La pulizia etnica a Masafer Yatta: la nuova strategia di annessione israeliana in Palestina

Ramzy Baroud

1 giugno 2022Palestine Chronicle

La Corte Suprema di Israele ha sentenziato che la regione palestinese di Masafer Yatta, situata sulle colline meridionali di Hebron, debba essere interamente espropriata dall’esercito israeliano e che la popolazione di oltre 1.000 palestinesi sia espulsa.

Questa decisione del 4 maggio non è certo stata una sorpresa. L’occupazione militare israeliana non consiste solo di soldati con armi, ma di sofisticate strutture politiche, militari, economiche e legali, dedicate all’espansione delle colonie ebree illegali e alla lenta, e talvolta per niente lenta, espulsione dei palestinesi.

Quando i palestinesi affermano che la Nakba, o Catastrofe, che ha portato alla pulizia etnica della Palestina nel 1948 e alla fondazione dello Stato di Israele sulle sue rovine, è un progetto ininterrotto e non ancora del tutto compiuto vogliono dire esattamente questo. La pulizia etnica dei palestinesi da Gerusalemme Est e le angherie senza fine contro i beduini palestinesi nel Naqab e ora a Masafer Yatta, testimoniano questa realtà.

Però Masafer Yatta non ha precedenti. Nel caso della Gerusalemme Est occupata, per esempio, Israele ha rivendicato, fallacemente e astoricamente, che Gerusalemme è la capitale eterna e indivisa del popolo ebraico. Ha combinato la narrazione indimostrata con l’azione militare sul posto, seguita da un sistematico processo inteso ad aumentare la popolazione ebraica e a espellere gli originari abitanti autoctoni della città. Concetti come ‘Grande Gerusalemme’ e le strutture legali e politiche, come quella del Piano generale per Gerusalemme 2000 hanno contribuito a trasformare quella che una volta era una maggioranza assoluta palestinese a Gerusalemme in una minoranza in calo.

Nel Naqab obiettivi israeliani simili furono messi in moto già nel 1948 e poi di nuovo nel 1951. Questo processo di pulizia etnica degli autoctoni resta in vigore ancora oggi.

Sebbene la zona di Masafer Yatta faccia parte degli stessi progetti coloniali, la sua unicità deriva dal fatto che è situata nell’Area C della Cisgiordania occupata.

Nel luglio 2020 Israele ha apparentemente deciso di posticipare i propri piani di annessione di quasi il 40% della Cisgiordania, forse temendo una ribellione palestinese e un’indesiderata condanna internazionale. Tuttavia in pratica il piano è continuato.

Inoltre l’annessione completa delle regioni cisgiordane vorrebbe dire che Israele diventerebbe responsabile dell’assistenza a tutte le comunità palestinesi. Come Stato coloniale qual è Israele vuole la terra, ma non la gente. Secondo i calcoli di Tel Aviv l’annessione senza l’espulsione della popolazione potrebbe portare a un incubo demografico, perciò Israele ha bisogno di reinventare il suo piano di annessione.

Sebbene abbia in teoria ritardato l’annessione de jure, Israele ha continuato una forma di annessione de facto che ha ottenuto scarsa attenzione dai media internazionali.

La sentenza della Corte israeliana su Masafer Yatta, che è già in corso di esecuzione con l’espulsione della famiglia Najjar  l’undici maggio [ vedi l’articolo di Zeitun], è un passo importante verso l’annessione dell’Area C. Se Israele può sfrattare senza ostacoli gli abitanti di dodici villaggi, con una popolazione di oltre 1.000 palestinesi, si possono prevedere altre espulsioni simili, non solo a sud di Hebron, ma in tutti i territori della Palestina occupata.

Gli abitanti palestinesi dei villaggi di Masafer Yatta e i loro rappresentanti legali sanno molto bene che non si può ottenere nessuna vera ‘giustizia’ dal sistema legale israeliano. Comunque loro continuano a combattere la battaglia legale nella speranza che un insieme di fattori, inclusa la solidarietà in Palestina e la pressione dall’esterno, possa alla fine riuscire a costringere Israele a ritardare la sua pianificata distruzione ed ebraicizzazione dell’intera regione.

Comunque sembra che gli sforzi palestinesi in corso dal 1997 stiano fallendo. La sentenza della Corte Suprema di Israele è fondata sulla teoria erronea e totalmente bizzarra che i palestinesi di quella zona non possano dimostrare di essere stati lì prima del 1980 quando il governo israeliano decise di trasformare l’area nella ‘Zona di tiro 918’.

Sfortunatamente la difesa palestinese era basata in parte sui documenti dell’epoca giordana e sui quelli ufficiali delle Nazioni Unite che avevano riferito di attacchi israeliani contro parecchi villaggi nell’area di Masafer Yatta nel 1966. Il governo giordano, che ha amministrato la Cisgiordania fino al 1967, aveva risarcito alcuni degli abitanti per la perdita delle loro ‘case di pietra’, non tende, bestiame e altre proprietà che erano state distrutte dall’esercito israeliano. I palestinesi hanno tentato di usare queste prove per dimostrare di essere vissuti lì non come popoli nomadi, ma come comunità stanziali. Questo non ha convinto la corte di Israele, che ha dato la preminenza alla tesi dell’esercito rispetto ai diritti della popolazione nativa.

Le zone di tiro israeliane occupano circa il 18% dell’intero territorio della Cisgiordania. È uno dei vari trucchetti usati dal governo israeliano per avanzare un diritto legale sulla terra palestinese e poi, anni dopo, per rivendicare anche la proprietà legale. Esistono molte di queste zone di tiro nell’Area C, e sono uno dei metodi con cui Israele mira ad appropriarsi ufficialmente della terra palestinese con il sostegno dei suoi tribunali.

Ora che l’esercito israeliano è riuscito a confiscare Masafer Yatta, una regione che si estende da 32 a 56 km2, basandosi su pretesti totalmente inconsistenti, sarà molto più facile assicurarsi la pulizia etnica di molte comunità simili in varie parti della Palestina occupata.

Mentre i dibattiti e la copertura mediatica dello schema di annessione israeliano in Cisgiordania e nella Valle del Giordano si sono decisamente ridotti, Israele sta ora preparando un processo di annessione graduale. Invece di impossessarsi del 40% della Cisgiordania in una sola volta, Israele sta ora annettendo separatamente tratti di territorio più piccoli e regioni come Masafer Yatta. Tel Aviv finirà per collegare tutte queste aree tramite circonvallazioni solo per ebrei verso le colonie ebraiche più grandi in Cisgiordania.

Questa strategia alternativa non solo permette a Israele di evitare critiche internazionali, ma, prima o poi, consentirà di annettere i territori palestinesi e allo stesso tempo sfrattare sempre più palestinesi, contribuendo a far sì che Tel Aviv possa prevenire squilibri demografici prima che si verifichino.

Ciò che sta succedendo a Masafer Yatta non è solo il più grande piano di pulizia etnica mai portato avanti da Israele dal 1967, ma potrebbe essere considerato il primo passo di una più vasta strategia di appropriazione illegale di territori, pulizia etnica e massiccia annessione formale.

A Masafer Yatta Israele non deve riuscirci perché se così fosse il suo progetto originario di massiccia annessione diventerebbe realtà in brevissimo tempo.

Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri, l’ultimo curato con Ilan Pappé è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out”. (La nostra visione per la liberazione: leader palestinesi e intellettuali impegnati fanno sentire la propria voce). Il prof. Baroud è ricercatore non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Diritto al ritorno: la Nakba torna nell’agenda palestinese

Ramzy Baroud

23 maggio 2022 – Middle East Monitor

La Nakba è tornata all’ordine del giorno nei programmi palestinesi.

Per circa trent’anni ai palestinesi è stato detto che la Nakba – o Catastrofe – apparteneva al passato. La vera pace richiede compromessi e sacrifici: perciò il peccato originale che ha portato alla distruzione della loro patria storica doveva essere integralmente rimosso da qualunque discorso politico ‘pragmatico’. Erano esortati ad andare avanti.

Le conseguenze di questo cambiamento nella narrazione sono state molto gravi. Disconoscere la Nakba, l’evento più importante che ha plasmato la moderna storia della Palestina, ha comportato più della divisione politica tra i cosiddetti radicali e i presunti pragmatici amanti della pace, come Mahmoud Abbas e la sua Autorità Nazionale Palestinese. Ha anche portato alla divisione delle comunità palestinesi in Palestina e in tutto il mondo relativamente alle impostazioni politiche, ideologiche e di classe.

Dopo la firma degli Accordi di Oslo nel 1993 divenne chiaro che la lotta dei palestinesi per la libertà si stava totalmente ridefinendo e ridelineando. Non si trattava più di una lotta palestinese contro il sionismo e il colonialismo di insediamento israeliano risalente all’inizio del XX secolo, ma di un ‘conflitto’ tra due parti uguali, con uguali legittime rivendicazioni territoriali, che può essere risolta solo attraverso ‘dolorose concessioni’.

La prima di tali concessioni fu l’esclusione della questione centrale del Diritto al Ritorno per i rifugiati palestinesi espulsi dai loro villaggi e città nel 1947-48. Quella Nakba palestinese spianò la strada all’ ‘indipendenza’ di Israele, che venne dichiarata sulle macerie e il fumo di circa 500 villaggi e città palestinesi distrutti e bruciati.

All’inizio del ‘processo di pace’ ad Israele fu chiesto di onorare il diritto al ritorno dei palestinesi, anche se simbolicamente. Israele rifiutò. I palestinesi furono quindi spinti a rimandare quella questione fondamentale a ‘negoziati sullo status finale’, che non si tennero mai. Ciò significò che milioni di rifugiati palestinesi – molti dei quali vivono tuttora in campi profughi di Libano, Siria e Giordania, come anche nei territori palestinesi occupati – furono totalmente esclusi dal dibattito politico.

Non fosse stato per le costanti attività sociali e culturali degli stessi rifugiati, che insistevano sui loro diritti e insegnavano ai loro figli a fare lo stesso, termini quali Nakba e Diritto al Ritorno sarebbero stati del tutto cancellati dal lessico politico palestinese.

Mentre alcuni palestinesi rifiutarono la marginalizzazione dei rifugiati, sostenendo che il problema fosse politico e non meramente umanitario, altri furono disponibili a procedere come se questo diritto fosse irrilevante. Diversi dirigenti palestinesi legati al ‘processo di pace’ ora defunto affermarono esplicitamente che il Diritto al Ritorno non era più una priorità palestinese. Ma nessuno neppure si avvicinò al modo in cui lo stesso presidente dell’ANP Abbas configurò la posizione palestinese in un’intervista del 2012 al Canale 2 israeliano.

La Palestina oggi per me è quella dei confini del 1967, con Gerusalemme est come sua capitale. Così è ora e per sempre…Questa è per me la Palestina. Io sono un rifugiato, ma vivo a Ramallah”, disse.

Abbas aveva completamente torto, ovviamente. Che lui volesse esercitare il proprio diritto al ritorno o no, quel diritto, in base alla Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è semplicemente “inalienabile”, il che significa che né Israele, né gli stessi palestinesi possono negarlo o rinunciarvi.

Tralasciando la mancanza di integrità intellettuale nel separare la tragica realtà del presente dalla principale causa che ne sta alla radice, Abbas mancò anche di intelligenza politica. Con il suo ‘processo di pace’ in difficoltà e in assenza di qualunque concreta soluzione politica, semplicemente decise di abbandonare milioni di rifugiati negando loro la speranza di vedersi restituire le proprie case, la propria terra o la propria dignità.

Da allora Israele, insieme agli Stati Uniti, ha combattuto i palestinesi su due diversi fronti: primo, negando loro ogni prospettiva politica e, secondo, tentando di annullare i loro diritti storicamente sanciti, soprattutto il Diritto al Ritorno. La guerra di Washington contro l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, UNRWA, rientra nella seconda categoria in quanto lo scopo era, e resta, proprio la distruzione delle infrastrutture giuridiche e umanitarie che consentono ai rifugiati palestinesi di considerarsi un insieme di persone che anelano al rimpatrio, alla riparazione e alla giustizia.

Eppure tutti questi tentativi continuano a fallire. Molto più importante delle personali concessioni di Abbas ad Israele, del bilancio dell’UNRWA in costante calo o dell’insuccesso della comunità internazionale nel ripristinare i diritti dei palestinesi, è il fatto che il popolo palestinese ancora una volta si stia riunificando in occasione dell’anniversario della Nakba, ribadendo così il Diritto al Ritorno per i sette milioni di rifugiati in Palestina e nella diaspora (shattat).

Per ironia della sorte, è stato Israele a riunificare inconsapevolmente i palestinesi intorno alla Nakba. Rifiutando di concedere neanche un metro di Palestina, per non parlare di concedere ai palestinesi di rivendicare alcuna vittoria, un proprio Stato – demilitarizzato o no – o di permettere ad un singolo rifugiato di tornare a casa, ha costretto i palestinesi ad abbandonare Oslo e le sue tante illusioni. L’argomentazione un tempo usuale che il Diritto al Ritorno fosse semplicemente ‘inapplicabile’ non conta più, né per la gente comune di Palestina, né per i suoi intellettuali o le sue elite politiche.

Secondo la logica politica, se qualcosa è impossibile, deve esserci un’alternativa praticabile. Tuttavia, mentre la realtà palestinese va peggiorando sotto il sempre più pesante sistema di colonialismo di insediamento e di apartheid israeliano, ora i palestinesi comprendono di non avere una possibile alternativa se non la loro unità e resistenza e il ritorno ai principi fondamentali della loro lotta. L’Intifada dell’Unità dello scorso maggio è stata l’apice di questa nuova consapevolezza. Inoltre le manifestazioni di commemorazione dell’anniversario della Nakba e gli eventi in tutta la Palestina e nel mondo il 15 maggio hanno ulteriormente contribuito a definire la nuova narrazione secondo cui la Nakba non è più un fatto simbolico e il Diritto al Ritorno è la richiesta collettiva e fondamentale della maggioranza dei palestinesi.

Oggi Israele è uno Stato di apartheid nel vero senso del termine. L’apartheid israeliano, come ogni simile sistema di separazione razziale, mira a proteggere i frutti di quasi 74 anni di folle colonialismo, furto di terra e dominio militare. I palestinesi, ad Haifa, Gaza o Gerusalemme, ora lo comprendono appieno e stanno tornando a lottare sempre più come un’unica nazione.

E poiché la Nakba e la successiva pulizia etnica dei rifugiati palestinesi sono il denominatore comune di tutte le sofferenze dei palestinesi, il termine e le sue fondamenta tornano ad essere al centro di ogni significativa discussione sulla Palestina, come avrebbe sempre dovuto essere.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Per gli israeliani è impossibile vedere un futuro

Gideon Levy

23 maggio 2022-Middle East Eye

Una società non può andare lontano con la testa nella sabbia e sicuramente non sarà in grado di far fronte alle sfide concrete che deve affrontare

Se c’è una cosa che manca completamente nell’agenda pubblica in Israele è una visione a lungo termine. Israele non guarda avanti, nemmeno di mezza generazione.

I bambini sono importanti in Israele e il tempo e l’energia a loro dedicati di solito superano largamente ciò che è normale in gran parte delle altre società, eppure nessuno parla di ciò che attende loro o i loro futuri figli.

Non c’è un solo israeliano, nemmeno uno, che sappia dove sia diretto il suo Paese.

Chiedi a qualsiasi israeliano o a qualunque politico, giornalista o scienziato, del centro, di destra o di sinistra: dove si sta andando? Come sarà il tuo Paese tra 20 anni? O 50? Non riescono nemmeno a immaginare come potrebbe essere tra 10 anni. Pochi israeliani potrebbero dire persino dove vorrebbero che il loro paese andasse, a parte slogan vuoti su pace, sicurezza e prosperità.

Domanda inquietante

Anche molto significativa è l’unica domanda che sorge sul lungo termine: Israele esisterà ancora tra 20 o 50 anni? Solo questo sentirai chiedere in Israele sul futuro. E poi l’altra domanda: ci sarà mai la pace? – che una o due generazioni fa era onnipresente, non è più all’ordine del giorno e quasi mai viene posta.

Ci sono pochissimi posti in cui le persone si chiedono se il loro paese esisterà o meno tra qualche decennio. La gente non se lo chiede in Germania o Albania, o in Togo o in Ciad. Questa domanda potrebbe non essere pertinente nemmeno per Israele: una potenza regionale potentemente armata, straordinariamente ben piazzata nel contesto internazionale, con tali abilità tecnologiche e prosperità, beniamina dell’Occidente…

Eppure pensate a come tanti israeliani continuino a porsi questa domanda, ultimamente più che mai. Notate gli incredibili sforzi che gli israeliani fanno per ottenere un secondo passaporto per sé stessi e per i loro figli: qualsiasi passaporto! Che sia portoghese o lituano, l’importante è avere qualche opzione oltre al passaporto israeliano, come se un passaporto israeliano fosse una specie di permesso temporaneo prossimo alla data di scadenza, come se non fosse possibile rinnovarlo per sempre.

 Tutto ciò suggerisce che l’abitudine israeliana di nascondere la testa sotto la sabbia riguardo al futuro del proprio Paese mascheri una paura radicata, e forse molto realistica, su ciò che il futuro potrebbe riservare. Gli israeliani hanno paura del futuro del loro Paese. Si vantano della potenza e delle capacità del loro Paese, una nazione giusta, un popolo eletto, una luce per le nazioni; sono estremamente vanagloriosi del loro esercito, delle proprie abilità, mentre allo stesso tempo una paura primordiale rode loro le viscere.

Il futuro del loro paese gli è oscuro, avvolto nella nebbia. A loro piace parlare in termini religiosi di eternità, di “una Gerusalemme unita per l’eternità” e “l’eterna promessa di Dio a Israele”, mentre in fondo non hanno idea di cosa accadrà al loro Paese domani o, al più tardi, dopodomani.

L’autoinganno non fornisce risposte

Il gioco si chiama repressione, negazione, auto-illusione in scala sconosciuta a qualsiasi altra società possa venire in mente. Proprio come per la maggior parte degli israeliani non esiste l’occupazione, e sicuramente non c’è apartheid, nonostante la montagna di prove sia sempre più alta, così, per la maggior parte degli israeliani, il domani non è una cosa reale. In Israele il domani non è una cosa reale in termini di ambiente o cambiamento climatico; il domani non è una cosa reale in merito ai rapporti con l’altra Nazione che vive accanto a noi con il nostro ginocchio sulla gola.

Provate a chiedere agli israeliani come sarà un giorno qui con una maggioranza palestinese tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, e nel migliore dei casi non otterrai altro che una scrollata di spalle. Dove sta andando tutto questo? Vivremo per sempre con le armi? Ne vale la pena?

Quello che scoprirete – pensate! – è che gli israeliani non si sono sinora mai posti questa domanda e peraltro nessuno gliel’ha mai chiesto. La loro espressione vi dirà che non hanno mai sentito una domanda così strana. In ogni caso non ci sarà risposta. Gli israeliani non hanno risposta.

Questa situazione è molto malsana, ovviamente. Una società non può andare lontano con la testa sepolta nella sabbia e sicuramente non sarà in grado di far fronte alle sfide che deve affrontare nella realtà. L’occupazione, che più di ogni cosa è ciò che definisce Israele oggi, presenta molte sfide – con le quali Israele rifiuta di fare i conti. Cosa accadrà con l’occupazione? Dove porterà le due società, occupante e occupata, israeliana e palestinese? Può l’occupazione andare avanti per sempre?

Fino a poco tempo fa ero convinto che l’occupazione non potesse durare per sempre. La storia ci ha insegnato che un popolo che lotta per essere libero di solito vince e che i regimi marci, come l’occupazione militare del popolo palestinese da parte di Israele, collassano su se stessi sgretolandosi dall’interno a causa della decadenza che inevitabilmente li pervade. Ma mentre l’occupazione israeliana si trascina e la sua fine si allontana continuamente, dei dubbi stanno lacerando la mia un tempo ferma convinzione che presto sarebbe sicuramente accaduto qualcosa che avrebbe fatto cadere l’occupazione, come un albero che sembra robusto ma all’interno è marcio.

Il caso più spaventoso è quello dell’America e dei nativi americani, storia di una conquista diventata permanente, con i conquistati ammassati in riserve dove hanno indipendenza e autodeterminazione solo in teoria e i loro diritti come cittadini vengono ignorati.

Occupazione senza fine

In altre parole, ci sono per davvero occupazioni che vanno avanti all’infinito, sfidando la statistica e tutte le previsioni, persistendo e durando fino a quando il popolo conquistato smette di essere una nazione e diventa una curiosità antropologica che vive nella sua gabbia in una riserva. Questo accade quando l’occupazione è particolarmente potente e i vinti sono particolarmente deboli e il mondo perde interesse per il loro destino. Un futuro del genere ora incombe sui palestinesi. Si trovano nel momento più pericoloso dalla Nakba nel 1948.

Divisi, isolati, privi di una leadership forte, sanguinanti ai margini della strada, stanno perdendo lentamente il loro bene più prezioso: la solidarietà che hanno suscitato in tutto il mondo, soprattutto nel sud del mondo.

Yasser Arafat era un’icona globale; non c’era posto sulla terra in cui il suo nome non fosse noto. Nessun leader palestinese oggi nemmeno gli si avvicina. Peggio ancora, la causa palestinese sta gradualmente scomparendo dall’agenda mondiale poiché questa ruota su questioni urgenti come la migrazione, l’ambiente e la guerra in Ucraina. Il mondo è stanco dei palestinesi, il mondo arabo si è stancato di loro molto tempo fa e gli israeliani non si sono mai interessati a loro. Ciò potrebbe ancora cambiare, ma le tendenze attuali sono profondamente scoraggianti.

Un’altra Nakba sul modello del 1948 non sembra un’opzione realistica per Israele al momento attuale; la seconda è una Nakba continua, insidiosa e strisciante ma senza drammi eclatanti. C’è certamente qualcuno in Israele che si trastulla con l’idea che dietro il paravento di una qualche guerra futura, Israele potrebbe “finire il lavoro” completato solo in parte nel 1948. Voci minacciose in questa chiave hanno risuonato più forte ultimamente, ma rimangono una minoranza nel discorso pubblico israeliano.

Continuare con gli insediamenti? Perchè no?. Alla maggior parte degli israeliani semplicemente non importa. Non sono mai stati negli insediamenti, non ci andranno mai e non gli importa proprio nulla se Evyatar viene evacuato oppure no.

La lotta si è spostata da tempo sul fronte internazionale. Il passaggio cruciale verrà solo da lì, come è successo in Sud Africa. Ma una parte del mondo ha semplicemente perso interesse, e il resto si aggrappa alla formula della soluzione a due Stati come se fosse sancita da un editto religioso. Eppure, la maggior parte dei decisori sa già che la soluzione dei due Stati è morta da tempo, se mai in effetti è stata viva e vegeta.

La strada è l’uguaglianza

L’unica via d’uscita da questa impasse sconfortante è creare un nuovo discorso, un discorso di diritti e di uguaglianza. Le persone devono smettere di ripetere gli slogan degli anni passati e abbracciare una nuova visione. Per la comunità internazionale, questo dovrebbe essere ovvio; per gli israeliani e, in misura minore, i palestinesi, l’idea è rivoluzionaria, spaventosa ed estremamente dolorosa.

Uguaglianza. Pari diritti dal fiume al mare. Una persona, un voto. Così semplice eppure così rivoluzionario. Questo percorso richiede un distacco dal sionismo e il rifiuto della supremazia ebraica, di abbandonare interamente l’autodeterminazione di entrambi i popoli, ma rappresenta l’unico raggio di speranza.

In Israele fino a pochi anni fa questa idea era considerata sovversiva e illegittima, un tradimento. È ancora vista così, ma con relativamente meno vigore. È diventata esprimibile. Ora spetta alle società civili occidentali e poi ai politici abbracciare il cambiamento. La maggior parte di loro sa già che questa è l’unica soluzione rimasta, ma ha paura ad ammetterlo per non perdere la formula magica di una continua occupazione israeliana fornita dall’ormai morta soluzione dei due Stati.

Il presente è profondamente scoraggiante, il futuro non è da meno. E tuttavia persistere nel pensare che si possa ancora sperare in qualcosa, che si possa ancora intraprendere qualche azione è della massima importanza. La cosa peggiore che potrebbe accadere in questa parte del mondo sarebbe che tutti perdessero interesse per ciò che accade qui e si rassegnassero alla realtà attuale. Questo non deve succedere.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele arresta due palestinesi sospettati di un accoltellamento mortale

Redazione di Al-Jazeera

8 maggio 2022-Al Jazeera

I due sospetti sono stati arrestati in un’area boschiva vicino al luogo dell’attacco nell’insediamento di Elad, dopo una caccia all’uomo durata tre giorni.

Le forze israeliane hanno arrestato due palestinesi sospettati di aver ucciso tre persone in un attacco a coltellate la scorsa settimana nell’insediamento di Elad vicino a Tel Aviv.

I due palestinesi, identificati come Asad Yussef al-Rifai, 19 anni, e Subhi Imad Sbeihat, 20 anni, sono stati arrestati nei pressi di una cava non lontano da Elad a seguito di una vasta caccia all’uomo.

Domenica la polizia, l’esercito e l’agenzia di sicurezza interna in una dichiarazione congiunta hanno affermato “I due terroristi che hanno ucciso tre civili israeliani nell’attacco omicida a Elad sono stati catturati”.

Il primo ministro Naftali Bennett ha dichiarato: “Abbiamo detto che avremmo catturato i terroristi e così abbiamo fatto”.

Testimoni oculari hanno riferito al sito di notizie Maan che in seguito forze israeliane dotate di veicoli militari hanno fatto irruzione nelle loro case nel villaggio di Rummaneh a ovest di Jenin.

Giovane palestinese ucciso

Secondo il Ministero della Salute palestinese domenica sera le forze israeliane hanno ucciso a colpi di arma da fuoco un giovane palestinese vicino al posto di blocco militare di Jabara a sud di Tulkarem nella Cisgiordania occupata.

Il giovane è stato identificato come Mahmoud Sami Khalil, secondo l’agenzia di stampa palestinese Wafa.

Gli accoltellamenti di giovedì sono avvenuti in quello che Israele celebra come il suo Giorno dell’Indipendenza.

Per i palestinesi l’anniversario della dichiarazione di indipendenza di Israele nel 1948 segna la Nakba, o catastrofe, quando almeno 750.000 persone furono espulse violentemente dalle loro case e dai loro villaggi nella Palestina storica.

Elad, una città ebraica ultra-ortodossa, è costruita sui resti del villaggio palestinese al-Muzayriyah, che fu etnicamente ripulito e distrutto nel luglio 1948.

Le forze israeliane affermano che almeno altri quattro sono rimasti feriti nell’attacco con ascia e coltello.

Stefanie Dekker di Al Jazeera, che riporta da Gerusalemme Ovest, ha detto che sono stati trovati in una zona boscosa di Elad.

Non è la prima volta che questo tipo di attacchi viene effettuato in una città israeliana. Ce ne sono stati sei, sette negli ultimi due mesi”, ha detto Dekker.

“La valutazione delle forze di sicurezza interna israeliane è che questo tipo di attacchi sono effettuati a livello individuale, il che li rende molto più difficili da prevenire”, ha affermato.

“Questa è sicuramente una preoccupazione che si trascinerà nel futuro”.

Aumento delle tensioni

L’accoltellamento è stato l’ultimo di una serie di assalti mortali nel cuore del Paese durante ultime settimane. È accaduto quando le tensioni israelo-palestinesi erano già state acuite dalla violenza e dalle ripetute incursioni delle forze israeliane nel complesso della moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo più sacro dell’Islam.

In una dichiarazione il Ministro della Pubblica Sicurezza Omer Barlev ha affermato: “Continueremo a dare la caccia con determinazione in ogni momento a quelli che vogliono farci del male e li prenderemo.”

Mentre le forze armate perlustravano l’area alla ricerca degli uomini, la polizia ha invitato la gente a liberare l’area e ha esortato gli israeliani a denunciare veicoli o persone sospette.

La polizia ha detto che gli attaccanti provenivano dalla città di Jenin nella Cisgiordania occupata, la città è riemersa come un punto focale [era stata protagonista della seconda intifada, ndtr.] nell’ultima ondata di violenza, la peggiore che Israele abbia visto da anni. Molti aggressori arrivavano da Jenin.

Quasi 30 palestinesi sono morti nelle violenze succedute da marzo, tra cui una donna disarmata e due passanti. Le organizzazioni per i diritti umani affermano che Israele usa spesso una forza eccessiva con poca o nessuna responsabilità.

Almeno 18 israeliani sono stati uccisi in cinque attacchi, tra cui un altro accoltellamento nel sud di Israele, due sparatorie nell’area di Tel Aviv e colpi di armi da fuoco lo scorso fine settimana in un insediamento israeliano nella Cisgiordania occupata.

Gli insediamenti israeliani sono considerati illegali secondo le leggi internazionali. I successivi governi israeliani hanno costruito e ampliato insediamenti nei territori palestinesi occupati – una mossa che secondo i palestinesi è mirata al cambiamento demografico.

Ci sono tra 600.000 e 750.000 coloni israeliani che vivono in almeno 250 insediamenti nella Cisgiordania occupata ed a Gerusalemme est.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Nega di essere palestinese o muori

Salman Abu Sitta 

17 marzo 2022 – Middle East Monitor

Nega di essere palestinese o muori.” Questo è il messaggio proposto ai rifugiati palestinesi dall’UNRWA [United Nations Relief and Works Agency, ossia Agenzia dell’ONU per il Soccorso e il Lavoro per i rifugiati palestinesi, ndtr.]. È un messaggio incredibilmente scioccante, contrario al diritto internazionale e al mandato stesso dell’UNRWA. L’UNRWA ha ceduto al ricatto americano per conto di Israele: tagliare i fondi a meno che la Palestina scompaia dai libri e dalla memoria.

Questa è la scoperta a cui siamo arrivati dopo il primo incontro con le scuole UNRWA e, tra tutti i posti, proprio in quelle a Gaza.

A settembre dell’anno scorso la Palestine Land Society [Società Palestinese della Terra] aveva lanciato un concorso fra studenti delle scuole superiori a Gaza con il titolo “Questo è il mio villaggio.” Gli studenti dovevano scrivere un tema sulle loro origini in Palestina, fare una ricerca sulle proprie radici chiedendo a genitori e nonni dei loro villaggi di origine e di come fossero diventati rifugiati durante la Nakba (Catastrofe), come fossero arrivati nei campi dell’UNRWA e di cosa sia il loro Diritto al Ritorno. Gli studenti dovevano ottenere testimonianze autentiche dalle proprie famiglie e dai vicini, condurre la propria ricerca su altre fonti e aggiungere, se possibile, foto, mappe o ricordi familiari.

Le scuole pubbliche di Gaza hanno accolto l’idea e informato gli studenti. Le scuole dell’UNRWA, per ordine del personale straniero, hanno proibito la distribuzione dei volantini di invito dell’UNRWA.

Sfidando la proibizione, abbiamo chiesto ai volontari di distribuire i volantini agli studenti ai cancelli delle scuole. La risposta è stata straordinaria. Hanno presentato domanda 1800 studenti. Prevedibilmente la maggioranza assoluta proveniva da scuole dell’UNRWA.

Quattro dei cinque finalisti erano rifugiati e provenivano da queste scuole. Alla cerimonia di premiazione i rappresentanti dell’UNRWA non si sono presentati. Assolutamente vergognoso!

In tutte le scuole abbiamo distribuito mappe della Palestina che mostrano i villaggi svuotati dei loro abitanti e quelli esistenti nel 1948. Di nuovo le scuole dell’UNRWA le hanno rifiutate per ordini superiori.

Com’è possibile che l’UNRWA volti le spalle al proprio mandato e violi il diritto internazionale?

La risposta, timida, ma poco convincente, è stata che i donatori americani, su istruzione di Israele, avevano seguito pedestremente la compiacente Unione Europea e proibito riferimenti alla storia e alla geografia palestinesi, a città e villaggi palestinesi, alla Nakba e alla pulizia etnica per evitare il taglio dei fondi ai servizi dell’UNRWA.

Un ricatto odioso: nega di essere palestinese e o morirai di fame o i tuoi figli senza le scuole vagheranno per le strade. Far tacere la Palestina, negare i crimini di guerra della Nakba, rinnegare la propria patria, la Palestina, questo è il prezzo che si deve pagare per un po’ di cibo e la privazione di un’identità, destinati a essere per sempre dei rifugiati. Neanche George Orwell avrebbe potuto immaginare un tale scenario, né Shakespeare nel suo Mercante di Venezia.

Ciò è avvenuto in nome della “Neutralità”, in un documento intitolato Framework for Cooperation between the US and UNRWA 2021-2022 (Cooperation Framework), [Quadro di Cooperazione fra gli USA e l’UNRWA 2021-2022] che equipara vittima e carnefice.

Si sa che questo documento nella sua interezza, inclusi gli allegati, definisce gli impegni fra UNRWA e gli Stati Uniti per il 2021 e il 2022 riguardo agli interventi.

Questo Quadro non costituisce un accordo internazionale e non stabilisce alcun obbligo fra le parti giuridicamente vincolante né in base al diritto internazionale né alle leggi nazionali. L’UNRWA non ha alcuna autorità per firmarlo.

Abbiamo scritto a Philippe Lazzarine, Commissario Generale dell’UNRWA, facendoglielo notare e sottolineando come, nelle scuole dell’UNRWA si impedisca agli studenti di sapere dove siano Majdal, Faluja [due villaggi palestinesi spopolati nel 1947-49 che ora si trovano in territorio israeliano, ndtr.], Isdud [l’attuale città israeliana di Ashdod, ndtr.], di cosa sia la Nakba, della cacciata del proprio popolo e della distruzione di 500 villaggi.

Questa è davvero una guerra senza precedenti contro i rifugiati e contro i palestinesi come popolo. Contrasta con il mandato dell’UNRWA, che dovrebbe essere perseguito, come stabilito dalla Risoluzione 302 dell’Assemblea Generale fermo restando il paragrafo 11 della Risoluzione 194.

Va parimenti contro l’Articolo 29(1) della Convenzione dei Diritti del Fanciullo. Cancellare la storia e geografia dei minori, negando o limitando le loro opportunità e diritti di conoscere i propri villaggi di origine, come siano diventati rifugiati, il loro diritto al ritorno e il motivo per cui è loro negato, viola tutti e cinque i commi dell’Articolo 29(1) della Convenzione.

Inoltre contravviene alle disposizioni contro le discriminazioni della Convenzione per l’Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione Razziale – CERD (articoli 5(e)(v)) e, in base alla Convenzione per la Soppressione e la Punizione del Crimine di Apartheid (articolo 2(c)), è uno degli indicatori dell’apartheid. Fin dagli anni ’80 l’applicabilità ai palestinesi di entrambe le convenzioni è stata ampiamente analizzata dalla commissione ONU della Dichiarazione dei diritti umani (a cominciare dalla CERD) e più recentemente dal rapporto dell’ESCWA [Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale] e dai rapporti di ONG locali e internazionali come Amnesty International, Human Rights Watch e B’tselem.

Lo Statuto di Roma del 1998, la base giuridica della Corte Penale Internazionale, definisce come criminali di guerra anche i complici dei criminali di guerra. Mettere a tacere i crimini di guerra rientra fra queste violazioni. Perciò stendere un velo di silenzio sulla storia e sulla geografia palestinesi è un crimine di guerra.

Abbiamo anche scritto a Moritz Bilagher, direttore ad interim dell’’UNRWA – dipartimento Istruzione, e ad altri funzionari. Ci è stato suggerito di intitolare la mappa della Palestina da distribuire “Palestina storica.” Qui stiamo spaccando il capello in quattro. Etichettare la mappa con la dicitura “Palestina storica” annulla la distinzione fra Palestina come luogo geografico e Palestina come Stato.

La Palestina è la patria dei palestinesi da almeno 2.000 anni. Il suo popolo è conosciuto in tutto il mondo come “palestinesi”, anche nei documenti dell’UNRWA.

La Palestina come Stato è una questione politica, non sta all’UNRWA prendere una decisione in materia. Né la Palestina né Israele come Stati hanno dei confini generalmente riconosciuti, o sono riconosciuti universalmente dagli Stati membri dell’ONU.

I comitati popolari nei campi profughi hanno protestato contro questa azione con modalità che senza dubbio con il tempo si amplieranno. Un gruppo di avvocati di diritto internazionale sta mettendo a punto una memoria ufficiale sul tema che potrebbe portare a una petizione presso il Consiglio per i Diritti Umani.

Noi invitiamo tutti coloro che sono interessati a protestare contro il ricatto USA e l’asservimento dell’UNRWA.

Mandate le vostre proteste a:

UNRWA Commissioner General Philippe LazzarineLazzarini@unrwa.org

UNRWA Acting/ Head, Education Dpt, Moritz BilagherM.bilagher@unrwa.org

UNRWA Head of External Relations, Tamara AlrifaiT.alrifai@unrwa.org

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele mi ha arrestata per aver protestato contro l’assedio di Gaza. Ecco perché rifiuto di essere processata

Neta Golan 

8 marzo 2022 – +972 magazine

Essendo israeliana ci ho messo anni a disimparare il sionismo. Ora la mia solidarietà con i prigionieri palestinesi mi impone di respingere un ordine di comparizione davanti al tribunale

Il 21 febbraio sono andata a piedi da casa mia, nella Città Vecchia di Nablus nella Cisgiordania occupata, in un negozio in centro per faxare una lettera alla pretura di Ashdod [una città del sud di Israele, ndtr.]. Sono stata convocata là dopo il mio arresto nel gennaio 2020 durante una manifestazione contro l’assedio di Gaza. Nella mia lettera comunico di non aver intenzione di comparire all’udienza in solidarietà con i prigionieri palestinesi in detenzione amministrativa che sono in sciopero dal primo gennaio e stanno boicottando il sistema dei tribunali militari in protesta contro questa ingiusta pratica.

Il proprietario del negozio che non aveva idea del contenuto della lettera si è rifiutato di farsi pagare. Essendo vissuta nelle comunità palestinesi per 22 anni mi sono praticamente abituata a questi gesti quotidiani di cortesia e generosità. Sono solo una delle manifestazioni di una invisibile rete di protezione che ho imparato a conoscere e da cui dipendo. Ogni società ha i suoi problemi, ma io mi sento incredibilmente fortunata ad avere l’onore di vivere con i palestinesi.

Ma non è sempre stato così. Crescendo a Tel Aviv in una famiglia di ebrei ashkenaziti [cioè di origine europea, ndtr.] sentivo storie su come noi israeliani fossimo moralmente superiori agli “arabi.” Ogni volta che entravamo in un’area palestinese mio padre ci diceva di stare attenti a borse e tasche. Mia nonna ci metteva in guardia perché “un arabo con una mano ti abbraccia e con l’altra ti pugnala alla schiena,” e mentre eravamo tutti a tavola per cena ci diceva che “l’unico arabo buono è l’arabo morto.”

Quando è scoppiata la Prima Intifada avevo 16 anni. Sapevo molto poco dell’occupazione e nulla della Nakba [l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro case ad opera delle milizie sioniste e dell’esercito israeliano nella guerra del 1947-49, ndtr.], ma capivo che i palestinesi stavano lottando per la loro libertà e che noi, per tutta risposta, li stavamo uccidendo. Quando sono stati firmati gli accordi di Oslo speravo che le cose sarebbero cambiate in meglio e volevo far parte di quel cambiamento. Non potevo immaginare che li avrebbero trasformati in un altro meccanismo per la spoliazione dei palestinesi.

Ho cominciato ad andare in Cisgiordania negli anni ‘90. Il primo anno e mezzo ero terrorizzata ogni volta che salivo su un pulmino palestinese in partenza dalla Gerusalemme Est occupata: ero sicura che tutti quelli intorno a me volessero uccidermi. Ma ogni volta, passata l’ansia, vedevo che non era così. Anzi, non erano per niente interessati a me, avevano altre cose per la testa relative alle loro vite. Ero scioccata nello scoprire che “loro” erano persone come tutti gli altri.

Dopo un lungo processo di analisi della mia paura, mi sono resa conto che, nonostante il fatto che nessuno avesse menzionato la Nakba durante la mia infanzia, alla gente le cui case, tombe e alberi erano tutt’intorno a me era impedito di ritornarci, mentre a me era permesso di stare là al loro posto. Non sorprende che li temessi: è la stessa paura che tutti i colonialisti o beneficiari di sistemi razzisti sviluppano verso le persone che loro hanno cacciato od oppresso.

Da israeliani siamo nati dentro il progetto sionista, che è basato sulla continua espropriazione degli indigeni palestinesi. Ma esistono alternative a questo progetto di sottomissione: noi possiamo vivere accanto ai palestinesi invece che a loro spese. E da cittadini israeliani noi possiamo usare i privilegi a noi concessi dal regime di apartheid per smantellare il sistema di discriminazione e oppressione. Per il bene di tutti quelli che vivono qui, indipendentemente da nazionalità o religione, noi possiamo unirci alla lotta per la liberazione palestinese.

Le politiche di apartheid prosperano nell’oscurità, ma quando noi vi prestiamo la dovuta attenzione cominciano ad afflosciarsi. Ecco perché in tribunale ho parlato del caso di Amal Nakhleh, un diciottenne palestinese affetto da una grave malattia, che da oltre un anno è in detenzione amministrativa. I detenuti amministrativi sono imprigionati per un periodo di tempo indefinito sulla base di “prove segrete” secondo le quali in futuro potrebbero commette un reato. I prigionieri non sono mai processati e né loro né i loro avvocati hanno accesso alle prove.

A gennaio Amal, che partecipa allo sciopero dei detenuti amministrativi palestinesi, ha boicottato la sua convocazione da parte di un tribunale militare israeliano. In sua assenza il giudice ha approvato la richiesta dello Shin Bet [servizio di sicurezza interna di Israele, ndtr.] di rinnovare la sua custodia cautelare fino al 17 maggio, quando potrà essere di nuovo estesa. E così di seguito.

Io ho detto al tribunale che, a differenza di Amal, a me è stata data l’opportunità di andare ad Ashdod per difendermi dalle loro accuse. Ma i diritti che mi sono concessi perché i miei nonni sono immigrati in Palestina dall’Europa sono negati ai palestinesi che vivono nei territori occupati da Israele nel 1967 e ai palestinesi espulsi con la forza dalla loro patria nel 1948, come ai loro discendenti a cui Israele impedisce ancora di ritornare.

Data la mia cittadinanza israeliana se venissi incarcerata avrei il privilegio di essere rilasciata dopo aver scontato la mia pena. Non è così per i due milioni di persone imprigionate negli ultimi 15 anni nella Striscia di Gaza assediata, inclusi circa un milione di minori che sono nati e hanno vissuto tutta la loro vita con la costante minaccia di violenza mortale, il cui solo crimine è quello di non essere nati da madri ebree.

Oppressione e apartheid sono disumanizzanti per le vittime e i carnefici. Godere di privilegi a danno di altri non può essere disgiunto dalla paura, dal razzismo e dall’incessante violenza che li supporta. La giustizia, sotto forma di ritorno e risarcimenti per i rifugiati palestinesi, non libererà solo i palestinesi. Libererà anche noi.

Neta Golan è un’attivista israeliana anti-apartheid e una partecipante attiva di Israelis Against Apartheid (Israeliani contro l’Apartheid), Return Solidarity (Ritorno Solidarietà) e Boycott From Within (Boicottaggio dall’interno). Vive a Nablus con il compagno, le loro figlie e il gatto, il che, per le leggi israeliane di apartheid, è considerato un atto illegale.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il discorso dell’ambasciatrice israeliana a Cambridge è stato interrotto quando gli studenti hanno inscenato un sit-in

Areeb Ullah

8 febbraio 2022 – Middle East Eye

In precedenza Tzipi Hotovely aveva descritto la Nakba come una “menzogna araba” e si era opposta alle rivendicazioni palestinesi sulla Cisgiordania

Impugnando le bandiere della Palestina e cantando “Palestina libera”più di 100 studenti dell’Università di Cambridge hanno manifestato contro l’ambasciatrice israeliana in Gran Bretagna, Tzipi Hotovely, della quale era previsto un discorso martedì alla Cambridge Union

Hotovely, che ha servito come ministro delle colonie sotto l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu, ha parlato alla Cambridge Union mentre all’esterno imperversavano le proteste contro l’ambasciatrice.

La “Union”, un club privato ​​per il quale i partecipanti devono pagare, ha ospitato l’evento nonostante le critiche di una serie di organizzazioni studentesche.

I manifestanti stazionavano fuori dall’edificio della “Union”, dove i partecipanti erano in coda per entrare. Gli organizzatori hanno vietato ai partecipanti di portare borse all’evento e hanno proibito loro di registrare il discorso.

Quando l’evento è iniziato, i manifestanti si sono spostati sul retro dell’edificio, dove era parcheggiato il convoglio dell’ambasciatrice, e hanno bloccato l’ingresso del parcheggio.

I manifestanti hanno portato tamburi e cartelli mentre gridavano slogan tramite un altoparlante come “Palestina libera” e “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”.

Fonti all’interno della “Union” che hanno assistito al discorso hanno riportato a Middle East Eye che il discorso della Hotovely è stato interrotto a causa del rumore proveniente dalle proteste.

I manifestanti hanno quindi organizzato un sit-in e bloccato l’ingresso del parcheggio dove sostava il convoglio dell’ambasciatrice israeliana, mentre la polizia armata di taser cercava di sgomberare i manifestanti.

Opposizione

Gli organizzatori della protesta alla fine hanno ceduto e hanno interrotto il loro sit-in dopo che era stato loro riportato che la protesta era riuscita a interrompere il discorso dell’ambasciatrice.

Hotovely è stata successivamente nascosta da un ombrello e impacchettata nella sua macchina mentre i manifestanti sono rimasti fuori a cantare “vergognati” e “Palestina libera”.

Un portavoce della Cambridge University Palestine Society, che ha voluto rimanere anonimo, ha affermato che la protesta è stata organizzata in opposizione al “sistema” rappresentato da Hotovely.

“Hotovely rappresenta e sostiene un apparato statale che diverse organizzazioni hanno accusato di praticare l’apartheid e crimini contro l’umanità “, ha detto il portavoce a MEE.

Pensiamo che a chiunque rappresenti uno Stato impegnato in pratiche illegali e abusi dei diritti umani non dovrebbe essere dato uno spazio nella nostra città e università. Questa protesta non riguarda solo la condanna di Hotovely come singola persona e per ciò che ha detto, ma vuole rappresentare rifiuto delle pratiche in cui si impegna e rappresenta, come mobilitazioni violente dei coloni contro i palestinesi, le pratiche illegali e le violazioni dei diritti umani”.

‘Solidarietà ebraica’

Anche Chaya Kasif, una studentessa ebrea dell’Università di Cambridge, ha partecipato alla protesta pro-Palestina di martedì contro Hotovely.

Tenendo un cartello che diceva: “Solidarietà ebraica da Gadigal [in Australia] a Gaza”, Kasif ha descritto la sua presenza alla protesta come un’opportunità per mostrare sostegno ai palestinesi.

Il discorso di Hotovely arriva dopo che Amnesty International ha pubblicato un rapporto lungamente atteso che accusa Israele di praticare l’apartheid nei territori palestinesi e in Israele.

L’anno scorso, centinaia di studenti hanno protestato contro la presenza di Hotovely alla London School of Economics, dove ha tenuto una conferenza sul conflitto israelo-palestinese.

Hotovely ha fatto notizia a livello nazionale quando è stato pubblicato online il filmato di lei mentre veniva accompagnata di corsa alla sua macchina mentre gli attivisti studenteschi protestavano contro la sua presenza nel campus.

L’ambasciatrice ha accusato gli studenti di antisemitismo, ma gli studenti hanno risposto affermando che la loro protesta non era razzista.

Da quando è diventata ambasciatrice in UK Hotovely ha cercato la polemica.

Nel 2020, durante un evento ospitato dal consiglio dei rappresentanti degli ebrei britannici [Il Board of Deputies of British Jewish è la più grande organizzazione comunitaria ebraica nel Regno Unito, ndtr.], Hotovely ha affermato che la Nakba, l’espropriazione di massa e l’espulsione dei palestinesi dalle loro case durante la fondazione di Israele, è una “menzogna araba”

Si è anche opposta a qualsiasi pretesa palestinese sulla Cisgiordania, a Gaza o a Gerusalemme est, ha sostenuto l’espansione delle colonie israeliane e si è opposta ai matrimoni misti di ebrei e palestinesi.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Sconfiggere la caccia alle streghe dell’IHRA: un’intervista all’attivista e docente palestinese Shahd Abusalama

Ramona Wadi

7 febbraio 2022 – Mondoweiss

Shahd Abusalama riflette sulla sua ingiusta sospensione dall’università Hallam di Sheffield dovuta a false accuse di antisemitismo e sulla mobilitazione popolare che ha contribuito alla sua riammissione.

L’università Hallam di Sheffield aveva sospeso Shahd Abusalama dal suo incarico di lettrice associata dopo che il mese scorso erano state lanciate contro di lei accuse anonime. L’iniziativa ha provocato un’ondata di appoggi all’accademica palestinese e ha acceso una discussione sul modo in cui governi ed istituzioni sono complici di Israele nell’adottare la definizione di antisemitismo [che negli esempi assimila antisionismo e critiche a Israele all’antisemitismo, ndtr.] dell’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto [ente intergovernativo cui aderiscono 34 Stati, ndtr.] (IHRA) allo scopo di reprimere le critiche a Israele e silenziare la narrazione palestinese.

Abusalama è stata sospesa in seguito ad una serie di tweet in cui esprimeva la propria opinione sull’uso da parte di uno studente del primo anno delle parole “Stop all’olocausto palestinese” in un manifesto del dicembre 2021. ‘Jewish News – UK’ [Il quotidiano gratuito filoisraeliano che si rivolge alla comunità ebraica della zona di Londra, ndtr.] ha riferito che l’università stava indagando sui tweet. Il 21 gennaio, mentre si preparava a tenere una lezione, ad Abusalama è stata notificata la sospensione e la sua lezione è stata annullata. La natura dell’accusa e l’identità di chi stava dietro la denuncia non sono trapelati.

Non è la prima volta che Abusalama, dottoranda ed attivista di Gaza trasferitasi nel Regno Unito nel 2014, è stata presa di mira dai propagandisti sionisti per le sue attività. Parlando a Mondoweiss, Abusalama sottolinea che il suo caso è stato paragonato a quelli di Jeremy Corbyn e David Miller, entrambi bersagli dei sionisti. “Ma occorre fare una distinzione. Sì, si è vittime della stessa caccia alle streghe, ma le conseguenze sono diverse perché viviamo in una società ineguale in cui alcune persone hanno maggiori privilegi di altre. Loro due sono bianchi, anziani ed hanno cittadinanza europea. Io non ho nessuna di queste caratteristiche, sapete. Io sono vulnerabile in così tanti modi che il fatto che la definizione dell’IHRA sia stata usata dall’università per la prima volta contro una palestinese dimostra come noi siamo i più vulnerabili a questa nefasta e subdola definizione.”

Abusalama descrive la campagna contro di lei come malvagia. “Ma mostra anche un modo di agire storicamente ricorrente di come i palestinesi vengono trattati come eccezione alla regola.” I palestinesi, dice, sono trattati come un’eccezione quando si tratta di diritti umani e autodeterminazione, e le azioni dell’università nei suoi confronti hanno ribadito la radicata politica israeliana di razzismo e colonialismo, che fondamentalmente assoggetta i palestinesi, le loro storie e le loro esperienze per mantenere i privilegi concessi ai colonizzatori.

Abusalama ha detto che durante un precedente incontro con il responsabile delle risorse umane dell’università le è stato espresso rammarico per la cattiva gestione della situazione e l’insensibilità verso il benessere degli studenti, le cui lezioni sono state bruscamente annullate. “Infatti non dimentichiamo che la mia sospensione ha implicato che le lezioni sarebbero state annullate fino a nuova comunicazione e quindi anche i miei studenti sono stati colpiti dal comportamento scorretto e dalla risposta da parte dell’università. Il fatto che riconoscano tutti gli errori commessi è un passo nella giusta direzione, ma l’indagine è ancora in corso, perciò tutto questo non è ancora finito. Essa si basa sulla definizione dell’IHRA e l’università ha parlato alla stampa sionista senza prima consultarmi. Si sono letteralmente arresi alla campagna di diffamazione condotta dai media sionisti, comunicando con loro riguardo al mio lavoro senza parlarmene prima e dicendo loro che la mia università stava indagando su di me, senza che io lo sapessi.”

L’immagine che Israele ha costruito nei decenni contando sull’appoggio colonialista si sta lentamente incrinando, grazie alla maggioranza, come Abusalama definisce i palestinesi e gli oppressi. “La pressione popolare funziona e se noi contrattacchiamo possiamo vincere”, sostiene Abusalama, “grazie a tutta questa ondata di sostegno arrivata da ogni parte del mondo – sostenitori di tutte le nazioni, di tutte le fedi, di tutte le razze in tutto il mondo – e questo sostegno è una carta fondamentale nella lotta per la Palestina. Dobbiamo ricordare che siamo la maggioranza e che abbiamo dalla nostra parte la giustizia, le risoluzioni dell’ONU, il diritto internazionale e tutte le convenzioni internazionali – anche la Corte Internazionale di Giustizia è dalla nostra parte. E lo sono persino le organizzazioni israeliane per i diritti umani.”

Certo, l’ondata di sostegno ad Abusalama sulle piattaforme social contrasta con l’attività della lobby sionista, che conta sulle campagne per intimidire e mettere a tacere. Usare come arma la definizione dell’IHRA, che è abbastanza ambigua da rispondere alla strategia politica suprematista israeliana, è una tattica che dovrebbe essere accuratamente analizzata.

Ci sono stati molti timori che la definizione dell’IHRA potesse essere usata per soffocare le critiche a Israele, in particolare prendendo di mira sia persone di nazionalità che sono direttamente coinvolte con le politiche israeliane, come ad esempio la popolazione palestinese o libanese, sia accademici i cui percorsi di ricerca includono analisi delle politiche israeliane. Altri, al di fuori dell’ambito universitario, si sono preoccupati che l’eliminazione delle critiche ad Israele possa condurre alla “censura e cancellazione dell’opposizione palestinese alla violenza che continua a espropriarli.” A questo punto risulta chiaro che, quando le università adottano la definizione dell’IHRA, ciò comporta una partecipazione diretta all’ostilità sionista nei confronti dei palestinesi e delle voci filopalestinesi. Inoltre essa disprezza la memoria collettiva dei palestinesi e l’esperienza vissuta della perdurante Nakba di Israele.

Se chiedete a qualcuno come me se Israele ha un comportamento razzista, è superfluo dire che lo è. Io sono una vittima della loro pulizia etnica. La mia famiglia è una vittima della loro pulizia etnica – 531 villaggi e città palestinesi completamente spopolati dalle loro popolazioni native e distrutti, cosa che è un atto di memoricidio che è denunciato da molte persone, persino da storici israeliani”, dice Abusalama. “Israele cerca disperatamente di arrogarsi il ruolo di vittima, ma solo per distogliere l’attenzione dalla reale vittima del suo crimine e questo è stato denunciato prima della creazione dello Stato.”

Abusalama sottolinea che all’interno del consiglio per le colonie del governo britannico vi erano degli ebrei che si sono schierati contro la costruzione del giudaismo come identità nazionale. “È stata una grande ingiustizia anche solo pensare di costruire uno Stato sionista in cui i palestinesi sarebbero stati del tutto trascurati e questo avvenne contemporaneamente alle promesse britanniche agli arabi sull’autodeterminazione della Palestina. Cosa che era l’orientamento della potenza mandataria in quell’epoca seguente alla prima guerra mondiale: sosteneva di voler condurre quella popolazione occupata all’indipendenza e all’autonomia. Ma, mentre la maggioranza delle comunità colonizzate nel mondo andava verso la decolonizzazione, i palestinesi rimasero bloccati sotto il colonialismo ed il potere coloniale passò dai britannici ad Israele. La Gran Bretagna lasciò la Palestina il 14 maggio 1948, dopo 30 anni di distruzione e colonialismo di insediamento. Trascorsero poche ore tra il ritiro britannico dalla Palestina e la dichiarazione dello Stato di Israele il 15 maggio 1948. Ciò avvenne sullo sfondo della pulizia etnica che schiacciò e distrusse la terra di Palestina ed il suo popolo. E questo processo continua tuttora a Sheikh Jarrah, a Gerusalemme, nella maggior parte dei quartieri di Gerusalemme, a Beita, Hebron e dovunque, anche nel nord della Palestina. Questo è chiarissimo nei rapporti di B’Tselem che condannano l’apartheid israeliano. Un regime di apartheid che si estende dal fiume Giordano al mar Mediterraneo.”

In un contesto di prove storiche della pulizia etnica di Israele e delle perduranti ripercussioni dell’ espansione delle sue colonie di insediamento, ora si criminalizza l’attivismo invece di richiamare Israele alle sue responsabilità in base al diritto internazionale.

Dice Abusalama: “Quando noi diciamo ‘Palestina libera dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo]’ vogliamo dire che queste prassi oppressive dal fiume al mare e anche oltre, come evidenzia il mio caso, devono finire. Devono finire. Ma persino questo bello slogan di liberazione viene tacciato di antisemitismo. Persino ‘la solidarietà è un verbo’ [altro slogan del movimento filo-palestinese, ndtr.] in questa atmosfera è antisemitismo. È preoccupante e deve preoccupare le persone a cui importa qualcosa dell’umanità e dei diritti umani. Nessuno è al sicuro. Nessuno è al sicuro finché continua l’ingiustizia in tutto il mondo. Basta vedere come Israele usa il suo modello di oppressione contro i palestinesi e lo vende ad altri Stati oppressivi perché lo usino contro i diversi che non vogliono avere sul loro territorio.”

Abusalama è stata categorica nel non accettare alcuna inchiesta basata sulla definizione dell’IHRA. “Non accetterò di essere valutata sulla base di falsi presupposti e credo che questa indagine dovrebbe essere lasciata cadere. Si tratta di una motivazione intrinsecamente razzista e fuorviante, che viene imposta alle università da politici al governo qui nel regno Unito, tagliando loro i fondi se non adottano la definizione dell’IHRA. Gavin Williamson, Ministro dell’Istruzione del Regno Unito, ha imposto alle università la definizione dell’IHRA ed ha addirittura fissato una scadenza entro la quale la mancata adozione della definizione dell’IHRA comporterà la cancellazione dei finanziamenti. Questo è un vulnus all’autonomia universitaria che non può essere accettato, che tu sia palestinese o no. L’ingerenza del governo nelle attività universitarie dimostra quanto sia politico questo strumento della definizione dell’IHRA e quanto sia utile praticamente solo agli interessi britannici, israeliani ed imperialisti.”

Dopo la nostra conversazione Abusalama è stata reintegrata. Il 2 febbraio il sindacato dell’università e del college Hallam di Sheffield ha approvato una mozione che chiede all’università di chiedere pubblicamente scusa, di interrompere ogni indagine contro di lei che sia basata sulla definizione dell’IHRA e di stabilire una sospensione dell’utilizzo della definizione nelle azioni disciplinari dell’università.

Il giorno seguente Abusalama è stata informata dall’università che non verrà condotta alcuna ulteriore indagine. Ora è completamente scagionata dalle false accuse di antisemitismo sollevate contro di lei in base alla definizione dell’IHRA e le è stato offerto un contratto più stabile con l’università.

Ramona Wadi

Ramona Wadi è ricercatrice indipendente, giornalista freelance, critica letteraria e blogger. I suoi lavori si occupano di una serie di tematiche relative a Palestina, Cile e America Latina.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Un nuovo documentario mostra come in Israele il negazionismo della Nakba sia annoso e profondo

Jonathan Ofir  

21 gennaio 2022Mondoweiss

Un nuovo documentario demolisce il negazionismo ufficiale del massacro di Tantura dove oltre 200 palestinesi furono trucidati da miliziani sionisti pochi giorni dopo la costituzione di Israele nel 1948.

35 metri per 4. Queste sono le dimensioni della fossa comune in cui furono sotterrati oltre 200 palestinesi del villaggio di Tantura in seguito al massacro del 22 e 23 maggio, nei primi giorni della proclamazione ufficiale di Israele, da parte della brigata Alexandroni dell’Haganah, la milizia ebraica sionista.

Queste dimensioni sono ora attestate da un nuovo documentario di Alon Schwarz intitolato “Tantura” presentato questo weekend al Sundance Festival in Utah. Ora il luogo del massacro è una spiaggia popolare in Israele, dove ha nuovamente suscitato alcune controversie. I veterani della brigata Alexandroni avevano già tentato di far passare tutto sotto silenzio nel 2000, dopo le loro testimonianze raccolte dallo storico Theodore (Teddy) Katz per la sua tesi di master completata nel 1998, di cui il massacro è il tema centrale. Le loro testimonianze (insieme a quelle dei palestinesi sopravvissuti) probabilmente sarebbero rimaste nascoste nella biblioteca dell’Università di Haifa se nel 2000 il quotidiano israeliano Ma’ariv non avesse diffusamente denunciato il massacro. I veterani querelarono Katz per diffamazione (1 milione di shekel, oggi 279.000 euro) e in un momento di debolezza, senza il suo avvocato, sotto pressione economica e della famiglia e in gravi condizioni di salute (un infarto recente), Katz firmò un testo preparato di ritrattazione per uscirne fuori del tutto. Se ne pentì poche ore dopo, ma era troppo tardi, la giudice che non si era in realtà immersa nelle testimonianze del lavoro di Katz disse che la questione era chiusa.

Oggi Haaretz pubblica sul documentario un articolo di Adam Raz sul documentario intitolato “There’s a Mass Palestinian Grave at a Popular Israeli Beach, Veterans Confess” [C’è una fossa comune accanto a una popolare spiaggia israeliana, confessano i veterani]. Raz sottolinea il fatto che la giudice, Drora Pilpel, ha ascoltato alcune delle testimonianze originali ottenute da Katz per la prima volta nel corso della realizzazione del documentario, e lei ha affermato:  

Se è vero, è un peccato … Se aveva cose così avrebbe dovuto proseguire [con la causa] fino alla fine.

Non si tratta di “se”: Katz aveva “cose così,” ne aveva per 60 ore. Non sarebbe stato rilevante se la giudice avesse dato un’occhiata a quelle cose prima di chiudere il caso?

Persino i testimoni ebrei citati da Katz erano stati categorici. 

Yosef Graf, una guida della vicina cittadina di Zichron Ya’akov che accompagnò le forze dell’Alexandroni, dice:

Lo affermo chiaramente, quelli [dell’Alexandroni], loro hanno compiuto il massacro.

Mordechai Sokler, also a guide from Zichron Ya’akov, said:

Mordechai Sokler, anche lui una guida di Zichron Ya’akov, dice:

Otto giorni dopo sono tornato sul posto dove li avevamo seppelliti, vicino alla ferrovia. C’era una montagnola perché i corpi si erano gonfiati.

Sokler ha detto a Katz di aver contato 230 corpi.

Quando nel 2000 i veterani dell’Alexandroni ottennero la ritrattazione di Katz erano esultanti. Sul loro sito ufficiale postarono:

La storia di Tantura: la fine dell’accusa del sangue [classico argomento antisemita, ndtr.].

Nel gennaio 2000 il quotidiano “Maariv” ha pubblicato un’inchiesta, iniziata da un tal Teddy Katz, che pretende di essere uno storico, sul massacro che si presume compiuto dai combattenti della Divisione 33 (Alexandroni) contro gente indifesa dopo lo scontro di Tantura. I combattenti della brigata hanno iniziato una battaglia legale e pubblica per ripristinare il loro buon nome e rimuovere una macchia ingiusta che è stata loro attribuita dal succitato “storico”. Segue qui il riassunto dell’episodio alla fine del quale la verità è venuta alla luce.  

È esattamente il contrario: i veterani stavano ancora una volta cercando di seppellire la verità. Il grado di negazionismo fra i veterani dell’Alexandroni è scandaloso, al punto che uno dei testimoni principali, l’ex-soldato dell’esercito israeliano, generale Shlomo Ambar, firmò una dichiarazione giurata in cui affermava che lui e i suoi commilitoni non ricordavano nulla di quello che avevano detto a Katz. 

La testimonianza originale di Ambar è particolarmente pesante. Incredibilmente lui riflette sulle sue azioni e su quelle dei suoi commilitoni e, paragonandola ai nazisti, giudica la politica dei nazisti verso i prigionieri di guerra più favorevole della loro:

Io associo [quello che è successo a Tantura] solo con questo: sono andato a combattere contro i tedeschi che erano i nostri peggiori nemici. Ma quando combattevamo noi obbedivamo alle leggi di guerra dettate dalle norme internazionali. Loro [i tedeschi] non uccidevano i prigionieri di guerra. Uccidevano gli slavi, ma non i prigionieri di guerra inglesi e nemmeno ebrei, tutti quelli dell’esercito britannico prigionieri dei tedeschi sopravvissero.

E ora, nel recente documentario, Ambar riappare, questa volta con frasi di sconcertante negazione (citate da Raz su Haaretz):

Cosa vuole?” chiede Shlomo Ambar che è salito al grado di brigadiere generale e capo della Difesa Civile, oggi l’Home Front Command [comando regionale dell’esercito]. “Che io sia un’anima sensibile che parla come un poeta? Mi sono messo da parte. Questo è tutto. Basta così.” Parlando nel film, Ambar chiarisce che gli eventi nel villaggio non gli erano piaciuti, “ma dato che non ho parlato allora, per me non c’è motivo di parlarne oggi.”

Comunque nel documentario ci sono testimonianze persino più candide:

Non è bello da dirsi. Li hanno messi in un barile e gli hanno sparato nel barile. Ricordo il sangue nel barile.” Uno dei soldati ha concluso dicendo che nel villaggio i suoi commilitoni semplicemente non si erano comportati come esseri umani e poi è risprofondato nel silenzio.

O questo:

Un altro soldato della brigata, Micha Vitkon, parla di un ufficiale “che in anni seguenti diventò un pezzo grosso del Ministero della Difesa. Con la sua pistola aveva ucciso un arabo dopo l’altro. Era un po’ squilibrato e quello era un sintomo del suo squilibrio.”

O questo:

Una delle testimonianze più orrende nel film di Schwarz è quella di Amitzur Cohen, che parla dei suoi primi mesi come combattente in guerra: “Ero un assassino. Non ho fatto prigionieri.” Cohen riferisce che se una squadra di soldati arabi stava con le mani alzate lui li uccideva tutti. Quanti arabi ha ucciso non sui campi di battaglia? “Non ho contato. Avevo una mitragliatrice con 250 pallottole. Non so dire quanti.”

In sostanza tutti questi strazianti dettagli non sono nuovi. Abbiamo decine di testimonianze di palestinesi fin da subito dopo il massacro, come questa di Salih ‘Abd al-Rahman (Abu Mashayiff) di Tantura riportata da Teddy Katz: 

[Shimshon Mashvitz] accettò [di fermarsi] dopo aver ucciso [da solo] 85 persone… Li uccise [con un mitra Sten]. Stavano davanti al muro, con la faccia rivolta verso il muro, lui è arrivato da dietro e li ha uccisi tutti, sparando alla testa … In ogni gruppo c’erano venti o trenta persone. Ha cambiato i caricatori due o tre volte.

Ali ‘Abd al-Rahman Dekansh (Abu Fihmi) disse a Katz:

La persona che era con me conosceva l’ebraico. Li sentì dire che dopo che loro (quelli che stavano scavando) avessero finito la prima fossa comune, dovevano scavarne un’altra, di ucciderli e buttarceli dentro … Il comunicato del loro esercito disse che avevano ucciso 250 persone. Era un comunicato di guerra dell’esercito, fu trasmesso alla radio.” 

Non è importante se ogni parola è esatta. Ma questa è la natura della pedante e ossessiva caccia alle streghe che quelli dell’Alexandroni condussero contro Teddy Katz. Trovarono all’incirca sei esempi in cui il testo non era abbastanza preciso, come quando aveva scritto “nazisti” invece di “tedeschi” (in relazione alla testimonianza di Ambar). E la giudice accettò quel livello di presunti errori, non li mise in discussione.

Dopo il processo e la ridicola e ipocrita proclamazione di vittoria dell’Alexandroni contro “l’accusa del sangue”, anche l’università di Haifa si unì alla caccia alle streghe. Nonostante Katz avesse ottenuto uno dei voti più alti (97), insinuarono che ci fossero imprecisioni e che la tesi andasse aggiustata. Katz la corresse e anzi aggiunse altre testimonianze. Due degli esaminatori convocati per la commissione, il dr. Avraham Sela (Università Ebraica) e il dr. Arnon Golan (Università di Haifa), diedero a Katz un 50 e un 40. Nonostante avesse avuto 85, 83 e 74 dagli altri tre esaminatori, voti sufficienti per ottenere il titolo, a Katz fu annullato il Master dell’Università di Haifa. Sela e Golan hanno palesemente falsato la Nakba, e persino lo storico israeliano Benny Morris [prima contrario e ora favorevole all’espulsione dei palestinesi, ndtr.] ha mostrato insofferenza nei confronti della loro distorsione e minimizzazione delle espulsioni a Lydda e Ramle. 

Tutto questo fa parte del vergognoso negazionismo israeliano della Nakba. Il professor Ilan Pappé, che è stato un convinto sostenitore di Katz, ha scritto ieri su Facebook:

Nel 2007 dietro insistenza del ministero dell’Educazione mi dovetti dimettere dal mio posto all’Università di Haifa (nonostante avessi una cattedra); uno dei miei “crimini” fu insistere che ci sia stato un massacro nel villaggio di Tantura nel 1948 come era stato rivelato dallo studente del master, Teddy Katz. Io feci le mie ricerche e dichiarai categoricamente, persino dopo che Katz dietro enormi pressioni e intimidazioni aveva ritrattato ciò che aveva scoperto, che si trattò di uno dei peggiori crimini commessi dall’esercito israeliano nel 1948. 

Non sono affatto pentito e sono grato di aver potuto continuare negli ultimi 15 anni la lotta contro il negazionismo della Nakba all’università di Exeter e spero ancora di costituire a Londra un centro contro il negazionismo della Nakba.

Il kibbutz Nachsholim fu costruito sopra Tantura appena tre settimane dopo la pulizia etnica e la fossa comune è diventata un parcheggio. Tantura adesso si chiama Nachsholim o anche Dor Beach.    

Nelle guide turistiche l’area di Dor Beach oggi sembra un paradiso. Sole e acqua blu. Ma sotto quel paradiso c’è un vero inferno. 

Noi sappiamo precisamente dove si trova la fossa comune (grazie al confronto di foto aeree prima e dopo il massacro che appaiono nel recente documentario). Noi sappiamo quanto è lunga e larga: 35 metri per 4. Non sappiamo esattamente quanto sia profonda. E quanto è profondo il negazionismo israeliano della Nakba? Molto profondo. Ci sono ancora milioni di pagine di rapporti israeliani sugli eventi della Nakba del 1948 che sono censurati e non disponibili al pubblico. Io ritengo che, se i sopravvissuti palestinesi e i discendenti trovano questo accettabile e rispettoso, questa fossa comune debba essere scavata e che in questo modo si possa trovare una forma di chiusura. 

Non che questo cancellerebbe il negazionismo israeliano della Nakba. Questo è qualcosa che sembra essere sepolto sotto strati molto più spessi delle sabbie della spiaggia di Tantura,

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Ecco come la legge israeliana sulla proprietà degli assenti allontana i palestinesi dalle loro case

Mustafa Abu Sneineh

21 gennaio 2022 – Middle East Eye

La legge draconiana viene applicata solo nei confronti dei palestinesi e resta una politica costante in Israele da più di mezzo secolo, dicono alcuni giuristi a MEE

Con più di una decina di pagine e 39 articoli la legge sulla proprietà degli assenti è uno dei testi fondativi di Israele, che garantisce allo Stato il potere di confiscare e sequestrare ai palestinesi proprietà e beni che essi furono costretti ad abbandonare nel 1948.

La legge, che si applica solo ai palestinesi, è draconiana e nel corso degli anni è rimasta una politica costante di numerosi governi israeliani, dicono a Middle East Eye alcuni giuristi.

Questa settimana Israele ha usato la legge per giustificare lo sgombero della famiglia Salhiya e la demolizione della loro casa nel quartiere di Sheikh Jarrah nella Gerusalemme Est occupata.

La legge sulla proprietà degli assenti mette i palestinesi in una posizione di svantaggio fin dall’inizio, bollandoli come assenti anche se sono presenti nel Paese o hanno la cittadinanza israeliana.

La legge è stata emanata nel marzo 1950 dal governo del primo capo del governo israeliano, David Ben-Gurion.

I leader israeliani hanno dovuto occuparsi di vaste aree di terra e migliaia di proprietà in più di 500 città, svuotate della popolazione palestinese dalle milizie sioniste nel corso della Nakba (Catastrofe) del 1948 e della fondazione di Israele.

Si sono anche trovati a gestire beni – compresi contanti, azioni, mobili, libri, società, banche e altri beni mobili – lasciati da quasi 800.000 palestinesi fuggiti e finiti nei campi profughi in Giordania, Siria, Libano e Iraq.

Queste terre e proprietà si trovano nell’odierna Israele. I loro proprietari originari sono principalmente rifugiati, ma alcuni sono sfollati interni e ora vivono in Israele.

“Secondo la legge, un palestinese della Galilea [nord dell’attuale Israele, ndtr.] che è diventato un rifugiato in Siria, e un cittadino palestinese di Israele che nel 1948 ha lasciato la sua città a Tiberiade e si è rifugiato a Nazaret, sono entrambi [considerati] assenti”, dichiara a MEE Suhad Bishara, direttore legale del centro Adalah [centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele e organizzazione per i diritti umani, ndtr.]

Nessun palestinese aveva il diritto di rivendicare la restituzione della sua proprietà da Israele in quanto assente nel periodo tra il novembre 1947 e la data di entrata in vigore della legge.

“(Tecnicamente) il palestinese di Nazareth non è un assente, poiché ha continuato a vivere in quello che è diventato Israele nel 1948″, afferma Bishara, “ma la legge lo considera comunque un assente”.

Dopo la guerra del 1948, secondo i dati delle Nazioni Unite, i cittadini palestinesi di Israele erano 160.000, il 30% dei quali sfollati internamente. Oggi la popolazione palestinese in Israele è di 1.800.000 persone e rappresenta il 20% della popolazione del Paese. In Israele un palestinese su quattro ora vive non lontano dalle terre e dalle proprietà da cui la sua famiglia fu espulsa nel 1948.

Dal 1998 la comunità palestinese all’interno di Israele tiene annualmente una marcia rituale verso uno di quei villaggi per dimostrare ancora oggi la sua presenza nelle terre dei suoi antenati. Ciò nonostante, la legge sulla proprietà degli assenti nega tuttora il loro diritto di rivendicare queste terre.

Tenere sotto controllo i saccheggi’

Il tenore della legge si rivolgeva principalmente ai nuovi coloni israeliani per indurli a dichiarare al Custode delle proprietà degli assenti [funzionari nominati dal ministro delle finanze israeliano allo scopo di prendere in custodia la proprietà definita appartenuta ad assenti”, ndtr.] qualsiasi bene e proprietà palestinese da essi rilevata. In caso contrario, essi rischiavano una multa e, in alcuni casi, la reclusione.

Prima del 1950 Israele aveva diverse leggi di emergenza per gestire queste proprietà e beni. Ma in seguito all’adozione da parte delle Nazioni Unite della risoluzione 194 del dicembre 1948, che sanciva il diritto al ritorno dei palestinesi e chiedeva un risarcimento finanziario per la perdita o il danno delle proprietà, Israele dovette affrontare il compito di regolamentare il saccheggio su larga scala compiuto dai nuovi coloni.

Esisteva la necessità di organizzare il meccanismo di controllo di queste proprietà e beni”, riferisce a MEE Mohammad Zeidan, ex direttore dell’Associazione araba per i diritti umani. “Israele fece una promozione della legge sulla scena internazionale sostenendo che stava proteggendo queste proprietà e che aveva trovato un modo per tenere sotto controllo i saccheggi fino a quando la questione dei rifugiati non fosse stata risolta”.

Pertanto, il Ministero delle Finanze istituì un nuovo dipartimento, chiamato Custode delle proprietà degli assenti, per attuare tre leggi: la legge sulla proprietà degli assenti – 1950; la legge sulle proprietà in Germania – 1950; e la legge sulla proprietà degli assenti (compensazione) – 1973. I suoi ispettori hanno collaborato fino ai primi anni ’90 con il Jewish National Fund (JNF) [ente fondato nel 1901 a Basilea dall’organizzazione sionista mondiale allo scopo di comprare e coltivare terra nella Palestina ottomana per l’insediamento degli ebrei, ndtr.], con imprese immobiliari e organizzazioni di coloni.

Due volte rifugiati

Case e terre non sono gli unici beni confiscati da Israele. Anche numerose attività commerciali nelle città costiere di Giaffa e Haifa, dove i proprietari palestinesi divennero rifugiati e furono considerati assenti, sono cadute sotto l’autorità del Custode.

“Tutte le aziende palestinesi che si occupavano dell’esportazione di agrumi dopo l’allontanamento dei proprietari passarono sotto il controllo e la gestione di Israele. Queste società hanno continuato a operare e realizzare profitti per alcuni anni. L’azienda del tabacco di Haifa è un esempio”, afferma Zeidan.

La famiglia Salhiya, che è stata cacciata dalla sua casa a Gerusalemme Est alle 3 del mattino nella notte fredda e piovosa del 19 gennaio, è stata sfollata due volte. È originaria della frazione di Ein Karem a Gerusalemme Ovest, occupata dalle forze israeliane nel 1948.

Il comune israeliano di Gerusalemme ha affermato che i Salhiya non hanno alcun diritto sulla terra che un tempo apparteneva al Gran Mufti di Gerusalemme, Amin al-Husseini, e che Israele confiscò nel 1967, dopo la conquista della città, ai sensi della legge sulla proprietà degli assenti.

“La legge dà a chiunque sia un ebreo il diritto di rivendicare la proprietà, in linea di principio, indipendentemente dal fatto che possa provarne il possesso o meno. Ma un palestinese espulso dal suo villaggio nel 1948 sulla base della stessa legge non ha il diritto di rivendicare la sua proprietà”, dice Bishara.

Legge a favore dei coloni

Secondo un rapporto del 2020 dell’organizzazione israeliana per i diritti Peace Now, la legge è stata attuata in varie fasi al fine di espropriare le proprietà palestinesi a Gerusalemme est.

“Il meccanismo ha funzionato come segue: gli organismi legati ai coloni hanno reclutato delle persone che dichiarassero che i proprietari di alcune proprietà erano proprietari terrieri assenti”, afferma il rapporto. “Queste dichiarazioni giurate sono state trasmesse al Custode delle proprietà degli assenti che, senza ulteriori controlli, ha sancito che si trattava effettivamente di beni degli assenti. Successivamente i beni degli assenti sono stati trasferiti al JNF, che li ha ceduti ai coloni”.

Questo è ciò che è successo alla famiglia Salhiya, così come a molti altri nei quartieri di Silwan, Sheikh Jarrah, Batn al-Hawa e Wadi Hilweh a Gerusalemme est.

In alcuni casi sono state rilasciate dichiarazioni giurate per proprietà già abitate da palestinesi, afferma Peace Now. I proprietari hanno quindi dovuto combattere battaglie legali nei tribunali israeliani contro organizzazioni di coloni ben finanziate, come Elad, Ateret Cohanim e Nahalat Shimon, che rivendicavano la proprietà delle case a loro cedute dal JNF e dal Custode.

Ad Haifa, Jaffa e Acri, la società immobiliare statale Amidar ha l’incarico di sequestrare circa 4.500 proprietà i cui proprietari – principalmente cittadini palestinesi di Israele – sono considerati assenti. A Giaffa ci sono 1.200 di queste abitazioni, e nel 2021 il tentativo di prendere il controllo di una di esse ha provocato violenti scontri con la polizia israeliana e proteste.

Qualsiasi palestinese è un assente’

“La legge è pervasiva e considera ogni palestinese un assente per quanto riguarda le sue proprietà e i suoi beni”, dice Bishara. “Se qualcuno oggi si recasse in viaggio in Siria o in Libano, potrebbe essere considerato assente poiché nella legge quei Paesi sono denominati Stati nemici”.

Sebbene la legge individui un lasso di tempo tra il novembre 1947 e il marzo 1950 per poter considerare il proprietario di una casa o di un terreno un assente, le autorità israeliane non vi si sono attengono. Dal 1967 [anno della conquista israeliana di Gersualemme est, Cisgiordania, Gaza e Alture del Golan, ndtr.] la legge è stata applicata dal 1967 a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e – prima del piano di disimpegno del 2005 – nella Striscia di Gaza.

Nel 2015 la corte suprema israeliana ha dato il via libera all’applicazione della legge sulla proprietà degli assenti, pronunciandosi contro i palestinesi che vivevano in Cisgiordania e a cui erano state sequestrate le proprietà a Gerusalemme est in quanto ritenuti assenti.

“Se sei ebreo e hai lasciato Israele non sarai mai un assente, non importa quanti anni hai trascorso all’estero”, spiega Zeidan. Se sei palestinese e hai cercato rifugio in un’altra città dello stesso Paese, sei un assente. Se sei ebreo hai il diritto di rivendicare la proprietà precedenti il 1948, come hanno fatto i coloni nella Città Vecchia di Hebron e a Gerusalemme Est, e non sarai mai considerato un assente; ma se sei un palestinese non ti è permesso rivendicare la terra o la casa [di proprietà] della tua famiglia prima del 1948, perché sei un assente”, aggiunge.

“Dipende dalla tua religione. È una vittoria garantita per un ebreo israeliano e una sconfitta garantita per un palestinese”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)