Il ruolo dei sionisti negli attacchi contro gli ebrei iracheni negli anni ’50 ‘confermato’ da rapporti di agenti segreti e polizia

Rayhan Uddin

19 giugno 2023 – Middle East Eye

Lo storico anglo-israeliano Avi Shlaim cita ‘prove inconfutabili’ di ex agenti ebrei che dimostrano attentati dinamitardi da parte di sionisti in alcuni siti per incoraggiare l’emigrazione in Israele

Lo storico anglo-israeliano Avi Shlaim ha detto a Middle East Eye che un rapporto della polizia e un’intervista con un ex agente segreto sionista stanno alla base delle sue affermazioni circa la scoperta di “prove inconfutabili” del coinvolgimento di Israele negli attentati dinamitardi che hanno fatto fuggire gli ebrei dall’Iraq agli inizi degli anni ‘50.

Pubblicata all’inizio di questo mese, l’autobiografia di Shlaim,Three Worlds: Memoirs of an Arab-Jew, [Tre mondi: memorie di un ebreo arabo], descrive la sua infanzia di ebreo iracheno e il successivo esilio in Israele.

Include anche ricerche su vari attentati dinamitardi in Iraq che fra il 1950 e il 1951 causarono l’esodo di massa dal Paese di ebrei, la maggioranza dei quali, come lui e la sua famiglia, finiti in Israele.

Domenica Shlaim ha riferito a Middle East Eye di aver scoperto “prove inconfutabili della partecipazione negli attentati di agenti segreti sionisti “. 

Fra le prove lo storico ha citato una sua lunga intervista con Yaakov Karkoukli, ex membro del movimento sionista clandestino a Baghdad negli anni ‘50. 

Karkoukli, 89enne al tempo del colloquio con Shlaim per il libro, fu un collaboratore di Yusef Basri, un agente segreto sionista in Iraq condannato dalle autorità irachene per aver attuato attentati dinamitardi che presero di mira ebrei iracheni. 

‘Terrorizzare, ma non uccidere’

All’epoca, gli attentati dinamitardi presero di mira un caffè, un’autoconcessionaria e una sinagoga, oltre ad altri attacchi contro comunità e attività commerciali ebraiche. 

Karkoukli ha affermato che Basri mise in atto tre di quegli attacchi contro siti ebraici su ordine di Meir Max Bineth, un agente dell’intelligence israeliana che rifornì Basri di granate e tritolo.

Oltre alle armi, Bineth avrebbe fornito a Basri mappe, informazioni e istruzioni che includevano l’ordine di ‘terrorizzare, ma non uccidere’.

Basri e Shalom Salih Shalom, un altro agente sionista clandestino, furono condannati per gli attentati dinamitardi e giustiziati dalle autorità irachene. 

Anche un terzo agente clandestino, Yusef Khabaza, fu condannato a morte in absentia, ma fuggì dall’Iraq.

Karkoukli sostiene che l’attacco contro la sinagoga Masuda Shemtov a Baghdad nel gennaio 1951, l’unico attentato dinamitardo di quel periodo che provocò vittime tra gli ebrei, non fu direttamente eseguito da agenti sionisti, ma da arabi musulmani.

Bineth, che avrebbe dato gli ordini a Basri, si sarebbe poi suicidato dopo l’arresto da parte delle autorità egiziane per il suo sospetto coinvolgimento nell’affare Lavon, la fallita operazione israeliana sotto copertura per collocare bombe in Egitto e incolpare la Fratellanza Musulmana e i comunisti (egiziani). 

I funzionari israeliani hanno da tempo respinto qualsiasi coinvolgimento di clandestini sionisti o di agenti israeliani negli attacchi contro ebrei iracheni e danno invece la colpa ai nazionalisti iracheni. 

“Questa non è una testimonianza indiretta, ma direttamente di un partecipante,” ha detto Shlaim a MEE, riferendosi alla sua intervista con Karkoukli.

“Vero, questa è storia orale e perciò non conclusiva, sebbene sia impensabile che Karkoukli si sia inventato tutta la storia.” 

Ma lo storico ha aggiunto che Karkoukli ha fornito prove più decisive della sua testimonianza, nella forma di un verbale di polizia. 

Rapporto di polizia

Shlaim ha ricevuto una copia del rapporto della polizia di Baghdad sul processo a Basri e ai suoi complici che Karkoukli ottenne da un ufficiale della polizia irachena in pensione.

Il documento, la cui traduzione è inclusa nel libro e che è stato inviato a MEE, include dettagli delle confessioni sia di Shalom che di Basri, in cui essi ammettono di aver lanciato bombe contro obiettivi ebraici iracheni. Nella sua confessione Shalom implica anche Khabaza.

 “Tranne gli investigatori della polizia nessuno avrebbero potuto avere tutti i dettagli contenuti in questo rapporto,” ha affermato Shlaim. “Chiaramente non è un’invenzione, ma ho fatto un ulteriore passo per confermarne l’autenticità.”

Lo storico ha spiegato di aver confermato la veridicità del rapporto della polizia grazie al giornalista iracheno Shamil Abdul Qadir, in possesso del dossier della polizia di Baghdad lungo 258 pagine sugli interrogatori dei supposti agenti sionisti. 

Abdul Qadir ha verificato il rapporto della polizia e detto che si basa sul dossier in suo possesso. Un’immagine della sua copertina è stata visionata da MEE.

“Il rapporto della polizia che ho riprodotto nel mio libro è perciò una prova inconfutabile del coinvolgimento del movimento clandestino sionista negli attentati dinamitardi,” ha affermato Shlaim. ” Questa è la pistola fumante, per così dire.”

Attacco alla sinagoga

Secondo Karkoukli l’attacco alla sinagoga Masuda Shemtov, in cui restarono uccisi quattro ebrei, fu eseguito da un musulmano di origini siriane, Salih al-Haidari. 

Karkoukli ha sostenuto di essere “l’unica persona al mondo ” a sapere chi compì quell’attacco. 

Ha affermato che ad Haidari fu proposto l’attacco da un poliziotto iracheno corrotto che aveva ricevuto una mazzetta dal movimento clandestino sionista. Secondo Shlaim non ci sono altre prove che corroborino questa affermazione. 

In seguito agli attacchi dinamitardi circa 110.000 ebrei fuggirono dall’Iraq, la maggioranza per insediarsi nel nascente Stato di Israele. 

Oltre 800.000 ebrei lasciarono o furono espulsi da vari Paesi del Medioriente e del Nord Africa fra il 1948 e gli inizi degli anni ‘80. 

Nel 2005, il 61% degli ebrei israeliani erano di completa o parziale discendenza mizrahi, il termine sociologico coniato per riferirsi agli ebrei dalla regione dopo la creazione di Israele. 

Gli attacchi contro ebrei iracheni iniziarono meno di due anni dopo la pulizia etnica che avvenne in quella che i palestinesi chiamano la Nakba (catastrofe) che portò alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948. 

Durante la Nakba le forze sioniste uccisero 13.000 palestinesi, distrussero e spopolarono circa 530 villaggi e città, commisero almeno 30 massacri ed espulsero 750.000 persone. 

Furono uccisi oltre 6.000 ebrei israeliani, fra cui 4.000 soldati e 2.000 civili, insieme a circa 2.000 militari dai Paesi arabi. 

Nel libro Shlaim sostiene che gli ebrei iracheni non subirono l’antisemitismo fino agli anni ’40, quando furono sospettati di essere coinvolti nell’invasione britannica dell’Iraq nel 1941 e nella Nakba.

Aggiunge che il progetto sionista trasformò gli ebrei in tutti i Paesi arabi da cittadini rispettati a qualcosa di simile a una quinta colonna alleata del nuovo Stato ebraico.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio) 




Rapporto settimanale: “Registra, registra” la pulizia etnica di Ein Samiya!

Philip Weiss  

18 giugno 2023 – Mondoweiss

Registra, registra. Parlerò più piano, ma concentrati e scrivi. Quello che è successo ieri è stata una nuova Nakba.” Un anziano palestinese invita il mondo a essere testimone della pulizia etnica di Ein Samiya.

Spesso sentiamo dire che in Cisgiordania è in corso una Nakba al rallentatore. Che, mentre i ministri fascistoidi di Netanyahu affermano l’antico “diritto ebraico” sull’area C [circa il 60% della Cisgiordania, in base agli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo di Israele, ndt.], sempre più villaggi palestinesi vengono soffocati e strangolati e i loro abitanti espulsi per far posto ai coloni ebrei. E pressoché nessuno vi presta attenzione. Perché noi siamo anestetizzati …

Ecco la storia di uno di questi villaggi. Tre settimane fa circa 200 palestinesi che vivevano a Ein Samiya, nella Valle del Giordano, hanno abbandonato le proprie case e messo le loro cose su camion per sfuggire alle continue violenze e vessazioni che hanno subito per anni da parte di tre colonie estremiste ebraiche vicine. I coloni hanno rotto le loro finestre e rubato le loro greggi. L’esercito israeliano è rimasto a guardare senza fare niente per bloccare i criminali ebrei.

Un amico ebreo che è stato a Ein Samiya mi ha detto che sembrava di vedere ebrei in fuga da un pogrom nell’Europa orientale.

Eppure qui negli Stati Uniti non si sente una sola parola riguardo alla pulizia etnica di Ein Samiya. L’amministrazione Biden non ha detto niente su Ein Samiya, anche se fa finta di sostenere l’opposizione alle politiche annessioniste del governo Netanyahu. Nessun giornalista al Dipartimento di Stato ha menzionato Ein Samiya. Le organizzazioni sioniste progressiste non hanno emesso alcun comunicato contro questa vergogna.

Sì, B’Tselem ha emesso una dichiarazione. Lo stesso ha fatto il Norwegian Refugee Council [Consiglio Norvegese per i Rifugiati, Ong norvegese, ndt.], che ha visto distruggere dai teppisti razzisti la scuola che aveva costruito. Al Jazeera ha informato della fuga. Un esperto di Americans for Peace Now [Americani per la Pace Ora, ong sionista USA contraria all’occupazione, ndt.] ha denunciato i politici: Bezalel Smotrich è al potere ed ha dato mano libera ai coloni per spogliare i palestinesi.

“Stiamo assistendo alle tragiche conseguenze delle pratiche israeliane e della violenza dei coloni di lunga data,” ha affermato l’ufficio dell’ONU per il Coordinamento delle Questioni Umanitarie.

Il bravo rabbino Arik Ascherman [di fede ebraica riformata e pacifista, ndt.] ha cercato di proteggere la gente di Ein Samiya, e poi ha spiegato agli israeliani, soprattutto a quelli che manifestano per la democrazia: “Le nostre mani hanno versato questo sangue!”

Ma negli USA politici e associazioni per i diritti umani non hanno alzato la loro voce. Il Dipartimento di Stato non ha detto niente. I sionisti progressisti hanno taciuto. Mentre un pogrom si svolgeva davanti ai nostri occhi.

Visitando i memoriali dell’Olocausto i bambini chiedono: “Perché gli altri non hanno detto niente?” Avendo fatto io stesso questa domanda da bambino, sono orgoglioso di dire che abbiamo informato molte volte della pulizia etnica ad Ein Samiya.

Nello straziante reportage di Mariam Barghouti dal villaggio espulso due settimane fa l’ottantunenne Abu Naje Ka’abneh, il cui magnifico ritratto di Majid Darwish compare all’inizio di questo messaggio, si è così rivolto a Mariam:

Registra, registra. Non fraintendere le informazioni. Parlerò lentamente ma concentrati e scrivi. Quello che è successo ieri è stata una nuova Nakba.”

Una nuova Nakba. Registra, registra.

Abu Naje crede nel potere della parola. E noi stiamo facendo del nostro meglio per avvertire gli americani della crisi dei diritti umani dei palestinesi.

È un grande privilegio essere testimoni. Quindi, per favore, passa parola.

Grazie per avermi letto.

Phil.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dobbiamo smetterla di confutare la propaganda israeliana nei termini di Israele

TOM SUAREZ  

27 maggio 2023  – Mondoweiss

Nelle nazioni occidentali tendiamo inconsapevolmente a permettere a Israele di controllare i termini del dibattito anche mentre combattiamo per la causa palestinese. Invece, dobbiamo rispedire le accuse israeliane a chi le formula

La battaglia per la giustizia in Palestina è una battaglia di linguaggi. È una battaglia non solo di informazioni, ma del contesto in cui vengono presentati gli ipotetici fatti, cioè di narrazione. Così Israele settantenne utilizza una narrazione “nazionale” che inizia con l’Antico Testamento e profitta dei nostri stessi media e governi come co-cospiratori. Se i media occidentali riportassero invece la realtà israelo-palestinese, da un giorno all’altro l’intero progetto sionista si farebbe insostenibile.

La narrazione palestinese è sempre più considerata vitale nella lotta per la giustizia. Eppure viene in gran parte estromessa. Come osserva la professoressa dell’Università di Exeter Nadia Naser Najjab, non ci sarà giustizia per la Palestina “fintanto che la comunità internazionale continuerà a ignorare la narrazione palestinese”.

Perché, allora, viene ignorata? Che cosa le è contro? Contro cosa si scontra la (vera) storia di una terra rubata, la sua gente sottoposta a pulizia etnica o rinchiusa in bantustan sotto uno Stato di apartheid?

Si scontra con una mitologia elaborata e sfaccettata, radicata nell’iconografia biblica e messianica culturalmente inculcata nel suo pubblico. Si scontra con la favola di un popolo in alleanza con Dio che ritorna nel proprio “paese” che risale a cinquemila anni fa. Si scontra con uno Stato il cui nome è stato scelto per farci credere che lo abbiamo letto nella Bibbia e funge cinicamente da fiaccola per il peso morale dell’Olocausto e da rifugio per gli ebrei dal flagello dell’antisemitismo. Si scontra con il fondamentalismo sionista cristiano e un pubblico ulteriormente predisposto attraverso la sistematica disumanizzazione dei palestinesi.

E oltre a tutto ciò la Narrazione Palestinese si scontra con la precondizione che perfino per ridicolizzare la mitologia di Israele i palestinesi devono prima pienamente accettarla.

Come ha affermato Jeremy Ben-Ami del “progressita” J Street [forum statunitense che promuove la leadership americana per una soluzione pacifica e diplomatica ai conflitti arabo-israeliano e israelo-palestinese, ndt.] nel suo articolo per commemorare il 75° anniversario dello Stato israeliano (tutti i corsivi sono miei):

Credo che coloro che sottolineano la Nakba dovrebbero anche riconoscere la legittimità del legame ebraico con la terra di Israele e che anche il popolo ebraico ha diritto all’autodeterminazione. […] se mai dovessimo risolvere questo tragico conflitto tra ebrei e palestinesi, entrambi i popoli dovranno comprendere la narrazione dell’altro, la loro storia di dolore e il loro legame con la stessa terra…”

Si noti che “conflitto” è anch’esso una narrazione a beneficio di Israele.

“… e tutti gli ebrei, spero, un giorno riconosceranno il legame dei palestinesi con questa terra e capiranno perché essi considerano il 1948 una catastrofe…”

I palestinesi devono accettare la narrazione israeliana subito, ma il riconoscimento reciproco? Forse “un giorno”, spera l’autore. Il “legame palestinese” con la propria terra è presentato come un concetto vago, valido solo se “tutti gli ebrei” lo accettano, mentre il legame dei coloni stranieri con quella terra è così naturale da non meritare spiegazioni. E infine, nello stereotipo antisemita, gli “ebrei” sono considerati così chiusi e concentrati su di sé da non arrivare a capire perché altre persone potrebbero considerare una “catastrofe” il totale furto e la pulizia etnica del loro paese – davvero così difficile che:

È improbabile che israeliani e palestinesi si accordino mai su una versione comune della storia

Svilendo ciò che è realmente accaduto ai palestinesi come “versione” – sostituto peggiorativo di “narrazione” – si può rimuoverlo. In effetti, una ricerca su Internet di “Narrazione palestinese” può occupare tutto il giorno, ma ogni volta che viene esposta una Narrazione per mostrare il crimine secolare contro i palestinesi, i propagandisti israeliani se ne impadroniscono per definirla una sorta di credenza, di invenzione nostalgica – nient’altro che “quello che dicono i palestinesi”.

In risposta agli sforzi del professor Rashid Khalidi per impedire agli Stati Uniti di costruire la propria ambasciata a Gerusalemme su terra rubata a palestinesi, tra cui la sua famiglia, un velenoso articolo sul Jerusalem Post affermava che “quello che sta accadendo qui non è tanto una battaglia sulla storia di Gerusalemme quanto una battaglia sulle narrazioni della storia.” Una recensione sullo stesso giornale dell’eccellente The Hundred Years’ War on Palestine [La guerra di cent’anni per la Palestina] del prof. Khalidi inizia proprio col titolo: “Controllare la narrazione palestinese”. Il recensore contrasta la “narrazione” di Khalidi con una litania di invenzioni israeliane la cui stessa logica sarebbe giustamente condannata come incitamento all’odio se le “parti” fossero invertite. Ed è nel contrastare tale razzismo – disumanizzazione – che la narrazione è così cruciale, per assicurare il fallimento della infame congettura di Ben-Gurion secondo cui “i giovani dimenticheranno”.

Riappropriarsi dei termini del dibattito

Solo i palestinesi possono riferire la narrazione palestinese collettiva e individuale. Ma per quelli di noi i cui paesi hanno causato il crimine secolare contro di loro – in particolare il Regno Unito e gli Stati Uniti – la fondamentale responsabilità di porre fine all’eterna complicità dei nostri paesi ricade su di noi. È nostro compito porre fine alla giungla di bugie su cui fa affidamento Israele.

A tal fine propongo un’osservazione generale. Nelle nazioni occidentali che si sono nutrite della mitologia di Israele tendiamo inconsapevolmente a permettere a Israele di controllare i termini del dibattito anche se combattiamo per la causa palestinese. Di una miriade di esempi forse il più semplice con cui illustrare il mio punto è come trattiamo l’uso da parte di Israele dell’accusa di antisemitismo per metterci a tacere.

Quando sul nostro petto viene scarabocchiata la “A” scarlatta di antisemita , la nostra tipica risposta è negare l’accusa: no, non sono antisemita. L’antisionismo non è antisemitismo. Questa risposta è totalmente nei termini di Israele: i suoi propagandisti, non tu, mantengono il controllo e tu rimani “colpevole”.

La risposta deve respingere correttamente l’accusa e includere le parole che la calunnia vorrebbe mettere a tacere: No, non cercare di coprire/nascondere l’apartheid israeliano. Sei sionista. Questo è antisemitismo! Oppure: sto difendendo dei fondamentali diritti umani. Stai insultando gli ebrei come oppositori dei diritti? O ancora: l’unico antisemitismo qui è da parte dei sionisti che in nome degli ebrei difendono l’apartheid israeliano contro la Palestina.

Cito questo come modello, suggerito per ripensarci e liberare tutti i nostri ragionamenti da un contesto ereditato. In questo momento la presa di Israele sull’opinione pubblica sta vacillando, Israele stesso è nel caos politico, le tre sillabe “apartheid” diventano ogni giorno più salde e la realtà che Tel Aviv abbia rubato tutta la Palestina storica non è più negabile . Il pubblico è più aperto alla verità dell’esperienza collettiva e individuale dei palestinesi – e il resto di noi deve fare sempre più pressioni per “delegittimare” lo stato razziale che è causa dell’intera catastrofe.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Tantura: alla Bafta anteprima del film sul massacro nel villaggio palestinese durante la Nakba

Nadda Osman da Londra

23 maggio 2023 – Middle East Eye

Anche se il documentario è stato ampiamente apprezzato perché mostra le uccisioni a Tantura nel 1948, alcuni critici dicono che dà troppa rilevanza alla prospettiva israeliana

Lunedì sera la prestigiosa British Academy of Film and Television Arts, la londinese Bafta, è stata sede della proiezione del documentario Tantura, che indaga il massacro presso il villaggio palestinese durante la  Nakba.

La proiezione, organizzata dall’International Centre of Justice for Palestinians (ICJP, Centro Internazionale per la giustizia per i palestinesi), ha coinciso con il 75esimo anniversario del massacro avvenuto fra il 22 e il 23 maggio 1948 e nel film appaiono testimonianze registrate e interviste con vari veterani israeliani che presenziarono alle esecuzioni.

Si stima che siano oltre 200 le persone uccise durante il massacro. Un soldato israeliano commenta così il bilancio delle vittime: “Non ho contato. Non saprei proprio. Avevo una mitragliatrice con 250 pallottole.”

Tayab Ali, avvocato e direttore dell’ICJP, ha detto che l’episodio di Tantura sintetizza l’esperienza palestinese durante la Nakba e da allora in poi.

La storia di Tantura esemplifica la lunga esperienza di rimozione e perdita subita dai palestinesi durante la Nakba, ma in questo film è raccontata da coloro che l’hanno perpetrata,” afferma, e poi continua:

Ripercorrendo i fatti di Tantura in questo film non prendiamo una posizione nel dibattito, ma presentiamo i fatti indiscutibili di quello che gli israeliani fecero ai palestinesi non solo a Tantura e in altri villaggi nel 1948, [ma ciò che loro] continuano a fare.

“Fino ad oggi la comunità internazionale ha chiuso un occhio sui crimini Israeliani e peggio ancora ne è complice.”

Le registrazioni di Katz

Il regista [israeliano] Alon Schwarz concentra il suo lavoro sulle ricerche dell’israeliano Teddy Katz che scrisse la sua tesi sull’argomento all’Università di Haifa. 

In Israele Katz fu completamente marginalizzato per aver rivelato le sue scoperte e fatto oggetto di pressioni perché ritrattasse.

Un’ampia parte del film parla dell’impatto su Katz, incluse le cause legali contro lui e il suo licenziamento dall’università.

Il ricercatore aveva raccolto più di un centinaio di ore di registrazioni di testimonianze di 135 sopravvissuti palestinesi e di soldati israeliani che erano là.

Il film illustra come membri della brigata Alexandroni, parte dell’esercito israeliano, attaccarono il villaggio seminando morte fra la popolazione civile palestinese e costringendo altri a fuggire.

I palestinesi hanno da sempre detto che tali tattiche erano usate per scacciarli dalle loro terre storiche per far posto alla fondazione di Israele.

Il lavoro di Schwarz fa luce sulla mentalità delle unità dell’esercito israeliano e contiene l’ammissione da parte di israeliani di aver ucciso palestinesi.

Li abbiamo ammazzati. Naturalmente li abbiamo ammazzati. Non ci siamo fatti scrupoli,” dice un membro della brigata. 

Altri soldati raccontano di aver radunato donne e bambini separandoli dagli uomini che furono mandati in campi di prigionia, mentre gli altri furono uccisi. 

Molti degli intervistati ammettono di aver ucciso, ma dicono che cercano di dimenticarlo e di non parlarne con altri. 

Oggi il villaggio di Tantura, che si trova a sud della città di Haifa, è diventato un’area ricreativa israeliana dove la gente va a nuotare e per ammirare il panorama.

Nel documentario le voci narranti dicono che una sepoltura di massa palestinese dove avvenne il massacro è ora diventata un parcheggio alle spalle della spiaggia di Dor.

La pellicola è stata mostrata a Londra a un pubblico composto, fra gli altri, da avvocati, accademici, giornalisti e ad appartenenti alla diaspora palestinese.

C’è poi stata una tavola rotonda a cui hanno partecipato Yasmine Ahmed, direttrice per il Regno Unito di Human Rights Watch [organizzazione non governativa internazionale, ndt.], lo storico anglo-israeliano Avi Shlaim, l’accademico palestinese Nur Masalha e la regista palestinese Hala Gabriel.

Shlaim ha apprezzato che la regista abbia mostrato le uccisioni, ma ha messo in guardia sul fatto che il documentario “è un film molto israeliano “.

Secondo Shlaim “la ragione per cui suscita tante reazioni così forti è che va al cuore della percezione che ha Israele di sé, e la percezione che Israele ha di sé è quella di un Paese molto rispettabile, progressista e amante della pace.”

Ha aggiunto che la guerra che ha portato alla fondazione di Israele è da molto tempo vista all’interno del Paese come una guerra di difesa contro “gli aggressori arabi”.

“C’è una grande riluttanza a vedere il lato oscuro di questa guerra, in particolare la pulizia etnica avvenuta nel 1948,” ha aggiunto.

Rispondendo a una domanda circa il ruolo giocato dall’ideologia sionista nella pulizia etnica dei palestinesi nel 1948, Shlaim ha detto che il movimento era improntato a un’ideologia “esclusivista” e “razzista”.

Ha aggiunto: “Israele ama definirsi ebraico e democratico, ma come ha detto un parlamentare arabo: ‘Israele è una democrazia per gli ebrei’… Israele non può essere sia uno Stato ebraico razzista che uno democratico.”

La regista Gabriel è originaria del villaggio di Tantura e suo padre è stato un testimone della strage.

Come Shlaim, anche lei è lieta che si puntino i riflettori sugli eventi di Tantura nel 1948, ma chiede uguale attenzione per le opere dei palestinesi.

Per l’ICJP la speranza è che il film susciti il dibattito su altre violazioni israeliane dalla Nakba in poi.

“La prossima volta che vi diranno che i soldati e i coloni israeliani non uccidono impunemente i palestinesi, ricordatevi di Tantura,” ha aggiunto Ali, il direttore di ICJP, continuando:

“La prossima volta che vi diranno che Israele non compie atti di apartheid, ricordatevi di Tantura.

La prossima volta che qualcuno cerca di giustificare l’occupazione o le aggressioni israeliane affermando che Israele è una democrazia, ricordatevi di Tantura.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Riforme giudiziarie israeliane: far scoppiare la bolla di un sistema giuridico coloniale

Pietro Stefanini

22-05-2023, The Legal Agenda

Il 4 gennaio 2023, meno di una settimana prima del giuramento dell’attuale governo israeliano, il ministro della Giustizia Yariv Levin annunciava una controversa revisione del sistema giudiziario. Quello che è diventato noto come il Piano Levin comprende diversi cambiamenti tecnici e legali, ma l’essenza delle riforme proposte risiede nel limitare l’influenza della Corte Suprema israeliana rafforzando al contempo l’autorità della Knesset di approvare leggi con meno ostacoli.[1] Se adottate, sposterebbero in modo significativo l’equilibrio del potere verso il governo e lontano dai rami giudiziari. Mentre in passato la Corte Suprema poteva annullare alcune leggi approvate dalla Knesset quando erano in conflitto con una delle Leggi Fondamentali di Israele, le riforme proposte ridurrebbero la supervisione della Corte e darebbero ulteriore potere al governo.

Dall’annuncio di Levin manifestazioni di massa hanno scosso Israele con dimostranti che lamentavano la presunta svolta autoritaria del paese. Il primo ministro Benjamin Netanyahu è Stato accusato di palese conflitto di interessi perché le riforme legali gli darebbero la possibilità di ottenere l’immunità parlamentare dal suo processo in corso per corruzione, qualcosa che ha cercato di accelerare almeno dall’inizio del 2020.[2] Il nuovo governo è anche definito “il più di estrema destra nella storia di Israele” dato che, insieme al Likud di Netanyahu, la coalizione al potere comprende il Jewish Power Party di Itamar Ben-Gvir e il Religious Sionist Party di Bezalel Smotrich, entrambi coloni ultranazionalisti della Cisgiordania con un noto passato di incitamento alla violenza razziale contro i palestinesi.[3]

In questo contesto, le proteste israeliane sembrano contrapporre il campo liberale come protettore dello “Stato di diritto” all’ascesa di un’estrema destra senza precedenti. Questa è la comune narrazione riportata da molti commentatori internazionali che osservano le manifestazioni e discutono sul futuro della “democrazia” di Israele. Tuttavia, uno sguardo più attento rivela che difendere la Corte Suprema è ben lungi dall’essere una posizione democratica o antiautoritaria. Il diritto in generale, e la Corte in particolare, dovrebbero essere collocati all’interno del loro rilevante contesto storico e politico, che in questo caso è il colonialismo di insediamento israeliano.[4] Se gli osservatori mettessero i palestinesi al centro nel dibattito, il bilancio dell’operato della Corte Suprema mostrerebbe chiaramente di avere costantemente fornito sostegno alle pratiche israeliane di colonizzazione e violenza militare.

Cosa significa la Corte Suprema israeliana per i palestinesi

Dal punto di vista dei colonizzati, la leadership del progetto coloniale sionista – sia di destra che di sinistra – conta poco. Fu il sionismo laburista, apparentemente di sinistra, di David Ben-Gurion predominante nel 1948 che effettuò la pulizia etnica di oltre 750.000 nativi, quella che arabi e palestinesi chiamano la Nakba (catastrofe), per aprire la strada allo Stato colonizzatore di Israele. Commentando i manifestanti israeliani “pro-democrazia” provenienti da quella tradizione politica, lo storico Ilan Pappé scrive che “[l’]erede del sionismo liberale è fondato su una serie di ossimori: Israele come occupante illuminato, pulitore etnico benevolo, Stato apartheid progressista.”[5] Aggiunge che i funzionari militari israeliani, “che hanno commesso innumerevoli crimini di guerra nella Striscia di Gaza, e prima ancora in Cisgiordania e in Libano, stanno ora svolgendo un ruolo cruciale nell’emergente blocco di opposizione.”[6] ] Temono che indebolire la Corte Suprema attraverso riforme giudiziarie contribuirebbe a far diventare Israele un paria globale, come un tempo successe al Sud Africa dell’apartheid, e a perdere la sua legittimità come Stato liberale e democratico.

La Corte Suprema israeliana ha due funzioni principali: agire come corte d’appello e fungere da Alta Corte di Giustizia.[7] È in quest’ultima funzione che la Corte ha ottenuto un ampio sostegno pubblico. Il più alto ramo giudiziario di Israele ha acquisito importanza anche per aver investigato le azioni del governo e dei militari all’interno dei Territori Occupati (TO) della Palestina del 1967. Eppure, i suoi precedenti nei TO parlano della sua natura antidemocratica e coloniale. La Corte ha autorità sulle aree sotto occupazione militare, dove risiedono circa cinque milioni di palestinesi senza diritto di cittadinanza nello Stato da cui emana il potere giudiziario. Legifera così su soggetti non cittadini sotto occupazione; i palestinesi sono vincolati dalla legge del colonizzatore ma non sono loro concessi diritti politici. La Corte Suprema, quindi, non riconosce nemmeno il controllo del regime israeliano sulla Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza come occupazione, ma accetta il punto di vista dello Stato secondo cui i territori sono “contesi”. Il consenso stabilito ai sensi del diritto internazionale è che i territori sono occupati, ma lo Stato israeliano ha solo riconosciuto che rispetterà le “disposizioni umanitarie” delle Convenzioni di Ginevra.

Un esempio attuale della Corte Suprema che sanziona la violenza militare israeliana è stato durante la Grande Marcia del Ritorno del 2018-19. Quando i palestinesi hanno organizzato una serie di proteste pacifiche lungo la recinzione che racchiude la Striscia di Gaza per chiedere la fine dell’assedio in corso dal 2007 e per tornare alle loro terre e case da cui furono espropriati nel 1948 – l’esercito israeliano ha risposto con cecchini che sparavano per uccidere e ferire civili, giornalisti e medici.[8] Per porre fine alle marce, l’esercito israeliano ha ucciso 214 palestinesi e ne ha feriti oltre 36.100 – dei quali oltre 8.000 sono stati colpiti da proiettili veri.[9] A un mese dall’inizio della serie di manifestazioni che sono durate quasi due anni, la Corte Suprema avrebbe potuto limitare il cecchinaggio di manifestanti disarmati. Ma quando ONG per i diritti umani hanno presentato una petizione per rivedere la politica del fuoco indiscriminato dei cecchini, la Corte ha respinto le petizioni e si è schierata con la condotta dell’esercito israeliano.

La Corte Suprema ha autorizzato una serie di pratiche statali violente come, tra l’altro, la negazione del ricongiungimento familiare[10] e l’uso della tortura.[11] La Corte ha anche bloccato qualsiasi petizione per contestare l’incarcerazione a tempo indeterminato dei palestinesi senza processo.[12] Nel 2019, la Corte ha anche approvato la politica draconiana di Israele di trattenere i corpi dei palestinesi uccisi.[13] Per decenni il regime israeliano ha adottato questa misura necropolitica di trattenere i corpi dei palestinesi morti – alcuni dei quali detenuti nel Greenberg Institute of Forensic Medicine, un’affiliata dell’Università di Tel Aviv – come “merce di scambio” per costringere a concessioni durante i negoziati o in potenziali accordi di scambio di prigionieri.[14]

Sulla questione dell’espansione coloniale, la Corte Suprema è un facilitatore dell’espropriazione palestinese. Masafer Yatta è diventato l’ultimo obiettivo di alto profilo dell’occupazione israeliana nell’Area C della Cisgiordania. Un totale di 1.200 palestinesi sarà espulso con la forza dal sud di Hebron, un’area che i coloni israeliani hanno a lungo cercato di colonizzare. Nel maggio 2022, la Corte ha respinto i ricorsi contro gli ordini di sfratto pendenti sulla comunità di Masafer Yatta e ha sostanzialmente accettato l’argomentazione dello Stato israeliano secondo cui la terra è un sito di addestramento militare chiuso su cui gli abitanti palestinesi indigeni non hanno il diritto di vivere.[15]

In effetti, la Corte Suprema riconosce la definizione dello Stato come “ebraico e democratico” e afferma inoltre che questa definizione implica il mantenimento di una maggioranza ebraica in Israele.[16] Un effetto voluto di ciò è precludere la possibilità di qualsiasi ritorno di profughi palestinesi che reclamano le proprie case e terre all’interno dei confini dello Stato israeliano. La definizione includeva anche i palestinesi del ’48 (noti come cittadini palestinesi di Israele), portando a decenni di discriminazione. Storicamente, lo Stato israeliano li ha designati come cittadini di seconda classe, ma spesso sono soggetti alle stesse pratiche coloniali e alla stessa repressione militare diretta contro altri collegi elettorali con diritti nominalmente inferiori sanciti dalla legge.

Estendere la cittadinanza ai palestinesi che rimasero e non furono espulsi nel 1948 fu un compromesso necessario per ricevere un riconoscimento liberale e internazionale per la sovranità del nuovo Stato coloniale di Israele.[17] La cittadinanza, tuttavia, non ha mai voluto dire piena uguaglianza in uno Stato fondato su gerarchie razziali, per cui gli ebrei detengono uno status di supremazia sugli arabi palestinesi. Nel 2021, la Corte Suprema ha riaffermato la legalità di attribuire caratteristiche razziali ai palestinesi da parte di Israele sostenendo la costituzionalità della Legge sullo Stato-Nazione del 2018. Secondo Adalah (il Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele) la legge sancisce la “supremazia ebraica sui cittadini palestinesi” e “ha caratteristiche specifiche di apartheid e rivendica atti razzisti come valore costituzionale”. [18] Per la studiosa Lana Tatour, la legge Stato-Nazione semplicemente “conferma la realtà” vissuta dai palestinesi: decenni di occupazione, apartheid e colonizzazione.[19]

Nel 2022, la Corte Suprema ha inoltre convalidato un emendamento del 2008 alla legge sulla cittadinanza del 1952 che consente la privazione della cittadinanza ai palestinesi del ’48 accusati di “violazione della lealtà” – concetto di ampio significato tramite il quale i palestinesi accusati di “terrorismo” rischiano l’espulsione. [20] Nel 2021, con un pretesto simile, al palestinese di Gerusalemme Salah Hammouri è stato revocato il diritto di residenza.[21] Con un emendamento alla legge sull’ingresso in Israele approvato nel 2018, il ministero dell’Interno ha revocato la sua carta d’identità di Gerusalemme e lo status di residenza permanente.[22] Hammouri è stato inizialmente tenuto in detenzione amministrativa e accusato di “terrorismo” per il suo lavoro sui diritti umani con l’ONG palestinese Addameer, un centro di assistenza ai prigionieri che è stato criminalizzato come “organizzazione terroristica” insieme ad altri cinque gruppi per i diritti dei palestinesi. Dopo che la Corte Suprema israeliana ha respinto un ricorso contro la decisione di revocare i suoi diritti di residenza per presunta “violazione della lealtà”, Hammouri è stato espulso dalla sua patria.[23]

Il limitato potenziale di emancipazione della difesa della Corte Suprema

Nonostante il ricco dossier di sanzioni contro la violenza di Stato inflitta ai palestinesi, la Corte Suprema è diventata un’istituzione molto popolare. Consentendo alle petizioni dei politici e della società civile di contestare la legalità della politica del governo, è diventato un sito chiave per la contestazione politica e il dibattito pubblico. È anche vista prevalentemente come una Corte “attivista” – sia in una connotazione positiva che negativa.[24] Spesso è il campo della destra religiosa sionista a criticare la Corte per aver ostacolato il loro progetto di insediamento espansionista. Parte dell’etichetta di “attivista” è venuta da alcune revisioni giudiziarie che occasionalmente si pronunciano a favore dei firmatari che cercano di proteggere i palestinesi. In un esempio recente, nell’aprile 2023, la Corte si è pronunciata contro un tentativo da parte di coloni israeliani di espellere una famiglia palestinese dalla propria casa nella zona di Silwan a Gerusalemme est.[25]

Tuttavia, la Corte Suprema declina di affrontare le questioni strutturali dell’ingiustizia. La questione della legalità delle colonie, dei posti di blocco e del muro di separazione sono tutte questioni generali che la Corte si rifiuta di prendere in considerazione. Invece, consente di esaminare solo un elemento singolo: una singola colonia o checkpoint o un percorso parziale del muro.[26] Oscura così il contesto storico e politico in cui si collocano queste questioni. Attraverso questo tipo di mosse legali e digressive, la Corte Suprema – come sottolinea lo studioso di diritto Nimer Sultany – legittima in pratica l’occupazione coloniale di Israele. Può intervenire per respingere i peggiori eccessi violenti di Israele, ma nel complesso lascia indenne il progetto coloniale. Sultany conclude che non c’è “alcun motivo per cui i colonizzati abbiano fiducia nelle istituzioni dello Stato di diritto coloniale”.[27]

Alcune organizzazioni palestinesi intravedono ancora un valore nella “resistenza legale” facendo uso del sistema giudiziario israeliano, sebbene siano consapevoli che è improbabile che i tribunali dei loro oppressori conducano a una vera misura di giustizia o liberazione. L’avvocato palestinese Hassan Jabareen, uno dei fondatori di Adalah, ha sostenuto che la petizione alla Corte Suprema non fornisce quasi mai un rimedio legale interno per le vittime palestinesi. Dove la petizione può avere successo è mobilitare strumenti che trascendono la funzione dei tribunali nazionali. Attingendo ai casi presentati durante l’Intifada di Al-Aqsa (2000-2005), suggerisce che le petizioni hanno avuto due principali effetti positivi: creare una documentazione storica degli eventi che funziona contro i tentativi di sopprimere la copertura delle operazioni dell’esercito israeliano; e per raccogliere sostegno internazionale, ad es. alle Nazioni Unite o nei tribunali internazionali, ancorando le petizioni ai principi del diritto internazionale.[28]

Eppure, i sostenitori della Corte Suprema usano il suo lavoro come prova di una forma legale e disciplinata di dominio israeliano. Per difendere la sua condotta contro i palestinesi nei TO, il regime israeliano fa riferimento abitualmente alle decisioni della Corte come prova della “protezione dei diritti della popolazione locale”.[29] Inoltre, i critici delle riforme giudiziarie del Piano Levin temono che minare l’autorità della Corte esporrebbe i soldati israeliani alla giurisdizione della Corte Penale Internazionale (CPI). Il professore di diritto americano e apologeta filoisraeliano Alan Dershowitz ha recentemente definito la Corte Suprema un ” Iron Dome legale” – in analogia al sistema di difesa aerea che intercetta i razzi lanciati sulla Palestina del 1948 dai gruppi di resistenza della Striscia di Gaza. Per Dershowitz, la Corte che esamina le azioni dei soldati israeliani può fungere da deterrente contro le indagini in corso della CPI sui crimini di guerra.[30] Secondo il principio di “complementarità” della Corte penale internazionale, un caso è inammissibile se è attualmente oggetto di indagine da parte di uno Stato avente giurisdizione su di esso.

La legittimazione da parte della Corte Suprema delle pratiche israeliane di colonizzazione e repressione militare, unita al suo limitato potenziale di emancipazione, invitano alla cautela riguardo all’uso di mezzi legali come principale strumento di resistenza. Inoltre, impegnarsi con un sistema legale così ingiusto che rende poca o nessuna giustizia ai palestinesi può avere l’involontaria conseguenza di rafforzare la sua legittimità. In definitiva, i palestinesi continuano ad attingere dall’intero repertorio della lotta anticoloniale adottata anche da altri movimenti di liberazione di successo contro il dominio coloniale. Insieme alla resistenza legale nei tribunali nazionali e internazionali, ciò include anche varie tattiche come scioperi, manifestazioni, lotta armata e campagne globali come il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni.

Se si considera che i palestinesi del ’48 sono in gran parte assenti dalle proteste antigovernative, la storia di un autoritarismo ribelle che fa scoppiare la bolla della democrazia liberale cade rapidamente a pezzi. I palestinesi del ’48 si sono schierati in piena forza durante la rivolta popolare del 2021 nota come “Unity Intifada”, in cui tutti i gruppi palestinesi frammentati, all’interno della Palestina storica e in diaspora, hanno preso parte alla resistenza anticoloniale contro il regime israeliano. [31] Non sorprende che abbiano delle riserve sull’unirsi agli sforzi per salvare l’attuale Corte Suprema.

In particolare, non è emersa alcuna mobilitazione su larga scala da parte del blocco “pro-democrazia” per protestare contro i recenti attacchi israeliani a Gaza che hanno ucciso oltre 30 palestinesi. Nel momento in cui la violenza di Stato contro i palestinesi si intensifica, i manifestanti israeliani tornano all’ovile con lo stesso regime coloniale che fino ad ora hanno definito autoritario e inaccettabile. [32]

Per concludere, spesso si trascura il fatto che gli artefici della pulizia etnica della Palestina del 1948 volevano anche uno Stato democratico liberale. Consideravano il governo di una minoranza di coloni una forma illegittima nell’ordine internazionale dell’epoca; questo è uno dei motivi per cui ricorsero all’espulsione di massa dei palestinesi in modo da poter costruire uno Stato-nazione a maggioranza ebraica con caratteristiche liberali e democratiche. Allo Stato attuale, i manifestanti israeliani non stanno compiendo una rottura significativa con quella storia, ma stanno promuovendo un retaggio della cancellazione palestinese. Mentre l’esito di questa lotta tra i poli liberali e della destra religiosa della società dei coloni israeliani dovrà attendere almeno fino alla sessione estiva della Knesset, preservare la Corte Suprema significherebbe garantire la sua posizione nel legiferare sulla colonizzazione della Palestina.

Traduzione di Angelo Stefanini

[1] For a detailed breakdown of the Levin Plan, see Sawsan Zaher, “The Impact of Israel’s Judicial Reforms on Palestinians – A Legal Perspective”, Rosa Luxemburg Stiftung, 29 March 2023.

[2] Henriette Chacar, “Israel’s attorney general accuses Netanyahu of breaking the law”, Reuters, 24 March 2023; BBC News, “Benjamin Netanyahu asks for immunity from prosecution”, 1 January 2020.

[3] Haaretz, “Netanyahu’s Government, the Most Right-wing in Israel’s History, Takes Office”, 2022.

[4] See, for example, Omar Jabary Salamanca et al., “Past is Present: Settler Colonialism in Palestine”, Settler Colonial Studies, 2(1), 1–8, 2012; and Areej Sabbagh-Khoury, “Tracing Settler Colonialism: A Genealogy of a Paradigm in the Sociology of Knowledge Production in Israel,” Politics & Society, 50(1), 44–83, 2022.

[5] Ilan Pappé, “Fantasies of Israel”, New Left Review, 19 April 2023.

[6] Ibid.

[7] The permanence of a High Court is a legacy of the British Mandatory period (1922-1948).

[8] Jasbir Puar and Ghassan Abu-Sitta, “Israel is trying to maim Gaza Palestinians into silence”, Al Jazeera English, 31 March 2019.

[9] “Two Years On: People Injured and Traumatized During the ‘Great March of Return’ are Still Struggling”, United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), 6 April 2020.

[10] Mazen Masri, “Love Suspended: Demography, Comparative Law and Palestinian Couples in the Israeli Supreme Court”, Social & Legal Studies, 22(3) 309–334, 2013.

[11] Ardi Imseis, “Moderate Torture on Trial: Critical Reflections on the Israeli Supreme Court Judgement concerning the Legality of General Security Service Interrogation Methods”, 19 Berkeley J. Int’l Law. 328, 2001; “UN expert alarmed at Israeli Supreme Court’s ‘license to torture’ ruling”, OCHA, 20 February 2018.

[12] Mohammed El-Kurd, “Israeli Protesters Say They’re Defending Freedom. Palestinians Know Better.”, The Nation, 30 March 2023.

[13] “Israeli High Court of Justice Upholds Israel’s Policy of Withholding the Bodies of Palestinians Killed”, Al-Haq, 9 September 2019.

[14] Noura Erakat and Rabea Eghbariah, “The Jurisprudence of Death: Palestinian Corpses & the Israeli Legal Process”, Jadaliyya, 8 February 2023.

[15] Ibid.

[16] Mazen Masri, The Dynamics of Exclusionary Constitutionalism: Israel as a Jewish and Democratic State, Bloomsbury Professional, 3, 2017.

[17] Shira Robinson, Citizen Strangers: Palestinians and the Birth of Israel’s Liberal Settler State, Stanford University Press, 2013.

[18] “Israel’s Jewish Nation-State Law”, Adalah, 20 December 2020.

[19] Lana Tatour, “The Nation-State Law: Negotiating Liberal Settler Colonialism”, Critical Times, 4 (3): 578, 2021.

[20] “Q&A: Israeli Supreme Court allows government to strip citizenship for ‘breach of loyalty’”, Adalah, 14 September 2022.

[21] When East Jerusalem was occupied and annexed in 1967, Israel granted Palestinians a unique status of permanent residency in the city but not citizenship.

[22]“Punitive Residency Revocation: the Most Recent Tool of Forcible Transfer”, Al-Haq, 7 March 2018.

[23] Chloé Benoist, “Salah Hammouri: A Case Study of the Occupation and Western Complacency”, Institute for Palestine Studies, 7 February 2023.

[24] Nimer Sultany, “The “Passive Virtues” of Israel’s “Activist” Supreme Court”, The Nakba Files, 17 November 2016.

[25] “Palestinian family in Jerusalem’s Silwan win Israeli Supreme Court battle to save home”, The New Arab, 4 April 2023.

[26] Nimer Sultany, “Activism and Legitimation in Israel’s Jurisprudence of Occupation”, Social & Legal Studies, Vol. 23(3), 325, 2014.

[27] Ibid, 333.

[28] Hassan Jabareen, “Transnational Lawyering and Legal Resistance in National Courts: Palestinian Cases before the Israeli Supreme Court,” Yale Human Rights & Development Law Journal, 13, no. 1, 240, 2010.

[29] David Kretzmer and Yaël Ronen, The Occupation of Justice: The Supreme Court of Israel and the Occupied Territories, Oxford University Press, 2, 2021.

[30] Michael Starr, “Dershowitz: High Court an ‘Iron Dome’ that protects IDF soldiers from ICC”, The Jerusalem Post, 12 January 2023.

[31] Lana Tatour, “The ‘Unity Intifada’ and ’48 Palestinians: Between the Liberal and the Decolonial”, Journal of Palestine Studies, 50:4, 84-89, 2021.

[32] “Israel kills 30 Palestinians in Gaza as violence escalates”, Al Jazeera English, 11 May 2023.

 




La simbolica commemorazione della Nakba alle Nazioni Unite ha messo in luce il disprezzo di Israele per la verità

Ramona Wadi

16 maggio 2023 – MiddleEastMonitor

“L’idea che un’organizzazione internazionale possa definire la fondazione di uno dei suoi Stati membri come una catastrofe o una sciagura è sia scioccante che rivoltante”, ha scritto l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan chiedendo ai diplomatici delle Nazioni Unite di astenersi dal partecipare alla inedita commemorazione della Nakba del 1948 all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. A dire il vero l’azione più disgustosa è stata l’accettazione nel 1948 da parte delle Nazioni Unite del progetto coloniale israeliano come Stato membro a spese della popolazione palestinese sottoposta a pulizia etnica, la cui terra era (e continua ad essere) usurpata e il cui legittimo diritto al ritorno alla propria terra è una condizione ancora non soddisfatta dell’adesione di Israele alle Nazioni Unite.

La commemorazione della Nakba, sebbene sia significativa, non è nulla in confronto alla complicità delle Nazioni Unite nel permettere a Israele di prosperare. Come possono le Nazioni Unite, potremmo chiederci, permettersi di commemorare la memoria storica palestinese quando non vi fanno alcun riferimento in termini di diritti politici del popolo palestinese, o del legittimo diritto di resistere con ogni mezzo all’occupazione militare israeliana?

“Questa è un’occasione per sottolineare come i nobili obiettivi di giustizia e pace richiedano il riconoscimento della realtà e della storia delle peripezie del popolo palestinese e la garanzia del rispetto dei suoi diritti inalienabili” afferma il sito web dell’ONU, senza il minimo disagio alla consapevolezza che l’Organizzazione internazionale garantisce l’esatto contrario.

E tuttavia la commemorazione, nonostante l’imperante ipocrisia dei padroni di casa, è stata sufficiente a gettare nel panico Israele manifestandone la paranoia che possa aumentare la generale consapevolezza di come il popolo palestinese stia subendo da decenni un abuso politico che sarebbe in realtà reversibile. Basterebbe un’opposizione politica sufficiente allo status quo della normalizzazione di uno stato coloniale di insediamento e il sostegno al moribondo compromesso dei due Stati.

Secondo il Times of Israel 32 paesi hanno dichiarato che avrebbero boicottato l’evento, dieci dei quali membri dell’UE. Il peso diplomatico che Israele esercita a livello internazionale è considerevole; non solo un certo numero di paesi ha ascoltato l’appello di Erdan, ma è anche riuscito a convincere altri paesi di una narrativa filo-palestinese alle Nazioni Unite che non esiste. La narrativa sulla Palestina dell’Organizzazione è sia errata che totalmente filo-israeliana. Che gli Stati Uniti, il Regno Unito e il Canada avrebbero boicottato l’evento era prevedibile; sia gli Stati Uniti che il Canada sono essi stessi Stati coloniali e la Gran Bretagna è un’ex potenza coloniale, quindi la loro fedeltà allo Stato di apartheid è profonda. Inoltre l’assenza di qualsiasi condanna di Israele come entità coloniale che priva i palestinesi della loro terra ha incoraggiato la normalizzazione del colonialismo e della violenza dei coloni.

Il che vuol dire che il significato che una tale manifestazione avrebbe potuto avere è andato perduto a causa della complicità delle stesse Nazioni Unite nel dare una certa credibilità alla falsa narrazione di Israele. Una singola commemorazione della Nakba non può competere con decenni di sostegno al colonialismo. Va ricordato che le Nazioni Unite danno molta importanza al simbolismo e hanno costretto i palestinesi in questa stessa narrativa. Tuttavia, la memoria collettiva dei palestinesi non è simbolica, è una realtà vissuta che l’Onu preferisce ignorare.

Eppure Israele si sente ancora minacciato al pensiero che le sue atrocità vengano smascherate. Erdan ha fatto un sacco di rumore per il simbolico evento sulla Nakba alle Nazioni Unite, ma la verità è che Israele è riluttante a qualsiasi disvelamento della memoria legata alla Nakba. La riluttanza a concedere i propri archivi alla ricerca accademica ne è un esempio calzante. Ciò che l’evento delle Nazioni Unite ha messo in luce è che Israele avrà sempre più difficoltà a nascondere la violenza della propria istituzione in Palestina su terra usurpata, nonostante la riluttanza della comunità internazionale a porre fine al colonialismo e alla violenza di Stato.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Settantacinque anni dopo la Nakba i palestinesi di Gaza conservano la loro tradizione attraverso le canzoni

Tareq S. Hajjaj

15 maggio 2023 – Mondoweiss

A 75 anni dalla loro espulsione i rifugiati di Gaza conservano la loro eredità culturale attraverso il folklore e le canzoni che raccontano una storia di resistenza e nostalgia della Palestina

In cerchio, con le mani che battono continuamente il ritmo, si uniscono tutte ai versi di una canzone mentre una donna al centro del cerchio suona un tamburo che tiene appoggiato a un fianco, dando loro il ritmo e le battute. In occasioni simili le donne anziane guidano l’esibizione, trovando un’occasione d’oro non solo per rivivere la tradizione vissuta nella terra d’origine prima del 1948, ma anche per trasmetterla alle generazioni più giovani in modo che non venga mai dimenticata.

Con vestiti colorati e con specchietti, in genere anche poche anziane sono in grado di trascinare con sé le giovani, facendo ripetere loro i versi varie volte, finché non si divertono a ripeterli e li hanno memorizzati, sempre più desiderose che le anziane insegnino loro i versi successivi.

Safia Jawad, 71 anni, veste il costume tipico del suo villaggio d’origine, Isdud (ribattezzato Ashdod dallo Stato di Israele), pieno di ricami fatti a mano e magnificamente intessuti. Inizia lentamente e abilmente con un tono basso a recitare questi versi:

“Veniamo dalla valle per la ragazza con i fianchi attraenti.

Veniamo dal mare per la ragazza con la vita come una ghirlanda di fiori.”

Queste parole risalgono a molti anni prima della Nakba, quando il popolo palestinese era solito celebrare gli avvenimenti con una canzone. Utilizzando solo mezzi semplici, le loro voci o strumenti come il “rebab” [strumento ad arco, antenato del violino, ndt.], creavano nuove canzoni adatte a specifici momenti e contesti.

Safia ha memorizzato una lunga lista di canzoni e versi per i matrimoni, benché non fossero le uniche occasioni a cui venivano riservati canti popolari. Ogni avvenimento, felice o triste, ha una canzone specifica. Esistevano in tutta la Palestina prima della Nakba, dopo la quale questa parte della tradizione palestinese venne trasformata. Le persone che scapparono dalle loro case e giunsero a Gaza come rifugiati portarono con sé le proprie tradizioni. Le conservarono e ripresero durante ogni matrimonio e funerale, fino al punto di tentare persino di diffonderle tra gli abitanti originari di Gaza. In seguito nacquero nuove forme di canzone.

Conservare la tradizione a Gaza

Nel campo profughi di Jabaliya, nel nord di Gaza, Samira Ahmed, 69 anni, e la sua figlia sposata, Sujoud, 36 anni, siedono una vicino all’altra su un divano nel soggiorno. Samira ha difficoltà a ricordare tutte le canzoni che le sono state insegnate dalla defunta madre, sopravvissuta alla Nakba.

Ogni tanto Sujoud ricorda a sua madre qualche canzone, e quando Samira dimentica una parte sua figlia finisce la strofa per lei.

“Nelle occasioni di famiglia come i matrimoni insisto perché ci sia un giorno intero di canzoni tradizionali,” dice Samira. “Ho un tamburo e canto tutte le canzoni che ho imparato. A volte le giovani presenti apprezzano le canzoni e le ripetono con me, altre volte chiedono canzoni moderne,” dice.

Trova che all’inizio le nuove generazioni di ragazze fanno fatica a seguire le canzoni perché sono abituate a quelle moderne, più veloci e con effetti musicali, in altre parole opposte al fluire di quelle tradizionali, che sono lente e prive di ogni altra musica che non sia quella del tamburo.

“Non sono solo canzoni che ripetiamo. Esse rappresentano il nostro orgoglio per la cultura e il folklore con cui i nostri nonni ci hanno cresciuti,” dice Samira a Mondoweiss. “Finché le facciamo rivivere e le rendiamo presenti durante i nostri eventi manterremo sempre la nostra eredità e cultura. Ed è così che conserviamo la nostra patria su ogni altra cosa.”

Samira è cresciuta amando questi canti fin da bambina, quando ascoltava sua madre cantarli durante i matrimoni, dimostrando precocemente un interesse personale. Quando ha avuto una famiglia sua li ha trasmessi ai suoi figli. Ora sua figlia Sujoud sta facendo altrettanto.

Ciononostante Samira teme che questa parte importante della storia della Palestina possa presto andare perduta, in quanto le nuove generazioni si orientano più verso la musica ritmata e moderna. “Difficilmente le persone giovani dimostrano interesse per queste canzoni, ma finché vive anche un solo rifugiato palestinese, non verranno dimenticate,” afferma.

Da parte sua Samira cerca di raccontare aneddoti divertenti riguardo a queste canzoni per avvicinare a loro i giovani, come la storia di una canzone per invocare la pioggia.

“La gente si metteva i vestiti al contrario, usciva nei campi e prendeva con sé un boccale di metallo su cui picchiare e chiedere a Dio la pioggia,” dice.

Questa è la canzone:

“Portaci la pioggia, portaci la pioggia, mio Signore,

per innaffiare le nostre piante rivolte a ovest.

Per favore, bagna le nostre sciarpe, mio Signore,

in modo che abbiamo pane a sazietà.

Per favore, bagna i nostri logori vestiti, mio Signore.

Siamo poveri e non abbiamo nessun luogo in cui andare.

Prima e dopo la Nakba

Per lo più nessuna particolare regione della Palestina è nota esclusivamente per una sua specifica canzone. Piuttosto, alcune canzoni hanno viaggiato in molti luoghi diversi all’interno della Palestina, e poi in ogni luogo le persone vi hanno aggiunto un proprio particolare specifico, rappresentandola attraverso accenti, intonazioni e modifiche del testo caratteristici del luogo. E’ così con molte delle canzoni folkloriche palestinesi.

Haidar Eid, professore di arte e letteratura all’università Al Aqsa di Gaza, raccoglie anche il patrimonio tradizionale che documenta il folklore palestinese e produce musica basata su canzoni tradizionali palestinesi. Un esempio è una canzone sul suo villaggio d’origine, Zarnuqa:

“Se solo la barca mi ha portato qui fosse stata piena di dolci

e avesse attraversato il mare e mi avesse riportato a Zarnuqa.”

Come ricercatore Eid ha scoperto che questa stessa canzone si è diffusa in diverse zone della Palestina, e ognuna di esse ha aggiunto qualcosa di specificamente regionale.

“Ci sono diversi tipi di canzoni e sono cantate in modo diverso nella tradizione palestinese delle canzoni. C’è la zajal, una poesia destinata ad essere cantata in lunghi poemi locali, e il mawwal, un canto prolungato con una voce molto lunga, adatta ad ogni occasione. Ci sono canti nunziali e il tarwidah, di quattro strofe, che comincia come un mawwal e poi inizia la canzone. E ci sono anche canzoni di cordoglio,” spiega Eid.

Una delle canzoni più popolari nei campi profughi di Gaza riguarda un innamorato che si lamenta e piange la sua amata con una strofa e la ripete nella successiva con lo stesso ritmo:

“Sono entrato in un bosco e ho cercato una pera – Oh il mio occhio, oh la mia anima.

Ho trovato la mia amata con un scialle in testa – Oh il mio occhio, oh la mia anima.

Fortunato chi può baciare quello scialle – Oh il mio occhio, oh la mia anima.”

Le donne di Gaza cantano questi versi nella stessa tonalità per 20 volte, mentre la cantante solista dice la prima parte il resto delle donne presenti ripete la seconda. I versi vengono detti nel dialetto locale dei palestinesi che hanno vissuto nella loro terra per centinaia di anni prima che gli israeliani li prendessero e uccidessero o espellessero con la forza.

Resistenza e nostalgia per la Palestina

Dopo la Nakba la vita della gente cambiò, e altrettanto fece il loro patrimonio culturale. E come la musica passò a riflettere la situazione della gente di una specifica regione, così ha fatto con i cambiamenti epocali nella lotta e nel modo di vita del popolo palestinese. Dopo la Nakba molte di quelle canzoni iniziarono a mostrare la natura della lotta dei palestinesi dopo il trauma del 1948, compresa la nostalgia per le loro case e terre e il loro diritto al ritorno. Le canzoni che i profughi palestinesi di Gaza iniziarono a diffondere dopo essere fuggiti dalle proprie case e scoprire che si sarebbero stabiliti a Gaza per un periodo imprecisato di tempo esaltarono le virtù dell’eroismo, del sacrificio e della resistenza.

Haidar Eid lo conferma: “Dopo la Nakba le canzoni palestinesi riguardarono la resistenza e il diritto al ritorno. Dopo l’occupazione e la seconda guerra israeliana nel 1967, che portò all’occupazione del resto della Palestina, le canzoni della resistenza si diffusero in tutta la Palestina. La nostalgia per la Palestina produsse sempre più canzoni,” afferma.

Una delle prime canzoni che si diffuse a Gaza dopo la Nakba riguarda un combattente della resistenza che fa una proposta a una ragazza. La canzone viene cantata con la voce della ragazza che chiede alla sua famiglia di accettarlo, anche se lui non ha di che pagare la dote. Nella canzone la ragazza dice:

“Mamma, dammi al combattente anche per niente – Egli entra nel territorio occupato

portando il suo mitra.

Mamma, dammi al combattente anche solo per un braccialetto – Egli entra nel territorio occupato e in ogni contrada.

Mamma, dammi al combattente anche solo per due soldi – Egli entra nel territorio occupato con il suo kalashnikov.

In tutte le canzoni il ritmo è lo stesso.

Tuttavia quella che forse è la canzone palestinese più nota è “Ya Zarif al-Tul”, diffusa in tutta la Palestina storica e nelle comunità palestinesi della diaspora. La canzone è precedente alla Nakba e si diffuse durante il periodo del mandato britannico. Originariamente cantata in riferimento a un anonimo palestinese “alto e bello” (zarif al-tul) che resiste con successo agli attacchi delle forze sioniste contro un villaggio, la canzone si trasformò e prese significati diversi nei decenni successivi alla Nakba.

La storia racconta di un palestinese che era universalmente visto dagli abitanti di un anonimo villaggio palestinese come una brava persona benché fosse uno straniero, e che lavorava come falegname in cambio di un compenso. Poi, quando un giorno una milizia sionista fece irruzione nel villaggio, con i suoi soldi comprò cinque fucili e li distribuì tra i giovani del villaggio che respinsero con successo l’attacco. Quando la milizia sionista tornò per vendicarsi scoppiò una grande battaglia in cui zarif al-tul sarebbe stato ucciso come un martire.

Un articolo di Khalil al-Ali spiega come si trasformò in seguito la leggenda di zarif al-tul:

“Quando la gente del villaggio raccolse i corpi dei martiri non trovò tra loro zarif al-tul, ed egli non era neppure tra i vivi, come se se ne fosse andato. Gli abitanti del villaggio convennero unanimemente che aveva combattuto coraggiosamente e ucciso più di 20 miliziani sionisti, salvando nel contempo alcuni giovani del villaggio. Con il passare dei giorni zafir al-tul divenne la canzone del villaggio: ‘ya zarif al-tul, dove sei andato…il cuore del tuo Paese è pieno di ferite. Ya zarif al-tul, stammi a sentire: hai lasciato il tuo Paese, eppure per te è meglio la Palestina.’”

Questa canzone si è poi trasformata nei versi con cui oggi è nota a molti:

Ya zarif al-tul, stammi a sentire.

Te ne sei andato in terra straniera, ma per te è meglio il tuo Paese.

Temo che te ne andrai, ya zarif, e troverai un’altra casa

Che incontrerai altre persone e mi dimenticherai.”

Nel corso degli anni il significato storico della canzone è stato per lo più dimenticato e oggi molti la intendono semplicemente una canzone che sottolinea l’importanza della propria casa e patria, soprattutto alla luce dell’espulsione provocata dalla Nakba.

Tuttavia ciò che la canzone di zarif al-tul ci dice è la storia della resistenza all’espulsione e all’oppressione. Al-Ali lo spiega bene:

“La storia racconta che negli anni successivi (alla presunta morte dell’anonimo palestinese) egli venne visto tra i rivoluzionari palestinesi (che resistevano alle forze sioniste) a Giaffa (nel 1948). E molte persone giurarono di averlo visto dietro a Jamal Abdul Nasser a Porto Said, ed altri a Gaza, e altri ancora dissero che era a Beirut prima dell’invasione israeliana del 1982… finché è risultato chiaro che zarif al-tul è ogni combattente della resistenza palestinese, e la canzone continua ad essere ripetuta fino ad oggi, con parole diverse da una versione all’altra.”

Questa storia di resistenza è più antica della Nakba, e le è sopravvissuta.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La Gran Bretagna e la Nakba: storia di un tradimento

Avi Shlaim

10 maggio 2023 – Middle East Eye

Un ininterrotto filo conduttore di doppiezza, menzogne e inganni lega la politica estera britannica da Balfour alla Nakba fino a nostri giorni.

La Gran Bretagna creò le condizioni che resero possibile la Nakba palestinese.

Nel 1948 i palestinesi sperimentarono una catastrofe collettiva di dimensioni enormi: circa 530 villaggi vennero distrutti, più di 62.000 case furono demolite, circa 13.000 palestinesi uccisi e 750.000, due terzi della popolazione araba del Paese, furono cacciati dalle proprie case e divennero rifugiati.

Questo fu il momento culminante della pulizia etnica sionista della Palestina.

Nella sua essenza il sionismo è sempre stato un movimento colonialista di insediamento. Il suo fine ultimo era la costruzione di uno Stato ebraico indipendente in Palestina sulla maggior quantità possibile di terra e con quanti meno arabi possibile all’interno dei suoi confini. I portavoce sionisti insistettero costantemente di non avere cattive intenzioni nei confronti degli abitanti arabi del Paese, di volerlo sviluppare a beneficio delle due comunità.

Ma si trattava in buona misura di retorica, kalam fadi in arabo, discorsi vuoti.

Il movimento sionista era spinto dalla logica del colonialismo di insediamento, una modalità di dominazione caratterizzata da quello che lo storico Patrick Wolfe ha denominato “una logica di eliminazione”. I regimi coloniali di insediamento intendono annientare la popolazione nativa, o quantomeno evitarne l’autonomia politica. L’eliminazione della popolazione autoctona è una precondizione per l’espropriazione della terra e delle sue risorse naturali.

Il movimento sionista era assolutamente spietato. Non prevedeva di collaborare con la popolazione araba nativa per il bene comune. Al contrario, intendeva sostituirla. L’unico modo in cui il progetto sionista avrebbe potuto essere realizzato e conservato era l’espulsione di un gran numero di arabi dalle loro case e l’appropriazione della loro terra.

Nel gergo sionista tali sgomberi ed espulsioni vennero ingannevolmente definiti e occultati con un termine meno brutale: “trasferimenti”.

Il cammino verso la statualità

Il colonialismo d’insediamento sionista era intrinsecamente legato alla Gran Bretagna, il principale potere coloniale europeo dell’epoca. Senza l’appoggio della Gran Bretagna il movimento sionista non avrebbe potuto raggiungere il livello di successo che ebbe nella sua impresa di costruire uno Stato.

La Gran Bretagna consentì al suo giovane alleato di lanciarsi nella sistematica appropriazione del Paese. Tuttavia il cammino verso la statualità era tutt’altro che agevole. Dalla sua nascita alla fine del XIX° secolo il movimento sionista incontrò un grande ostacolo sul suo cammino: la terra dei suoi sogni era già abitata da un altro popolo. La Gran Bretagna consentì ai sionisti di superare questo ostacolo.

Il 2 novembre 1917 la Gran Bretagna emanò la nota Dichiarazione Balfour. Prese il nome dal ministro degli Esteri Arthur Balfour e prometteva l’appoggio britannico alla creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina”.

Lo scopo della dichiarazione era il ricorso all’aiuto dell’ebraismo mondiale nell’impegno bellico contro la Germania e l’Impero Ottomano. Venne aggiunto un ammonimento, in base al quale “non sarà fatto nulla che possa danneggiare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina”. Mentre la promessa venne pienamente rispettata, l’ammonimento venne lasciato cadere e dimenticato.

Nel 1917 la zona in precedenza chiamata Palestina era ancora sotto il dominio ottomano. Gli arabi rappresentavano il 90% della popolazione del Paese, mentre gli ebrei erano il 10% e possedevano solo il 2% della terra. La Dichiarazione Balfour era un classico documento coloniale perché accordava diritti nazionali a una piccola minoranza, ma semplici “diritti civili e religiosi” alla maggioranza.

Aggiungendo danno alla beffa, faceva rifermento agli arabi, la grande maggioranza della popolazione, come “comunità non-ebraiche della Palestina”. La resistenza araba al potere britannico fu inevitabile fin dall’inizio.

C’è un detto arabo secondo cui qualcosa che inizia storto tale rimane. In questo caso, in ogni modo, è difficile vedere come l’amministrazione britannica della Palestina avrebbe potuto essere raddrizzata senza incorrere nell’ira dei suoi beneficiari sionisti.

L’11 agosto 1919 Balfour scrisse in un memorandum spesso citato: “Il sionismo, che sia giusto o sbagliato, buono o cattivo, è radicato in tradizioni secolari, in necessità attuali, in speranze future, di importanza molto maggiore dei desideri e pregiudizi dei 700.000 arabi che ora vivono in quella antica terra.”

In altre parole, gli arabi non venivano presi in considerazione, mentre i loro diritti, compreso il diritto naturale all’autodeterminazione nazionale, erano liquidati come nient’altro che “desideri e pregiudizi”.

Nello stesso memorandum Balfour affermò anche che “per quanto riguarda la Palestina, le potenze non hanno fatto alcuna constatazione che non sia evidentemente sbagliata, e nessuna dichiarazione politica che, almeno alla lettera, non abbiano sempre inteso violare.” Non ci potrebbe essere un’ammissione più decisa della duplicità britannica.

Sacra fiducia nella civiltà”

Nel luglio 1922 la Lega delle Nazioni diede alla Gran Bretagna il mandato sulla Palestina. Il compito del potere mandatario era preparare la popolazione locale all’auto-governo e lasciare il potere quando fosse stata in grado di governarsi da sola.

Nella Convenzione della Lega i mandati erano descritti come “una sacra fiducia nella civiltà”. I loro scopi dichiarati erano lo sviluppo del territorio a beneficio della sua popolazione nativa e la trasformazione delle ex-province arabe dello sconfitto Impero Ottomano in moderni Stati-Nazione. In realtà erano poco più di una copertura del neo-colonialismo.

Forti pressioni sioniste indussero la Gran Bretagna a insistere per l’incorporazione della Dichiarazione Balfour nel mandato per la Palestina. Spesso è stato detto che ciò trasformò una vaga promessa britannica in un obbligo legale vincolante. Non è così per due importanti ragioni.

Primo, il mandato contraddiceva l’articolo 22 della Convenzione che richiedeva che la popolazione dell’area coinvolta venisse consultata riguardo alla scelta del potere mandatario. Balfour si rifiutò di consultare gli arabi perché sapeva troppo bene che, se avesse potuto dire la loro, avrebbero veementemente rifiutato il potere britannico.

Secondo, la Gran Bretagna non avrebbe potuto assumere il mandato perché nel 1922 non aveva sovranità sulla Palestina. La potenza sovrana fino al 1924 era la Turchia, erede dell’Impero Ottomano. Questo argomento è stato energicamente proposto dal giurista statunitense John Quigley in un articolo non pubblicato intitolato “Il fallimento britannico nell’attribuire valore giuridico alla Dichiarazione Balfour.” Nel sommario egli riassume il ragionamento nel modo seguente:

Il documento che la Gran Bretagna redasse per governare la Palestina (mandato sulla Palestina) chiedeva la creazione del focolare nazionale ebraico citato nella Dichiarazione Balfour. Tuttavia il governo della Gran Bretagna sulla Palestina, presumibilmente soggetto allo schema mandatario della Lega delle Nazioni, non ebbe mai basi legali. Secondo la sua Convenzione, la Lega delle Nazioni non aveva il potere di attribuire valore giuridico al Mandato sulla Palestina o di dare alla Gran Bretagna il diritto di governarla.

La Gran Bretagna non riuscì a ottenere la sovranità, che era un prerequisito per governare la Palestina o per detenere il mandato. La Gran Bretagna diede spiegazioni diverse in momenti diversi nel tentativo di dimostrare di detenere la sovranità. Le Nazioni Unite non misero in discussione la posizione giuridica della Gran Bretagna in Palestina, ma accettarono la legittimità del mandato sulla Palestina come base per la divisione del Paese. Fino ad oggi il problema dei diritti territoriali nella Palestina storica rimane irrisolto.”

Secondo Quigley la Gran Bretagna non andò mai oltre lo status di occupante belligerante. Nel suo libro del 2022 Britain and its Mandate Over Palestine: Legal Chicanery on a World Stage [La Gran Bretagna e il suo mandato sulla Palestina: inganno giuridico sulla scena mondiale] sviluppa questo argomento con una grande quantità di prove schiaccianti. Inganno non è una parola troppo forte per descrivere il modo in cui la Gran Bretagna manipolò la Lega delle Nazioni per ottenere il potere sulla Palestina o in cui abusò di questo potere per trasformare la Palestina da uno Stato a maggioranza araba a uno a maggioranza ebraica.

L’obbligo di proteggere i diritti degli arabi

L’importanza di includere l’impegno per un focolare nazionale ebraico non può essere sottovalutato. È ciò che differenziò fondamentalmente il mandato sulla Palestina dagli altri mandati per le province mediorientali dell’Impero Ottomano.

Il mandato britannico per l’Iraq, quello francese per Siria e Libano riguardavano tutti la preparazione della popolazione locale all’autogoverno. Il mandato sulla Palestina riguardava il fatto di consentire a stranieri, ebrei da ogni parte del mondo, ma soprattutto dall’Europa, di unirsi ai loro correligionari in Palestina e trasformare il Paese in un’entità nazionale controllata da ebrei.

Il mandato includeva un obbligo esplicito di proteggere i diritti civili e religiosi degli arabi, le “comunità non ebraiche in Palestina”. La Gran Bretagna non protesse affatto questi diritti. Il primo alto commissario britannico per la Palestina, sir Herbert Samuel, era sia ebreo che fervente sionista.

Durante il suo incarico la Gran Bretagna introdusse una serie di ordinanze che consentirono un’illimitata immigrazione ebraica in Palestina e l’acquisizione da parte degli ebrei di terre coltivate per generazioni da palestinesi.

Gli arabi chiesero delle restrizioni all’immigrazione e all’acquisizione di terre da parte degli ebrei. Chiesero anche un’assemblea nazionale democraticamente eletta che sarebbe stata un riflesso della situazione demografica. La Gran Bretagna resistette a tutte queste richieste e impedì l’introduzione di istituzioni democratiche. Le linee guida fondamentali della politica mandataria erano di non concedere elezioni finché gli ebrei non fossero diventati maggioranza.

Nel 1936 scoppiò una rivolta araba contro il dominio britannico sulla Palestina. Fu una rivolta nazionalista che durò fino al 1939. Per reprimerla venne schierato l’esercito britannico, che agì con la massima brutalità e spesso in violazione delle leggi di guerra. I suoi metodi includevano tortura, uso di scudi umani, detenzioni senza processo, draconiane norme d’emergenza, esecuzioni sommarie, punizioni collettive, demolizioni di case, villaggi dati alle fiamme e bombardamenti aerei.

Buona parte di questa violenza non venne diretta solo contro i ribelli, ma contro contadini sospettati di aiutarli e di essere loro complici. La repressione dell’insurrezione da parte dei britannici indebolì gravemente la società palestinese: circa 5.000 palestinesi vennero uccisi, 15.000 feriti e 5.500 incarcerati.

Il tradimento finale dei britannici

L’eminente storico palestinese Rashid Khalidi ha sostenuto, a mio parere in modo convincente, che la Palestina non venne persa alla fine degli anni ’40, come si crede comunemente, ma alla fine degli anni ’30. La principale ragione che fornisce dal suo punto di vista è il danno devastante che la Gran Bretagna inflisse alla società palestinese e alle sue forze paramilitari durante la rivolta araba. Questo argomento viene proposto nel capitolo di Khalidi in un libro co-curato da Eugene Rogan e da me: The War for Palestine: Rewriting the History of 1948 [La guerra per la Palestina: riscrivere la storia del 1948].  

Il tradimento finale dei britannici nei confronti dei palestinesi avvenne mentre la lotta per la Palestina entrava nella sua fase cruciale in seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale. All’epoca la Gran Bretagna si scontrò con i suoi protetti, i sionisti, e gli estremisti tra loro condussero una campagna di terrore destinata a cacciare le forze inglesi dal Paese. L’episodio più noto di questa violenta campagna fu l’attentato nel luglio 1946 contro l’hotel King David a Gerusalemme, che ospitava gli uffici amministrativi britannici, da parte dell’Irgun, l’Organizzazione Militare Nazionale.

In seguito a questo e altri attacchi il governo britannico sotto attacco decise di rimettere unilateralmente il mandato. Il 29 novembre 1947 le Nazioni Unite approvarono una risoluzione per la partizione della Palestina mandataria in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo.

Gli ebrei accettarono la partizione e gli arabi la rifiutarono. Di conseguenza la Gran Bretagna rifiutò di realizzare il piano di partizione dell’ONU in quanto esso non godeva del supporto di entrambe le parti.

Tuttavia c’era un’altra ragione: l’ostilità nei confronti della causa nazionale palestinese. Il movimento nazionalista palestinese era guidato da Hajj Amin al-Husseini, il gran muftì di Gerusalemme, che era in dissenso con i britannici e aveva lasciato il Paese durante la rivolta araba.

Agli occhi degli inglesi uno Stato palestinese era sinonimo di uno Stato del muftì. L’ostilità verso i dirigenti palestinesi e uno Stato palestinese fu pertanto una costante e un fattore caratterizzante nella politica estera britannica dal 1947 al 1949.

Il mandato terminò alla mezzanotte del 14 maggio 1948. L’uscita britannica dalle difficoltà fu incoraggiare un suo sottoposto, re Abdullah di Giordania, a invadere la Palestina allo spirare del mandato, e di conquistare la Cisgiordania, che l’ONU aveva destinato allo Stato arabo. Nel frattempo l’astuto re aveva raggiunto un tacito accordo con l’Agenzia Ebraica per dividere la Palestina tra loro a spese dei palestinesi.

Il tacito accordo era che gli ebrei avrebbero fondato uno Stato ebraico nella loro parte di Palestina, mentre Abdullah avrebbe conquistato il controllo sulla parte araba, e che avrebbero fatto la pace dopo che si fossero calmate le acque.

Falsa neutralità

Durante la guerra civile scoppiata in Palestina nel periodo precedente al 14 maggio, la Gran Bretagna rimase defilata, abdicando alla sua responsabilità di mantenere la legge e l’ordine. La sua falsa neutralità aiutò inevitabilmente la parte sionista, più forte. Durante gli ultimi mesi del mandato, le forze paramilitari sioniste passarono all’offensiva e intensificarono la pulizia etnica del Paese.

La prima grande ondata di rifugiati palestinesi avvenne sotto gli occhi dei britannici. La Gran Bretagna di fatto abbandonò i nativi palestinesi alla mercé dei colonialisti d’insediamento sionisti. In breve la Gran Bretagna creò attivamente le condizioni della fine del suo stesso egocentrismo imperialista, in cui potesse svolgersi la catastrofe palestinese, la “Nakba”. Un filo mai spezzato di doppiezza, menzogne, inganni e imbrogli unisce la politica estera britannica dall’inizio del suo mandato fino alla Nakba.

Il modo in cui il mandato finì fu la peggiore vergogna dell’intera esperienza britannica come principale potenza al governo della Palestina. Dimostrò quanto poco importasse alla Gran Bretagna del popolo che avrebbe dovuto proteggere e preparare all’autogoverno.

Quando la situazione si fece difficile il potere mandatario semplicemente se la diede a gambe. Non ci fu nessun passaggio ordinato del potere a un’entità locale. La “sacra fiducia nella civiltà” venne definitivamente, irreversibilmente e imperdonabilmente brutalizzata e tradita.

Il sogno di lord Balfour diventò un incubo per i palestinesi. Nella coscienza collettiva dei palestinesi la Nakba non è un evento isolato, ma un processo storico continuo. Oggi oltre 5,9 milioni di rifugiati sono registrati dall’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi.

Hanan Ashrawi ha coniato il termine “Nakba continua” per denotare la persistente esperienza palestinese di violenza e spoliazione per mano del colonialismo d’insediamento sionista. In un discorso alla conferenza dell’ONU del 2001 si riferì al popolo palestinese come “una nazione in cattività tenuta in ostaggio da una continua Nakba in quanto la più articolata e pervasiva espressione dell’apartheid, del razzismo e della vittimizzazione persistenti.”

Contraddizioni nella politica britannica

È triste dover aggiungere che nessun governo britannico ha mai chiesto scusa per la parte giocata dalla Gran Bretagna nella castrazione della Palestina storica. Gli ultimi cinque primi ministri conservatori, a cominciare da David Cameron, sono stati tutti accaniti sostenitori di Israele.

Nel 2017, nel centenario della Dichiarazione Balfour, l’allora prima ministra Theresa May affermò che fu “una delle lettere più importanti della storia. Dimostra il ruolo fondamentale della Gran Bretagna nella creazione di una patria per il popolo ebraico. Ed è un anniversario che celebreremo con orgoglio.” Non menzionò affatto le vittime palestinesi di questa importante lettera.

Nel suo libro del 2014 The Churchill Factor [Il Fattore Churchill] Boris Johnson descrive la Dichiarazione Balfour come “bizzarra”, “un documento tragicamente incoerente” e “una squisita opera indicibile del ministero degli Esteri”. Ma nel 2015 in un viaggio in Israele come sindaco di Londra Johnson celebrò la Dichiarazione Balfour come “un’ottima cosa”.

Nell’ottobre 2017, nel suo ruolo di ministro degli Esteri, Johnson avviò una discussione sulla Dichiarazione Balfour alla Camera dei Comuni. Ribadì l’orgoglio britannico per la parte giocata nella creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Nonostante una larga maggioranza per il riconoscimento della Palestina come Stato, si rifiutò di farlo, affermando che non era il momento.

Ciò evidenziò una fondamentale contraddizione al cuore della politica britannica: sostenere la soluzione a due Stati ma riconoscerne solo uno.

Toccò a chi sostituì Johnson, Liz Truss, dimostrare la profonda indifferenza dei politici conservatori inglesi nei confronti della sensibilità palestinese e fino a che punto essi sarebbero arrivati per ingraziarsi Israele e i suoi sostenitori acritici in quel Paese. Durante la sua campagna per l’elezione a leader del partito Conservatore, ventilò l’idea di spostare l’ambasciata britannica da Tel Aviv a Gerusalemme.

Fortunatamente durante i suoi 49 giorni come prima ministra Truss non riuscì a dare seguito a questa idea idiota.

L’attuale politica estera britannica non si è scusata per la Nakba ed è spudoratamente filosionista. Il 21 marzo 2023 un documento programmatico stilato dal governo è stato intitolato “Percorso per le relazioni bilaterali tra Regno Unito e Israele fino al 2030”. Questo documento tratta di commercio e cooperazione in una vasta gamma di settori.

Ma include anche l’impegno britannico a opporsi al deferimento del conflitto israelo-palestinese alla Corte Internazionale di Giustizia, al movimento globale, di base e non violento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per porre fine all’occupazione israeliana e a lavorare per ridurre la supervisione all’ONU su Israele.

In breve, il documento programmatico concede a Israele l’intera gamma di immunità per le sue azioni illegali e i suoi veri e propri crimini contro il popolo palestinese. Come tale, è un fedele riflesso della parzialità filosionista della politica estera britannica nel corso degli ultimi 100 anni.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Avi Shlaim è professore emerito di Relazioni Internazionali all’università di Oxford e autore di “The Iron Wall: Israel and the Arab World” [Il muro di ferro: Israele e il mondo arabo, Il Ponte editore] (2014) e di “Israel and Palestine: Reappraisals, Revisiones, Refutations” [Israele e Palestina: ripensamenti, revisioni, refutazioni] (2009).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Al Center for Jewish History alcuni studiosi ebrei osano parlare della Nakba: fischiati

Philip Weiss

1 maggio 2003 – Mondoweiss

Al Center for Jewish History lo studioso Omer Bartov è stato continuamente interrotto e fischiato quando ha descritto la “brutale” espulsione dei palestinesi durante la Nakba. Alcuni gridavano “vergogna!” e una persona è uscita.

Ieri a New York, in occasione del 75esimo anniversario della fondazione di Israele, al Center for Jewish History [Centro di storia ebraica] si è tenuta una conferenza sugli ebrei americani e il sionismo che ha rivelato la notevole tensione all’interno della comunità ebraica in merito al sionismo. 

Tre oratori hanno voluto parlare della Nakba. C’è stata dell’opposizione e in un caso fischi e urla di “Vergogna.” 

Omer Bartov, docente alla Brown University, ha tenuto una conferenza sull’ “Eredità del 1948” in cui ha descritto l’Olocausto e la Nakba come eventi “insanabili”. Ha detto che, se il sionismo è stato la logica risposta al genocidio degli ebrei in Europa, “dopo la Nakba niente potrebbe sembrare più giusto della richiesta dei palestinesi di poter tornare nelle loro terre, da cui furono brutalmente espulsi.”

Bartov, uno studioso dell’Europa orientale, ha affermato che l’impossibilità di spartire la terra indica la strada verso un futuro democratico: “Smantellare le barriere, ammettere che questa terra potrà essere una patria solo quando sarà finalmente la patria di tutti i suoi abitanti.”

Bartov è stato interrotto e fischiato. È stato riferito che alcuni dei presenti avrebbero urlato “Vergogna!” e che una persona è uscita. Ci sono stati anche dei brontolii quando uno dei relatori ha fatto riferimento a J Street! [associazione di ebrei progressisti USA, ndt.] l’accademica canadese Mira Sucharov all’inizio della sua relazione si è rivolta rispettosamente ai disturbatori per cercare di placarli. Ha poi descritto nei dettagli il bombardamento di Giaffa nell’aprile del 1948, durante il quale 68.000 dei 70.000 abitanti del quartiere di Ajami furono “respinti in mare.” Ha poi osservato che quando i suoi parenti si preoccupano per gli ebrei spinti in mare questo è “letteralmente” quello che è accaduto ai palestinesi nel 1948 prima della fondazione dello Stato. (Un argomento che ho sostenuto anch’io.) 

Sucharov ha poi continuato dicendo che nei suoi corsi fa riferimento all’articolo di Ari Shavit sulla pulizia etnica di Lod (o Lydda) apparso sul New Yorker perché alla fine egli dichiara che rifarebbe tutto da capo per ottenere uno Stato a maggioranza ebraica. Lei fa notare che Shavit serve “su un piatto d’argento,” la posizione sionista.

Eric Alterman è stato ancora più penetrante. Ha detto che i palestinesi non accetterebbero nessuna delle tesi sioniste presentate al Center for Jewish History, e naturalmente nessun palestinese è stato invitato a parlare della loro profonda conoscenza del sionismo. Alterman ha detto che 700.000 palestinesi furono espulsi prima del maggio 1948 dalle milizie sioniste, antesignane dell’esercito israeliano, e che terre e proprietà palestinesi furono poi confiscate dallo Stato e date al Fondo Nazionale Ebraico. 

Alterman ha poi detto: “Tutto della vita dei palestinesi è discriminatorio. E non c’è nulla che noi [ebrei] accetteremmo.” 

Ha poi continuato: “Non hanno diritti. A me va benissimo il divorzio fra ebrei americani e Israele” perché i cosiddetti “valori condivisi” fra le due società sono stati un disastro per l’identità degli ebrei americani. 

Alterman ha anche detto che nella comunità ebraica il racconto dell’Esodo [la fuga dall’Egitto narrata nell’omonimo libro della Bibbia] sta “crollando”. E che, questa è la mia parte preferita, gli ebrei sono stanchi che i “neoconservatori” parlino a nome della comunità. 

Alterman e Sucharov sono stati zittiti dal resto degli oratori. “Non risolveremo noi il 1948,” ha detto un altro relatore, David Makovsky, frase in codice per dire “Per favore, smettete di parlare della Nakba”. 

E così tre docenti di storia ebraica, di cui due sono stati importanti sionisti progressisti, hanno espresso una critica nei confronti di Israele piuttosto blanda in un luogo ebraico e c’è stata una gran rabbia. 

Sucharov ha colto questa tensione quando ha detto di essere stata marginalizzata dalla propria famiglia per la partecipazione a una commissione che discuteva se il termine “apartheid” fosse applicabile a Israele/Palestina. Una zia scandalizzata ha telefonato a un’altra e il “risultato è stato un ostracismo ufficiale.” Sucharov non può più far visita alla zia in Israele e non è stata invitata al suo ottantesimo compleanno. “È molto doloroso.” 

Questo è solo un assaggio di quello che presto succederà alla comunità ebraica. Dal massacro israeliano di Gaza nel 2014 ci sono state tensioni sul sionismo nella comunità ebraica e anche all’interno delle famiglie ebree, al punto che i rabbini evitano a tutti i costi l’argomento. 

Nel 2021, durante l’attacco israeliano contro Gaza, 94 studenti e cantori rabbinici hanno firmato una lettera indirizzata al “cuore della comunità ebraica” lamentando la violenza israeliana e “l’espulsione intenzionale di palestinesi.” Alterman dice che a una conferenza di J Street alcuni di questi studenti hanno detto di aver perso il lavoro a causa della lettera, e che “uno piangeva.” (E io ho riferito che la rabbina Angela Buchdahl, una celebrità, dichiarò che non ne avrebbe assunto nessuno.)

Tale tensione che ribolle non può durare. Le forze sono troppo potenti: Israele è troppo incasinato e non può più essere tollerato dai giovani ebrei. E la lobby israeliana, il sostegno ai politici degli ebrei americani, è semplicemente troppo importante per l’esistenza di Israele. Nessuno cederà senza lottare e sarà ben presto guerra aperta. 

Un giorno i giovani ebrei chiederanno che la Nakba sia nominata e consacrata nelle associazioni progressiste ebraiche americane che hanno armato, e negato, la pulizia etnica. Chiederanno l’accettazione dei palestinesi che descrivono la Nakba come un “genocidio.”

PS. Makovsky ha continuato a offrire una visione edulcorata dei valori israeliani. E per un buon motivo: i “valori condivisi” con gli USA. sono un “pilastro” dell’esistenza di Israele. E così Makovsky asserisce (contro ogni evidenza) che le imponenti proteste per la democrazia in Israele “continueranno fino al prossimo ostacolo: la questione palestinese. Ha detto che il governo USA “ha tentato di fare gol” tre volte nei colloqui di pace e che parte della colpa dei fallimenti va ai palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio e Luciana Galliano)




Cancellazione o resilienza: come la Nakba è giunta a definire l’identità collettiva dei palestinesi

Ramzy Baroud

25 aprile 2023 – Middle East Monitor

Il 15 maggio la Nakba palestinese compirà 75 anni. I palestinesi in tutto il mondo commemoreranno la “Catastrofe” durante la quale, con la minaccia delle armi, circa 800.000 dei loro progenitori furono cacciati dalle loro case e terre e 500 città e villaggi spazzati via dalla faccia della terra dalla pulizia etnica iniziata nella Palestina storica fra la fine del ‘47 e la metà del ‘48.

Lo spopolamento della Palestina è durato mesi, anzi anni, dopo che la si pensava finita. Ma in realtà la Nakba è sempre continuata. A oggi le comunità palestinesi a Gerusalemme Est, nelle colline a sud di Hebron, nel deserto del Naqab e altrove stanno ancora patendo le conseguenze della ricerca di Israele della supremazia demografica. E naturalmente, milioni di rifugiati palestinesi restano apolidi, a loro vengono negati elementari diritti politici e umani.

Nel 2001 l’intellettuale palestinese Hanan Ashrawi in un discorso alla Conferenza mondiale contro il razzismo dell’ONU descrisse in modo appropriato il popolo palestinese come una “una nazione imprigionata ostaggio di una Nakba continua”. Ashrawi poi approfondì e descrisse questa ” Nakba continua” come ” la più complessa e diffusa espressione di colonialismo, apartheid, razzismo e vittimizzazione persistenti.” Ciò significa che non dobbiamo pensare alla Nakba solo come a un evento accaduto in un tempo e luogo definiti.

Sebbene la gigantesca ondata di rifugiati del 1947-48 fosse il risultato diretto della campagna sionista di pulizia etnica ideata con il “Piano Dalet”, il progetto diede ufficialmente inizio a una più ampia Nakba che continua ancora oggi. Il “Piano Dalet” (la lettera “D” nell’alfabeto ebraico) fu intrapreso dai leader sionisti ed eseguito dalle milizie sioniste per sgombrare la Palestina della maggioranza dei suoi abitanti autoctoni. Ebbero successo e, nel fare ciò, spianarono la strada a decenni di violenze e sofferenze subite ancora oggi dal popolo palestinese.

In realtà l’attuale occupazione israeliana e il radicato e razzista regime di apartheid imposto in Palestina non sono semplicemente le conseguenze volute, intenzionali o meno, della Nakba, ma anche le manifestazioni dirette di una Nakba che non è mai veramente finita.

Il fatto che secondo il diritto internazionale i rifugiati palestinesi, indipendentemente dagli eventi specifici che hanno innescato la loro rimozione forzata, abbiano diritti “inalienabili” è ampiamente riconosciuto, sebbene tristemente disatteso. La Risoluzione 194 delle Nazioni Unite rende legalmente impossibile a Israele violare tali diritti. Inoltre, la risoluzione 194 (III) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1948 afferma che “ai rifugiati che vogliano ritornare alle loro case e vivere in pace con i propri vicini deve essere permesso di farlo appena possibile.” Secondo l’ONU ciò doveva essere realizzato “dai governi o dalle autorità responsabili.”

In Israele il governo “responsabile” si è mosso rapidamente per mettersi al riparo da ogni condanna o responsabilità. Documenti “top secret” rinvenuti da ricercatori israeliani e pubblicati sul quotidiano israeliano Haaretz, includono un fascicolo etichettato GL-18/17028. Il documento dimostra come, subito dopo il completamento della prima e maggiore fase di pulizia etnica della Palestina, il primo ministro di Israele David Ben Gurion cercò di “riscrivere la storia”. Per raggiungere il proprio scopo Ben Gurion scelse la più vergognosa di tutte le strategie: incolpò le vittime palestinesi. Ma perché i vittoriosi sionisti si sarebbero preoccupati di temi apparentemente tanto triviali come le narrazioni?

Haaretz aggiunge: “Proprio come il sionismo aveva forgiato una nuova narrazione per l popolo ebraico, in pochi decenni, [Ben Gurion] capì che anche l’altra nazione che era vissuta nel Paese prima dell’avvento del sionismo si sarebbe impegnata a formulare una narrazione sua propria”. Ovviamente questa ” altra nazione ” è il popolo palestinese.

Il punto cruciale della narrazione sionista della pulizia etnica della Palestina fu quindi basato sull’affermazione continuamente ripetuta che i palestinesi se ne erano andati “per scelta “, anche se stava diventando chiaro ai sionisti stessi che “solo in pochi casi gli abitanti avevano abbandonato i villaggi su istruzione dei loro leader [locali] o mukhtar.”

Comunque, anche in questi pochi casi isolati, in tempi di guerra cercare salvezza altrove non è reato e non dovrebbe costare a un/una rifugiato/a il diritto inalienabile di far ritorno alla propria terra. Se la bizzarra logica sionista venisse accolta nel diritto internazionale, allora i rifugiati di Siria, Ucraina, Libia, Sudan e di tutte le altre zone di guerra perderebbero i loro diritti legali alle loro proprietà e cittadinanza nelle rispettive patrie.

Tuttavia la logica sionista non intendeva solo sfidare i legittimi diritti politici del popolo palestinese, ma faceva anche parte integrante di un processo più ampio chiamato dagli intellettuali palestinesi ‘cancellazione’, cioè la sistematica distruzione della Palestina, della sua storia, cultura, lingua, memoria e naturalmente del suo popolo. Questo processo si ritrova già nelle trattazioni dei primi sionisti prima che la Palestina fosse svuotata dei propri abitanti, trattazioni in cui la patria del popolo palestinese era percepita perfidamente come “una terra senza popolo”. La negazione dell’esistenza stessa dei palestinesi è stata espressa numerose volte nella narrazione sionista e continua a essere usata ancora oggi.

Tutto ciò significa che 75 anni di continua Nakba e la negazione del fatto stesso del gigantesco crimine da parte di Israele e dei suoi sostenitori richiedono una comprensione molto più profonda di quello che è successo, e continua a succedere, al popolo palestinese.

I palestinesi devono insistere che la Nakba non è una singola questione politica da discutere o negoziare con Israele o con coloro che sostengono di rappresentarli. “I palestinesi non hanno alcun obbligo morale o legale di assecondare gli israeliani a proprie spese,” ha scritto il famoso storico palestinese Salman Abu Sitta in riferimento alla Nakba e al diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi. “Secondo qualsiasi norma Israele ha l’obbligo di porre rimedio alla monumentale ingiustizia commessa.”

Anzi la Nakba è una storia palestinese del passato, presente e futuro, che racchiude tutto. Non è solo una storia di vittime, ma anche della resilienza palestinese, sumud. È l’unico programma più unificante che riunisce tutti i palestinesi, oltre i limiti di fazioni, politiche o geografia. La Nakba ha finito per definire l’identità collettiva palestinese.

Quindi per i palestinesi la Nakba non è semplicemente una singola data da ricordare ogni anno. È l’intera loro storia, la cui conclusione sarà scritta, a tempo debito, dai palestinesi stessi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)