Segni di esclusione razziale: razzializzare il colonialismo di insediamento israeliano

Andy Simons

2 aprile 2019 Middle East Monitor

Recensione del libro di Ronit Lentin

Data di pubblicazione : agosto 2018 Editore: Bloomsbury Academic , Paperback : 269 pagine

Nell’accusa politica distorta e ambigua di oggi alcuni principi rimangono immutati. Ronit Lentin, sociologa del Trinity College di Dublino, si è da tempo specializzata nei rapporti razziali e il suo libro scava nelle basi razziste di Israele. Di conseguenza il razzismo collettivo degli ebrei bianchi di Israele supera decisamente ogni confronto.

Un pregio dell’analisi è teoretico, in quanto utilizza gli scritti di Patrick Wolfe, David Theo Goldberg e Giorgio Agamben per vedere come modelli filosofici ed economici facciano leva sulla differenza razziale. Nel suo contesto universitario l’autrice deve mostrare gli esempi accademici nella condanna del sistema legale distorto dei sionisti. Si potrebbe essere tentati di andare a leggere i loro lavori.

Ma, a meno che uno non faccia parte di una università prestigiosa, non si soffermerà su tali libri ed ha il mio permesso di saltare questi passaggi. Perché spaccare il capello in quattro per esprimere una definizione esatta del “colonialismo di insediamento” quando il lettore di questo libro è già al corrente dell’ingiustizia? Fortunatamente in questo volume non ce n’è bisogno perché Lentin ha puntato i riflettori su molteplici luoghi oscuri.

Un altro filone che esplora è quello della storia politica, e in questo ha avuto da molto tempo colleghi quali lo studioso Ilan Pappé che lo scrive chiaramente, citando come lei estrae il razzismo dal profondo del cuore israeliano. La materia prima del razzismo si trova ovunque, da parte dei contabili finanziari come dei compilatori di precedenti giuridici. Per quanto riguarda il sistema giudiziario sionista, ci si chiede perché non crolli sulle sue stesse tremolanti colonne. Il primo “decreto per la protezione del popolo” di Hitler è stato permanentemente applicato al giusto tipo di persone, consentendo che la contraddizione discriminatoria procedesse indisturbata. Questa è una lezione che avrebbe dovuto essere appresa dall’Olocausto ebraico, ma la legittima potenza ebraica ha adottato la stessa fiaccola della superiorità ariana nazista.

Il libro insiste sul fatto che la razza, in politica, deve voler dire cura. In medicina, per esempio, gli ebrei arabi, essendo più scuri di pelle, sono stati maltrattati nel modo in cui un medico nazista infliggeva malattie agli ebrei del campo e come nell’esperimento Tuskegee sui maschi negri in Alabama [dal 1932 al 1972 afroamericani malati di sifilide non vennero curati con la penicillina per poter studiare l’evoluzione della malattia, ndtr.]. Uno dei dottori razzisti israeliani era parente dell’autrice. Riguardo alla cittadinanza, un altro esempio, la “Legge del Ritorno” dello Stato [di Israele] nel 1991 è stata modificata per consentire l’arrivo di un milione di ebrei russi e dei loro familiari non ebrei per incrementare la popolazione bianca di Israele. Vagliando la disciplina dell’“esercito più morale al mondo” [autodefinizione dell’esercito israeliano, ndtr.], è risultato che l’IDF [esercito israeliano] aveva organizzato stupri di massa durante la Nakba e che ci sono crescenti aggressioni sessuali persino nei confronti di donne ebree che oggi fanno il servizio militare per il governo militarista. E riguardo alla geografia, la modalità dello Stato sionista è semplicemente di accerchiare le comunità arabe sulla mappa, ai lati di ogni strada.

Come viene giustificato il razzismo? Già prima del Mandato Britannico [sulla Palestina] gli abitanti arabi erano visti come ‘inferiori’ e la colonizzazione della Palestina necessitava di essere illuminato dal progresso europeo e americano. E il giovane Israele mantenne semplicemente le “Norme di Difesa (Emergenza)” del governo del Mandato, che includevano la maggior parte delle principali perversioni dell’applicazione delle leggi degli ebrei israeliani riguardo agli autoctoni non ebrei, dai processi a civili nei tribunali militari alle efficienti demolizioni di case, alla censura.

I tribunali sionisti si aggrappano a qualunque giustificazione, compresi la stessa Dichiarazione Balfour [con cui nel 1917 il governo britannico si impegnò a favorire la creazione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndtr.], i decreti del Mandato britannico, la risoluzione 181 dell’ONU che riconosceva lo Stato di Israele e persino sentenze della Bibbia. La colonizzazione è considerata un’impresa quasi sacra, in quanto tiene fede alla cosiddetta missione e il modo di vita ebraici, imitando il patriottismo USA come una sorta di religione.

Oltre all’ingegnosa strutturazione delle leggi, c’è sempre l’azione immediata di polizia o esercito. Il caso dell’espulsione dei beduini di Umm al-Hiran del 2017 ha implicato l’intenzionale uso di armi da fuoco contro una comunità disarmata e che non stava protestando. Giornalisti e parlamentari della Knesset sono stati esclusi dalla scena. Due anni prima il villaggio di Al-Araqib era stato demolito e ai suoi abitanti erano stati addebitati dal governo i costi della demolizione! Ciò che rende questo modo di agire più di una semplice prosecuzione della ‘pulizia etnica’ è stata anche la revoca della loro cittadinanza. Questa è stata una punizione perché i beduini non se ne sono andati nel resto del Medio Oriente o non sono semplicemente morti. Non importa che siano stati rinchiusi là dal nuovo Stato militarizzato dopo il 1948.

Il capitolo sul genere deve soddisfare le esigenze della razza, e ci sono forse troppe questioni da presentare. Un aspetto imprevisto è il rapporto d’interesse dello Stato israeliano per il delitto d’onore palestinese, in quanto questo, ovviamente, ne ridurrebbe la comunità.  Ma ci sono troppe tentazioni per l’autrice, determinando una deviazione dal percorso relativo alla discriminazione razziale. La decolonizzazione della Palestina, da parte dei palestinesi o di questi ultimi insieme agli ebrei israeliani, è un indispensabile punto di discussione. Eppure il capitolo sulla teoria della liberazione si allontana dalla vera e propria questione del libro riguardo a ebrei contro i goy [non ebrei] arabi.

Qui buona parte del frutto marcio è raccolto da fonti libere in rete, molte delle quali sioniste. Non ero a conoscenza del fatto che “quasi tutti” i palestinesi cittadini di Israele che hanno espresso critiche su Facebook durante il massacro del 2014 a Gaza [operazione “Margine protettivo”, ndtr.] sono stati interrogati dai servizi di sicurezza dello Stato. E stranamente mi sono perso la dichiarazione di Netanyahu sulla manifestazione razzista-fascista del 2017 a Charlotteville, Virginia [una manifestante antirazzista venne investita e uccisa da un suprematista bianco, ndtr.]: “Riguardo a voi, ebrei americani che avete fronteggiato questi nazisti laggiù – nazisti che odiano voi democratici progressisti, insieme ai vostri amici negri, musulmani, immigrati e gente di sinistra – beh, ve la siete andata a cercare…Arrangiatevi.”

O forse la vostra disapprovazione diventerà permanente leggendo un sondaggio d’opinione Pew [istituto di ricerca Usa, ndtr.] del 2016 secondo cui il 48% degli ebrei israeliani e il 59% degli ortodossi vuole l’espulsione degli arabi. Lentin ci ricorda che il parlamentare prediletto dai coloni, Naftali Bennett, ha reso legittime risposte razziste agli esami. Un ministro dell’Educazione può fare cose del genere, un balsamo per il cosiddetto ‘trauma del colono’, e ottenere pure l’approvazione dell’opinione pubblica.

Quindi uno dei pregi di questo libro sono le molte prove raccolte su internet, incoraggiandovi a fare altrettanto. Utilizzando una serie di piattaforme pubbliche, Lentin lo ha fatto per voi: se siete un attivista antirazzista per i diritti dei palestinesi, questa è una guida per il consumatore che riempirà innumerevoli sacchetti della spesa di ingiustizie basate sulla discriminazione razziale. Se il carrello pieno di orrori di questo libro ha un difetto, è che ve ne si trovano troppi da prendere, ma i sionisti continuano semplicemente a costruire scaffali su cui impilarli.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rifugiati: l’”accordo del secolo” di Trump è destinato al fallimento

Mustafa Abu SneinehChloé Benoist

19 giugno 2019 – Middle East Eye

La proposta segue lo stesso percorso di altri inutili negoziati del passato e minaccia lo status di milioni di palestinesi

In un conflitto centrato sulla relazione tra terra e popolo, la questione dei rifugiati palestinesi è stata il punto su cui sin dall’istituzione dello Stato di Israele si sono incagliati gli sforzi diplomatici – e sembra che il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente americano Donald Trump non faccia eccezione a questa regola.

Israeliani e palestinesi hanno sempre aspramente dissentito su chi sia un rifugiato, su quali diritti abbia e su quale dovrebbe essere il suo destino a lungo termine, visto che gli innumerevoli tentativi da parte della comunità internazionale di raggiungere un consenso sulla questione hanno sempre fallito.

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L’ultima proposta, questa volta da parte dell’amministrazione Trump, sembra non solo orientata al fallimento proprio come i negoziati precedenti, ma addirittura fondata sul tentativo di eliminare completamente il problema dei rifugiati.

A milioni in tutta la regione

Circa 750.000 palestinesi sono fuggiti o sono stati cacciati con la forza dalle loro case da gruppi paramilitari ebrei nel 1948 alla nascita dello Stato israeliano.

Secondo i dati delle Nazioni Unite all’epoca quel numero corrispondeva a più della metà della popolazione palestinese. A settant’anni da quel moderno esodo, quasi 5,5 milioni di quei palestinesi e dei loro discendenti sono registrati come rifugiati presso le Nazioni Unite.

Circa 2,2 milioni di rifugiati vivono in decine di campi profughi tra la Cisgiordania e Gaza occupate, mentre la maggioranza degli altri vive nei paesi confinanti di Giordania, Libano e Siria.

Il “diritto al ritorno” per i palestinesi sfollati a causa del conflitto è stato stabilito nella risoluzione 194 approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1949 e ribadito dalla stessa istituzione in un’altra risoluzione nel 1974, che ha definito la sua attuazione “indispensabile per la soluzione della questione palestinese”.

È sostenuto da altre risoluzioni e convenzioni internazionali, che affermano in modo più generale il diritto delle popolazioni al ritorno nella propria patria.

La lotta per il diritto al ritorno

Ma il diritto al ritorno è stato a lungo considerato da Israele come una minaccia demografica alla sua auto-identificazione come Stato ebraico. Secondo i dati della Banca Mondiale la popolazione di Israele nel 2017 era di 8,7 milioni, di cui circa il 20% cittadini palestinesi di Israele.

Di conseguenza, la posizione di Israele nei negoziati è improntata al rifiuto di accettare la potenziale prospettiva di milioni di palestinesi che ritornano alle proprie case.

Gli accordi di Oslo del 1993 istituirono l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) come organismo governativo ad interim, con l’obiettivo dichiarato di creare uno Stato palestinese indipendente entro la fine del secolo.

L’accordo prevedeva il raggiungimento di una soluzione permanente del conflitto entro cinque anni, dopo di che un accordo su questioni di “status finale” – come gli insediamenti israeliani, il destino di Gerusalemme e dei rifugiati – sarebbe stato presumibilmente concluso durante una seconda fase dei negoziati.

Ma quando nel 1999 si arrivò alla scadenza dei cinque anni, tutti i tentativi di raggiungere un accordo permanente erano falliti.

Tra il 2000 e il 2001, quando l’allora presidente americano Bill Clinton cercò di raggiungere un nuovo accordo durante i vertici di Camp David e Taba, la posizione israeliana oscillò.

A Camp David, il famoso ritiro presidenziale nel Maryland, l’allora capo dello staff israeliano, Gilead Sher, scrisse che i negoziatori israeliani avevano chiaro come qualsiasi accordo che consentisse ai rifugiati di ritornare avrebbe previsto nientemeno che 100.000 persone.

Fu anche discussa l’istituzione di un fondo internazionale tra i 10 e i 20 miliardi di dollari per aiutare i rimanenti rifugiati a reinsediarsi permanentemente nei Paesi di accoglienza – lo scenario preferito da Israele.

Ma quando le parti si incontrarono di nuovo sei mesi più tardi nella località egiziana di Taba, gli israeliani cercarono di far abbandonare del tutto l’ipotesi.

In una riunione di gabinetto in vista del vertice di Taba, il governo israeliano affermò che una delle sue posizioni imprescindibili nei colloqui era che “Israele non permetterà mai ai rifugiati palestinesi il diritto di tornare nello Stato di Israele”.

I negoziatori discussero dei risarcimenti ai rifugiati palestinesi, ma di nuovo non fu possibile raggiungere alcun accordo. I negoziatori palestinesi discutevano la restituzione e il risarcimento in base a valutazioni legate alle proprietà [perse dai profughi e che si trovavano nel territorio diventato israeliano, ndtr.], mentre gli israeliani discutevano del risarcimento solo nei termini di una somma fissa.

I summit di Camp David e Taba si svolsero in tempi molto vicini alle elezioni statunitensi e israeliane, ciò che condannò i colloqui a non raggiungere mai una conclusione positiva.

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Nel 2004, Tzipi Livni, all’epoca ministro israeliano per l’Integrazione degli Immigrati e politicamente di centro, aveva convinto il presidente degli Stati Uniti George W. Bush a far proprio il totale rifiuto di Israele del diritto al ritorno – una posizione intransigente, che in seguito il Segretario di Stato americano Condoleeza Rice disse come l’avesse colpita in quanto ” strenua difesa della purezza etnica dello Stato israeliano”.

Israeliani e palestinesi hanno continuato a dissentire sulla questione dei rifugiati nei successivi importanti colloqui di pace avviati dal 2013 al 2014 dal Segretario di Stato americano John Kerry.

Netanyahu ha respinto il diritto al ritorno dei palestinesi e ha posto come requisito per la pace il riconoscimento di Israele come Stato ebraico, ma il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha rifiutato, sostenendo che questo avrebbe compromesso le rivendicazioni dei profughi palestinesi di tornare alle loro case.

L’ UNRWA nel mirino

Adesso, il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, insieme alla sua decisione di porre fine ai finanziamenti statunitensi per l’UNRWA, l’UN Relief and Works Agency (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro) che sostiene i milioni di profughi palestinesi, sembra essere un tentativo di rimuovere completamente il problema dal tavolo dei negoziati.

Creato dalle Nazioni Unite nel dicembre 1949 come organizzazione temporanea, da allora l’UNRWA ha fornito istruzione, assistenza sanitaria, infrastrutture e servizi di soccorso di emergenza ai palestinesi sfollati, oltre a dare lavoro a migliaia di persone nei territori occupati.

Operando in Giordania, Siria, Libano, Cisgiordania e Gaza, l’UNRWA vede il suo mandato rinnovato ogni tre anni ed è finanziato quasi interamente da contributi volontari degli Stati membri delle Nazioni Unite, tra cui gli Stati Uniti, che sono stati per decenni il maggior donatore.

Lo scorso agosto si è saputo che Trump intendeva cambiare la politica degli Stati Uniti nei confronti dei rifugiati palestinesi in modo che i discendenti degli sfollati del 1948 e della guerra arabo-israeliana del 1967 non venissero calcolati.

Ciò ridurrebbe il numero a circa 500.000, ossia a circa un decimo del numero attualmente riconosciuto e supportato dall’UNRWA.

Ciò ha anche portato Washington ad allinearsi ad Israele, che sostiene che ereditare lo status di rifugiato, dalla prima generazione di palestinesi sfollati ai loro discendenti, vale solo per i palestinesi e di per sé “perpetua il conflitto”.

Accogliendo con favore la fine dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che gli Stati Uniti “hanno fatto qualcosa di molto importante bloccando i finanziamenti per l’agenzia di perpetuazione dei rifugiati nota come UNRWA”.

“Sta finalmente iniziando a risolvere il problema. I fondi devono essere presi e utilizzati per aiutare veramente a reinserire i rifugiati, il cui numero reale è una frazione del numero indicato dall’UNRWA “, ha detto. “Questo è un cambiamento molto positivo e importante, e lo sosteniamo.”

Netanyahu ha anche sottolineato le differenze tra le definizioni di rifugiato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e dell’UNRWA, e ha chiesto all’UNHCR di assumere gradualmente il mandato dell’UNRWA.

La definizione dell’UNHCR esclude dallo status di rifugiato chiunque abbia successivamente acquisito la cittadinanza di un altro Paese, mentre l’UNRWA conta come rifugiati anche quanti abbiano un’altra cittadinanza e i discendenti della prima generazione sfollata dalla propria terra.

L’UNRWA ha ripetutamente smentito le accuse di trattamento speciale per i rifugiati palestinesi e ha addossato direttamente la responsabilità della continua crisi dei rifugiati all’inconcludente processo di pace.

Perché Trump perseguita i rifugiati?

Nel frattempo, l’interruzione dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA ha proiettato ulteriore incertezza e scompiglio nel futuro di milioni di palestinesi in tutta la regione.

Trump ha sostenuto che gli Stati Uniti hanno elargito grandi contributi finanziari ai palestinesi senza ottenerne abbastanza “apprezzamento o rispetto” – sottintendendo che i tagli agli aiuti siano un mezzo per esercitare pressioni sui leader palestinesi nei negoziati del piano di pace detto “accordo del secolo”.

Nonostante le risoluzioni e le convenzioni internazionali che hanno posto la questione dei rifugiati, per lo più i passati colloqui di pace non hanno affrontato in modo concreto il destino dei palestinesi in esilio.

Alcuni vedono quindi lo smantellamento dell’UNRWA da parte di Trump e le sue pressioni per rimuovere la maggioranza dei palestinesi dalla lista dei rifugiati come parte di un piano per portare a termine un accordo in cui uno dei principali punti controversi nella precedente serie di colloqui sia semplicemente rimosso dalla discussione.

Tuttavia, alcuni osservatori hanno sottolineato che la lunga storia statunitense di finanziamento dei palestinesi è perfettamente in linea con il suo sostegno a Israele.

Sostengono che l’esternalizzazione degli aiuti umanitari, ad organizzazioni internazionali e a potenze mondiali, ha permesso a Israele di sganciarsi dalla sua stessa responsabilità come potere occupante di provvedere alle popolazioni civili sotto il suo controllo, come definito dal diritto internazionale.

Queste preoccupazioni sembrano essere condivise da alcuni dirigenti israeliani. A settembre, è stato riferito che i responsabili della sicurezza israeliana hanno sollecitato il loro governo a trovare una fonte alternativa per gli aiuti a Gaza nel timore che la fine dei finanziamenti dell’UNRWA potesse portare a un ulteriore deterioramento della situazione umanitaria nell’enclave e ad un’eventuale guerra.

Il precipitoso calo degli aiuti, quindi, potrebbe ritorcerglisi contro – poiché i profughi palestinesi, la maggior parte dei quali continua a resistere con fermezza nella speranza di tornare in patria, potrebbero avere ora ancora meno da perdere.

(traduzione di Luciana Galliano)




La pulizia etnica di Israele in Palestina non è storia – continua ad avvenire

Ben White

22 Maggio 2019 – Middle East Eye

Ciò che avviene in Cisgiordania e a Gerusalemme est non è solo un’occupazione militare.

Le congetture riguardo al “piano di pace per il Medio Oriente” della Casa Bianca continuano a dominare le informazioni sui media israeliani e dei palestinesi; l’ultimo esempio è dato dall’annuncio di un “workshop” a giugno ospitato dal Bahrein per incoraggiare gli investimenti nell’economia palestinese.

Tuttavia, con l’eccezione della Striscia di Gaza – e solo parzialmente e in modo selettivo – viene posta una minima attenzione agli sviluppi sul terreno nei territori palestinesi occupati.

In Cisgiordania e Gerusalemme est il paradigma dell’occupazione militare è insufficiente da solo per comprendere che cosa stia accadendo –vale a dire, una pulizia etnica.

Che cos’è una pulizia etnica?

La recente Giornata della Nakba ha portato – almeno in alcuni ambiti – ad una riflessione sulle espulsioni di massa e sulle atrocità che hanno accompagnato la fondazione dello Stato di Israele. Ma la pulizia etnica non è un evento storico in Palestina: sta succedendo adesso.

In un saggio del 1994 sulla definizione di pulizia etnica, il giurista Drazen Petrovic ha evidenziato “l’esistenza di una sofisticata politica che sottende a singoli eventi”, eventi, o prassi, che possono comprendere diverse “misure amministrative”, come anche violenze sul territorio da parte di attori statali e non statali.

Lo scopo, ha scritto Petrovic, potrebbe essere definito come “una modificazione irreversibile della struttura demografica” di una particolare area, e “il conseguimento di una posizione più favorevole per uno specifico gruppo etnico risultante da negoziati politici basati sulla logica della divisione lungo linee etniche.”

Questa è una corretta descrizione di ciò che sta avvenendo oggi in tutti i territori palestinesi occupati per mano delle forze dello Stato israeliano e dei coloni israeliani.

In parecchie località lo Stato e i coloni stanno lavorando congiuntamente per modificare forzatamente – attraverso “misure amministrative” e violenze – la composizione demografica locale.

Prendete la Valle del Giordano, lungo il lato orientale della Cisgiordania, dove le famiglie palestinesi sono costantemente e ripetutamente evacuate con la forza dalle loro case, a volte per giorni, dalle forze di occupazione israeliane, per esercitazioni di addestramento militare.

Secondo un reportage di Haaretz, gli abitanti di Humsa – per fare un esempio – sono stati evacuati con la forza dalle loro case decine di volte negli ultimi anni. “Anche se ogni volta ritornano”, sottolinea l’articolo, “alcuni di loro sono esausti ed abbandonano le loro case per sempre.”

Non sono incidenti isolati

Nell’aprile 2014 un colonnello israeliano ha detto in una riunione della commissione parlamentare che nelle zone della Valle del Giordano “dove abbiamo significativamente ridotto la quantità di addestramenti, sono cresciute le erbacce” –intendendo indicare con questo termine le comunità palestinesi. “È qualcosa che dovrebbe essere presa in considerazione”, ha detto.

Recentemente un abitante di Khirbet Humsa al-Fawqa – una piccola comunità nel nord della Valle del Giordano – ha detto a Middle East Eye: “Non so se stanno realmente svolgendo un’esercitazione militare. A volte ci fanno evacuare e non fanno niente. Il loro scopo è costringerci a lasciare la zona definitivamente.”

Intanto l’Ong israeliana per i diritti umani B’Tselem all’inizio del mese ha riferito di un “aumento della frequenza e della gravità degli attacchi da parte dei coloni” contro i palestinesi nella Valle del Giordano.

I coloni “minacciano I pastori, li cacciano, li aggrediscono fisicamente, guidano a tutta velocità in mezzo alle greggi per spaventare le pecore e addirittura le travolgono o le rubano”, ha dichiarato B’Tselem, aggiungendo che “i soldati sono di solito presenti durante questi attacchi e a volte vi prendono anche parte.”

B’Tselem ha detto che questi attacchi “non sono incidenti isolati, ma piuttosto parte della politica che Israele applica nella Valle del Giordano.”

Lo scopo è “impadronirsi di più terra possibile, spingendo i palestinesi ad andarsene, scopo raggiunto con varie misure, incluso rendere la vita in quei luoghi così insostenibile e sconfortante che i palestinesi non abbiano altra scelta che lasciare le proprie case, apparentemente ‘per scelta’”.

Questa situazione, sintetizza la Ong, “è fatta di attacchi coordinati di soldati e coloni”, e anche di “un divieto assoluto di sviluppare le comunità palestinesi con la costruzione e l’edificazione di infrastrutture vitali, incluse acqua, elettricità e strade.”

Le comunità palestinesi nella Valle del Giordano sono solo alcune di quelle minacciate dalla politica israeliana di pulizia etnica. Si possono trovare altri esempi nei quartieri palestinesi di Gerusalemme est occupata, come Sheikh Jarrah e Silwan.

Fatti sul terreno

Il 3 maggio Jamie McGoldrick, coordinatore umanitario dell’ONU in Palestina, ha avvertito che le demolizioni a Gerusalemme est da parte delle autorità israeliane “sono aumentate a una velocità impressionante”, con 111 strutture di proprietà palestinese distrutte a Gerusalemme est nei primi quattro mesi del 2019.

In queste comunità palestinesi lo Stato israeliano, la magistratura e le organizzazioni dei coloni fanno sforzi congiunti per espellere – e rimpiazzare – le famiglie palestinesi.

Lo scorso novembre la Corte Suprema israeliana “ha aperto la strada al gruppo di coloni Ateret Cohanim [che intende creare una maggioranza ebraica nei quartieri arabi di Gerusalemme, ndtr.] per proseguire i procedimenti legali per espellere almeno 700 palestinesi che vivono nella zona di Batn al- Hawa” di Silwan. La Ong Ir Amim [associazione israeliana che difende i diritti di tutti gli abitanti di Gerusalemme, ndtr.] afferma che le espulsioni sono fondamentali per “una rapida diffusione di nuovi fatti sul terreno”.

In base a qualunque ragionevole definizione del termine, qui Israele sta portando avanti la pulizia etnica: l’uso di misure amministrative e della violenza da parte di forze statali e di coloni per cacciare i palestinesi dalle loro terre ed infine produrre una trasformazione demografica irreversibile di diverse località.

Così, il governo israeliano – da tempo abituato all’assenza di una chiamata alla responsabilità a livello internazionale per queste prassi – sarà solo molto felice non solo dei contenuti del “piano di pace” USA, ma anche dall’opportuna distrazione che esso fornisce riguardo alla terribile realtà che sta dietro ad ancor più numerosi “fatti sul terreno.”

Ben White

Ben White è l’autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian e altri.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’assassinio della memoria palestinese: un altro strumento di pulizia etnica

Samah Jabr

Middle East Monitor, 18 maggio 2019

Mentre Israele celebrava la Giornata dell’Indipendenza, all’inizio di questa settimana, ho saputo di due episodi.

Uno mi è stato raccontato da alcuni amici di Gerusalemme che lavorano nelle istituzioni israeliane, che mi hanno parlato del loro disagio durante lo Yom HaZikaron – il Giorno del Ricordo, durante il quale si rende omaggio ai soldati caduti e agli altri israeliani morti a causa del “terrorismo”. Quel giorno, in Israele, suona una sirena in tutto il Paese e tutti devono interrompere qualsiasi tipo di attività stiano facendo – anche guidare una macchina – per dimostrare, con due minuti di silenzio, il proprio ricordo e rispetto per i morti. Una mia amica mi ha detto che il suo capo le ha intimato di alzarsi in piedi durante il suono della sirena, oppure poteva fare proprio a meno di andare al lavoro. Un’altra amica mi ha raccontato di essersi spostata, in quel momento, nello spogliatoio dei dipendenti e di avervi trovato altre dodici lavoratrici palestinesi. Tutte stavano evitando di dover rendere omaggio a quelle stesse persone che ci hanno perseguitato sin da quando è nata l’idea di stabilire lo Stato di Israele sulla nostra terra.

Il secondo episodio ha avuto luogo in una scuola superiore di Gerusalemme, in cui studiano, tutti insieme, palestinesi di Gerusalemme, palestinesi con la cittadinanza israeliana ed ebrei israeliani. In questa scuola è stata collocato un tabellone/cartellone come memoriale dedicato ai soldati israeliani caduti, in modo che gli studenti potessero scrivere il nome “dei loro cari e accendere una candela in loro ricordo”, come ha spiegato il sindacato degli studenti. Senonché, un giorno l’installazione commemorativa è stata trovata con le candele spente e, proprio sul cartellone, la scritta “Ramadan Kareem” (augurio di “buon Ramadan”, ndt.). A quel punto, sono stati coinvolti polizia e partiti di destra. Una ragazza di Gerusalemme è accusata di aver messo in atto questo “atto vandalico” e altri sei (studenti, ndt) di averla sostenuta; tutti e sette sono ora in attesa di punizione. Pare che la condanna dell’atto stia colpendo “tutti gli arabi” della scuola, da cui ci si aspetta una condivisione di colpevolezza e vergogna. Nessuno ha commentato che la presenza del tabellone/cartellone cancella, prima di tutto, la memoria e la storia nazionale dei palestinesi.

Recentemente, Israele ha lanciato contro le scuole palestinesi accuse e provocazioni che sono state portate all’attenzione dell’Unione Europea. Con una risposta scritta sulla questione, Francesca Mogherini, Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, ha confermato che è in programma un’indagine sui programmi scolastici palestinesi: “I criteri di riferimento sono in fase di elaborazione, nell’ottica di identificare il possibile incitamento all’odio e alla violenza, e ogni eventuale mancanza di conformità agli standard di pace e tolleranza nell’educazione stabiliti dall’UNESCO.” Sui programmi scolastici israeliani, però, non è prevista alcuna indagine del genere! A quanto pare, gli israeliani chiedono che i programmi scolastici palestinesi cancellino completamente la storia e la geografia della Palestina e, al lor posto, insegnino la storia dell’Olocausto europeo ai più giovani, già sopraffatti dallo strazio delle loro esperienze dirette di vita.

Io sono totalmente a favore di uno studio accademico e della riforma dei programmi scolastici palestinesi – uno studio che prenda in esame fino a che punto i programmi palestinesi insegnino il pensiero critico, l’autonomia e la rappresentanza, e una riforma che aiuti i giovani palestinesi a comprendere la loro attuale esperienza nel contesto generale di un’autentica storia palestinese. Una tale riforma non riprenderà la versione deformata e amputata della storia palestinese cucita su misura su “desideri e valori” dei donatori. Abbiamo bisogno di un’indagine sui nostri programmi scolastici e di una loro riforma che siano fatte dai palestinesi per i palestinesi.

Di recente, il Ministro palestinese dell’Educazione primaria e secondaria, alla presenza di alti funzionari palestinesi come Azzam e Saeb Erekat, ha presentato un libro intitolato “Il nostro Presidente è il nostro esempio”, che ha una foto di Mahmoud Abbas in copertina e dovrebbe contenere, pare, citazioni dai suoi discorsi. Gli alti funzionari inizialmente avevano lodato il libro e annunciato che sarebbe stato distribuito nelle scuole palestinesi di ogni ordine e grado. L’iniziativa, però, è stata accolta da così tante critiche e scherno sui media accademici e popolari che il governo ha fatto marcia indietro e ha annunciato che il libro, alla fine, non farà parte del programma scolastico.

Questo è un momento dell’anno angosciante per noi – un momento in cui ricordiamo i tragici eventi che hanno portato all’occupazione della Palestina e immaginiamo quel che ancora dovrà succedere con “l’Accordo del Secolo”. Cerchiamo tra le pieghe della storia non detta dei vinti e lì apprendiamo della malvagità del progetto sionista e delle potenze internazionali che hanno fornito agli ebrei colonizzatori gli strumenti necessari per la conquista della nazione palestinese; del tradimento della leadership araba ufficiale che ha indebolito i palestinesi, e dell’ingenuità e dell’inadeguatezza della leadership palestinese che ha riposto la propria fiducia in questa leadership araba e nelle potenze occidentali. La Nakba è cominciata molti anni prima dell’effettivo insediamento di Israele e continua ancora oggi, riflessa nelle nostre profonde preoccupazioni riguardo all’ “Accordo del Secolo” e nella consapevolezza che, dalle origini, le dinamiche del potere a livello globale non si sono sostanzialmente sviluppate.

La Nakba non riguarda solo i palestinesi, ma l’intero mondo arabo, perché l’intera regione viene indebolita e danneggiata dall’occupazione israeliana, anche se è capitato ai palestinesi di “essere tra i piedi” e di dover essere uccisi o dislocati per fare spazio alla nuova colonia degli Imperi Occidentali. Lo Stato di Israele è nato grazie a pulizia etnica, massacri e crimini molto simili a quelli che oggi vengono commessi dallo Stato Islamico nel percorso verso la creazione dell’ennesimo Stato religioso. La differenza è che Israele è riuscito a cancellare la memoria. Chi si ricorda di quando l’Hagana, tra il 22 e il 23 maggio 1948, costrinse i palestinesi a scavare le proprie fosse comuni a Tantoura, dopodiché sparò e li seppellì lì? Questa è la storia dell’ “esercito più morale del mondo”. I capi terroristi del passato sono oggi uomini di Stato e hanno vinto premi Nobel, anche se il manifesto da ricercato di Menachem Begin dovrebbe servire da promemoria.

Oggi, l’Eurovision Song Contest che si svolge a Tel Aviv nell’anniversario dei crimini israeliani dell’ “indipendenza” è un esempio della strategia di lavaggio del cervello che Israele utilizza da sempre per indurre la gente a dimenticare la storia, anche quella più recente, nella quale l’esercito israeliano ha ucciso 60 palestinesi e ne ha feriti 2.700 in un sol giorno, mentre manifestavano al confine di Gaza durante la Grande Marcia del Ritorno, per protestare contro il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme.

E mentre la cultura e la politica di Israele sono in grado di ricordare in modo ipersensibile e maniacale la propria storia, Israele è implacabile nel suo attacco contro di noi. La guerra contro la nostra storia è parte della guerra al nostro pensiero, nonché un muto proseguimento della pulizia etnica della Palestina. Noi conserviamo ricordi carichi di dolore tanto quanto la speranza per il futuro; si dice che coloro che non ricordano il passato sono condannati a riviverlo. L’opinione espressa in questo articolo appartiene all’autore e non necessariamente rispecchia la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Elena Bellini)




Nakba nella Valle del Giordano: le esercitazioni dell’esercito israeliano gettano il caos tra i palestinesi

Shatha Hammad da Khirbet Humsa al-Fawqa, Cisgiordania occupata

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Cacciati dalle loro case perché Israele testa le proprie armi, la commemorazione di quest’anno degli avvenimenti del 1948 vede nuove espulsioni.

A Khirbet Humsa al-Fawqa, sul pavimento di una tenda abitata giacciono giocattoli sparpagliati. Per i bambini del villaggio i giochi sono finiti quando l’esercito israeliano ha dichiarato l’area zona militare proibita e nelle prime ore di domenica ha obbligato la comunità palestinese ad andarsene dalle proprie abitazioni.

In seguito a un ordine di espulsione di quattro giorni prima, ai 98 abitanti è stato vietato l’accesso alle loro abitazioni per tre giorni. L’esercito li ha informati che tra maggio e giugno verranno cacciati 12 volte per tre giorni ciascuna.

Ai palestinesi è stato detto che le abitazioni sarebbero state nel raggio di gittata dei proiettili dei carri armati poiché l’esercito israeliano utilizza l’area per effettuare esercitazioni militari.

La mattina dell’espulsione Mohammed Sulaiman Abu Qabbash, padre di cinque figli, li ha accompagnati in una vicina comunità ed è corso indietro nel tentativo di proteggere le tende e le pecore. Il trentacinquenne è andato avanti e indietro controllando ansiosamente la zona. Ha aspettato che i soldati israeliani arrivassero e lo buttassero fuori.

Nei prossimi tre giorni dormiremo all’aperto. Non abbiamo alternative, non possiamo opporci a una potenza simile,” ha detto Mohammed a Middle East Eye.

Se la comunità rifiuta di andarsene quando gli viene ordinato rischia l’espulsione con la forza, l’esproprio delle greggi e una multa retroattiva.

In base alle leggi internazionali cacciare dalle proprie case gli abitanti di un territorio occupato è considerato trasferimento forzato di persone protette, il che costituisce un crimine di guerra. Ma gli abitanti delle comunità palestinesi nella Valle del Giordano conoscono bene tali devastanti politiche israeliane.

La valle, una striscia di terra fertile che corre a ovest lungo il fiume Giordano, è abitata da circa 65.000 palestinesi.

Dal 1967, quando l’esercito israeliano ha occupato la Cisgiordania, Israele ha trasferito almeno 11.000 suoi cittadini ebrei nella Valle del Giordano. Alcune delle colonie in cui vivono sono state interamente costruite su terre palestinesi di proprietà privata.

Da quando è iniziata l’occupazione, circa il 46% della Valle del Giordano è stata dichiarata dall’esercito israeliano zona militare proibita.

Circa 6.200 palestinesi risiedono in 38 comunità in luoghi destinati a usi militari e devono ottenere un permesso delle autorità israeliane per entrare e vivere nelle loro comunità.

In violazione del diritto internazionale l’esercito israeliano non solo scaccia regolarmente in modo temporaneo le comunità, ma a volte demolisce anche case e infrastrutture.

Oltre a subire espulsioni temporanee, le famiglie palestinesi che vi vivono devono affrontare una miriade di limitazioni nell’accesso a risorse e servizi. Nel contempo la confisca di terre da parte di Israele ha espropriato risorse naturali a favore dei coloni.

Vivere la Nakba

Il digiuno durante l’espulsione e le temperature che hanno raggiunto i 40° hanno raddoppiato le difficoltà di questo Ramadan, dice Khadija Abu Qabbash mentre si prepara ad andarsene. La donna incinta, madre di cinque figli, la mattina ha lavato a mano una pila di vestiti. La sua figlia di 15 anni, Deema, l’ha aiutata a stendere in gran fretta i panni ad asciugare prima che arrivassero i soldati israeliani.

Questa mattina abbiamo accompagnato fuori i bambini ed ora la macchina è tornata a prenderci,” dice a MEE mentre piange. “Non potrò cucinare niente per iftar [pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan, ndtr.]. Ci dovremo accontentare di cibo in scatola.”

Le forze israeliane espellono regolarmente le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa. Tuttavia in genere le espulsioni avvengono durante il giorno, mentre agli abitanti è consentito tornare alla sera.

Non so se stanno effettivamente facendo esercitazioni militari. A volte ci cacciano e non fanno niente. Intendono obbligarci ad andarcene per sempre,” dice Khadija.

Le attività di Israele nella Valle del Giordano sono state ben documentate da gruppi per i diritti umani e da Ong locali, che affermano che l’obiettivo di queste misure è cacciare i palestinesi e soffocare il loro sviluppo nella zona.

Essendo assolutamente strategica, i politici israeliani, anche prima delle recenti affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu riguardo ai suoi progetti di annettere zone della Cisgiordania occupata, hanno chiarito in varie occasioni che la Valle del Giordano rimarrà in ogni caso sotto il loro controllo.

Nel 2013 negoziati di pace sono stati rifiutati da Israele quando è stata ipotizzaa la cessione di parte del controllo sulla valle.

Commentando l’evacuazione di Khirbet Humsa al-Fawqa di domenica, Walid Assaf, capo della Commissione Nazionale per la Resistenza al Muro e alle Colonie dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha detto in un comunicato che ci sono stati tentativi con l’intervento di legali per bloccare l’espulsione temporanea, ma non si è potuto mettere in discussione l’ordine militare israeliano.

Proprio come hanno cacciato i palestinesi dale loro case nel 1948, oggi stanno facendo lo stesso. Non cederemo,” ha aggiunto Khadija, riferendosi alla Nakba, la pulizia etnica della Palestina storica da parte delle milizie sioniste 71 anni fa, che si commemora ogni anno il 15 maggio.

Qui non vogliono palestinesi”

Principalmente composte di pastori, le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa si alzano alle 3 del mattino per mungere le proprie pecore e preparare il formaggio prima di andare ai mercati della vicina cittadina di Tubas.

Harb Abu Qabbash, 40 anni, dice a MEE che ogni famiglia possiede circa 300 pecore. Dato che è difficile spostarle fuori dalla zona, quando i palestinesi vengono evacuati molti degli agnelli rimangono indietro e spesso muoiono di fame senza nessuno che si occupi di loro.

Aggiunge che durante le esercitazioni militari migliaia di ettari di orzo e grano rischiano di essere bruciati. Secondo Harb ciò avviene regolarmente. “Il nostro maggior timore è che una bomba cada su una delle nostre tende. Se ciò accadesse sarebbe una catastrofe e perderemmo tutto,” dice Harb.

Gli israeliani vogliono impossessarsi della zona e svuotarla dei suoi abitanti. Non vogliono palestinesi qui,” aggiunge.

Nel 2005 hanno demolito le nostre tende e infrastrutture con il pretesto che erano state costruite senza permesso. Quando facciamo richiesta di un permesso loro non lo concedono.”

Quando non devono affrontare un’evacuazione, le esercitazioni militari e le demolizioni, i palestinesi della comunità lottano per approvvigionarsi dell’acqua sufficiente per le loro necessità sotto l’occupazione israeliana.

Ogni famiglia con le sue pecore utilizza un totale di due o tre serbatoi d’acqua al giorno,” dice Harb.

Per trasportare il camion cisterna alla comunità ci vogliono due ore. C’è un pozzo d’acqua a cinque minuti da qui, ma l’esercito israeliano ci ha vietato di utilizzarlo e lo ha destinato all’uso esclusivo dei coloni israeliani.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Decine di feriti nella marcia dei palestinesi alla barriera di Gaza nel Giorno della Nakba.

MEE and agencies

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Le forze israeliane hanno ferito decine di palestinesi a Gaza, quando migliaia di manifestanti si sono radunati vicino alla barriera di confine tra Gaza e Israele per commemorare il giorno della Nakba.

Il Ministero della Salute di Gaza ha comunicato che mercoledì sono stati feriti almeno 65 manifestanti, compresi 15 che hanno presentato ferite da armi da fuoco.

La protesta è stata organizzata per commemorare il Giorno della Nakba (catastrofe), l’anniversario dell’espulsione forzata di circa 750.000 palestinesi nel 1947-48, prima e durante la fondazione dello Stato di Israele.

Mercoledì un portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Middle East Eye che almeno 10.000 palestinesi hanno preso parte ai “disordini” nei dintorni della barriera.

Il portavoce ha detto che vi sono stati “molti tentativi” di infrangere la barriera e che le forze israeliane hanno reagito con “mezzi antisommossa”.

Quest’anno le manifestazioni per il Giorno della Nakba si svolgono due settimane dopo che un’offensiva aerea israeliana ha ucciso oltre 20 palestinesi a Gaza e ne ha feriti molti di più.

Il 6 maggio Israele e le fazioni palestinesi hanno raggiunto un cessate il fuoco.

Ogni anno, il 15 maggio, i palestinesi di tutto il mondo commemorano la Nakba, organizzando manifestazioni e chiedendo una soluzione alla loro grave situazione in modo che possano tornare alle case da cui sono stati espulsi.

Si stima che 15.000 palestinesi siano stati uccisi durante la fondazione dello Stato di Israele 71 anni fa. Vennero anche distrutti quasi 500 villaggi palestinesi.

L’agenzia di informazioni Reuters ha riferito che Khader Habib, un membro della fazione palestinese Jihad Islamica, parlando in uno dei siti della protesta a Gaza, ha chiamato i palestinesi a “sollevarsi” e “affermare i propri diritti in Palestina.”

“La Palestina è nostra. Il mare è nostro, la terra è nostra e gli stranieri devono essere cacciati”, ha detto.

Lo scorso anno la Nakba ha coinciso con il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, una contestata decisione dell’amministrazione Trump che è stata accolta con generale rabbia e frustrazione.

In seguito al trasferimento dell’ambasciata, circa 40.000 palestinesi hanno manifestato l’anno scorso a Gaza e le forze israeliane hanno ucciso almeno 60 persone e ne hanno ferite più di 1.000.

Associazioni per i diritti umani e ricercatori delle Nazioni Unite hanno criticato l’esercito israeliano per uso eccessivo della forza nel reagire alle manifestazioni prevalentemente non violente a Gaza.

Nelle frequenti proteste presso la barriera di confine sono stati uccisi quasi 300 palestinesi e alcune migliaia sono rimasti feriti.

Tali proteste, note come la “Marcia del Ritorno”, sono iniziate nel marzo 2018. Chiedono che i palestinesi possano tornare alle loro case in quello che oggi è Israele.

Per decenni Israele ha respinto quella richiesta, nonostante la Risoluzione 194 dell’ONU [del 1948, ndtr.] sancisca il diritto al ritorno dei palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Eurovision e hasbara

Sole, gay, misoginia e shawarma: la promozione dell’Eurovision ancora un altro fallito tentativo israeliano di legittimazione

Denijal Jegić

13 maggio 2019- Mondoweiss

 

La competizione musicale dell’Eurovision di quest’anno avrà luogo a Tel Aviv. L’evento di musica pop potrebbe essere una grande opportunità propagandistica per l’ultima colonia europea. Gli ultimi tentativi di Israele di promuovere se stesso rivelano tuttavia ancora una volta la sua convulsa lotta per legittimarsi. L’hasbara [propaganda, ndtr.] finanziata dal governo continua a riciclare gli stessi miti colonialisti, cercando di nascondere l’appartenenza al colonialismo d’insediamento e la cancellazione degli indigeni dietro a immagini colorate di sole, mare, bandiere arcobaleno e shawarma [kebab, ndtr.].

L’emittente televisiva pubblica KAN ha diffuso un video sulle reti sociali, con l’intento scontato di pubblicizzare la  competizione canora dell’Eurovision e di promuovere Israele come destinazione turistica.

Il filmato è tristemente emblematico del più generale approccio di Israele verso il pubblico occidentale. Mostra Lucy Ayoub, una degli ospiti dell’Eurovision, ed Elia Grinfeld, un dipendente di KAN, che cantano e ballano, cercando disperatamente di attirare l’attenzione di due turisti europei bianchi che sembrano scettici. Lucy ed Elia guidano i due turisti in un teatro, obbligandoli a “unirsi a questo rapido indottrinamento”, in modo che possano aiutarli “ad avere delle fantastiche vacanze”. Quel momento potrebbe implicare che i creatori del video siano consapevoli di quanto possa essere estenuante per il mondo esterno il carattere ridicolo dell’hasbara.

“So proprio quello che avete sentito, che questa è una terra di guerra e occupazione,” dichiara Elia. “Ma abbiamo molto più di quello,” aggiunge Lucy. Riflettendo le pratiche del governo israeliano di perpetuare fisicamente la guerra e l’occupazione cercando al contempo di nascondere a parole quella politica, il video sostituisce in modo sonoro e visivo la situazione palestinese con il benessere sionista.

Quello che segue è un riciclaggio dei noti argomenti dell’hasbara, di “un piccolo Paese con un grande orgoglio” e della “Nazione delle start-up” altamente tecnologica. L’orrore delle gerarchie in base alla razza è celato, in quanto Israele viene presentato come un mosaico multietnico. Lucy, figlia di madre ebrea israeliana e di padre palestinese cristiano, usa le sue origini “arabe” per mascherare i soprusi di Israele contro i palestinesi, proclamando: “Sono araba, sì, alcuni di noi vivono qui,” senza menzionare che la maggior parte di loro è stata espulsa. Quando Elia aggiunge che è scappato dalla Russia, Israele appare come un rifugio per le minoranze perseguitate. Dopo tutto, come propagandano Lucy ed Elia, Israele è “la terra del miele”, “la terra del latte”, e “sempre soleggiato.”

Nessuna propaganda israeliana sarebbe completa senza utilizzare il pinkwashing [il ricorso alla presunta tolleranza verso gli omosessuali per mascherare l’oppressione dei palestinesi, ndtr.], ovvero l’occultamento retorico da parte di Israele della violenza del colonialismo di insediamento dietro l’auto-glorificazione per il suo presunto progresso riguardo ai diritti LGBT+.

In generale l’hasbara si affretta a mostrare una coppia di uomini gay che si baciano in pubblico, per far pensare al proprio pubblico che include le minoranze e, al contempo, dipingere gli arabi e i musulmani come intrinsecamente omofobi (ciò è in linea con il luogo comune orientalista secondo cui i palestinesi non meritano la libertà perché Hamas ha ucciso omosessuali). Quindi è assolutamente prevedibile che nel video di KAN due uomini dimostrino affetto in pubblico davanti a una bandiera arcobaleno a Tel Aviv. Elia canta che “i gay si abbracciano per strada”, nel caso ciò non fosse ovvio. La prassi israeliana di pinkwashing appare notevolmente omofobica. Poiché la popolazione LGBT+ sta lottando per uguali diritti ed è ancora perseguitata in molte parti del mondo, è a dir poco offensivo esibire gay e utilizzarli come una copertura per la persecuzione dei palestinesi. Anche il fatto che Israele abbia preso di mira in modo strategico palestinesi

non–eterosessuali è stato ben documentato.

Il video include anche stereotipi antisemiti: “Molti di noi sono ebrei, ma solo alcuni sono taccagni.” Fa riferimenti misogeni umilianti per le donne, quando Elia chiede ai turisti di “godersi le nostre care bitches [puttane, ndtr.]” invece delle beaches [spiagge, ndtr.].

Il video promuove il furto coloniale di cucina, cultura, storia e geografia palestinesi. Allo spettatore viene detto che c’è “buon shawarma” in tutto Israele, e il Mar Morto diventa israeliano in un luogo di villeggiatura orientalista, quando  Lucy sta seduta su un cammello coperto da stoffe colorate.

Gerusalemme viene definita “la nostra amata capitale” che, come apprende lo spettatore, è la sede dello “Yad Vashem” [il museo dell’Olocausto, ndtr.] e dei luoghi santi. Lucy ed Elia camminano per la Città Vecchia, che è sottoposta a un’occupazione illegale da oltre mezzo secolo. Infine, mentre Lucy ed Elia stanno ballando e dicendo agli spettatori “Vi stiamo aspettando”, Elia indossa una maglietta che dice “Amo Iron Dome” [il sistema antimissile israeliano, ndtr.], in supporto al complesso militare-industriale di Israele.

È come se i palestinesi e la Palestina non fossero mai esistiti. Non solo non sono nominati neanche una volta, la loro storia e la loro cultura sono sostituiti da una fragile narrazione della comunità dei coloni basata su un esclusivismo genocida.

Questo scopo di indottrinamento degli stranieri con miti colonialisti è centrale anche in un sito web che è stato messo in piedi dal governo israeliano. Intitolata boycotteurovision.net, la pagina è un ovvio tentativo di prendere di mira i sostenitori del movimento BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele, ndtr.]. Descrivendo Israele come “Bellissimo. Diverso. Sensazionale” (BDS), il sito consiste in testi e video di propaganda, comprese immagini di coppie gay, luoghi sacri di Gerusalemme e turisti bianchi. Come una guida di viaggio poetica, la pagina rende romantico Israele come un “Paese incantevole”, che “offre magnifiche vedute, spiagge dorate, panorami verdeggianti, vasti deserti, cime innevate e città dinamiche immerse nel valore millenario di straordinari siti storici e culturali.”

Il lettore apprende inoltre che “in Israele tutta la gente, ebrei e arabi, musulmani e cristiani, religiosi e laici, così come LGBT, vive insieme in un bastione di coesistenza nel cuore del Medio Oriente.” Tuttavia la realtà è l’apartheid e un’oppressione strutturale dei palestinesi musulmani e cristiani, delle persone di colore ebree e non e dei dissidenti politici indipendentemente dalla loro identificazione etnico-nazionale o religiosa. Ciò non ha niente a che vedere con la coesistenza.

Il “bastione” di pace e coesistenza è un tipico mito orientalista che sfrutta le convinzioni degli occidentali sull’inferiorità culturale delle civiltà islamica e araba. Nel luogo comune di un Medio Oriente presuntamene pericoloso, Israele, in quanto colonia europea, serve come simbolo di una libertà continuamente minacciata che deve essere salvaguardata.

Il sito web fa ricorso anche al mito orientalista di Israele “che fa fiorire il deserto e lo trasforma in un’oasi di tolleranza.” Questo argomento sionista non solo ignora la presenza storica dei palestinesi. Negandone completamente l’esistenza, la fantasia di un deserto vuoto è servita come una fondamentale giustificazione per la colonizzazione della Palestina.

La riscrittura nel sito web della storia palestinese include l’affermazione che “Israele, nella sua breve storia, ha assorbito più immigrati di qualunque altro Paese, con nuovi arrivati da più di cento Paesi.” La Nakba, la distruzione dei villaggi palestinesi e la violenta espulsione della maggioranza della sua popolazione rimangono assenti. Invece al lettore viene detto che “la vita in Israele è innovativa, e allo stesso tempo ancora legata alla sua ricca storia. Israele è una destinazione piena di cordialità, disponibilità e amore che lascerà a chiunque la visiti ricordi (e amici!) per tutta la vita.”

Ovviamente ciò non riguarda i milioni di rifugiati palestinesi della diaspora, i palestinesi profughi interni a Gaza, o i palestinesi della Cisgiordania che non hanno il permesso di tornare nel territorio da cui sono stati espulsi nel 1948, mentre Israele continua a violare numerose risoluzioni ONU.

I tentativi propagandistici di Israele riguardo all’Eurovision sono parte integrante della sua cancellazione discorsiva di ogni cosa palestinese. E mentre la parola “Palestina” non viene pronunciata in nessuno dei colorati video e immagini, il linguaggio iperbolico, la necessità di verbalizzare le cose più semplici e di pregare letteralmente i turisti a visitarlo rivela che c’è qualcosa di inquietante dietro la facciata colorata dell’hasbara.

L’Eurovision è un semplice esempio di come Israele stia disperatamente cercando di guadagnarsi legittimità attraverso un’ostinata insistenza su vecchi miti e il quasi comico esaurimento degli stessi argomenti.  Poiché il sionismo è un moderno movimento colonialista che è incompatibile con i diritti umani universali e con le leggi internazionali e Israele non ha alcuna giustificazione morale o giuridica per la colonizzazione della Palestina e per i soprusi genocidari contro i palestinesi, il regime israeliano continuerà a avere disperatamente bisogno di una propaganda assurda nei suoi sforzi di raccontare al mondo esterno, e probabilmente a se stesso, una versione modificata della storia, cercando di dimostrare di avere una qualche legittimità.

 

Su Denijal Jegić

Denijal Jegić è uno studioso con un post-dottorato. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Istituto di Studi Americani Transnazionali all’università Johannes Gutenberg di Magonza.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Da Israele al Brasile: dichiarazione di guerra alle popolazioni indigene

Ahmad Moussa

28 aprile 2019, Middle East Eye

Sotto la presidenza Bolsonaro, il Brasile sta perpetuando il razzismo e l’oppressione sionista-colonialista

Le recenti affermazioni del presidente brasiliano Jair Bolsonaro sul “perdonare l’Olocausto” hanno innescato le critiche da parte di Israele, ma ciò che non bisogna dimenticare sono i rapporti e l’identità sionisti del Brasile.

Gli osservatori internazionali sono rimasti turbati dalle recenti vittorie elettorali, in Brasile e Israele, dei candidati di estrema destra Bolsonaro e Benjamin Netanyahu, che hanno entrambi sostenuto e messo in atto apertamente politiche genocide contro le popolazioni indigene.

Il Brasile ha rivelato la propria anima nera, riflettendo l’israelizzazione del Paese ai giorni nostri.

La recente dichiarazione di Bolsonaro, secondo cui l’Olocausto può essere “perdonato ma mai dimenticato”, potrebbe sembrare una rottura nell’orientamento sionista, ma ciò è tutt’altro che vero.

Favoreggiamento della Nakba

Al di là della decisione di Bolsonaro di trasferire l’ambasciata brasiliana a Gerusalemme, e delle foto dei suoi due figli che indossano magliette dell’esercito israeliano e del Mossad – facendo pubblicità ai servizi segreti israeliani, noti per terrorizzare i palestinesi – la storia politica del Brasile dimostra una profonda lealtà all’ideologia sionista.

Il Brasile porta avanti il razzismo colonialista e l’oppressione sionista attraverso l’annichilimento della cultura indigena. È stato uno dei primi Paesi a riconoscere lo Stato di Israele, contribuendo e collaborando quindi alla Nakba – o “catastrofe”, l’espulsione, nel 1948, dei palestinesi dalle loro case – e alla pulizia etnica della Palestina tutt’ora in corso.

Il diplomatico brasiliano Ozvaldo Aranha, ex presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel 1947 è stato determinante nel garantire la creazione di Israele.

Aranha promosse la divisione della Palestina in favore del movimento sionista e contro la volontà del popolo palestinese, rinviando per tre giorni la votazione per far sì che si arrivasse all’approvazione con il sostegno della maggioranza.

Vinse poi il Nobel per la Pace per il suo impegno a sostegno degli interessi sionisti.

Il Piano di Partizione dell’ONU ha fornito il precedente giuridico per giustificare la pulizia etnica della Palestina nel 1948, cioè la Nakba, che continua ancora oggi.

Questa procedura irregolare riecheggia oggi in Brasile, con gli attacchi alla popolazione indigena del Paese.


Occultamento di atrocità

La condivisione della linea contro gli indigeni tra Israele e il Brasile ha iniziato ad emergere più chiaramente negli ultimi anni, con la cooperazione per la sicurezza di alto livello durante i Mondiali di calcio in Brasile nel 2014 e le Olimpiadi del 2016.

Il Brasile ha realizzato questi due grandi eventi mondiali a spese della propria popolazione emarginata.

Ha voluto garantire sicurezza e protezione da un potenziale “terrorismo” nascondendo le atrocità e le conseguenze della repressione di stato e della violenza contro i brasiliani emarginati, soprattutto persone indigene nelle favelas ghettizzate e sovrappopolate, simili ai bantustan palestinesi creati da Israele.

Gli attivisti hanno lanciato l’allarme: Israele sta esportando il “modello di sicurezza a Gaza” in Brasile, dove la popolazione indigena è sotto costante minaccia di furto e sfruttamento dei propri territori tradizionali per fini politici ed economici.

Il motivo di questa relazione speciale è che il Brasile vuole imparare dalle tattiche israeliane contro i palestinesi. Tattiche che Israele sta esportando in tutto il mondo.

Campagna memoricida

Il “risanamento”, o “pulizia”, delle aree da parte della polizia brasiliana attraverso meccanismi repressivi è una strategia insegnata dagli agenti della sicurezza israeliani. Promuovere la colonizzazione e la cancellazione delle aree indigene è particolarmente interessante per il Brasile, nello stesso modo in cui Israele opprime la propria popolazione palestinese.

Questi eventi recenti sono utili a ricordarci l’inquietante identità del Brasile e quale strada sta imboccando il Paese.

Con i proclami fermamente pro-israeliani e anti-indigeni di Bolsonaro sull’appropriazione della terra, l’assimilazione e lo sterminio, in Brasile continua l’esportazione israeliana della cancellazione degli indigeni.

Le popolazioni indigene dei due Stati stanno fronteggiando una campagna di cancellazione della memoria; un tentativo di far loro dimenticare il passato, cosicché non possano avere un futuro.

È questo che non può essere perdonato né dimenticato.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ahmad Moussa


Ahmad Moussa è uno studioso e attivista per i diritti umani, nonché collaboratore fisso ed editorialista freelance per varie agenzie stampa internazionali. È docente di questioni indigene e mediorientali e attivista per i diritti umani con un Master in Diritto Internazionale e Diritti Umani. Moussa è attualmente impegnato in una ricerca per un dottorato in Studi sulla guerra.

(traduzione di Elena Bellini)




Venezuela: perché Israele vuole che Maduro venga rovesciato *

Ahmad Moussa

Lunedì 11 febbraio 2019 , Middle East Eye

Il sostegno americano-israeliano al rovesciamento di Maduro si iscrive nel quadro di un più complessivo progetto regionale che prende di mira la solidarietà con la Palestina

*Nota redazionale: Abbiamo deciso di tradurre questo articolo, benché risalga al febbraio scorso, in quanto la crisi venezuelana è diventata di drammatica attualità in questi giorni e il testo che segue offre interessanti indicazioni sul rapporto tra quanto avviene nel Paese latinoamericano e le vicende mediorientali.

Diversi fattori e importanti elementi hanno alimentato l’attuale disastrosa situazione in Venezuela, ma l’ingerenza israeliana negli affari latino-americani è raramente citata.

Dopo la morte del presidente venezuelano Hugo Chávez il suo successore, Nicolás Maduro, ha rapidamente dovuto affrontare le sfide di un’economia sull’orlo del naufragio, di un’iperinflazione e di una mancanza di medicine e prodotti alimentari dovuta alla caduta del prezzo del barile di petrolio nonostante le notevoli riserve del Paese.

Le manifestazioni contro l’aggravamento della situazione socio-economica hanno portato a una polarizzazione e a un’impasse politica. I campi pro e contro il governo si scontrano senza una terza opzione alternativa né speranza di riconciliazione interna.

La comparsa dell’autoproclamato presidente ad interim, Jaun Guaidó, sostenuto da Paesi come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e Israele – anche se le Nazioni Unite, la più alta carica giudiziaria del Paese e i militari rifiutano la sua leadership e Maduro ha chiesto elezioni anticipate – pone questa domanda: quali interessi rappresenta?

Lotta a favore dell’autodeterminazione

Il caos politico in Venezuela è il risultato di una combinazione tra l’estrema vulnerabilità di uno Stato petrolifero e le conseguenze delle politiche imperialiste e delle iniziative che alimentano la corruzione interna. Ciononostante il sostegno americano-israeliano al rovesciamento di Maduro si iscrive in un programma più vasto che intende consolidare una campagna antipalestinese in America latina a spese del popolo venezuelano.

Benché nel 1947 la maggioranza dei Paesi dell’America latina abbia appoggiato il piano di partizione [della Palestina] delle Nazioni Unite, che costituì ufficialmente lo Stato di Israele e portò alla Naqba [l’espulsione della popolazione palestinese, ndt.], la regione è stata nettamente favorevole ai palestinesi, e accoglie la più grande presenza palestinese al di fuori del mondo arabo.

La solidarietà con la lotta palestinese a favore dell’autodeterminazione ha raggiunto il suo apogeo durante gli anni di Chávez fino ad oggi, in quanto i dirigenti hanno apertamente criticato le flagranti violazioni del diritto internazionale commesse da Israele. Il Venezuela ha rotto i suoi rapporti diplomatici con Israele nel 2009, in seguito alla sua campagna militare contro Gaza [operazione “Piombo Fuso”, ndt.].

L’Alleanza Bolivariana per i Popoli della nostra America (ALBA) è stata creata dal Venezuela e da Cuba durante l’era di Chávez. Gli Stati Uniti e Israele restano i soli Paesi ad aver votato contro la risoluzione annuale dell’ONU intesa a mettere fine al blocco di più di mezzo secolo contro Cuba. Inoltre il recente voto dell’ONU a favore della creazione di uno Stato palestinese, così come i tentativi fatti dalla Palestina per ottenere il riconoscimento internazionale, beneficiano di un consistente appoggio in America latina, soprattutto in Venezuela.

Sotto l’amministrazione Trump si assiste a un lento e constante cambiamento per imporre delle politiche antipalestinesi, come la riduzione dell’aiuto americano all’agenzia per i rifugiati dell’UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi nei campi profughi, ndt.] e all’Autorità Nazionale Palestinese, e l’adozione dell’“accordo del secolo” che distrugge ogni speranza per le aspirazioni nazionali palestinesi.

Ideologia neoconservatrice

L’amministrazione Trump ha rafforzato l’estrema destra politica diffondendo l’ideologia neoconservatrice del sionismo cristiano in tutta l’America Latina. Il voto dell’ONU di condanna dello spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme è stato respinto dal Guatemala, dall’Honduras e dal Brasile in un contesto regionale di rafforzamento dei legami “per la sicurezza” con Israele. Paesi come il Cile, il Brasile, l’Argentina, il Costa Rica, la Colombia, il Perù, il Paraguay e l’Ecuador hanno riconosciuto Guaidó.

È estremamente indicativo che l’amministrazione Trump abbia fatto di Elliot Abrams il suo nuovo inviato americano per il Venezuela, rafforzando l’idea che gli Stati Uniti e Israele vedano in questa situazione un’occasione per rovesciare Maduro e instaurare un regime filo-israeliano nel Paese.

Abrams è stato condannato per il suo ruolo nello scandalo Iran-Contra, che implicava un piano americano-israeliano inteso a fornire segretamente armi all’Iran, in un contesto di embargo sulle armi in nome della liberazione degli ostaggi [dell’ambasciata americana a Teheran, ndt.]. Il fine ultimo era finanziare la contro-insurrezione e i guerriglieri, sostenuti dagli Stati Uniti, che lottavano contro il socialismo o il comunismo [del governo sandinista in Nicaragua, ndt.].

Abrams è stato anche implicato nella massiccia violazione dei diritti umani perpetrata da regimi filo-americani nel Salvador e in Guatemala, come dai ribelli nicaraguensi della Contra negli anni ’80, che hanno fatto decine di migliaia di morti.

Prospettive per il futuro

Abrams è stato in seguito graziato dall’amministrazione Bush e nominato consigliere aggiunto alla sicurezza nazionale in vista della promozione di una strategia dell’ex-presidente George H. W. Bush che consisteva nell’ “adozione di un approccio democratico all’estero”, sulla falsariga del ruolo giocato nel fallito tentativo di colpo di Stato contro Chavez.

Abrams è al contempo ferocemente filo-israeliano. Ha criticato l’amministrazione Obama per aver penalizzato l’illegale espansione delle colonie di insediamento nei territori palestinesi, il che fa di lui il candidato ideale per il programma antipalestinese in America latina.

La direzione che sta prendendo il Venezuela non è di buon auspicio per la regione, soprattutto dal punto di vista della solidarietà con la Palestina, vista la storica e attuale ingerenza sionista.

La presa del potere riuscita del Venezuela da parte delle forze filo-americane implicherà il rafforzamento della politica antipalestinese con una strategia interventista che cancelli e “tolga di mezzo” la Palestina da questa regione.

La speranza è nelle mani del popolo venezuelano, della società civile e dei movimenti di base latino-americani. Solo il futuro ci dirà se potranno mettere fine a questo progetto, sostenuto da Israele, di porre fine alla solidarietà con la Palestina nel continente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ahmad Moussa è uno studioso e attivista per i diritti umani, e collaboratore regolare ed editorialista di numerose agenzie di notizie internazionali. È professore di questioni indigene e mediorientali. È anche attivista per i diritti umani con un master in Diritto internazionale e Diritti umani. Moussa è attualmente coinvolto in una ricerca per un dottorato in Studi sulla guerra.

(traduzione di Amedeo Rossi)




due articoli sul futuro dell’opposizione israeliana con proposte diametralmente opposte

Nota redazionale: riteniamo interessante presentare questi due articoli che affrontano il problema cruciale della ricerca strategica di un’alleanza tra le classi popolari del gruppo maggioritario e dominante e di quelle dominate e oppresse in un contesto coloniale. I due articoli che seguono propongono prospettive opposte.

Smettiamola di parlare di una “collaborazione tra ebrei e arabi” falsa

Rami Younis e Orly Noy 

17 aprile 2019, +972

Creando una simmetria tra israeliani e arabi, gli ebrei di sinistra non hanno solo perso di vista l’intero quadro, ma stanno contribuendo attivamente a cancellare la lotta palestinese.

Il triste stato del “campo della sinistra” era già chiaro molto prima che la scorsa settimana venissero resi pubblici i risultati finali delle elezioni israeliane. Come se niente fosse, è iniziato il rituale delle dichiarazioni su cosa ci sia di sbagliato nella sinistra e su come rimediare.

La pozione utile per tutti i mali “collaborazione tra ebrei e arabi” è stata tra le suggestioni più diffuse. La prescrizione sembra così ideologicamente corretta e politicamente necessaria che ogni critica è spesso interpretata quanto meno come cinica pedanteria. Eppure vale la pena di dare uno sguardo approfondito all’essenza di questa collaborazione.

Invisibile egemonia ebraica

Più che manifestare un’aspirazione all’uguaglianza, l’idea della collaborazione tra ebrei ed arabi presuppone una condizione simmetrica. In questo senso, si tratta di una versione leggermente aggiornata del concetto di “coesistenza”, che negli ultimi anni si è trasformato in una sorta di parolaccia nel campo pacifista, e per buone ragioni. Non è che ci opponiamo all’idea di coesistenza, ma siamo piuttosto arrivati alla convinzione che la coesistenza non riflette i rapporti di potere distorti tra gli ebrei israeliani e i palestinesi. È diventato un modo di dire troppo comodo da utilizzare per coloro i quali conoscono come unica coesistenza quella tra un cavallo e il suo cavaliere.

Possiamo presumere che quanti invocano una “collaborazione tra ebrei e arabi” non vogliano quella stupida forma di coesistenza, eppure si avvalgono dello stesso pericoloso senso di simmetria immaginario. Non è casuale che siano i maschi ebrei askenaziti [cioè originari dell’Europa centro-orientale, ndt.] che in genere guidano questi appelli alla collaborazione. Analogamente non è semplicemente simbolico che discorsi sulla collaborazione tra ebrei e arabi antepongano quasi sempre gli ebrei agli arabi, riflettendo l’invisibile egemonia ebraica che fa da base al concetto concreto.

Si può riscontrare la stessa asimmetria nello slogan non ufficiale delle persone e dei movimenti che sostengono che la risposta sia la collaborazione: “Ebrei e arabi rifiutano di essere nemici”. L’importanza dell’oppresso che rifiuta di essere nemico del proprio oppressore non dovrebbe essere sottovalutata. Ma all’oppressore bisognerebbe chiedere qualcosa di completamente diverso: lui o lei devono rifiutarsi di dominare l’oppresso. Ciò non può essere ottenuto in una situazione di falsa simmetria.

Ciò è vero non solo per ragioni etiche, ma anche perché una lotta prigioniera di una realtà opposta, per quanto questa prospettiva possa essere valida, non potrà mai essere efficace. Finché l’egemonia ebraica resta invisibile, i vari modi in cui decide come sarà questa collaborazione, rimangono invisibili anch’essi in virtù dello stesso linguaggio di simmetria. Si prenda ad esempio il manifesto pubblicato da “Standing Together”, il principale movimento per la collaborazione tra ebrei e arabi, che afferma che non crede nello sventolio di nessuna bandiera nazionale.

Nella nostra situazione la bandiera ebrea-israeliana è ovviamente parte del panorama, mentre quella palestinese, e peraltro l’esistenza del popolo palestinese, è rifiutata, umiliata e cancellata. Quindi togliere di mezzo entrambe le bandiere non fa progredire l’uguaglianza, approfondisce la disuguaglianza. Nel mondo reale, la bandiera blu e bianca non ha bisogno di legittimazione, quella palestinese sì. Dire che le bandiere possono essere escluse simmetricamente significa negare che qui il destino di una persona sia determinato dalla propria affiliazione nazionale. Questa non è collaborazione, è partecipazione attiva all’oppressione.

La stessa invisibile egemonia ebraica sta anche dietro a varie proposte di fondere o unificare i partiti politici Meretz [storico partito della sinistra sionista, ndt.], laburista [partito sionista dominatore della politica israeliana fino agli anni ’70, ndt.] e Hadash [partito non sionista a maggioranza arabo-israeliana, ndt.]. Questa fusione significherebbe ancora una volta che gli ebrei scelgono con quali “arabi buoni” possono costruire una “collaborazione”. Così facendo inoltre definiscono e delegittimano gli “arabi cattivi” che non sono degni di questa collaborazione.

Ricordate la Nakba?

La falsa simmetria sostenuta da quanti credono che “ebrei e arabi rifiutano di essere nemici” è quantomeno pericolosa. Un’intera costruzione basata su un’ideologia razzista, il sionismo, ha lavorato senza sosta durante 71 anni per cancellare sia la narrazione che l’identità palestinesi. Intere generazioni di palestinesi cittadini di Israele sono cresciute qui senza sapere di essere palestinesi – senza conoscere le ingiustizie perpetrate contro il loro stesso popolo. Com’è possibile che queste stesse persone che rivendicano giustizia e uguaglianza contribuiscano solo a perpetuare questa situazione?

E se molti palestinesi non sanno da dove vengono, come potranno sapere dove devono andare?

Abolire l’identità nazionale è anche funzionale a uno dei più ripetuti cliché della destra contro i palestinesi. A ogni palestinese che osi parlare della Nakba, la più grande ingiustizia perpetrata qui – e che la classe dirigente sionista rifiuta di riconoscere – viene immediatamente detto dal simbolico fascista di turno di andarsene e di smetterla di piagnucolare. Questi stessi fascisti rifiutano di capire, o forse scelgono di ignorare, la ferita sanguinante del 1948 e il grande problema storico del popolo palestinese.

Quelli che insistono per una collaborazione tra ebrei e arabi preferiscono concentrarsi sul 1967 [cioè nell’occupazione di Cisgiordania e Gaza, ndt.] come l’anno della grande ingiustizia. Ma non è così. Nella migliore delle ipotesi, non vedono la realtà, se non altro per il fatto che la maggioranza dei palestinesi (soprattutto a Gaza e in Cisgiordania) si concentra sul 1948. Se tutti i tuoi amici arabi parlano del ’67, probabilmente non hai un numero sufficiente di amici arabi.

Sventolare la bandiera palestinese ed essere orgogliosi di questa identità non è una provocazione, è il dovere di ogni palestinese con una coscienza politica, in modo che per le future generazioni la lotta non scompaia. Quelli che sostengono la coesistenza, che si oppongono a questi indicatori di orgoglio e identità, non sono veri alleati politici, stanno lavorando attivamente contro i palestinesi, che sostengono di proteggere in modo paternalistico e arrogante.

Ci si deve quindi chiedere chi sono gli arabi che si uniscono a questa “collaborazione”. Si deve ricordare che la tendenza dei gruppi indigeni che vivono sotto l’oppressione ad entrare in contatto con il proprio oppressore – anche solo per impedire a quest’ultimo di distruggere le loro vite – è naturale. Ora pensate a quanto sia naturale per i palestinesi dire “sì” ai cosiddetti ebrei illuminati e progressisti che offrono loro la cooperazione. Sentiamo spesso che molti palestinesi scelgono di autocensurarsi in presenza dei loro partner per non far arrabbiare quelli che tendono ad avere privilegi, contatti e, molto spesso, finanziamenti.

I gruppi per la coesistenza ignorano inoltre i palestinesi che vivono nei territori occupati. È probabile che molti ebrei israeliani, anche di sinistra, non abbiano mai visitato la Cisgiordania né abbiano rapporti con abitanti palestinesi locali in un modo che consenta loro di comprendere quello per cui molti palestinesi stanno lottando. Sanno, ad esempio, che molti sostengono il diritto al ritorno? Se dipendesse solo dai palestinesi, invece di gridare “Ebrei e arabi rifiutano di essere nemici”, preferirebbero scandire “Palestinesi ed ebrei appoggiano il diritto al ritorno”. Perché in realtà questo slogan non esiste? Perché questa “collaborazione” deve rimanere accettabile per gli ebrei.

Le decine di palestinesi che gridano lo stesso slogan insieme a voi nelle manifestazioni non hanno il diritto di parlare in nome dei palestinesi, così come gli autori di questo articolo non hanno mai ricevuto il diritto di parlare a nome dei rifugiati di Gaza. Eppure ciò non significa che non dobbiamo lottare per i loro diritti.

Questa è una lotta nazionale tra una Nazione indigena e una maggioranza violenta. Quelli che fanno parte della maggioranza non possono guidare e nemmeno pretendere di far parte della dirigenza della lotta contro l’oppressione. La prima cosa che devono fare è essere consapevoli della propria posizione in quanto membri del gruppo oppressore, per quanto possa essere difficile e spiacevole. Quello che possono e devono fare è solidarizzare con le lotte guidate dagli oppressi. Questa è un’idea rivoluzionaria per molti ebrei di buona volontà. Ovviamente si tratta di una posizione più difficile da prendere, in quanto richiede pazienza e ascolto dei problemi che i palestinesi devono affrontare.

All’inizio di questa settimana prigionieri palestinesi, che per anni sono stati privati dei propri diritti ed hanno sopportato maltrattamenti nelle prigioni israeliane, hanno posto fine a uno sciopero della fame. Non c’è niente di “simmetrico” riguardo al loro problema. I prigionieri palestinesi che fanno parte della lotta nazionale sono perseguitati e obbligati a pagarne il prezzo. È anche difficile per l’opinione pubblica ebraica accettarlo. Quale posto potrebbe mai avere la lotta dei prigionieri nella cosiddetta collaborazione con l’egemonia ebraica che spera di vincere i cuori e le menti di più persone possibile?

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [sito in ebraico di +972, ndt.].

Rinunciare alla collaborazione tra ebrei e arabi vorrebbe dire rinunciare alla speranza

Nisreen Shehada e Alon-Lee Green

23 aprile 2019, +972

La maggior parte delle persone di questa terra è vittima del governo Netanyahu. La collaborazione tra loro è l’unico modo per lottare contro le sue diverse forme di oppressione – compresa l’occupazione.

È molto facile per chi si trova in una situazione privilegiata criticare qualunque azione intrapresa da persone che fanno lavoro di base come “non abbastanza radicale” e guardare al mondo attraverso lenti ciniche e negative. Non c’è da stupirsi che, dalla loro comoda posizione, nel loro recente articolo “Smettiamo di parlare di una falsa ‘collaborazione tra ebrei e arabi’”, Rami Younis e Orly Noy abbiano scelto di non vederne le opportunità concrete e di non credere nel cambiamento.

Noi, al contrario, sappiamo che c’è speranza. Non abbiamo abbandonato questo luogo e non disperiamo nelle persone che vivono qui. L’ottimismo è una posizione politica.

Ci sono due aspetti dell’articolo di Younis e Noy che meritano un apprezzamento. Il primo è che in questi giorni è lodevole quanto meno parlare della collaborazione tra ebrei e arabi, uno degli argomenti politici più importanti da prendere in considerazione. In secondo luogo, insistendo sulla separazione tra arabi ed ebrei, involontariamente dimostrano esattamente come la destra in Israele abbia conservato il suo potere con la sua strategia di divide et impera, mettendo una contro l’altra le lotte sociali di arabi ed ebrei. Il loro punto di partenza elude la questione di come riuscire ad ottenere un cambiamento in questa terra – e di chi abbia interesse a raggiungerlo – e ciò li porta alla conclusione errata che la collaborazione tra ebrei e arabi sia inutile.

In fondo all’articolo originale in ebraico, Rami Younis descrive se stesso come un “arabo per niente simpatico che crede che gli ebrei debbano appoggiare le lotte dei palestinesi” e Orly Noy si descrive come “un’ebrea che odia se stessa e crede che i palestinesi debbano condurre da sé la propria lotta.” Al di là del tentativo di essere spiritosi, le acide note biografiche rivelano gli assunti impliciti: gli arabo-palestinesi che vivono qui lottano legittimamente, ma gli ebrei israeliani no (e se lo fanno, non sono abbastanza importanti o abbastanza radicali). Ma non puoi mettere da parte le legittime lotte di quartieri e città con servizi inadeguati, di donne, di ebrei mizrahi [cioè di origine araba, ndt.], dei disabili, per le case di edilizia pubblica, della comunità etiope, dei richiedenti asilo e di altri. Non puoi cancellare intere comunità e dichiarare semplicemente che sono parte di una “maggioranza distruttiva e violenta”.

Per di più, cancellando tutte le lotte di quelle comunità e paragonandole a una “maggioranza distruttiva e violenta”, Younis e Noy stanno suggerendo che la maggioranza degli ebrei israeliani vota per la destra semplicemente perché è razzista e cerca di proteggere i propri privilegi. In breve, Younis e Noy pensano che gli ebrei israeliani siano degli stronzi. Noi di “Standing Together” [organizzazione ebreo-araba israeliana di sinistra, ndt.] pensiamo che l’attuale governo di destra e la gente che vive in questa terra abbiano interessi diametralmente opposti, e che sia compito della sinistra mostrare semplicemente quanto siano dannose le politiche del governo e organizzare le lotte contro quelle istituzioni e le loro politiche.

Le politiche economiche della destra danneggiano seriamente i lavoratori e i settori deboli della popolazione, come dimostrato almeno in parte da una serie di proteste sociali in Israele nel corso degli anni. Le politiche sociali della destra trascurano i punti di vista della maggioranza dell’opinione pubblica; solo nell’ultimo anno queste politiche hanno portato a proteste di massa contro le violenze a danno di donne e contro i diritti LGBTQ. La destra cerca di rimanere al potere non migliorando le vite dei suoi elettori, ma attaccando la minoranza nazionale arabo-palestinese di Israele. Tra le altre cose, l’istigazione al razzismo è il modo della destra per nascondere il fatto che essa non ha migliorato le vite di quanti la votano.

Il modo per lottare contro Netanyahu è duplice: mostrare come le sue politiche economiche danneggino la grande maggioranza dell’opinione pubblica e lottare sia contro il suo incitamento al razzismo nei confronti dei palestinesi in Israele che contro il costante controllo militare di Israele sui territori palestinesi. Dall’articolo di Younis e Noy si può presumere che essi ritengano che le lotte per alloggi a prezzi accessibili, delle femministe, per i diritti dei lavoratori e l’uguaglianza per i palestinesi all’interno di Israele siano tutte secondarie rispetto alla lotta per porre fine all’occupazione. Noi La pensiamo in modo diverso.

La maggior parte della gente di questa terra è danneggiata dalle politiche del governo. La collaborazione tra ebrei e arabi è il modo per lottare contro queste varie forme di oppressione, compresa la fine dell’occupazione. Dalla sua fondazione noi di “Standing Together” abbiamo sempre creduto che sia possibile quanto necessario lavorare per la pace tra israeliani e palestinesi insieme alle lotte per la giustizia sociale e per uguali diritti civili e nazionali. Su ogni fronte di questa lotta insistiamo per lavorare insieme sulla base di interessi condivisi.

Adottiamo questo approccio con la piena consapevolezza del fatto che diversi gruppi della società israeliana sono vittime in modi diversi di sfruttamento, discriminazione e oppressione. I cittadini arabo-palestinesi non sono solo maggiormente danneggiati dalle politiche socioeconomiche della destra, ma sono anche discriminati sulla base della loro identità nazionale: le leggi razziste prendono specificatamente di mira la lingua e la cultura arabe e la legittimità della partecipazione politica araba. Ciò è stato strutturato in modo più rivelatore dalla legge sullo Stato-Nazione ebraico, che sovverte il principio di uguaglianza e stabilisce per legge lo status di cittadini di seconda classe dei palestinesi con cittadinanza israeliana.

Non c’è nessuna simmetria tra la situazione che vivono ebrei e arabi in Israele. Ma la destra israeliana sopravvive proprio trasformando questa asimmetria in una barriera per chiunque intenda cambiare. Ciò diventa particolarmente efficace quando la destra alimenta sistematicamente i timori degli ebrei israeliani, suggerendo che i simboli nazionali e culturali palestinesi incarnino un desiderio di “buttare a mare gli ebrei”. È così che la destra manipola i simboli nazionali palestinesi, soprattutto la bandiera palestinese e il Giorno della Nakba [commemorazione dell’espulsione dei palestinesi dal territorio poi diventato lo Stato di Israele nel 1948, ndt.].

Ferme restando le complicazioni intrinseche e i rapporti di potere di ogni collaborazione tra ebrei ed arabi in una società tanto segregata e polarizzata come la nostra, crediamo che questa collaborazione sia l’unico modo per far progredire un’alternativa e cambiare la nostra situazione. Sì, è una sfida. Come ha scritto Noam Shizaf [giornalista israeliano di +972, ndt.], non è facile raggiungere l’uguaglianza all’interno di una cornice politica comune. Ma noi di “Standing Together” abbiamo scelto di affrontare queste sfide ogni giorno della settimana. A volte abbiamo successo, a volte non molto, ma noi non rinunciamo, non ci disperiamo e non smettiamo di provarci.

Nel loro articolo Younis e Noy scrivono che i membri arabi di “Standing Together” non credono realmente nella collaborazione tra ebrei e arabi – che dicono che ci credono solo per tranquillizzare gli ebrei privilegiati nelle loro fila. Scrivendo ciò, riducono il contributo dei membri palestinesi di “Standing Together” – membri della dirigenza del movimento che definiscono il programma, lavorano per promuovere gli interessi degli arabo-palestinesi in Israele e che a volte pagano di persona per il fatto di essere dirigenti. Più tragicamente, attaccando “Standing Together”, Younis e Noy non fanno che rafforzare gli argomenti della destra, secondo cui i palestinesi che dicono di voler vivere pacificamente accanto agli ebrei israeliani in realtà stanno mentendo.

Queste sono le nostre convinzioni e ci crediamo davvero. Siamo convinti che le politiche della destra danneggino le famiglie arabe più di quelle ebraiche e che questi danni abbiano una radice storica. Sappiamo anche che la collaborazione tra ebrei e arabi è il modo per lottare per i diritti di tutte quelle famiglie, sia ebree che arabe, e per garantire che tutti possano vivere insieme in questa terra. Questi sono in nostri valori. Questa è la nostra teoria per il cambiamento. Questa è la fonte della nostra speranza. Crediamo nel cammino che abbiamo scelto e stiamo costruendo un ampio movimento – ebrei, arabi e socialisti – per realizzare un cambiamento fondamentale nella società, nell’economia e nella politica di Israele.

Nisreen Shehada e Alon-Lee Green sono membri della direzione di “Standing Together”. La versione originale di questo articolo in ebraico è già comparsa su “Local Call” [sito in ebraico di +972, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)