Un affronto alla Storia: il Giro d’Italia usato per nascondere l’apartheid israeliana.

Ramzy Baroud

17 maggio 2018, Counterpunch.org

Per la prima volta dal suo debutto nel 1909, il 4 maggio [di quest’anno, n.d.t.] il Giro d’Italia, leggendaria gara ciclistica italiana, è iniziato fuori dall’Europa e, stranamente, dalla città di Gerusalemme.

Le contraddizioni che questa decisione porta con sé sono inevitabili. L’Italia è un Paese che sa bene cosa sia una crudele occupazione straniera e che è stato devastato dal fascismo e dalla guerra. È terrificante che oggi abbia un ruolo nei continui tentativi di Israele di “nascondere con un’imbiancata” o, in questo caso, di “nascondere con lo sport” l’occupazione militare e la violenza quotidiana contro il popolo palestinese.

Tutti i tentativi di convincere gli organizzatori della gara a non essere parte della propaganda politica israeliana sono falliti. A quanto pare, i milioni di dollari pagati agli organizzatori del Giro d’Italia, RCS Sport, sono stati molto più convincenti delle esperienze culturali condivise, della solidarietà, dei diritti umani e del diritto internazionale.

Il famoso scrittore italiano Dino Buzzati, negli anni ‘40, ha scritto sui giornali italiani diversi racconti in cui descriveva il simbolismo della gara nel contesto di una nazione malridotta che risorgeva dalle ceneri di una gigantesca distruzione.

Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, gli organizzatori del Giro d’Italia si trovarono di fronte al compito apparentemente impossibile di organizzare una gara con poche biciclette e ancor meno atleti. Le strade erano state completamente distrutte durante la guerra, ma era più forte la determinazione a farcela.

Il Giro d’Italia del 1946, e soprattutto la leggendaria rivalità tra Fausto Coppi e Gino Bartali, divennero la metafora di un Paese che si rialzava dopo gli orrori della guerra, ridando vita alla propria identità nazionale, rappresentata dallo scontro finale tra atleti eroici che pedalavano tra tortuose strade di montagna per raggiungere il traguardo.

Conoscendo questa storia, Israele l’ha sfruttata in ogni modo possibile. Il governo israeliano, infatti, ha recentemente concesso al compianto Gino Bartali la cittadinanza onoraria, come riconoscimento del retaggio anti-nazista dell’atleta. L’ironia, ovviamente, è che il trattamento che gli israeliani riservano ai palestinesi – occupazione militare, razzismo, apartheid e violenze aberranti – ricorda proprio quella realtà che Bartali e altri milioni di italiani hanno combattuto per anni.

Quando, lo scorso settembre, i dirigenti israeliani hanno annunciato che il Giro d’Italia sarebbe partito da Gerusalemme, si sono dati da fare per collegare l’evento alle celebrazioni israeliane per i 70 anni di indipendenza.

Sono passati 70 anni anche da quando i palestinesi vennero cacciati dalle loro terre da milizie sioniste, il che ha portato alla Nakba, distruzione catastrofica della Palestina, e alla nascita di Israele come Stato ebraico. È allora che Gerusalemme Ovest divenne parte di Israele, mentre il resto della Città Santa, Gerusalemme Est, venne conquistata con la guerra del 1967, prima dell’annessione, ufficiale ma illegale, del 1981, a dispetto del diritto internazionale.

RCS Sport non può dire di non sapere quando si parla di come la decisione di collaborare e avvalorare l’apartheid israeliana segnerà per sempre la storia della gara. Quando hanno annunciato sul sito che la competizione sarebbe partita da “Gerusalemme Ovest”, la risposta israeliana è stata immediata e furente. Il Ministro dello Sport israeliano, Miri Regev, e quello del Turismo, Yariv Levi, hanno minacciato di interrompere la collaborazione, lamentando che “a Gerusalemme, la capitale di Israele, non ci sono Est o Ovest. Esiste solo un’unica Gerusalemme”.

Purtroppo, gli organizzatori del Giro d’Italia hanno chiesto scusa pubblicamente e hanno rimosso la parola “Ovest” dal sito e dai comunicati stampa.

Secondo il diritto internazionale, Gerusalemme Est è una città palestinese occupata. Questo fatto è stato ripetutamente ribadito da risoluzioni ONU, tra cui la più recente, la Risoluzione 2334 del 23 dicembre 2016, che condanna la costruzione di insediamenti illegali israeliani nei Territori occupati, inclusa Gerusalemme Est.

La realtà dei fatti contraddice palesemente le argomentazioni degli organizzatori del Giro d’Italia, secondo cui la gara sarebbe una celebrazione della pace. In realtà, è un modo di avallare l’apartheid, la violenza e i crimini di guerra.

Il fatto che la gara si sia svolta secondo il programma, nonostante fosse in corso l’assassinio di manifestanti palestinesi a Gaza, dimostra anche il livello di corruzione morale di chi sta dietro tutto questo. Oltre 50 palestinesi disarmati sono stati uccisi dal 30 marzo, dall’inizio cioè delle manifestazioni pacifiche al confine di Gaza, note come ”Grande Marcia del Ritorno”. Secondo il Ministero palestinese per la Gioventù e lo Sport, sono oltre 7.000 i feriti, e tra loro 30 atleti.

Uno dei feriti è Alaa al-Dali, 21 anni, ciclista, a cui è stata amputata una gamba, colpita da un proiettile il primo giorno delle proteste.

Sylvan Adams, filantropo ebreo canadese e uno dei maggiori finanziatori della gara, ha sostenuto che il proprio contributo sia motivato dal desiderio di promuovere Israele e sostenere il ciclismo come ”ponte tra i popoli”.

I palestinesi come Alaa, la cui carriera ciclistica è finita, sono, ovviamente, esclusi da questa sublime e selettiva definizione. I 12 milioni di dollari che gli organizzatori hanno ricevuto da Israele e dai suoi sostenitori sono stati un prezzo sufficiente per ignorare la sofferenza dei palestinesi e per agevolare la normalizzazione dei crimini israeliani contro il popolo palestinese?

Purtroppo, nel caso di RCS Sport, la risposta è sì.

Molte persone in Italia e ancor più nel mondo, ovviamente, non sono d’accordo. Nonostante il ruolo dei media nello “sport-washing” israeliano, centinaia di italiani hanno protestato durante le varie tappe della gara.

La quarta tappa del Giro d’Italia, a Catania, in Sicilia, è stata ritardata dalla protesta contro una competizione ”sporca di sangue palestinese”, secondo le parole dell’attivista Alfonso Di Stefano.

Renzo Ulivieri, presidente dell’Associazione Italiana Allenatori, è stato una delle prime voci italiane importanti a contestare la decisione di tenere la gara in Israele. “Avrei potuto rimanere indifferente, ma temo che sarei stato disprezzato dalle persone che stimo. Viva il popolo palestinese, libero sulla sua terra”, ha scritto in un post su Facebook.

RCS Sport ha causato al Giro, al ciclismo e agli italiani un danno imperdonabile in cambio di pochi milioni di dollari. Accettando di far partire la gara da un Paese colpevole di pratiche di apartheid e prolungata occupazione militare, [gli organizzatori, ndt.] hanno marchiato a vita la competizione.

Comunque, la generale ondata di indignazione provocata da questa decisione irresponsabile pare indicare che gli sforzi israeliani per normalizzare i propri crimini contro i palestinesi non stiano riuscendo a cambiare l’opinione pubblica e la percezione di Israele come potenza occupante, che merita di essere boicottata, non accettata.

  • Romana Rubeo, scrittrice italiana, ha contribuito a questo articolo.


Il Dr. Ramzy Barud scrive di Medio Oriente da oltre vent’anni. Editorialista di livello internazionale, esperto in comunicazione, è autore di diversi libri e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ”My father was a freedom fighter: Gaza’s Untold Story (Pluto Press, Londra). Sito web: ramzybaroud.net

(Traduzione di Elena Bellini)

 

 




Come Israele testa la sua tecnologia avanzata sui manifestanti palestinesi

Daniel Hilton

18 maggio 2018, Middle East Eye

I candelotti lacrimogeni lanciati dai droni israeliani hanno provocato il panico, causato molti feriti e seminato morte durante le manifestazioni di questa settimana a Gaza e in Cisgiordania.

Il divario tra i manifestanti palestinesi e le forze israeliane è stato spesso paragonato alla lotta di Davide contro Golia. Ormai Golia non ha nemmeno più bisogno di scendere sul campo di battaglia.

Grazie ad una nuova invenzione, l’esercito israeliano ha utilizzato piccoli droni per lanciare gas lacrimogeni sulle manifestazioni dei palestinesi lungo il confine della Striscia di Gaza con Israele e nella Cisgiordania occupata.

Visti per la prima volta all’inizio di marzo, quando la catena libanese Al-Mayadeen ha filmato un gruppo di manifestanti di Gaza presi di mira da uno di essi, i droni che trasportano gas sono stati ampiamente utilizzati nelle manifestazioni di lunedì e martedì nell’enclave costiera e nella Cisgiordania occupata.

Sembra che per lanciare gas vengano utilizzati tre tipi di droni.

Il primo, sviluppato dall’impresa israeliana ISPRA e conosciuto col nome “Cyclone Riot Control Drone System”, è un piccolo drone che trasporta una scatola contenente nove cartucce in alluminio leggero che esplodono dopo il lancio.

Tuttavia sembra che siano stati utilizzati da Israele altri due modelli, che secondo esperti interpellati da MEE non sono mai stati visti prima.

Uno è un drone che libera gas direttamente dall’apparecchio, come uno spray, spandendo una nube su coloro che vi si trovano sotto.

L’altro, un dispositivo potenzialmente molto più pericoloso, è un drone tipo elicottero che trasporta granate esplosive in gomma con delle spirali metalliche che cadendo disperdono il gas.

Secondo gli esperti interpellati da MEE, quando le manifestazioni della ‘Grande Marcia del Ritorno’ hanno raggiunto il loro culmine all’inizio di questa settimana, il terzo tipo di drone è diventato quello di gran lunga più utilizzato.

Esso non sembra essere uno strumento sofisticato.

«E’ più sofisticato (di un drone commerciale), non è qualcosa che si possa acquistare a buon prezzo su Amazon, ma penso che sia abbastanza simile», ha dichiarato a MEE Itay Mack, un avvocato per i diritti umani ed attivista israeliano che si occupa delle esportazioni militari di Israele.

Il drone sembra essere dotato di un supporto a molla, che si apre per lasciar cadere un certo numero di candelotti lacrimogeni.

«Penso che la sicura dei candelotti venga sganciata manualmente quando vengono fissati al supporto prima del decollo», ha dichiarato a MEE James Bevan, direttore esecutivo di ‘Conflict Armament Research’.

Il supporto viene quindi rilasciato una volta che il drone si trova sulla zona su cui chi lo manovra intende sganciare il gas.

«Può trattarsi di una cosa semplice come un perno retraibile attaccato a un servomotore, che è collegato ai circuiti del drone», spiega Bevan. «È ciò che lo “Stato islamico” ha utilizzato in Iraq e in Siria. »

Secondo Bevan, lo “Stato islamico” è l’unico gruppo per il quale esistono prove concrete di utilizzo di questi piccoli droni elicotteri in situazioni di combattimento, soprattutto a Mosul (Iraq) e a Tall Afar (Siria).

«Constatiamo l’utilizzo di droni in altri scenari, anche da parte di organizzazioni non statali, ma si tratta di droni militari ad ala fissa », ha spiegato.

Nuova gittata, nuovo pericolo

Le manifestazioni di lunedì a Gaza coincidevano con la cerimonia di inaugurazione ufficiale della nuova ambasciata statunitense a Gerusalemme, mentre quelle di martedì segnavano il 70^ anniversario della Nakba – o “Catastrofe” – durante la quale 700.000 palestinesi furono espulsi dalle loro case nel 1948.

Durante questi due giorni 62 palestinesi sono stati uccisi da proiettili veri o da gas lacrimogeni sparati dalle forze israeliane che cercavano di reprimere le manifestazioni.

Il ministero della Sanità di Gaza ha affermato che almeno 980 palestinesi, tra cui molti minori, sono stati feriti dai gas lacrimogeni lanciati durante le manifestazioni di lunedì.

«Il problema dei candelotti lacrimogeni è che sono particolarmente pericolosi per i bambini e gli anziani.»

I droni hanno accresciuto il raggio d’azione delle forze israeliane. Prima i candelotti lacrimogeni venivano lanciati nella Striscia di Gaza da veicoli situati dal lato israeliano della linea di confine.

La grande barriera che separa l’enclave assediata da Israele limita la capacità dell’esercito israeliano di lanciare il gas dall’altro lato del confine, diversamente dalla Cisgiordania, dove i soldati sparano i candelotti con fucili appositamente attrezzati.

Le forze israeliane raramente fanno incursioni nella Striscia di Gaza, da cui si sono ritirate nel 2005, mentre mantengono una presenza significativa nella Cisgiordania occupata.

Questa nuova gittata consente agli israeliani di prendere di mira delle zone lontane dall’area di frontiera, quelle in cui è più probabile che vivano famiglie, minori e anziani.

Il gas, una minaccia per le persone vulnerabili

Il gas può essere mortale in due modi: asfissia e dose eccessiva, a seconda dei prodotti chimici utilizzati.

Negli ultimi anni la morte di parecchi palestinesi in Cisgiordania è stata legata all’inalazione di gas lacrimogeno. Nel 2015 un bimbo di otto mesi è morto nel villaggio di Beit Fajjar dopo che dei soldati hanno lanciato gas lacrimogeno sulla sua casa.

Nel 2014 anche il ministro palestinese Ziad Abu Ein è morto in seguito a complicanze legate all’inalazione di gas lacrimogeno, dopo aver partecipato ad una manifestazione vicino al villaggio di Turmusaya.

L’anno scorso un rapporto descriveva il campo profughi di Aida, nel sud della Cisgiordania, come «la comunità più esposta ai gas lacrimogeni al mondo.»

Durante le manifestazioni di questa settimana nella Striscia di Gaza, è stata uccisa dai gas lacrimogeni anche una neonata di otto mesi, Leila al-Ghandour. Sarebbe stata esposta al gas mentre si trovava in un luogo di proteste lontano dalla barriera di separazione israeliana, anche se, al momento in cui viene pubblicato questo articolo, MEE non ha potuto verificare in modo indipendente le circostanze della sua morte.

Proiettili sparati a caso

Anche se sono fatti di gomma, i candelotti lacrimogeni sganciati dai droni sono pesanti e il loro congegno a spirale è di metallo.

L’esercito israeliano è sottoposto a regolamenti che vietano di prendere di mira direttamente le persone con questi proiettili. I candelotti di gas sparati da fucili appositamente adattati sono particolarmente pericolosi a breve distanza.

Anche i lancia-granate a lunga gittata e di calibro 40 mm utilizzati da Israele sono considerati pericolosi in quanto la precisione dei loro tiri è ridotta.

Un portavoce dell’‘Omega Research Foundation’, un organismo che studia la fabbricazione, il commercio e l’utilizzo delle tecnologie militari, di polizia e di sicurezza, ha dichiarato a MEE che i droni potrebbero essere utilizzati per aumentare la precisione del rilascio dei gas lacrimogeni.

«Da un punto di vista meramente tecnico, i droni possono volare ad un’altezza che consente di lanciare in completa sicurezza i candelotti e di mirare alle persone che costituiscono una minaccia”, ha dichiarato il portavoce, che ha chiesto di restare anonimo.

Tuttavia, sequenze video delle proteste di questa settimana sembrano mostrare dei candelotti lanciati da grande altezza, il che riduce la precisione ed aumenta il rischio di ferite alla testa.

Una minaccia inesistente

Israele ha accusato a più riprese i manifestanti di Gaza di cercare di oltrepassare la barriera di confine e di piazzare degli esplosivi in territorio israeliano. Secondo Israele l’impiego di proiettili veri e di gas lacrimogeni è giustificato dalla minaccia che i manifestanti rappresenterebbero nel caso superassero la barriera.

I droni possono «sorvolare certe zone e sganciare lacrimogeni in settori dove non si vuole vi siano manifestanti», ha dichiarato all’AFP [Agenzia France Presse] Micky Rosenfeld, portavoce della polizia israeliana.

Tuttavia inviati di MEE presenti a Gaza e in Cisgiordania ed anche video diffusi online portano a pensare che le forze israeliane abbiano preso di mira aree lontane dalla zona di confine e persone che non sembravano costituire una minaccia.

Lunedì un giornalista di MEE e parecchi altri operatori dell’informazione sono stati colpiti dal gas lanciato da un drone. La zona presa di mira era chiaramente occupata da molti giornalisti e da veicoli che portavano una scritta “STAMPA” messa ben in evidenza.

In un’altra sequenza video un drone sgancia del gas su una tenda collettiva piena di donne e bambini, a quanto pare situata a più di 450 metri dal confine.

Sembra che in certe situazioni il lancio dei lacrimogeni dal cielo abbia seminato confusione e panico tra la gente invece di disperderla verso altri luoghi.

Martedì, durante una manifestazione vicino alla colonia israeliana illegale di Beit El, in Cisgiordania, almeno quattro droni hanno sganciato gas direttamente sui manifestanti.

Secondo un manifestante di 20 anni, che ha chiesto di parlare con MEE in forma anonima, « ne è derivato uno stato di panico» quando in cielo sono apparsi i droni.

«La gente correva in tutte le direzioni senza sapere dove andare, mentre i droni volavano sopra le nostre teste in attesa di sganciare i gas lacrimogeni», ha detto a MEE.

«Gli israeliani hanno cominciato ad utilizzare questi droni solo da qualche settimana. Agiscono in modo indiscriminato e sono spietati.”

Secondo Gabriel Avner, un consulente israeliano per la sicurezza, la politica condotta da Israele a Gaza si discosta dai metodi abituali di controllo delle masse.

«La situazione a Gaza in questo momento è completamente diversa da ciò che succede altrove (….). Loro [gli israeliani] vi vedono una zona di conflitto di grandi dimensioni», ha spiegato a MEE.

«C’è motivo di preoccuparsi in quanto le regole di ingaggio siano rigide » ha detto, prima di aggiungere che l’esercito israeliano avrebbe dovuto assicurarsi che i soldati fossero ben addestrati a comprendere le potenziali conseguenze dell’introduzione di questo tipo di nuove tecnologie.

Un «terrorismo degli aquiloni»

Tuttavia i droni non servono solo a lanciare gas lacrimogeni.

Alcuni palestinesi fanno volare degli aquiloni dall’altro lato del confine, spesso con lo scopo di appiccare incendi: questi aquiloni trasportano brace ardente per innescare incendi boschivi in territorio israeliano.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, l’esercito israeliano si è rivolto a piloti di droni da competizione per intercettare gli aquiloni servendosi delle eliche e dei ganci attaccati agli apparecchi per tagliarne il filo e farli deviare.

Haaretz ha riferito che i droni che intercettano gli aquiloni non sono pilotati da professionisti e possono raggiungere una velocità di 110 metri al secondo.

Secondo il quotidiano, si sospettava che uno degli aquiloni che ha raggiunto il lato israeliano della linea di separazione trasportasse una bomba telecomandata.

Benché il congegno non sia esploso – i pompieri dei servizi di polizia hanno affermato che forse si trattava di una bomba difettosa o finta – il quotidiano ha ipotizzato che questo episodio possa essere l’annuncio di una nuova fase di ciò che ha descritto come un “terrorismo degli aquiloni” lungo il confine.

Molti di questi aquiloni sono comunque inoffensivi, frequentemente utilizzati dai manifestanti per far sventolare la bandiera palestinese.

Se non vengono intercettati dai droni, sono spesso abbattuti da spari di proiettili veri.

Tecnologie in vendita

Israele è uno dei leader mondiali della tecnologia dei droni.

Il suo uso di aerei senza pilota risale alla fine degli anni ’70; all’epoca, erano utilizzati dall’esercito per operazioni di controllo nel sud del Libano, prima di essere impiegati ampiamente nel 1982 durante l’invasione di Israele del suo vicino settentrionale.

Secondo Itay Mack, l’avvocato dei diritti umani, Israele si è servito dei precedenti conflitti per mettere in mostra le sue armi al fine di venderle.

Israele vende i suoi armamenti e tecnologie a molti Paesi. Il mese scorso il ministero della Difesa tedesco ha annunciato l’intenzione di firmare un contratto di un miliardo di dollari con ‘Israel Aerospace Industries’ [“Industrie aerospaziali Israeliane”, impresa pubblica e principale produttrice di armi del Paese, ndtr.] per affittare degli aerei senza pilota.

Israele è stato oggetto di critiche per aver venduto armi a governi che hanno pessimi precedenti in tema di diritti umani, tra cui ultimamente la Birmania, che avrebbe acquistato apparecchiature militari israeliane nell’ambito della sua operazione contro la minoranza rohingya. L’attacco del governo birmano contro le comunità rohingya è stato ampiamente descritto come una pulizia etnica.

A dicembre anche la società israeliana “Global Group” ha venduto per parecchi milioni di dollari droni di sorveglianza al governo del Sud Sudan, sotto assedio e a corto di denaro.

Dopo lo scoppio della guerra civile nel Paese nel 2013 le forze governative del Sud Sudan sono state accusate dall’ONU di gravi violazioni dei diritti umani.

L’utilizzo di droni da parte dell’esercito israeliano per sganciare gas a Gaza e in Cisgiordania lascia intendere che i modelli venduti al Sud Sudan potrebbero anche essere adattati per lanciare gas lacrimogeni o altri ordigni.

«I droni commerciali di maggiore dimensione (…) sono ideati per trasportare un’intera gamma di carichi (grandi telecamere per gli eventi sportivi, dispositivi per irrorare le coltivazioni). Sono quindi concepiti per essere guidati a distanza a seconda delle funzioni dei diversi carichi. Sarebbe molto facile da impostare», ha detto James Bevan, di ‘Conflict Armament Research’.

Hanno contribuito a questo reportage Kaamil Ahmed, Tessa Fox e Hind Khoudary. 

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)

 




‘Noi moriamo comunque, quindi che sia davanti alle telecamere’: conversazioni con abitanti di Gaza

Amira Hass

20 maggio 2018, Haaretz

I miei amici di Gaza sono indignati dall’accusa di Israele che sia Hamas a guidare tutto. ‘Il vostro popolo ci ha sempre guardati dall’alto in basso, perciò è difficile per voi capire che nessuno manifesta nel nome di qualcun altro’.

“La capacità di noi palestinesi di essere uccisi è più grande della capacità di voi israeliani di uccidere”, mi ha detto un abitante del campo profughi di Deheisheh vicino a Betlemme all’inizio della Seconda Intifada. Ottimista da sempre, intendeva dire che a causa di questa differenza alla fine le due parti raggiungeranno un giusto accordo.

Martedì di questa settimana, lungo la barriera di confine e di fronte a Beit Hanun, nel nord della Striscia di Gaza, il fatto che si sia sbagliato è diventato nuovamente evidente. C’è un limite alla capacità dei palestinesi di essere uccisi. Il mattino seguente al lunedì di sangue i manifestanti hanno fatto una pausa. Sessanta nuovi morti e centinaia di nuovi feriti hanno giustificato il momento di calma che chiedevano. Il giorno seguente, il giorno della Nakba, che ci si aspettava fosse il peggiore, in realtà è stato il giorno in cui hanno rinunciato alla simbolica ‘Marcia del Ritorno’ di massa alla barriera di confine.

In mezzo ai campi di girasole e di patate dei kibbutz, invidiavo i miei colleghi che trasmettevano con così grande autoconvinzione le dichiarazioni dell’esercito e dei politici israeliani. Secondo i portavoce israeliani, sia militari che civili, la tregua lungo la barriera di confine è la prova inequivocabile che i leader di Hamas controllano tutto, e tutti sono sottoposti alla loro autorità, sono loro che hanno mandato la gente a morire il giorno prima, sono loro che hanno cambiato il copione il giorno dopo. Molto semplice.

Secondo questi rapporti, l’Egitto ha dato istruzioni di fermare il processo – dietro richiesta israeliana – e Hamas ha obbedito. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh è stato umiliato, e questo ha funzionato. Tutto ciò viene recepito in Israele come dato di fatto, giornalismo investigativo e ulteriore vittoria israeliana. Non c’è bisogno di essere a Gaza per sapere e non conta che l’esercito impedisca ai giornalisti israeliani di entrare nella Striscia.

Tutta la nostra strumentazione bionica è al lavoro: aerostati per scattare foto, droni, intercettazioni, collaboratori e una dichiarazione fuori-onda di un importante dirigente di Fatah a Ramallah. Tutto sembra fornire ciò che noi interpretiamo come verità divina. In confronto, la quantità di dettagli, spiegazioni, ipotesi, negazioni, esitazioni e contraddizioni che riceviamo da parte palestinese è considerata giornalismo scorretto, che non fornisce una spiegazione definitiva.

Accanto agli irrigatori che spruzzano gioiosamente acqua nei campi israeliani, mi sono chiesta: se voi sapevate che Hamas ha pianificato di mandare cinicamente la gente a morire in modo da guadagnarsi nuovamente l’attenzione e dipingere Israele come il demonio, perché state facendo quello che loro volevano? Perché anche voi, che non avete usato mezzi non letali, ubbidite ad Hamas?

C’è una barriera interna, una barriera di sicurezza e un terrapieno che è stato costruito con terra riportata dagli scavi della nuova barriera sotterranea di Israele. E c’è una strada di sicurezza e un’altra ancora. E poi i campi. Intorno a tutto questo ci sono postazioni di vigilanza e al disopra ci sono palloni aerostatici e droni. E tutto ciò che avete potuto fare è stato dimostrare la capacità di Israele di uccidere e mutilare?

Vicinanza silenziosa

Da una collina nei campi del kibbutz Nir Am si possono vedere chiaramente Beit Hanun, Izbet Abed Rabo e i contorni di Shujaiyeh nel nord di Gaza. Ed anche gli alti blocchi residenziali, che svettano alti. L’ ininterrotta area costruita da Beit Lahia all’estremità sud di Gaza sembra molto vicina. Un solo furgone pickup bianco è passato lungo la linea di confine tra i campi coltivati palestinesi e l’ampia striscia di terra in cui Israele vieta di coltivare, e un carro trainato da cavalli andava verso nord.

La silenziosa vicinanza, senza alcun contatto, ha dimostrato la situazione di imprigionamento dal lato opposto. Dopotutto, io una volta ho abitato là, sono andata in tutti quei luoghi che ora vedo col binocolo e ricordo i fatti che ho raccontato e la gente di cui ho scritto, tra una guerra e l’altra, durante le guerre, durante le rivolte e per così dire le tregue.

Ora questi luoghi sono un film, da vedere e non toccare. A uno o due chilometri di distanza ci sono i miei amici, a cui voglio bene, e non ci è più permesso di vederci. Uno di loro ha detto scherzando che sarebbe venuto al campo della ‘Marcia del Ritorno’ sventolando una grande bandiera palestinese per salutarmi. Ma è meglio WhatsApp.

Al telefono i miei amici si indignano e ognuno lo dice a suo modo: dire che Hamas controlla tutto questo significa togliere ad ogni palestinese non solo il suo diritto alla libertà di movimento e ad un livello di vita dignitoso, ma anche il diritto ad una profonda frustrazione e disperazione – ed il suo diritto di esprimerla.

“Gli israeliani ci guardano dall’alto in basso e lo hanno sempre fatto. Ai vostri occhi, un arabo buono è un collaborazionista o un [arabo] morto”, ha detto uno di loro ed ha aggiunto: “Perciò per voi è difficile capire che nessuno manifesta in nome di qualcun altro. Ognuno va là per sé stesso. Noi siamo un popolo senza risorse ed ora senza una strategia e un programma, ed al punto più basso in termini di appoggio internazionale e di organizzazione interna. Ma siamo andati a manifestare per disturbare i festeggiamenti per il trasferimento dell’ambasciata. Gerusalemme ci sta molto a cuore. Andiamo per non morire in silenzio. Perché siamo stufi e stanchi di morire in silenzio, nelle nostre case.”

“Se muori, che sia di fronte alle telecamere. Facendo rumore. Io sto andando alla moschea. Non vi è stato nessun ordine dall’alto di andare alla manifestazione. Sento dei giovani dire che domani andranno a morire alla barriera, come se parlassero di un picnic o di caramelle. Sono andato al campo della ‘Marcia del Ritorno’ due o tre volte, e non mi è piaciuto. Troppa confusione. Se Hamas avesse avuto il controllo dell’intera iniziativa non ci sarebbe stato quel caos. Dopotutto, lo sapete quanto gli eventi di Hamas siano sempre ordinati, organizzati, disciplinati.”

È vero, c’era personale della sicurezza di Hamas in abiti civili; non erano là come Hamas, ma per mantenere l’ordine pubblico a nome del governo in carica, come in ogni evento di massa – per impedire a persone armate di avvicinarsi alla barriera, per evitare provocazioni di collaborazionisti, per intervenire in caso di risse o molestie sessuali.

Hamas ha perso popolarità a Gaza a causa dei fallimenti e dei disastri degli ultimi dieci anni, mi ha giurato un amico dopo avermi ricordato che a lui “non piacciono per niente.” Dice che all’inizio, [i dirigenti di Hamas] non erano entusiasti dell’idea della ‘Marcia del Ritorno’, dopo che dei giovani militanti avevano proposto l’idea a tutti i leader delle fazioni politiche.

In seguito anche Hamas ha aderito all’iniziativa. In quanto organizzazione, Hamas è in grado di offrire ciò che altri gruppi non possono: trasferimenti ai campi della ‘Marcia del Ritorno’, magari un panino e una bottiglia di coca cola e tende. “Ma non possono obbligarci a venire e mettere a rischio noi stessi. Dopotutto, è pericoloso stare ad una distanza anche solo di 300 o 400 metri, perché i soldati ci sparano.”

Uno straniero a Gaza ha avuto questa impressione: “Hamas non può ordinare alla gente di andare alle manifestazioni e mettere a rischio la propria vita, ma può impedire che si avvicini alla barriera.” Uno dei modi è fare dichiarazioni ai media.

I molti morti non di Hamas

Mercoledì è arrivata a molti organi di informazione israeliani la stessa notizia secondo cui un leader di Hamas, Salah al-Bardawil, “ha ammesso in un’intervista alla televisione palestinese che 50 dei 60 uccisi negli scorsi due giorni erano membri di Hamas.” In Israele si è tirato un gran sospiro di sollievo. Hamas? In altri termini, terroristi per definizione, in altri termini, c’è il permesso di ucciderli. C’è persino un ordine in tal senso.

La fonte di informazione era un tweet in lingua araba di Avichay Adraee dell’ufficio del portavoce dell’esercito israeliano. Ha incollato sul tweet un pezzettino di un’intervista di oltre un’ora con Bardawil sul canale di notizie Baladna trasmesso su Facebook.

L’intervistatore, Ahmed Sa’id, ha posto spinose domande che aveva ascoltato per strada, per la maggior parte poste da sostenitori di Fatah: che dite dell’umiliazione che avete subito in Egitto e perché Hamas manda la gente a morire alla barriera – mentre voi ne cogliete i frutti (politici)?

Bardawil ha dovuto difendere la sua organizzazione e dire che non era vero, che non vi è stata nessuna umiliazione e che i membri di Hamas stavano manifestando come chiunque altro, insieme a tutti gli altri.

“Purtroppo questa è l’organizzazione che oggi alimenta le motivazioni e la consapevolezza, soprattutto tra i giovani”, mi aveva precedentemente spiegato uno dei miei amici.

Torniamo a Bardawil. Ha detto che 50 dei 60 uccisi erano membri di Hamas. Ho controllato e mi è stato detto che le cifre ufficiali in possesso di Hamas sono che, dall’inizio della ‘Marcia del Ritorno’ del 30 marzo, c’erano 42 persone legate ad Hamas tra le 120 uccise: membri del movimento, noti militanti, membri di famiglie di Hamas.

Sembra che circa 20 membri dell’ala militare di Hamas siano stati uccisi, e non vicino alla zona delle proteste, ma in circostanze ancora da chiarire. Ma gli altri erano semplici manifestanti disarmati. E manifestavano perché erano di Gaza. Ma una volta che Bardawil ha detto quel che ha detto, è difficile contestare le sue parole in pubblico. “Questa (la cifra di 50) è un’altra delle nostre tipiche esagerazioni”, ha detto il mio amico che non è venuto a sventolare la sua bandiera per salutarmi.

Quanto alle esagerazioni, “l’idea che la ‘Marcia del Ritorno’ interrompa lo stallo e fermi la lenta rovina di Gaza – tutti lo vorremmo, anch’io”, ha detto un altro. “Ma sono i dettagli che non mi piacciono. Che cosa è questa follia della ‘Marcia del Ritorno’ e di togliere il blocco? Non hanno nemmeno riflettuto in modo adeguato sugli slogan. Poiché, se lo scopo è ritornare ai villaggi, il blocco è una questione irrilevante.”

Tra i girasole e i pochi incendi [di copertoni] scoppiati martedì, i soldati erano in allerta nelle loro postazioni. Ondeggiavano continuamente tra un iperattivismo borioso e l’indolenza di un picnic. Erano posizionati entro i perimetri dei kibbutz, a brevissima distanza dalle case. Anche i blindati erano alla distanza di una passeggiata mattutina.

È ciò che viene chiamata una presenza militare nel cuore di una popolazione civile. Ricordo la situazione opposta, di postazioni di Hamas nella Striscia di Gaza che servivano da scusa ad Israele per diffamare l’organizzazione che si sarebbe fatta scudo dei civili, e all’esercito israeliano per bombardare chiunque si trovasse vicino a loro [alle postazioni].

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 

 




La verità dietro la corsa del Centro America per seguire lo spostamento dell’ambasciata USA

Maren Mantovani

giovedì 17 maggio 2018, Middle East Eye

Negli anni ’80 Israele fornì aiuto militare a brutali dittature latinoamericane. Il Guatemala è stato il primo a seguire lo spostamento dell’ambasciata USA. Honduras e Paraguay potrebbero presto essere i prossimi Paesi.

Mentre a Gaza – e in tutto il mondo – la gente stava ancora piangendo i 62 palestinesi uccisi, gli oltre 2.700 mutilati e feriti in un solo giorno in seguito a un altro massacro israeliano contro civili disarmati, il 16 maggio una seconda ambasciata stava tenendo la cerimonia di apertura a Gerusalemme.

Il Guatemala ha seguito le orme degli USA.

Israele ha dovuto promettere di pagare le spese dello spostamento. Il ministero degli Esteri israeliano ha coperto parte dei costi del trasferimento dell’ambasciata guatemalteca da Rishon LeZion [cittadina dell’area metropolitana di Tel Aviv, ndt.] a Gerusalemme, contribuendo con un totale di 300.000 dollari.

Jimmy Morales, il presidente di destra del Paese, a cui lo scorso mese gruppi delle società civile hanno chiesto di dimettersi in seguito ad accuse di corruzione, ha dovuto chiedere ai tribunali il permesso per suo fratello e suo figlio, entrambi sotto processo per corruzione, perché lo accompagnassero a Gerusalemme. Tuttavia i media guatemaltechi hanno già scoperto nella contabilità del loro governo voci di spesa sospette per la cerimonia di apertura dell’ambasciata.

Comunque sempre meno della grottesca esibizione offerta dalla cerimonia di apertura degli USA. Mentre Israele falciava manifestanti, armati solo della loro determinazione a tornare alle loro case piuttosto che soccombere in silenzio al brutale assedio di Gaza, Donald Trump ha annunciato in video che “stiamo veramente facendo grandi passi avanti” per un accordo tra Israele e i palestinesi.

Una realtà tragica e inumana

Se il riconoscimento da parte della Casa Bianca di Gerusalemme – che in base alle leggi internazionali non fa parte di Israele – come capitale di Israele e il conseguente spostamento dell’ambasciata USA non fosse parte di una realtà tragica e inumana imposta al popolo palestinese, lo si potrebbe definire surreale.

Settant’anni dopo l’inizio della Nakba – la pulizia etnica di massa del popolo palestinese – le politiche israeliane di espulsione, furto di terre e risorse, repressione e segregazione continuano giorno dopo giorno. La Grande Marcia del Ritorno, che rivendica il diritto, riconosciuto dall’ONU, al ritorno per i profughi che rappresentano più di metà del popolo palestinese, si è trasformata in un massacro.

Lo spostamento dell’ambasciata USA non è solo un attacco frontale ai diritti dei palestinesi a Gerusalemme, ma ha anche fornito una copertura diplomatica a Israele per un ulteriore massacro contro Gaza. Manda il messaggio che il regime israeliano può continuare con tutte le violazioni delle leggi internazionali e dei diritti umani fondamentali.

Ciò comprende l’attacco concreto non solo al loro diritto al ritorno, ma alle vite ed esistenze stesse dei rifugiati palestinesi a Gaza. Ciò può indurre all’impressione che Israele abbia raggiunto il massimo del suo potere, con un’impunità garantita.

Un’analisi più approfondita del potere globale che si gioca oggi sulla Palestina non cambia la conclusione secondo cui siamo arrivati ad un momento estremamente pericoloso e drammatico della storia – ma ciò fornisce qualche barlume di speranza.

A dicembre gli USA ed Israele erano profondamente isolati nel voto dell’assemblea generale dell’ONU sul riconoscimento USA di Gerusalemme come capitale di Israele. Solo altri cinque Paesi hanno votato con l’asse USA-Israele.

Stupidità politica

La legittimazione del riconoscimento USA di Gerusalemme – una città su cui in base alle leggi internazionali Israele non ha la sovranità – come capitale di Israele è un precedente che minaccia le fondamenta stesse delle relazioni internazionali. Se gli USA possono arbitrariamente decidere in materia di sovranità internazionale, verranno minacciati gli interessi di moltissimi Paesi.

Fondamentali controlli contro i capricci e la volontà del potere USA saranno eliminati. Accettarlo significherebbe la totale dipendenza dagli USA o la totale stupidità politica. Ciononostante, al momento, Israele ha previsto che oltre dieci Paesi potrebbero spostare le loro ambasciate. Oggi è in corso solo il trasloco di quella del Guatemala.

Israele spera che l’Honduras sia il prossimo a spostare la sua ambasciata.

Cosa c’è sotto il rapporto di Israele con questi Stati centroamericani, che li vede unirsi a un’iniziativa pericolosa, rifiutata dalla grande maggioranza della comunità internazionale?

I rapporti di Israele con Honduras e Guatemala divennero particolarmente stretti durante i giorni oscuri delle dittature centroamericane, quando Israele fornì generoso supporto militare ai generali guatemaltechi nel periodo del genocidio dei maya nei primi anni ’80. Addestrò le forze speciali honduregne accusate di torture e utilizzò il Paese come base per l’appoggio ai Contras [guerriglia finanziata dagli USA contro il governo sandinista, ndt.] in Nicaragua.

Oggi l’Honduras è nel bel mezzo di un ciclo di violente violazioni dei diritti umani da parte del governo di Juan Orlando Hernandez, arrivato al potere con un “colpo di Stato parlamentare”. Questo governo si è talmente macchiato di sangue che la presenza di Hernandez nel “Giorno dell’Indipendenza” di Israele ha dovuto essere annullata dopo le proteste che ha sollevato da parte israeliana.

Una prova del nove

Il presidente paraguayano, che a sua volta ha indicato l’intenzione di spostare l’ambasciata, è allo stesso modo arrivato al potere con un “colpo di Stato parlamentare”. Dato che lascerà il suo posto in agosto, pare dubbio che lo spostamento abbia effettivamente luogo.

Il tentativo della prima ministra rumena di iniziare il processo di spostamento è stato bloccato dal presidente del Paese, che per questa iniziativa ha chiesto le sue dimissioni.

La stessa cerimonia dell’ambasciata USA è stata la prova del nove senza possibilità di astensione – o gli invitati si sarebbero presentati o l’avrebbero boicottata. Persino alleati molto vicini agli USA come Australia, Canada e alcuni Stati dell’Europa occidentale hanno deciso di tenersi alla larga. Allo stesso modo, né l’India né alcuno dei principali Paesi dell’America latina hanno partecipato.

Tuttavia Israele sta facendo importanti progressi in Africa, e circa una dozzina di Paesi hanno preso parte all’iniziativa dell’ambasciata USA a Gerusalemme, tra cui Etiopia, Sud Sudan, Zambia, Kenya, Ruanda, Camerun, Repubblica del Congo, Angola, Costa d’Avorio, Tanzania e Repubblica Democratica del Congo.

Il Togo è stato l’unico Paese africano che ha votato con gli USA durante la votazione all’ONU di dicembre – ma lunedì non era presente.

La maggior parte delle ragioni per cui alcuni Paesi hanno scelto di partecipare ha poco a che fare con la Palestina. Come hanno esplicitamente ammesso commentatori dei Paesi latinoamericani coinvolti, le posizioni su Gerusalemme avevano più che altro a che vedere con la questione di garantirsi il favore degli USA, compresa l’assistenza per conservare il potere contro le loro stesse popolazioni.

Per altri si è trattato della logica prosecuzione di politiche xenofobe, di destra, suprematiste e autoritarie. Il governo dell’Austria è in larga misura emarginato in Europa per le sue politiche razziste e xenofobe, mentre Victor Orban, il primo ministro dell’Ungheria, è un noto xenofobo antisemita. Il presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman, è noto per la sua politica allarmistica sul terrorismo e per i suoi discorsi razzisti.

Anche la delegazione del Myanmar, che grazie all’appoggio militare di Israele dal 2015 ha intrapreso una pulizia etnica su vasta scala contro il popolo Rohingya, portando all’esilio di quasi 700.000 sopravvissuti, era tra gli ospiti.

Il fatto che Robert Jeffress, pastore evangelico USA e consigliere spirituale di Trump, universalmente accusato di sermoni antisemiti e razzisti, si sia rivolto a questa adunata pare semplicemente naturale.

L’alleanza tra Trump e Israele, sullo sfondo del massacro di Gaza, ha in effetti elevato l’appoggio all’apartheid, all’occupazione e al colonialismo di Israele a fulcro della nuova ondata di politici e partiti xenofobi, razzisti e antidemocratici arrivati al potere negli ultimi anni.

Un embargo militare contro Israele

Mentre Israele ha onorato Trump dando il suo nome a una piazza centrale di Gerusalemme, tutti quelli che sono fuori dal campo delle ideologie suprematiste, razziste ed autoritarie dovrebbero rabbrividire all’idea di esservi associati.

Per il bene della Palestina e dell’umanità, è il momento per la grande maggioranza della comunità internazionale, che non aderisce ai valori espressi nella cerimonia dell’ambasciata USA, di scrollarsi di dosso la riluttanza a prendere un’iniziativa concreta.

Resistere alle violazioni israeliane dei diritti umani e delle leggi internazionali oggi è diventata una difesa vitale dei più fondamentali valori di tolleranza, democrazia e rispetto. Siamo ancora in tempo.

Israele ha appena annunciato un’esportazione record nel 2017 di armamenti, che ha testato per decenni sul popolo palestinese. Un embargo militare contro Israele, come chiesto dal comitato nazionale del BDS palestinese e ripreso da organizzazioni dei diritti umani come Amnesty International, sarebbe un passo nella giusta direzione.

La maggior parte di queste esportazioni riguarda politiche contro i migranti ed è legata alle spese per la sicurezza dei confini dell’Unione Europea, mentre l’India da sola sta comprando il 50% delle esportazioni di armi israeliane.

L’aiuto militare USA continua ad aumentare e la cooperazione della polizia USA con Israele alimenta la discriminazione razziale e le violazioni dei diritti umani.

È tempo di ricordare lo slogan reso popolare dalla resistenza antifascista spagnola negli anni ’30 e poi ripreso da innumerevoli movimenti per la giustizia in tutto il mondo: “No pasarán!” Non passeranno.

– Maren Mantovani, coordinatrice dei rapporti internazionali per la “Campagna Palestinese dal Basso contro il Muro dell’Apartheid”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Storie della catastrofe: Palestina

Rami Almeghari, Mohammed Asad e Anne Paq

16 maggio 2018,  Electronic Intifada

Settant’anni fa i palestinesi hanno subito la Nakba, o catastrofe, quanto la maggioranza di loro lasciò o fu obbligata dalle milizie sioniste a lasciare la Palestina per far posto alla creazione dello Stato di Israele e garantire una maggioranza ebraica. Circa 750.000 persone finirono per diventare profughi registrati dalle Nazioni Unite. Molti altri se la cavarono da soli. Non gli venne mai consentito di tornare alle loro terre o case, che vennero confiscate dal nascente Stato, e molti dei loro villaggi vennero successivamente distrutti. Qui alcuni sopravvissuti raccontano le loro storie.

Khoury Bolous, 84 anni, di Haifa. Originariamente di Iqrit, nei pressi del confine con il Libano.

Iqrit era un piccolo villaggio cristiano di circa 500 abitanti molto vicino alla frontiera della Palestina con il Libano. Il villaggio subì la pulizia etnica nel 1948 e venne distrutto nel 1951, tranne la chiesa. I suoi abitanti divennero sfollati interni – quello che Israele definì “presenti assenti”

Eravamo contenti. Avevamo fichi, hummus e ulivi. Seminavamo di tutto, tranne zucchero e riso. Mio padre aveva molta terra, circa 100 dunum [10 ettari, ndt.]. Facevamo la farina, coltivavamo lenticchie e fagioli, ogni tipo di verdure e olive. L’unica cosa che mio padre comprava era il tabacco. Morì quando ero molto giovane, e mio fratello maggiore prese il suo posto. La nostra casa era fatta di grandi pietre ed era stata costruita da mio nonno.

Nel 1948 non ci fu resistenza nel villaggio. Le forze sioniste entrarono nel villaggio e alzammo bandiera bianca. Non avevamo armi. Ci dissero di andarcene ad al-Rama, che sarebbe stato solo per due settimane e che era solo per la nostra sicurezza. Venimmo trasportati da camion militari. Ma io non andai insieme agli altri. Mio fratello mi disse di andare in Libano a Qouzah, da nostra zia, per salvare gli animali. Camminai verso il Libano con 5 mucche, un cammello, un asino e un cavallo. Attesi il messaggio che mio fratello avrebbe dovuto mandarmi quando fossero tornati a Iqrit, ma il messaggio non arrivò mai.

Dopo un mese sentii dire che alcune persone stavano andando a Iqrit per raccogliere frutta e così decisi di andare. Avevo paura di attraversare la frontiera ma lo feci. Non era rimasto niente nella nostra casa, tutto era stato rubato. Persone che incontrai mi dissero che non sarei riuscito ad arrivare ad al-Rama, così tornai in Libano e vi rimasi per due anni. Poi incontrai un passeur, Alì, e con un gruppo partimmo di notte per la Palestina. Avevamo paura, era pericoloso. Alla fine all’alba, vicino ad al-Rama, continuai da solo attraverso i campi. Quando raggiunsi il villaggio, vidi qualcuno di Iqrit che mi portò dalla mia famiglia. Non potevano credere che fossi riuscito a fare una cosa simile. Non ci potevo credere neppure io.

Un Natale sentimmo che Iqrit era stato totalmente distrutto. Il mukhtar [capo villaggio, ndt.] ed altri erano andati su una collina di fronte al villaggio e confermarono la notizia. Era un disastro sentire questa notizia. Volevano uccidere ogni nostra speranza di tornare. Ma non ci riuscirono.

Alla fine ebbi un permesso ed iniziai a lavorare come macellaio ad Haifa. Mi sposai nel 1960 ed andai ad Haifa. Tornavamo spesso a Iqrit, dormendo nella chiesa. Fui arrestato alcune volte per essere stato lì. Ci portavamo i bambini per le vacanze.

Siamo come i rifugiati. Quello che abbiamo in comune è la speranza del ritorno. Vogliamo solo andare a casa, questo è un nostro diritto fondamentale. Voglio tornare e costruire una piccola casa.

Reportage di Anne Paq

Saed Hussein Ahmad al-Haj, 85 anni, campo di rifugiati di Balata, nella città di Nablus della Cisgiordania occupata. Originario di al-Tira, nei pressi di Ramla.

Sono stato fortunato rispetto ad altri profughi. Ho avuto successo nel lavoro ed ho tre macellerie. Ho dei figli. Ma è sempre mancato qualcosa. Mi sono sempre dato da fare, ma non c’è una vera allegria perché non vivo nella casa in cui sono nato.

Il mio villaggio era noto soprattutto per le sue greggi e per i suoi prodotti. Era un piccolo villaggio, circa 2.000 abitanti. All’epoca la nostra vita era semplice. La scuola era così precaria che ci sedevamo sul pavimento. Ho passato la mia vita giocando all’aperto con i vicini.

Mio padre commerciava pecore e mucche. Vendeva anche il latte. Avevamo una piccola casa fatta di pietre e 2 dunum [0,2 ettari] di terra coltivata a grano, sesamo, fichi e ulivi. All’epoca tutto aveva un sapore migliore. Ci nutrivamo direttamente con i prodotti della terra. Potevamo anche andare facilmente al mare e grazie al commercio ci incontravamo con ogni genere di persone.

Nel 1948 avevo circa 15 anni. Una notte vedemmo arrivare verso di noi dei soldati. In un primo momento pensammo che fossero arabi. Ma poi iniziarono a sparare. Le pallottole volavano sopra la mia testa e pensai che sarei morto. Corsi da mio padre, che mi disse di andare verso est con le pecore. Allora ne avevamo sei. Me ne andai da solo, ma sentii sparare, così lasciai le pecore e corsi a casa.

Ce ne andammo con gli altri abitanti del villaggio. Prima arrivammo ad al-Abbassiyya, dove c’erano alcuni gruppi della resistenza palestinese. Poi ci incamminammo verso Deir Ammar, vicino a Ramallah.

Non ci portammo niente. Tutti parlavano di Deir Yassin (dove le forze sioniste avevano commesso un massacro). Eravamo spaventati già prima che arrivassero i sionisti. Avremmo dovuto rimanere e morire là. Avremmo dovuto lottare. Per lo meno non abbiamo mai venduto le nostre case. Siamo stati buttati fuori contro la nostra volontà.

Pochi giorni dopo che ce ne eravamo andati, entrai di soppiatto nel villaggio di notte. Ma quando entrai nella nostra casa, tutto – la farina, l’olio d’oliva, i mobili – era distrutto e sparso per la casa.

Tornammo al nostro villaggio, una volta, con mio padre. Fu dopo il 1967 [anno della guerra dei Sei giorni e della conquista israeliana della Cisgiordania, ndt.]. Bussò alla porta, e rispose uno [ebreo, ndt.] yemenita. Mio padre gli disse: “Questa è la mia casa.” Ma lo yemenita rispose solo: “Era casa tua, Ora è la mia.”

Reportage di Anne Paq

Wafta Hussein Khleif, 82 anni, campo di rifugiati di Dheisheh nella città di Betlemme della Cisgiordania occupata. Originaria di Deir Aban, nei pressi di Gerusalemme.

Tutti i figli maschi di Wafta sono stati arrestati da Israele in un momento o nell’altro, e uno sta scontando più di 20 anni di prigione. Uno dei suoi nipoti è stato ucciso durante un’incursione dell’esercito israeliano a Betlemme nel 2008. Aveva 17 anni.

Mangiavamo quello che coltivavamo. Tutto veniva dalla terra. Non compravamo niente. Vivevamo in una fattoria che aveva un cortile interno. Avevamo più di 1 dunum di terra con 200 ulivi, galline e pecore. C’erano ebrei che vivevano vicino a noi. Erano amici e venivano al villaggio a comprare latte. Non avevano neanche un mulino, per cui usavano quello del villaggio.

Nel 1948 ci furono molti scontri. Ci furono spari e bombardamenti aerei. Non avevamo armi, solo coltelli e falci. Scavammo una trincea attorno al villaggio. Durante quei giorni ci furono tre morti. Quando venimmo a sapere del massacro di Deir Yassin, come misero in fila gli uomini e gli spararono, fu troppo. Prendevano anche le ragazze. Fu allora che scappammo. Se fossi stata al nostro posto, che cosa avresti fatto?

Non c’era tempo. Prendemmo quello che potevamo portarci dietro. Mio nonno Hussein dovette essere trasportato su un cammello. Ci fermammo sotto un carrubo appena fuori dal villaggio. Pensavamo che saremmo tornati presto. Gli uomini tornarono per raccogliere le olive ma vennero attaccati dai sionisti.

Andammo a Jabba e rimanemmo con i loro amici, e da lì a Betlemme. Affittammo una spelonca da una famiglia cristiana che mio padre trasformò in una stanza con un tetto di zinco. Poi mi sposai con mio marito Muhammad al-Afandi e andai al campo di Dheisheh. Vivemmo in una tenda per tre o quattro anni. Lì nacquero i nostri primi tre figli.

Se Dio vuole, torneremo. Se non io, i miei figli, o i loro figli, o i figli dei figli, o i figli dei figli dei figli. Lasceremo tutto in un attimo e andremo, anche se questo significasse vivere di nuovo in una tenda.

Reportage di Anne Paq

Muhammad Khalil Leghrouz, 93 anni, campo di rifugiati di Aida nella città di Betlemme della Cisgiordania occupata. Originario di Beit Natif, a ovest di Betlemme.

Muhammad piange ancora quando parla di suo fratello Thaer, che venne ucciso dai miliziani sionisti nel 1948 all’età di 15 anni.

Beit Natif era tutto frutti e verdure. Coltivavamo di tutto. C’erano molti contadini. E c’erano molte mucche e pecore. Sono cresciuto con le pecore. Giocavo con loro dalla mattina alla sera. Non sono andato a scuola. La mia famiglia aveva una grande fattoria, costruita con vecchie pietre.

Nel 1948 venimmo attaccati. Ci furono sparatorie. Dovemmo scappare, passando su corpi lungo il tragitto per uscire dal villaggio. Mio fratello Thaer venne colpito a morte e lo seppellimmo subito. Lasciammo ogni cosa – le pecore e i gioielli di mia madre. Mio padre dovette essere trasportato su un cammello, perché non poteva camminare. Non voleva andarsene, ma lo presi sulle mie spalle, lo obbligai a salire sul cammello. Voleva morire là.

Prima andammo a Beit Ommar, poi a Hebron, a Betlemme e a Husan, dove incontrai mia moglie Fatima. Insieme venimmo a vivere nel campo profughi di “Aida” e ci fermammo lì. Non sono mai tornato al mio villaggio.

Mio padre non ha mai potuto dimenticare. “Torneremo”, continuava a dire.

Reportage di Anne Paq

Hakma Attallah Mousa, 108 anni, campo profughi “Spiaggia”, Gaza City. Originaria di al-Sawafir al-Shamaliya, a circa 30 km oltre il confine di Gaza.

Hakma ha più di 80 nipoti e pronipoti, ma persino i suoi familiari sono incerti sul numero esatto.

Mio padre Attallah Mousa era il mukhtar della nostra famiglia. Ricordo ancora il diwan (sala di ricevimento) di mio padre, dove accoglieva gli ospiti e aiutava a risolvere i problemi del villaggio.

Andavo a mungere le nostre mucche per fare il formaggio e lo yogurt. Avevamo pecore e galline. La mia famiglia possedeva più di 100 dunam [10 ettari] di terra su cui i miei fratelli seminavano grano, lenticchie e orzo. La nostra vita si basava sull’agricoltura. Grazie a Dio, abbiamo avuto dei momenti bellissimi.

Mia madre venne ferita quando stavamo scappando. Venne colpita dopo che avevamo preso alcune delle nostre cose e stavamo uscendo dal villaggio. L’abbiamo trasportata fino ad un ospedale a Gaza City. Morì poche settimane dopo.

Figlio mio, vogliamo tornare al nostro villaggio, e lo faremo. Vogliamo tornare alla nostra patria.

Reportage di Rami Almeghari

Hassan Quffa, 88 anni, campo profughi di Nuseirat, nella zona centrale della Striscia di Gaza occupata. Originario di Isdud, nei pressi di Ashdod.

Eravamo contadini, coltivavamo la nostra terra generazione dopo generazione. All’epoca l’agricoltura era molto diffusa e i cedri erano rigogliosi. La mia famiglia da sola possedeva circa 90 dunum [9 ettari]. Ero solito accompagnare mio zio Abdelfattah al nostro diwan dove incontrava la gente del posto e a volte gli inglesi. All’epoca le autorità britanniche andavano da mio zio, facendo affidamento su di lui come intermediario tra le autorità e gli abitanti del posto.

Giocavo a baseball. Eravamo sette per una partita. Dopo aver giocato, andavamo al bar “Ghabaeen” a bere caffé e a chiacchierare.

Le feste di matrimonio duravano da tre a sette giorni. Alla fine dei festeggiamenti gli zii di una sposa l’accompagnavano a casa del marito, di solito su un cavallo.

Quando i miliziani dell’ Haganah [il principale gruppo armato sionista, ndt.] iniziarono a sistemare posti di blocco nella zona di Ashdod, bloccando il passaggio, cominciammo ad prendere le armi. Un giovane su quattro aveva un fucile, nel tentativo di difenderci contro gli attacchi dell’Haganah. Eravamo solo contadini. Le bande sioniste erano ben addestrate ed equipaggiate, con l’aiuto degli inglesi. In effetti quando gli eserciti arabi arrivarono a combattere, ci sentimmo sollevati.

Ma l’unità dell’esercito arabo vicino a noi venne sconfitta. Le loro armi erano vecchie. Ovunque c’erano soldati arabi morti. Comprendemmo che non potevamo far altro che scappare.

Voglio tornare. Voglio che tutti noi torniamo. Quella è la mia casa. Ho il diritto di tornare. Spero di farlo prima di morire.

Reportage di Rami Almeghari

Amna Shaheen, 87 anni, attualmente vive a Gaza City, originaria del villaggio di Ni’ilya, nei pressi di Ashkelon.

Mio nonno Ibrahim era l’imam del villaggio e insegnava ai bambini il Corano e qualche argomento islamico. Ovviamente alle ragazze, compresa me, non era consentito imparare.

Mio padre aveva un gregge e io solevo aiutarlo. Avevo solo un fratello, che era malato.

Cacciavo via le volpi che cercavano sempre di prendere le nostre anatre. Per nutrire il gregge portavo qualche foglia verde, alcune dal nostro sicomoro. Mio padre commerciava in angurie e noi conservavamo quelle angurie sotto l’albero.

Fu quando venimmo a sapere di Deir Yassin che gli abitanti del villaggio iniziarono a fuggire. Durante il giorno i miliziani [sionisti] arrivarono per mandarci via, ricordo che mio cugino ed io stavamo pelando patate.

Due mesi dopo che eravamo scappati, mio padre è stato ucciso. All’epoca stavamo vivendo nel campo profughi di Jabaliya, a Gaza. Aveva comprato due mucche e stava andando a comprare paglia e fieno per le mucche. Ma in quel momento le jeep dell’esercito israeliano erano di pattuglia e i soldati iniziarono a sparare. Venne colpito quattro volte.

Anche se mi offrissero centinaia di milioni di dollari, non rinuncerei al mio diritto di tornare alla mia casa in Palestina. Cosa me ne farei di quei soldi?

Reportage di Rami Almeghari

Ismail Hussein Abu Shehadeh, 92 anni, originario ed attualmente abitante di Jaffa, nei pressi di Tel Aviv.

Adesso Jaffa non vale niente. Prima la città era stupenda. Era chiamata la “sposa del Medio Oriente.” Esportavamo arance in tutto il mondo. Arrivava gente da tutte le parti per lavorare qui.

Mio padre era un soldato dell’impero ottomano. Se ne andò nel 1914 per combattere nella Prima Guerra Mondiale. Tornò indietro a piedi. Questa probabilmente è la ragione per cui decise di rimanere quando i sionisti attaccarono Jaffa. Non voleva scappare di nuovo, e ci impedì di farlo. “O morite qui oppure scappate e vi sentirete umiliati per tutta la vostra vita,” ci disse. Pregava la gente di non andarsene. Solo 35 famiglie rimasero dopo la resa, appena 2.000 abitanti sui 120.000 che stavano qui.

Nel 1948 gli attacchi furono molto violenti. Il capo della città, il dottor Youssef Aked, ci riunì per dire che Jaffa stava per essere assediata e che la gente doveva scegliere tra andarsene e rimanere. Qualcuno chiese al dottore cosa egli avrebbe fatto, ed egli rispose che sarebbe fuggito con la sua famiglia. In seguito a ciò, molti lo fecero, anche perché si parlava molto di quello che era successo a Deir Yassin.

Solo poche persone con una certa autorità rimasero. Ci fu un altro incontro in cui si decise di arrenderci a condizione che non ci fossero distruzioni o saccheggi. Dei rappresentanti andarono a Tel Aviv con una bandiera bianca. I sionisti arrivarono con un megafono e dichiararono che ora Jaffa era sottoposta all’autorità sionista. Poi entrarono e si comportarono in modo avido. Rubarono proprietà. Ci nascondemmo nei frutteti per un mese. Poi la gente venne spinta nel quartiere di Ajami, dietro una recinzione elettrificata. Alcuni morirono di stenti. Ma noi riuscimmo a stare fuori dalla recinzione.

Nonostante le promesse sioniste metà di Jaffa venne demolita. Abu Laban, che aveva negoziato la resa, andò a lamentarsi me venne picchiato. Gli ruppero le costole e venne messo a sedere su un asino. Poi iniziarono a prendere di mira la gente. Una persona che si rifiutò di lasciare i frutteti venne uccisa.

Dopo il 1948 mi sposai e iniziai a lavorare nella regione di Tiberiade per circa sei anni. Venni assunto da israeliani per aggiustare motori o per portare l’acqua a nuove comunità ebraiche. Ero l’unico palestinese lì. Abbiamo mantenuto rapporti professionali. Mia moglie e i figli neonati stavano lottando per avere da mangiare e per un certo periodo tornai a Jaffa solo una volta al mese.

Il mio lavoro terminò quando arrivò l’elettricità. Lavorai in una fabbrica di Jaffa, aggiustando motori, ma nel 1956 alcuni operai ebrei mi aggredirono a causa della sconfitta israeliana a Suez [si riferisce alla guerra per il controllo del canale di Suez tra Egitto e Francia e Gran Bretagna, a cui Israele si alleò, ndt.], per cui me ne andai. Poi ebbi un’officina meccanica nel porto, e cercai di fare il pescatore, ma senza successo. Nel 1982 lo Stato di Israele iniziò a chiedere tasse e più documenti. Dovetti vendere tutto. Alla fine aprii una drogheria ma poi dovetti smettere per ragioni di salute.

Rami Almeghari è giornalista e docente universitario a Gaza.

Anne Paq è una fotografa freelance francese e fa parte del collettivo di fotografi ActiveStills [collettivo di fotografi israeliani, palestinesi e internazionali che lotta contro le ingiustizie e le discriminazioni, in particolare in Israele/Palestina, ndt.].

Mohammed Asad è un fotogiornalista che vive a Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

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Israele ripropone i miti sulla Nakba per giustificare gli odierni massacri a Gaza

Jonathan Cook – Nazareth

14 maggio 2018, The Palestine Chronicle

Lunedì e martedì i palestinesi commemorano l’anniversario della Nakba, o Catastrofe, l’espulsione di massa e l’espropriazione di 70 anni fa, quando il nuovo Stato di Israele si è formato sulle rovine della loro patria.

Come risultato, la maggioranza dei palestinesi è stata trasformata in rifugiati, cui Israele nega il diritto di tornare nelle proprie case.

Lunedì in decine di migliaia sono hanno manifestato nei territori occupati per protestare contro settant’anni di rifiuto da parte di Israele di chiedere perdono o porre fine al suo dominio oppressivo.

L’iniziativa di lunedì di trasferire l’ambasciata USA a Gerusalemme, città sotto occupazione militare, ha solamente aumentato il risentimento palestinese, e la percezione che l’Occidente stia ancora coinvolto nella loro espropriazione.

Il centro della protesta è Gaza, dove dalla fine di marzo ogni venerdì palestinesi inermi si dirigono in massa alla barriera di confine che tiene intrappolati due milioni di loro. In cambio hanno affrontato una pioggia di munizioni letali, proiettili rivestiti di gomma e nuvole di gas lacrimogeni. Decine sono stati uccisi e molte centinaia mutilati, compresi minori.

Ma da più di un mese Israele sta lavorando per condizionare la percezione occidentale delle proteste, e la sua risposta ad esse, in modo da screditare l’esplosione di rabbia dei palestinesi. In un comunicato troppo facilmente accolto da dall’opinione pubblica di alcuni Paesi occidentali, Israele ha presentato le proteste come una “minaccia alla sicurezza”.

Funzionari del governo israeliano hanno persino sostenuto davanti alla Corte Suprema del Paese che i manifestanti non hanno alcun diritto, che i cecchini dell’esercito sono legittimati a sparare, anche se non si trovano in pericolo- perché Israele sarebbe in “stato di guerra” con Gaza per difendersi.

Domenica notte l’aviazione israeliana ha sganciato volantini su Gaza avvertendo i palestinesi di non avvicinarsi alla barriera. “L’esercito israeliano è determinato a difendere i cittadini d’Israele e la sua sovranità contro i tentativi terroristici di Hamas sotto la copertura di violenti scontri,” diceva il volantino. “Non vi avvicinate alla barriera e non prendete parte alla manifestazione di Hamas, che vi danneggia.”

Molti americani ed europei, preoccupati del flusso di “migranti economici” che si riversa nei loro Paesi, simpatizzano immediatamente con le preoccupazioni di Israele e con le sue azioni.

Finora la stragrande maggioranza dei manifestanti di Gaza sono stati pacifici e non hanno provato ad attraversare la barriera.

Ma Israele afferma che Hamas ha sfruttato le proteste di queste settimane a Gaza per incoraggiare i palestinesi ad assaltare la barriera. Indirettamente si afferma che i dimostranti hanno provato a passare “un confine” ed a “entrare” illegalmente in Israele.

La realtà è piuttosto diversa. Non c’è nessun confine perché non c’è nessuno Stato palestinese. Israele ha ha fatto in modo che fosse così. I palestinesi vivono sotto occupazione, con Israele che controlla ogni aspetto della loro vita. A Gaza, anche l’aria e il mare sono sotto il controllo di Israele.

Invece il diritto dei profughi palestinesi a ritornare a quelle che erano le proprie terre, ora in Israele, è riconosciuto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite.

Ciononostante, fin dalla Nakba Israele ha costruito una contro-narrazione scorretta, miti che gli storici, facendo ricerche negli archivi, hanno progressivamente fatto a pezzi.

La prima affermazione, che i dirigenti arabi dissero ai 750.000 rifugiati palestinesi di fuggire nel 1948, venne in realtà inventata dal padre fondatore di Israele, David Ben Gurion. Egli sperava che avrebbe sviato la pressione statunitense affinché Israele rispettasse il suo dovere di consentire ai rifugiati di tornare.

Anche se i rifugiati avessero scelto di andarsene mentre infuriava la battaglia, invece di aspettare di essere espulsi, non sarebbe stato giustificabile negargli il diritto al ritorno a guerra finita. È stato questo rifiuto che ha trasformato la fuga in pulizia etnica.

In un altro mito non supportato da documenti, Ben Gurion avrebbe detto ai rifugiati di tornare.

In realtà Israele ha definito i palestinesi che cercavano di ritornare alle loro terre come “ infiltrati”. Ciò ha autorizzato gli ufficiali della sicurezza israeliana di sparare a vista contro di loro, in quelle che furono di fatto delle esecuzioni come politica di deterrenza.

In settant’anni non è cambiato un granché. La maggioranza della popolazione di Gaza oggi discende dai rifugiati portati nel 1948 all’interno dell’enclave. Da allora sono rimasti chiusi in gabbia come bestiame. Questa è la ragione per cui le proteste odierne dei palestinesi si svolgono sotto le insegne della “Marcia del Ritorno”.

Per decenni Israele non solo ha negato ai palestinesi la prospettiva di uno Stato ridotto al minimo. Ha organizzato i territori palestinesi in una serie di ghetti – e, nel caso di Gaza, l’ha assediata per 12 anni, soffocandola in quella che è una catastrofe umanitaria.

Ciononostante, Israele vuole che il mondo consideri Gaza come uno Stato palestinese in embrione, teoricamente liberato dall’occupazione nel 2005 quando ha evacuato alcune migliaia di coloni ebrei.

Di nuovo, questa narrazione è stata creata solamente per ingannare. Hamas non ha mai avuto il permesso di governare Gaza, tanto quanto l’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmoud Abbas governa la Cisgiordania.

Ma, facendo eco agli eventi della Nakba, Israele ha definito i manifestanti come “infiltrati”, una narrazione che ha lasciato molti osservatori stranamente indifferenti al destino dei giovani dimostranti per la libertà palestinesi.

Ancora una volta, le esecuzioni delle recenti settimane, che sarebbero state perpetrate dall’esercito israeliano a scopo di legittima difesa, sono intese [in realtà] a scoraggiare i palestinesi dal chiedere i propri diritti.

Israele non sta difendendo i suoi confini ma i muri delle gabbie che ha costruito per salvaguardare il continuo furto di terra palestinese e preservare i privilegi degli ebrei.

In Cisgiordania la prigione si riduce di dimensione ogni giorno in quanto i coloni ebrei e l’esercito israeliano rubano altra terra. Nel caso di Gaza, la prigione non può essere ulteriormente ridotta.

Per molti anni, i capi di governo del mondo hanno punito i palestinesi per l’uso della violenza e biasimato Hamas per il lancio dei missili fuori da Gaza.

Ma ora che i giovani palestinesi preferiscono praticare una disobbedienza civile di massa, la loro tragedia a malapena riceve attenzione, tanto meno simpatia. Invece sono criticati perché “vogliono violare il confine” e minacciare la sicurezza di Israele.

Sembra che l’unica lotta legittima dei palestinesi sia quella di stare tranquilli, permettendo che le loro terre vengano saccheggiate e che i loro figli muoiano di fame.

I leader occidentali e l’opinione pubblica hanno tradito i palestinesi nel 1948. Dopo 70 anni non c’è alcun segnale che l’Occidente stia per cambiare linea.

Jonathan Cook ha vinto il “Premio Speciale per il Giornalismo Martha Gellhorn”. I suoi libri comprendono“Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [“Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rimodellare il Medio Oriente”] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair”[“Palestina in dissolvenza: gli esperimenti israeliani sulla disperazione umana] (Zed Books). Il suo sito è www.jonathan-cook.net. Una versione di questo articolo è apparsa precedentemente in “The National”, Abu Dhabi. Ha offerto quest’ articolo a “The Palestine Chronicle”.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Le tappe israeliane del Giro d’Italia saranno un giro di ingiustizie

Flavia Cappellini

Venerdì 4 maggio 2018, Middle East Eye

La più bella corsa al mondo nel più bel Paese del mondo.” Questa è una descrizione popolare del Giro d’Italia, un’epica avventura ciclistica che dura tre settimane attraverso 3.546 km.

Il ciclismo su strada è uno sport unico a livello mondiale, in quanto non ci sono barriere tra atleti e spettatori. Alessandro Baricco, un famoso scrittore italiano, una volta ha scritto: “Andare a vedere il ciclismo è qualcosa che, se ci pensi, non ci credi…Tutti nel paese sono fuori di casa, facendo un picnic con un thermos, una radio, giacche a vento e i programmi aperti per capire chi sia ogni ciclista. Una festa!”

Le prime tre tappe della corsa, quest’anno denominata dagli organizzatori il “Giro della Pace”, saranno in Israele. Per la prima volta, il Giro inizierà fuori dall’Europa, prima di attraversare l’Italia e finire a Roma, collegando lo Stato dove nacque il fascismo e che alla fine gli si oppose e lo Stato nato dopo l’Olocausto. Il Giro d’Italia, uno dei più famosi eventi sportivi italiani, è diventato parte dei festeggiamenti per il 70^ anniversario della fondazione di Israele, e gli organizzatori sperano di lanciare un messaggio di tolleranza. Una bellissima narrazione, ma è probabile che a molti non sfugga che c’è un elefante nella stanza.

Politica inevitabile

Oggi Israele e Palestina sono ancora al centro di tensioni internazionali, dal movimento internazionale per il boicottaggio di Israele alle accuse di antisemitismo. L’organizzazione di un grande evento sportivo nel mezzo di tutto ciò non può evitare la politica – soprattutto perché milioni di persone vedranno la corsa attraversare uno dei territori più accanitamente contesi al mondo.

RCS Sport, l’organizzatore del Giro d’Italia, ha battuto la rivale ASO (che organizza il Tour de France e la Vuelta de España) con uno storico primato, tenendo la grande inaugurazione della corsa al di fuori dei confini europei.

Scegliere Israele ha un senso dal punto di vista logistico. Il volo intercontinentale per portare centinaia di atleti, il personale delle squadre e gli sponsor dalla terza tappa in Israele alla quarta in Sicilia è solo di poche ore sul Mediterraneo. Per sfruttare questa opportunità, RCS Sport era verosimilmente ben cosciente della necessità di evitare polemiche.

Mauro Vegni, il direttore di corsa del Giro d’Italia, ha ribadito che “non mischiamo lo sport con la politica,” e che questo è il “Giro della Pace da Gerusalemme a Roma”. Ha spiegato che le tre tappe israeliane sono state tracciate in base alle raccomandazioni del ministero degli Esteri italiano. Rimangono all’interno dei confini riconosciuti dalle Nazioni Unite – di prima della guerra del 1967. Il Giro evita i territori occupati dove, al momento, lo Stato di Israele sta violando le leggi internazionali.

Questa cautela diplomatica è sufficiente a tener lontano il giro da ogni polemica? Forse vale la pena di prendere in considerazione, tappa per tappa, come questa cooperazione geopolitica si sia sviluppata tra sport e leggi internazionali, in nome della separazione tra sport e politica.

Prima tappa: Gerusalemme

La prima tappa della corsa sarà una gara a cronometro di 9.7 km a Gerusalemme. Secondo la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) e le Nazioni Unite, non c’è un’unica sovranità su Gerusalemme; Gerusalemme ovest è amministrata da Israele, ma Gerusalemme est è riconosciuta come parte del territorio della Cisgiordania, illegalmente occupata dalle forze israeliane e rivendicata dai palestinesi come futura capitale di uno Stato autonomo.

Com’era prevedibile, la prima tappa del Giro si svolge rigorosamente nelle strade di Gerusalemme ovest, la zona internazionalmente riconosciuta come parte dello Stato di Israele. Quando il materiale promozionale ufficiale del Giro d’Italia, pubblicato in novembre, l’ha definita come “Gerusalemme ovest”, la reazione del governo israeliano è stata immediata. Con un comunicato congiunto il ministro israeliano della Cultura e dello Sport Miri Regev e il ministro del Turismo Yariv Levin [entrambi del partito di destra Likud, ndt.] hanno dichiarato: “Non ci sono Gerusalemme ovest e Gerusalemme est, ma una sola Gerusalemme, la capitale di Israele…Queste pubblicazioni sono una violazione degli accordi con il governo israeliano, e se non vengono cambiate, Israele non parteciperà all’evento.”

Poche ore dopo, gli organizzatori del Giro hanno tolto la parola “ovest” dal loro materiale pubblicitario, affermando: “RCS Sport vuole chiarire che la partenza del Giro d’Italia avrà luogo nella città di Gerusalemme. Presentando il tracciato della corsa, è stato utilizzato materiale tecnico che contiene le parole “Gerusalemme ovest”, attribuibile al fatto che la corsa si svilupperà logisticamente in quella zona della città. Si sottolinea che questa parola, priva di ogni valutazione politica, è stata immediatamente eliminata da ogni materiale legato al Giro d’Italia.”

Secondo gli organizzatori, ignorare lo status legale internazionale di Gerusalemme – sancito dalla CIG e da cinque risoluzioni ONU – è considerato privo di ogni significato politico, piegandosi alla narrazione israeliana che presenta la Città Santa come la capitale indivisibile di Israele.

Seconda tappa: da Haifa a Tel Aviv

La seconda tappa si corre il 5 maggio da Haifa, il centro mediterraneo della cultura arabo-israeliana, lungo la costa fino a Tel Aviv, l’attuale capitale di fatto di Israele. Israele è stato fondato 70 anni fa e il Giro d’Italia che arriva in città sarà parte dei festeggiamenti per il suo anniversario.

Al contrario ad Haifa gli eventi legati al 70^ anniversario della nascita del Paese sono noti con un altro nome: la Nakba. Ciò si traduce dall’arabo come la “catastrofe”, quando più di 700.000 arabi scapparono o vennero espulsi dalle loro case.

Ogni anno, in occasione dell’anniversario della nascita di Israele, la popolazione araba chiede il riconoscimento della risoluzione 194 dell’ONU, che afferma che i rifugiati che desiderino tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini devono poterlo fare il prima possibile, e che debbano essere pagati indennizzi per le proprietà di quelli che scelgano di non tornare. Haifa è la città simbolo di questo esodo.

Secondo l’Ong israeliana “Zochrot”, un gruppo che intende mantenere viva la memoria storica della Nakba tra la popolazione israeliana, la quantità di abitanti arabi espulsi o uccisi o che scapparono dalla città nel 1948 fece scendere la popolazione di origine palestinese da 75.000 a 3.500. Nel contempo la popolazione ebraica di Haifa salì a più del 90%.

I rifugiati della Nakba e i loro discendenti ora vivono soprattutto a Gaza, in Cisgiordania, in Giordania, in Libano e in Siria. Quest’anno, la popolazione di Gaza ha intrapreso la “Grande Marcia del Ritorno”, proteste simboliche per chiedere il riconoscimento del diritto dei rifugiati del 1948 a tornare nella loro patria. Il 5 maggio, mentre il gruppo di ciclisti del Giro d’Italia attraverserà le strade di Haifa, probabilmente migliaia di persone staranno ancora aspettando di lasciare Gaza per ottenere il diritto al ritorno, come stabilito dall’ONU.

Finora 45 civili sono morti in queste proteste, compresi due giornalisti. Tutti sono stati uccisi dalle forze israeliane lungo il confine tra Gaza e Israele, a meno di 70 km dal traguardo della seconda tapa del Giro. Inoltre tra le migliaia di feriti ci sono stati 30 atleti palestinesi, compreso il ciclista Alaa al-Dali, 21 anni, che ha perso una gamba dopo essere stato colpito dalle forze israeliane.

Terza tappa: da Beer-Sheva a Eilat

Infine, l’ultima tappa avrà luogo il 6 maggio nel deserto del Negev: 229 km dalla capitale della provincia, Beer-Sheva, alla città turistica di Heilat, sul Mar Rosso. A prima vista il deserto del Negev sembra una grande distesa di sole e sabbia, con lunghi tratti segnati sulle mappe come terra demaniale. Di fatto ci sono continui progetti di costruzione per sistemarvi la crescente popolazione di Israele – ma alcune di queste terre sono abitate dall’ultima popolazione nomade rimasta nel Negev, in villaggi che non sono stati subito riconosciuti dallo Stato. Con il tempo, alcuni insediamenti sono stati riconosciuti e altri distrutti. Ci sono ancora 35 villaggi non riconosciuti sotto minaccia di demolizione.

Il percorso del Giro passa nei pressi del più grande villaggio non riconosciuto, Wadi al-Naam, che ospita 13.000 persone ai margini della strada principale che attraversa il deserto. Mentre la corsa ciclistica passerà sulla strada asfaltata, gli abitanti di Wadi al-Naam avranno molte difficoltà a veder passare il gruppo, in quanto il loro villaggio non ha quasi nessuna infrastruttura e manca persino di una strada adeguata che lo colleghi al resto della regione.

Non solo non ci sono strade: il villaggio non è collegato al sistema idrico né alla rete elettrica, e nei pressi è stata fondata un’industria chimica, “Neot Hovav”. Non è quindi sorprendente che vi sia stato registrato uno dei tassi di mortalità infantile più alti di Israele. Human Rights Watch ha denunciato come incostituzionale l’assenza di servizi essenziali in questa zona, in quanto ogni cittadino dello Stato dovrebbe avere gli stessi diritti di proprietà, eguaglianza e dignità.

Dimostrazione di controllo

Quando una corsa ciclistica attraversa un Paese, in genere i suoi cittadini accolgono la competizione nelle strade senza barriere, senza protezioni e senza dover pagare un biglietto. Si può giocare una partita di pallone a porte chiuse, ma non si può controllare una corsa di 200 km lungo strade che per tre settimane attraversano case, popolazioni e infrastrutture locali.

Per riuscirvi, un’importante corsa necessita della cooperazione della popolazione locale. C’è bisogno di sicurezza e del controllo sul territorio. Ospitare un simile evento è, di per sé, sia una forma di promozione turistica che l’affermazione da parte dello Stato del pieno controllo sulla gente che vive sul territorio.

In queste circostanze, è legittimo perlomeno chiedersi se il governo israeliano stia cercando di utilizzare il Giro d’Italia per promuovere una nuova e più accesa narrazione nazionalistica, ad iniziare da Gerusalemme come capitale di Israele. La natura di questo sport pone una sfida nel garantire la sicurezza del territorio per una corsa sicura. Infatti nella presentazione del Giro d’Italia a Gerusalemme, il governo israeliano ha dichiarato che questo avvenimento sarebbe stato la più vasta operazione di sicurezza dalla nascita dello Stato di Israele. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, come sempre, sembra fiducioso.

Flavia Cappellini è una produttrice televisiva che si occupa di media, sport e ciclismo. In precedenza ha lavorato per la RAI e per l’inglese “Press TV” e ha conseguito un titolo di laurea specialistica in “Media dalla città” all’università di Londra.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Giro d’Italia: il ciclista palestinese ferito a Gaza ‘disgustato’ dalla gara a tappe in Israele

Maha Hussaini

Mercoledì 2 maggio 2018, Middle East Eye

Alaa Al-Dali, che ha perso una gamba dopo essere stato colpito mentre protestava vicino alla barriera di confine di Gaza, afferma che la gara a tappe a Gerusalemme è un incoraggiamento agli abusi israeliani.

Un ciclista palestinese, che ha perso una gamba dopo che un cecchino israeliano gli ha sparato mentre manifestava vicino alla barriera di confine di Gaza, ha accusato gli organizzatori e i corridori del Giro d’Italia di incoraggiare la violenza israeliana accettando che la gara si disputi nel Paese.

Alaa al-Dali ha subito otto operazioni ed alla fine gli è stata amputata una gamba dopo essere stato colpito mentre partecipava alle proteste della “Grande Marcia per il Ritorno” il 30 marzo.

Il ventunenne era in lizza per gareggiare per la Palestina nei giochi asiatici a Giakarta in agosto, ed ha detto a Middle East Eye che l’esercito israeliano ha “distrutto il suo sogno”.

Il Giro d’Italia, una delle corse di ciclismo più prestigiose, inizia a Gerusalemme venerdì ed Israele ospiterà altre due tappe prima che la gara ritorni in Italia, suscitando la condanna degli attivisti per i diritti dei palestinesi e dei partecipanti alla campagna di boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni (BDS).

Al-Dali ha fatto appello alla comunità internazionale perché imponga sanzioni ed un boicottaggio sportivo verso Israele, invece di permettergli l’“onore” di ospitare la gara.

“È molto triste sapere che la gente godrà del mio sport preferito nel Paese il cui l’esercito ha distrutto i miei sogni”, da detto al-Dali. “Non è bello. Sono scioccato e disgustato da questa notizia.”

La gara servirà solo a evidenziare il divario tra “l’occupante e l’occupato”, ha aggiunto.

“Questa è una contraddizione all’ennesima potenza. Simili eventi dovrebbero simboleggiare pace e umanità. Non riesco a vedere nulla di pacifico nello spararmi e rendermi disabile per essermi trovato a circa 200 metri dalla barriera di confine.”

Il fratello maggiore di Al-Dali, il venticinquenne Muhammed, ha detto a MEE che i medici hanno deciso di amputargli la gamba a causa dei danni alle ossa e ai tessuti.

Ma ha detto di credere che ci sarebbe stata una possibilità di salvare la sua gamba se Israele non gli avesse negato il permesso di farsi curare in Cisgiordania.

Il sistema sanitario di Gaza è stato devastato da un blocco di 11 anni imposto da Israele dopo la vittoria di Hamas alle elezioni, che ha gettato l’enclave in una crisi umanitaria.

‘Occhi chiusi di fronte alle nostre sofferenze’

“Gli organizzatori ed i partecipanti non solo chiudono gli occhi sulle nostre sofferenze, in quanto atleti a cui vengono negati i diritti fondamentali, ma stanno anche incoraggiando le autorità israeliane ad imporre ulteriori restrizioni ed a continuare nei loro soprusi contro di noi”, ha detto Alaa al-Dali.

Secondo Ashraf al-Qedra, portavoce del ministero della Sanità palestinese a Gaza, dall’inizio delle proteste della Grande Marcia per il Ritorno, in cui i palestinesi stanno protestando per il loro diritto al ritorno nelle terre e nelle case occupate da Israele nel 1948 e nei successivi conflitti, almeno 44 palestinesi sono stati uccisi ed altri 7.000 feriti, comprese decine di persone rimaste disabili.

Venerdì la prima tappa del Giro d’Italia vedrà gli atleti correre una corsa a cronometro di 9.7 km. a Gerusalemme ovest, che terminerà sotto le mura della Città Vecchia di Gerusalemme, nella Gerusalemme est occupata.

Poi Israele ospiterà tappe da Haifa a Tel Aviv e da Beer Sheva attraverso il deserto del Negev fino al porto di Eilat, sul Mar Rosso.

La gara ospita alcuni dei più famosi ciclisti al mondo, compreso Chris Froome, che cerca di diventare il primo campione, nell’era del ciclismo moderno, a conquistare contemporaneamente tutti e tre i titoli dei grandi tour sportivi, il Tour de France, la Vuelta de España e il Giro d’Italia.

La gara ospita anche squadre sponsorizzate dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrain.

La partenza della gara è particolarmente significativa poiché coincide con le celebrazioni del 70^ anniversario del giorno dell’indipendenza di Israele, e avviene solo pochi giorni prima che i palestinesi celebrino l’anniversario della Nakba, o catastrofe, in cui più di 750.000 persone furono espulse con la forza dalle loro terre nel maggio 1948.

Una mappa illustrata del percorso della gara pubblicata sul Twitter del Giro mostra la Città Vecchia di Gerusalemme e la moschea della Cupola della Roccia.

Il movimento BDS ha condotto una campagna perché la corsa venisse spostata fin da quando è stato annunciato il percorso l’anno scorso, avvertendo che far partire la gara in Israele avrebbe assunto il significato di un “timbro di approvazione” delle “violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani dei palestinesi.”

“Proprio come sarebbe stato inaccettabile per il Giro d’Italia partire dal Sudafrica dell’apartheid negli anni ’80, è ora inaccettabile far partire la gara da Israele, in quanto questo servirà solo come sigillo di approvazione dell’oppressione di Israele sui palestinesi”, ha dichiarato il movimento sul suo sito web ufficiale.

In seguito alla comunicazione del percorso della gara lo scorso novembre, le associazioni per i diritti hanno emesso un comunicato congiunto chiedendo agli organizzatori di RCS Sport di spostare la partenza della gara da Israele, che, secondo loro, “accrescerà il senso di impunità di Israele.”

In risposta, RCS Sport, l’organizzatore del Giro, ha detto che la gara si sarebbe svolta in Israele come parte dell’“internazionalizzazione” dell’evento e come “un mezzo per esportare nel mondo tutto ciò che è italiano”.

A settembre il direttore della gara Mauro Vegni ha detto: “La realtà è che vogliamo che questo sia un evento sportivo e che si tenga lontano da ogni questione politica.”

Saied Timraz, vicepresidente di Palestinian Motorsport, Motorcycle and Bicycle Federation, ha affermato che è “irragionevole” tenere un evento così prestigioso in Israele allo stesso tempo in cui gli atleti palestinesi vengono privati dei loro diritti fondamentali dalle autorità israeliane.

“Israele usa lo sport per mascherare le sue flagranti violazioni contro i palestinesi. Ha un particolare interesse ad ospitare questo evento in quanto esso consente ai partecipanti di ammirare i luoghi e promuovere una immagine civilizzata di Israele”, ha detto Timraz a MEE.

“Benché lo sport e la politica debbano mantenersi separati, nulla può giustificare dare un premio agli oppressori.”

Secondo Timraz, lo scorso novembre le autorità israeliane hanno rifiutato a lui ed altri sei atleti palestinesi i permessi per uscire da Gaza per gareggiare nel campionato arabo di atletica del 2017, organizzato dalla Associazione Atletica Araba in Tunisia.

“Non è la prima volta che ci negano i permessi per partecipare ad eventi internazionali”, ha detto Timraz.

“Le autorità israeliane vogliono imporre severe restrizioni ai palestinesi che intendono partecipare ad eventi che darebbero voce alle loro sofferenze e mostrerebbero il vero volto dell’occupazione.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)





40 morti, 5.511 feriti: l’ONU pubblica i dati sulle vittime palestinesi delle manifestazioni di massa a Gaza nei pressi del confine con Israele

Jack Khoury

25 aprile 2018, Haaretz

Hamas afferma che le dimostrazioni continueranno persino dopo il 15 maggio il giorno della Nakba.

Martedì l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha pubblicato un rapporto secondo cui fin dal 30 marzo quaranta palestinesi sono stati uccisi e 5.511 feriti nella dimostrazioni di massa lungo la barriera di confine tra la Striscia di Gaza e Israele. Da allora le manifestazioni sono avvenute ogni venerdì.

Le informazioni sulle vittime sono suddivise per data, tipologia della ferita, sesso ed età, nonché in base a dove la persona è stata curata.

2.596 feriti sono stati ricoverati in ospedali pubblici, 773 in quelli privati e i rimanenti sono stati curati sul posto. Di quelli portati in ospedali pubblici , 1.499 sono stati colpiti da pallottole vere, 107 da pallottole rivestite di gomma, 408 hanno sofferto per avere inalato gas lacrimogeni e 582 hanno subito altri tipi di ferite; 2.142 sono adulti e 454 minori.

Il rapporto afferma che “il settore della sanità a Gaza sta lottando per far fronte al grande flusso di feriti, dovuto ad anni di blocco, a divisioni interne e a una cronica crisi dell’energia che che a malapena consente di far funzionare i servizi essenziali.

Le informazioni si basano su dati provenienti dal ministero palestinese della Sanità di Gaza e l’OCHA afferma che essi sono solamente una fotografia preliminare e che si attendono ulteriori informazioni.

Mercoledì il ministero palestinese della sanità di Gaza ha annunciato la morte di Ahmed Abu Hassin, un fotoreporter colpito due settimane fa durante le proteste.

Le manifestazioni continueranno anche dopo il 15 maggio, giorno che i palestinesi ricordano come la Nakba (la Catastrofe), la nascita di Israele, ha detto mercoledì Ismail Haniyeh, capo dell’ ufficio politico di Hamas. “Il popolo palestinese manifesterà durante tutto il Ramadan per affrontare le molte sfide che si trovano di fronte a noi, prima fra tutte il piano di pace promosso dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, chiamato ‘l’Accordo del Secolo’” ha detto Haniyeh.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Quello che i palestinesi ci possono insegnare sulla resistenza popolare

Ramzy Baroud

11 Aprile 2018, Al Jazeera

La gente di Gaza si è ribellata non per le fazioni politiche palestinesi, ma nonostante loro.

La continua mobilitazione popolare sul confine di Gaza è una reminiscenza di avvenimenti storici precedenti, in cui il popolo palestinese si è sollevato all’unisono per sfidare l’oppressione e chiedere la libertà.

La resistenza popolare palestinese non è né un fenomeno nuovo né estraneo. Scioperi generali di massa e disobbedienza civile, sfidando l’imperialismo britannico e gli insediamenti sionisti in Palestina, iniziarono circa un secolo fa, culminati nel 1936 con uno sciopero generale di sei mesi.

Da allora la resistenza popolare è stata un elemento fondamentale nella storia palestinese ed una caratteristica rilevante della Prima Intifada, la rivolta popolare del 1987.

È superfluo dire che i palestinesi non hanno bisogno di lezioni su come resistere all’occupazione israeliana, lottare contro il razzismo e sfidare l’apartheid. Loro, e solo loro, sono in grado di sviluppare la strategia adeguata e i mezzi che alla fine li porteranno alla vittoria. Oggi la necessità di questa strategia è più che mai urgente, e c’è una ragione di ciò.

Gaza viene soffocata. Il decennale blocco israeliano, insieme all’indifferenza araba e al prolungato conflitto tra le fazioni palestinesi, sono serviti a portare i palestinesi a un passo dal morire di fame e alla disperazione politica. Qualcosa si è spezzato.

Venerdì 30 marzo decine di migliaia di palestinesi si sono ammassati sul confine orientale di Gaza per iniziare una serie di proteste e veglie che dovrebbero durare fino al 15 maggio.

In quella data, settant’anni fa, Israele ha dichiarato l’indipendenza, obbligando centinaia di migliaia di palestinesi all’esilio. Per molti palestinesi la dichiarazione d’indipendenza di Israele, come risultato della distruzione della loro patria, è stato un crimine indimenticabile. Per gli israeliani il 15 maggio è una festa; per il popolo palestinese, è la nostra Nakba, o catastrofe.

Ma la continua mobilitazione di massa non è solo per sottolineare il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi (come sancito dalle leggi internazionali), né solo la commemorazione del “Giorno della Terra”, un evento che ha unito tutti i palestinesi dalle sanguinose proteste del 1976. La manifestazione riguarda la richiesta di un progetto che superi le lotte intestine e che ridia voce al popolo.

Ci sono parecchie somiglianze storiche tra questa mobilitazione e il contesto che ha preceduto la Prima Intifada nel 1987.

All’epoca in tutta la regione i governi arabi avevano largamente relegato la causa palestinese allo status di “problema di qualcun altro”. Alla fine del 1982 l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), già esiliata in Libano, venne espulsa insieme a migliaia di combattenti palestinesi ancora più lontano, in Tunisia, Algeria, Yemen e vari altri Paesi. Questo isolamento geografico rese irrilevante la dirigenza tradizionale della Palestina rispetto a quanto stava succedendo sul terreno, in patria.

Con scarse pressioni su Israele perché ponesse fine all’occupazione illegale di Gerusalemme est, di Gaza e della Cisgiordania, l’occupazione militare israeliana lentamente diventò lo status quo. I palestinesi divennero poco più che prigionieri in una serie di carceri urbane separate – controllati ad ogni incrocio stradale principale, sottoposti ad incursioni nelle loro case in modo prevedibilmente irregolare, e spiati giorno e notte da terra, aria e, nel caso di Gaza, dal mare.

Ma, in quel momento di apparente disperazione, scattò qualcosa. Nel dicembre 1987 la gente (per lo più bambini ed adolescenti) scese in strada con una mobilitazione prevalentemente non violenta che durò oltre sei anni. Ma la dirigenza palestinese non approfittò dell’energia di massa del suo popolo. Peggio, ne approfitto per arrivare alla firma degli accordi di Oslo nel 1993.

Oggi la dirigenza palestinese si trova in una situazione simile di crescente irrilevanza. Di nuovo isolata geograficamente (con Fatah che controlla la Cisgiordania e Hamas Gaza), ma anche dalle divisioni ideologiche.

È vero, ovviamente, che le divisioni politiche ed ideologiche sono tipiche di ogni lotta anticolonialista. Dall’India all’Algeria al Sud Africa, le divisioni interne sono state la norma, non l’eccezione, nei movimenti di liberazione di massa.

Ma mai prima d’ora queste divisioni interne sono state utilizzate come arma in modo così efficace dagli avversari della causa ed usate come argomento contro la causa primaria, per delegittimare la richiesta di un intero popolo per i diritti umani fondamentali: “I palestinesi sono divisi, per cui devono rimanere imprigionati.”

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah sta rapidamente perdendo credibilità tra i palestinesi, a causa delle prolungate accuse di corruzione, con molti che chiedono che il leader dell’ANP dia le dimissioni (tecnicamente il suo mandato è scaduto nel 2009).

Lo scorso dicembre il nuovo presidente USA Donald Trump ha accentuato l’isolamento dell’ANP, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele, sfidando le leggi internazionali e il consenso dell’ONU. Molti vedono questa come nient’altro che la prima di una serie di mosse destinate a marginalizzare ulteriormente l’ANP.

L’Autorità Nazionale non è l’unica fazione palestinese che sta diventando sempre più isolata.

Hamas – in origine un movimento di base nato nei campi di rifugiati di Gaza durante la Prima Intifada – ora è altrettanto indebolita dall’isolamento politico.

Per oltre un decennio, fin dalla sua sanguinosa presa del potere a Gaza nel 2007, la dirigenza di Hamas ha compiuto infinite manovre politiche per rompere l’assedio di Gaza, ma ha ripetutamente fallito. Finalmente ha iniziato a capire di non poter essere utile a quella causa nell’isolamento politico ed ha cominciato a prendere iniziative per la riconciliazione con Fatah. Più di recente, nell’ottobre dello scorso anno i due partiti hanno firmato al Cairo un accordo di riconciliazione.

Come precedenti tentativi di riconciliazione, quest’ultimo ha iniziato quasi subito a vacillare. Il principale ostacolo si è manifestato il 13 marzo, quando il corteo del primo ministro dell’ANP Rami Hamdallah è stato bersaglio di un apparente tentativo di assassinio. Hamdallah stava andando a Gaza attraverso un posto di frontiera israeliano. Subito l’ANP ha incolpato Hamas dell’attacco. Quest’ultimo l’ha fermamente smentito. La politica palestinese è tornata al punto di partenza.

Ma poi c’è stato il 30 marzo. Quando migliaia di palestinesi hanno camminato nella mortale “zona di sicurezza” lungo il confine di Gaza, cioè pacificamente e consapevolmente nel mirino dei cecchini israeliani, la loro intenzione era chiara: essere visti dal mondo come cittadini comuni, che finora sono rimasti invisibili dietro i politici.

I gazawi hanno eretto tende, cantato insieme e sventolato bandiere palestinesi – non quelle delle varie fazioni. Famiglie si sono riunite, bambini hanno giocato, sono comparsi persino dei clown da circo ed hanno fatto spettacoli. È stato un raro momento di unità.

La risposta dell’esercito israeliano è stata, bisogna dirlo, “degna del personaggio”. Uccidendo 17 manifestanti disarmati e ferendo migliaia di persone in un solo giorno, utilizzando le più moderne tecnologie in pallottole esplosive, hanno pensato di poter impartire una lezione ai palestinesi. Si è trattato del manuale 101 delle guardie carcerarie: picchiali, e picchiali di nuovo. Uccidili. Uccidili di nuovo. Persino giornalisti che hanno semplicemente cercato di informare il mondo su questo eroico ma tragico momento sono stati colpiti, feriti e uccisi.

Condanne per questo massacro sono piovute da personaggi rispettati di tutto il mondo come papa Francesco ed organizzazioni come Human Right Watch. Questo barlume di attenzione può aver fornito ai palestinesi un’opportunità di portare l’ingiustizia dell’assedio fino all’ordine del giorno della politica globale, ma sarà una magra consolazione per le famiglie delle vittime.

Consapevole di trovarsi al centro dell’attenzione internazionale, Fatah ha approfittato dell’opportunità di attribuirsi il merito di questo atto spontaneo di resistenza popolare. Il vice presidente, Mahmoud al-Aloul, ha affermato che i manifestanti si sono mobilitati per appoggiare l’ANP “di fronte alle pressioni ed alle cospirazioni architettate contro la nostra causa,” riferendosi senza dubbio alla strategia di isolamento contro l’ANP controllata da Fatah da parte di Trump. Anche Hamas ha cercato di sfruttarla allo stesso modo.

Ma niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Questa volta è il popolo palestinese, sono gli audaci ragazzi e ragazze di Gaza che stanno forgiando la propria strategia, indipendentemente dalle fazioni, di fatto a dispetto delle divisioni. E questa volta dobbiamo ascoltare, smettere di dare lezioni e forse imparare da questi giovani uomini e donne che stanno a petto nudo davanti a cecchini e assassini solo con i loro slogan per la libertà e la loro fede in una vittoria sicura.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente l’orientamento redazionale di Al Jazeera.

(traduzione di Amedeo Rossi)