha riferito di un “aumento della frequenza e della gravità degli attacchi da parte dei coloni” contro i palestinesi nella Valle del Giordano.

I coloni “minacciano I pastori, li cacciano, li aggrediscono fisicamente, guidano a tutta velocità in mezzo alle greggi per spaventare le pecore e addirittura le travolgono o le rubano”, ha dichiarato B’Tselem, aggiungendo che “i soldati sono di solito presenti durante questi attacchi e a volte vi prendono anche parte.”

B’Tselem ha detto che questi attacchi “non sono incidenti isolati, ma piuttosto parte della politica che Israele applica nella Valle del Giordano.”

Lo scopo è “impadronirsi di più terra possibile, spingendo i palestinesi ad andarsene, scopo raggiunto con varie misure, incluso rendere la vita in quei luoghi così insostenibile e sconfortante che i palestinesi non abbiano altra scelta che lasciare le proprie case, apparentemente ‘per scelta’”.

Questa situazione, sintetizza la Ong, “è fatta di attacchi coordinati di soldati e coloni”, e anche di “un divieto assoluto di sviluppare le comunità palestinesi con la costruzione e l’edificazione di infrastrutture vitali, incluse acqua, elettricità e strade.”

Le comunità palestinesi nella Valle del Giordano sono solo alcune di quelle minacciate dalla politica israeliana di pulizia etnica. Si possono trovare altri esempi nei quartieri palestinesi di Gerusalemme est occupata, come Sheikh Jarrah e Silwan.

Fatti sul terreno

Il 3 maggio Jamie McGoldrick, coordinatore umanitario dell’ONU in Palestina, ha avvertito che le demolizioni a Gerusalemme est da parte delle autorità israeliane “sono aumentate a una velocità impressionante”, con 111 strutture di proprietà palestinese distrutte a Gerusalemme est nei primi quattro mesi del 2019.

In queste comunità palestinesi lo Stato israeliano, la magistratura e le organizzazioni dei coloni fanno sforzi congiunti per espellere – e rimpiazzare – le famiglie palestinesi.

Lo scorso novembre la Corte Suprema israeliana “ha aperto la strada al gruppo di coloni Ateret Cohanim [che intende creare una maggioranza ebraica nei quartieri arabi di Gerusalemme, ndtr.] per proseguire i procedimenti legali per espellere almeno 700 palestinesi che vivono nella zona di Batn al- Hawa” di Silwan. La Ong Ir Amim [associazione israeliana che difende i diritti di tutti gli abitanti di Gerusalemme, ndtr.] afferma che le espulsioni sono fondamentali per “una rapida diffusione di nuovi fatti sul terreno”.

In base a qualunque ragionevole definizione del termine, qui Israele sta portando avanti la pulizia etnica: l’uso di misure amministrative e della violenza da parte di forze statali e di coloni per cacciare i palestinesi dalle loro terre ed infine produrre una trasformazione demografica irreversibile di diverse località.

Così, il governo israeliano – da tempo abituato all’assenza di una chiamata alla responsabilità a livello internazionale per queste prassi – sarà solo molto felice non solo dei contenuti del “piano di pace” USA, ma anche dall’opportuna distrazione che esso fornisce riguardo alla terribile realtà che sta dietro ad ancor più numerosi “fatti sul terreno.”

Ben White

Ben White è l’autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian e altri.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’assassinio della memoria palestinese: un altro strumento di pulizia etnica

Samah Jabr

Middle East Monitor, 18 maggio 2019

Mentre Israele celebrava la Giornata dell’Indipendenza, all’inizio di questa settimana, ho saputo di due episodi.

Uno mi è stato raccontato da alcuni amici di Gerusalemme che lavorano nelle istituzioni israeliane, che mi hanno parlato del loro disagio durante lo Yom HaZikaron – il Giorno del Ricordo, durante il quale si rende omaggio ai soldati caduti e agli altri israeliani morti a causa del “terrorismo”. Quel giorno, in Israele, suona una sirena in tutto il Paese e tutti devono interrompere qualsiasi tipo di attività stiano facendo – anche guidare una macchina – per dimostrare, con due minuti di silenzio, il proprio ricordo e rispetto per i morti. Una mia amica mi ha detto che il suo capo le ha intimato di alzarsi in piedi durante il suono della sirena, oppure poteva fare proprio a meno di andare al lavoro. Un’altra amica mi ha raccontato di essersi spostata, in quel momento, nello spogliatoio dei dipendenti e di avervi trovato altre dodici lavoratrici palestinesi. Tutte stavano evitando di dover rendere omaggio a quelle stesse persone che ci hanno perseguitato sin da quando è nata l’idea di stabilire lo Stato di Israele sulla nostra terra.

Il secondo episodio ha avuto luogo in una scuola superiore di Gerusalemme, in cui studiano, tutti insieme, palestinesi di Gerusalemme, palestinesi con la cittadinanza israeliana ed ebrei israeliani. In questa scuola è stata collocato un tabellone/cartellone come memoriale dedicato ai soldati israeliani caduti, in modo che gli studenti potessero scrivere il nome “dei loro cari e accendere una candela in loro ricordo”, come ha spiegato il sindacato degli studenti. Senonché, un giorno l’installazione commemorativa è stata trovata con le candele spente e, proprio sul cartellone, la scritta “Ramadan Kareem” (augurio di “buon Ramadan”, ndt.). A quel punto, sono stati coinvolti polizia e partiti di destra. Una ragazza di Gerusalemme è accusata di aver messo in atto questo “atto vandalico” e altri sei (studenti, ndt) di averla sostenuta; tutti e sette sono ora in attesa di punizione. Pare che la condanna dell’atto stia colpendo “tutti gli arabi” della scuola, da cui ci si aspetta una condivisione di colpevolezza e vergogna. Nessuno ha commentato che la presenza del tabellone/cartellone cancella, prima di tutto, la memoria e la storia nazionale dei palestinesi.

Recentemente, Israele ha lanciato contro le scuole palestinesi accuse e provocazioni che sono state portate all’attenzione dell’Unione Europea. Con una risposta scritta sulla questione, Francesca Mogherini, Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, ha confermato che è in programma un’indagine sui programmi scolastici palestinesi: “I criteri di riferimento sono in fase di elaborazione, nell’ottica di identificare il possibile incitamento all’odio e alla violenza, e ogni eventuale mancanza di conformità agli standard di pace e tolleranza nell’educazione stabiliti dall’UNESCO.” Sui programmi scolastici israeliani, però, non è prevista alcuna indagine del genere! A quanto pare, gli israeliani chiedono che i programmi scolastici palestinesi cancellino completamente la storia e la geografia della Palestina e, al lor posto, insegnino la storia dell’Olocausto europeo ai più giovani, già sopraffatti dallo strazio delle loro esperienze dirette di vita.

Io sono totalmente a favore di uno studio accademico e della riforma dei programmi scolastici palestinesi – uno studio che prenda in esame fino a che punto i programmi palestinesi insegnino il pensiero critico, l’autonomia e la rappresentanza, e una riforma che aiuti i giovani palestinesi a comprendere la loro attuale esperienza nel contesto generale di un’autentica storia palestinese. Una tale riforma non riprenderà la versione deformata e amputata della storia palestinese cucita su misura su “desideri e valori” dei donatori. Abbiamo bisogno di un’indagine sui nostri programmi scolastici e di una loro riforma che siano fatte dai palestinesi per i palestinesi.

Di recente, il Ministro palestinese dell’Educazione primaria e secondaria, alla presenza di alti funzionari palestinesi come Azzam e Saeb Erekat, ha presentato un libro intitolato “Il nostro Presidente è il nostro esempio”, che ha una foto di Mahmoud Abbas in copertina e dovrebbe contenere, pare, citazioni dai suoi discorsi. Gli alti funzionari inizialmente avevano lodato il libro e annunciato che sarebbe stato distribuito nelle scuole palestinesi di ogni ordine e grado. L’iniziativa, però, è stata accolta da così tante critiche e scherno sui media accademici e popolari che il governo ha fatto marcia indietro e ha annunciato che il libro, alla fine, non farà parte del programma scolastico.

Questo è un momento dell’anno angosciante per noi – un momento in cui ricordiamo i tragici eventi che hanno portato all’occupazione della Palestina e immaginiamo quel che ancora dovrà succedere con “l’Accordo del Secolo”. Cerchiamo tra le pieghe della storia non detta dei vinti e lì apprendiamo della malvagità del progetto sionista e delle potenze internazionali che hanno fornito agli ebrei colonizzatori gli strumenti necessari per la conquista della nazione palestinese; del tradimento della leadership araba ufficiale che ha indebolito i palestinesi, e dell’ingenuità e dell’inadeguatezza della leadership palestinese che ha riposto la propria fiducia in questa leadership araba e nelle potenze occidentali. La Nakba è cominciata molti anni prima dell’effettivo insediamento di Israele e continua ancora oggi, riflessa nelle nostre profonde preoccupazioni riguardo all’ “Accordo del Secolo” e nella consapevolezza che, dalle origini, le dinamiche del potere a livello globale non si sono sostanzialmente sviluppate.

La Nakba non riguarda solo i palestinesi, ma l’intero mondo arabo, perché l’intera regione viene indebolita e danneggiata dall’occupazione israeliana, anche se è capitato ai palestinesi di “essere tra i piedi” e di dover essere uccisi o dislocati per fare spazio alla nuova colonia degli Imperi Occidentali. Lo Stato di Israele è nato grazie a pulizia etnica, massacri e crimini molto simili a quelli che oggi vengono commessi dallo Stato Islamico nel percorso verso la creazione dell’ennesimo Stato religioso. La differenza è che Israele è riuscito a cancellare la memoria. Chi si ricorda di quando l’Hagana, tra il 22 e il 23 maggio 1948, costrinse i palestinesi a scavare le proprie fosse comuni a Tantoura, dopodiché sparò e li seppellì lì? Questa è la storia dell’ “esercito più morale del mondo”. I capi terroristi del passato sono oggi uomini di Stato e hanno vinto premi Nobel, anche se il manifesto da ricercato di Menachem Begin dovrebbe servire da promemoria.

Oggi, l’Eurovision Song Contest che si svolge a Tel Aviv nell’anniversario dei crimini israeliani dell’ “indipendenza” è un esempio della strategia di lavaggio del cervello che Israele utilizza da sempre per indurre la gente a dimenticare la storia, anche quella più recente, nella quale l’esercito israeliano ha ucciso 60 palestinesi e ne ha feriti 2.700 in un sol giorno, mentre manifestavano al confine di Gaza durante la Grande Marcia del Ritorno, per protestare contro il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme.

E mentre la cultura e la politica di Israele sono in grado di ricordare in modo ipersensibile e maniacale la propria storia, Israele è implacabile nel suo attacco contro di noi. La guerra contro la nostra storia è parte della guerra al nostro pensiero, nonché un muto proseguimento della pulizia etnica della Palestina. Noi conserviamo ricordi carichi di dolore tanto quanto la speranza per il futuro; si dice che coloro che non ricordano il passato sono condannati a riviverlo. L’opinione espressa in questo articolo appartiene all’autore e non necessariamente rispecchia la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Elena Bellini)