Il ricamo palestinese: inserito nella lista UNESCO delle identità sociali e culturali

Aziza Nofal

4 gennaio 2022 ALMONITOR

I palestinesi esprimono soddisfazione per la registrazione del ricamo nella lista del patrimonio culturale dell’UNESCO dopo i tentativi israeliani di attribuirsi il tradizionale abito ricamato palestinese

RAMALLAH, Palestina — Il 19 dicembre il Museo della Palestina ha aperto le sue porte ai visitatori interessati a vedere una collezione di abiti tradizionali palestinesi ricamati in seta recentemente recuperati e trasferiti da Washington in Palestina.

La collezione, costituita nel 1986, risale a quando un uomo palestinese raccolse gli abiti tradizionali trasferendoli a Washington per metterli in mostra temporaneamente. A causa delle circostanze politiche e per paura della confisca israeliana, non era riuscito [sino ad ora] a riportarli in Palestina. La collezione presenta gli abiti delle donne che furono forzatamente sfollate dalla loro patria palestinese durante la guerra del 1948, e ogni abito rappresenta i motivi del ricamo di una certa area palestinese.

Secondo il curatore della collezione del museo, Bahaa al-Jaaba, questi abiti hanno un valore storico in quanto documentano i dettagli degli abiti dei rifugiati palestinesi nella loro terra originaria e costituiscono una parte del patrimonio palestinese e [documentano] lo stile tradizionale legato agli abiti ricamati.

La collezione è stata presentata assieme a scialli ricamati e accessori in argento. Jaaba precisa ad Al-Monitor: “Lo studio di questi abiti non solo ci fornisce una documentazione storica degli abiti tradizionali palestinesi, ma ci immerge anche nel contesto sociale e culturale degli abiti. Alcuni sono indossati in occasioni gioiose, mentre altri sono associati alla tristezza”.

Jaaba fa notare che uno degli abiti è stato strappato per tutta la lunghezza: ciò significa che la donna che indossava l’abito era stata informata della morte di una persona cara. Si strappò il vestito nel mezzo per esprimere la sua angoscia. Ciò è coerente con il contesto sociale [dell’epoca] in Palestina così come lo conosciamo.

Jaba afferma che questa collezione costituisce una fonte importante per i ricercatori e per coloro interessati alle tradizioni palestinesi perché copre tutte le aree storiche della Palestina, da Beersheba alla Galilea settentrionale e Safed e i vestiti risalgono almeno alla Nakba [la “catastrofe” della guerra del 1948/49 con relativa pulizia etnica e fuga dei palestinesi, ndt] – [molti] hanno più di 100 anni.

L’esposizione degli abiti ha coinciso con la celebrazione da parte dei palestinesi della dichiarazione dell’UNESCO di includere il ricamo palestinese nella Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità, durante gli incontri della 16a sessione del Comitato intergovernativo per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, tenutosi dal 13 al 18 dicembre a Parigi.

Il ministro della Cultura palestinese Atef Abu Seif osserva in una dichiarazione che la registrazione del ricamo nella Lista rappresentativa è un trionfo per il racconto palestinese degli eventi basato sul diritto dei palestinesi alla loro terra. Ha invitato “le organizzazioni internazionali ad assumersi le proprie responsabilità, a rispettare le decisioni internazionali e a non scendere a compromessi con la brutalità dell’occupazione e i suoi tentativi di rubare l’identità palestinese”.

La parte relativa al furto del patrimonio culturale palestinese è anche collegata alla rabbia palestinese, precedente alla dichiarazione, quando Israele usò il tradizionale abito palestinese durante il concorso di bellezza di Miss Universo e le concorrenti che lo indossavano affermarono che era israeliano.

I palestinesi hanno risposto a questo furto con campagne sui social media palestinesi per affermare che l’abito palestinese ricamato a mano con ago e fili di seta è loro e solo loro.

La Palestine Traditional Dress Association è stata una delle campagne lanciate e abbinata alle foto dell’abito palestinese ricamato sui social media, utilizzando l’hashtag #Elbiss_ Zayak_Min_Zayak (mostra con orgoglio il tuo vestito, nessuno può eguagliarti), che era diventato virale per alcuni giorni.

Maha el-Saca, ricercatrice presso il Palestine Heritage Center, fa notare ad Al-Monitor che il voto all’unanimità [dell’UNESCO] sul fatto che il ricamo sia palestinese è una protezione per l’artigianato da qualsiasi altro tentativo di furto.

Il ricamo è famoso in tutto il mondo, ma siamo gli unici ad aver aggiunto all’abito la nostra identità, abitudini e vita sociale ed economica che ne hanno fatto la nostra identità”, afferma.

Secondo Saca, i palestinesi riconoscono le città o i villaggi delle donne dai loro vestiti. L’abito di Jaffa è ricamato a forma delle arance e cipressi che la circondavano, mentre l’abito cananeo a Gerico aveva disegni geometrici. L’abito di Beersheba è rosso, ma se la donna diventa vedova, indossa l’abito ricamato di blu. “Se esprime il suo desiderio di sposarsi di nuovo, aggiunge ai ricami blu rose e giocattoli per indicare che è pronta a risposarsi”, spiega.

Saca crede che ora sia richiesto a tutti i palestinesi di perseverare in questo lavoro e praticare il ricamo come segno di identità per mantenerlo in vita.

Non è la prima volta che Israele cerca di attribuirsi l’abito palestinese. Negli anni passati, le assistenti di volo delle compagnie aeree israeliane avevano deliberatamente indossato l’abito palestinese, provocando indignazione da parte palestinese.

Afferma Marwan Abu Khalaf, ricercatore del patrimonio culturale palestinese presso l’Associazione Inaash Al-Usra, che il ricamo palestinese era noto come tale senza bisogno di dimostrazioni e nessuno può falsificare la storia. Inoltre aggiunge: “Questo indumento contiene decorazioni e disegni risalenti all’era cananea 3000 anni fa”.

Abu Khalaf spiega ad Al-Monitor: “L’influenza della civiltà cananea è evidente nei disegni e nelle iscrizioni confermate dagli scavi cananei in Palestina, oltre alla sua particolarità con i disegni di serpenti e alberi, che rappresentavano i simboli cananei”.

L’abito palestinese differisce da una regione all’altra e in base all’occasione in cui viene indossato. Nel nord dove si coltiva il grano, le spighe di grano erano la caratteristica più importante degli abiti. A Hebron e Betlemme, la tendenza era il disegno dell’uva. Inoltre, il colore e le iscrizioni degli abiti differivano a seconda dell’occasione. Ai matrimoni gli abiti differivano da quelli ordinari di tutti i giorni. Anche le vedove indossavano abiti diversi.

Abu Khalaf ritiene che, indipendentemente dal fatto che il ricamo sia registrato presso l’UNESCO, sia difficile per Israele rubare una storia – quella del ricamo – radicata in migliaia di anni. Non c’è paura che scompaia alla luce della consapevolezza palestinese della sua importanza. Nonostante tutti gli eventi a livello mondiale, il ricamo resiste in tutte le occasioni.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




‘Nel mio programma di dottorato a Gerusalemme ero l’unica araba in giro. A parte gli addetti alle pulizie’

Hilo Glazer

31 dicembre 2021 – Haaretz

Nihaya Daoud è abituata a far alzare le sopracciglia. Questa è stata la reazione quando è andata all’estero per un post-dottorato di due anni senza portare i figli e quando è diventata la prima araba in Israele nominata docente di salute pubblica. E non ha paura di stuzzicare le piaghe della sua comunità

Una delle impressioni formative dell’infanzia di Nihaya Daoud, professoressa di salute pubblica all’Università Ben-Gurion, è l’aver capito il sentimento di delusione provato dai propri genitori: il padre aveva dovuto accantonare le speranze di studiare e lavorare tutta la vita nell’edilizia mentre la madre, un’eccellente studentessa, era finita a fare la casalinga.

Sono cresciuta con una mamma che avrebbe tanto voluto continuare le scuole e un papà che avrebbe desiderato una buona istruzione, ma nessuno dei due ci è riuscito,” racconta Daoud, 55 anni. “Così hanno investito tutto in noi, i figli. Da adolescente mi hanno spedita a tutti i gruppi possibili di approfondimento del doposcuola: arte, natura, matematica. Il messaggio era: sii eccezionale.”

Daoud ha preso sul serio il messaggio, determinata a metterlo in pratica. Così circa 10 anni fa, quando le hanno offerto un post-dottorato all’Università di Toronto, non ci ha pensato su due volte. Aveva dei bambini, il più piccolo frequentava la terza elementare, e la sua famiglia rimase piuttosto spiazzata al pensiero che lasciasse la casa per due anni.

Dopo tutto ci sono dei gap generazionali quando si parla dell’idea di quello che una donna deve essere e di cosa le sia permesso fare per realizzarsi,” spiega Daoud. “Per mia madre è stato difficile accettare che andassi da sola. È lei che ha seminato queste ambizioni in me, ma ciò nonostante pensava che fosse un po’ troppo.”

Quelle della famiglia di Daoud non sono state le uniche sopracciglia a sollevarsi. “Ricordo uno dei miei colleghi ebrei chiedere al mio compagno: ‘Come puoi lasciarla andare da sola?’” dice. Ma Daoud, un’epidemiologa sociale la cui ricerca si concentra sulle ineguaglianze nelle politiche sanitarie e sulla salute delle donne, ha ignorato il chiacchiericcio. Uno dei suoi articoli più citati, scritto durante il suo periodo all’estero, riguarda il legame fra il livello economico basso e la violenza da parte di un partner intimo fra le donne indigene in Canada. Anche mentre scriveva articoli per pubblicazioni prestigiose, il soggiorno all’estero ha permesso a Daoud di vedere con occhi diversi il posto dove era cresciuta.

C’è solidarietà nella società di immigrati in Canada, ci si aiuta l’un l’altro. Qui non è più così. La gente è alienata dalla vita della propria comunità: ‘Io vivo per me stesso, fine’.”

È sempre stato così?

No. La società araba in cui sono cresciuta era molto più ugualitaria. I nostri vicini ci portavano la farina e noi gli davamo l’uva. C’era un sostegno reciproco. Oggi alla gente non interessano i vicini, nessuno si guarda intorno. Alcuni hanno una Mercedes, altri non hanno niente da mangiare. La società araba è passata attraverso processi di individualizzazione più estremi che negli Stati Uniti e Canada. Oggi le disparità economiche sono spaventose.”

L’ingresso recente e storico di un partito arabo (United Arab List – UAL- la Lista Unita Araba o Ra’am) nella coalizione di governo in Israele è stato venduto al pubblico arabo anche come una mossa per contribuire a massimizzare i successi materiali.

Certamente. Il pensiero di Mansour Abbas (leader della UAL) [partito islamista, ndtr.] è individualistico-capitalista e non nasce necessariamente dalla preoccupazione per la collettività. È una narrazione che favorisce gli strati più ricchi della società araba. Israele ovviamente è d’accordo. Il messaggio è: primeggiate e preoccupatevi solo di voi stessi, dimenticatevi della vostra nazionalità, identità. Potete diventare il primario di un reparto in un ospedale con un ottimo stipendio, costruire una casa come un castello, ma intorno a voi tutto è orrendo: la strada di accesso al paese non è asfaltata, non c’è illuminazione stradale, c’è immondizia sparsa ovunque, violenza dietro ogni angolo. Ma questo semplicemente non vi deve interessare. È incomprensibile. Le politiche della UAL magari producono qualcosa a breve termine, ma stanno lacerando la comunità araba dall’interno. Fra noi sono in corso cambiamenti pericolosi. E ironicamente la persona in prima linea in tutto ciò è lui stesso un medico, un dentista. Abbas avrebbe dovuto essere una persona istruita che lavora col cuore.”

La sua critica dell’alienazione dei membri di maggior successo della società araba si concentra sui medici.

Perché è il mio campo. Gli uomini arabi che sono tornati dopo aver studiato medicina all’estero non hanno applicato le loro conoscenze al miglioramento dei servizi medici offerti alla comunità araba. Quasi tutti hanno scelto specialità per far carriera, medicina interna, chirurgia, o sono andati ovunque il sistema israeliano li indirizzava. È abbastanza comune vedere una ‘posizione lavorativa’ araba cambiare ogni cinque anni. Ogni reparto ospedaliero ha la sua foglia di fico araba. In genere i medici arabi tendono a preferire cariche in ospedale piuttosto che la medicina di comunità. Secondo me dovrebbero cercare di esercitare una maggiore influenza nelle loro comunità.”

Daoud non indietreggia davanti all’esame delle piaghe infette della propria comunità, ma il suo sguardo è anche costantemente rivolto all’establishment israeliano che le ha ignorate. La sua ricerca, per esempio, si è concentrata sull’impatto di fenomeni socio-politici (demolizioni di case, poligamia, mancanza di stato civile) sulla morbilità e sull’accesso ai servizi sanitari fra gli arabi israeliani. Il suo lavoro differisce perciò dalle classiche ricerche in questo campo, come spiega: “Altri ricercatori di salute pubblica percepiscono le variabili di genere, livelli di istruzione o impiego come elementi che interferiscono negativamente sulla ricerca. Quindi le hanno neutralizzate e standardizzate. Io faccio l‘opposto. Io non metto al centro batteri e virus, ma i sistemi sociali e politici.”

Questa non è ricerca convenzionale,” sottolinea Daoud, aggiungendo che “non è facile far risuonare questa voce critica nella costellazione politica in Israele e in quanto appartenente a una minoranza. Non ha mai trovato un orecchio attento. Quando stavo lavorando al mio dottorato ci fu una discussione sull’uso nelle ipotesi di ricerca del termine ‘discriminazione,’ o se optare per ‘razzismo.’ Io insistevo con ‘razzismo.’ I miei tutor continuavano a dirmi: ‘Dobbiamo insegnarti come sopravvivere nel mondo accademico israeliano.’”

Stile di vita femminista

Daoud è stata la prima araba in Israele a ottenere un dottorato in salute pubblica e dopo è diventata la prima docente universitaria in questo campo della sua comunità. Oltre a essere una ricercatrice molto prolifica che ricopre molte posizioni pubbliche e cariche in vari organismi nazionali, trova anche tempo per l’attivismo politico. All’interno della sua comunità Daoud è considerata un’autorità su problemi sanitari, sociali e di genere e di tanto in tanto anche i politici arabi le chiedono un’opinione. Nell’ultima elezione ha ricevuto offerte di candidarsi da due partiti, racconta, ma le ha rifiutate con decisione.

Daoud è sposata con Anwar, preside di una scuola a Gerusalemme Est. La coppia vive nella comunità ebraico-araba di Neve Shalom, situata fra Gerusalemme e Tel Aviv, e ha tre figli ormai grandi. È cresciuta a Tira, una città del “Triangolo” (una concentrazione di località arabe nel centro del Paese, vicino alla Linea Verde, [il confine tra Israele e Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967. ndtr.]), dove è nata anche sua madre. Nihaya è la seconda femmina di sette figli (“Sei di noi sono andati all’università”). Lei crede che l’enorme pressione e l’incoraggiamento ricevuti dai genitori non siano necessariamente unici e limitati alla sua famiglia e abbiano anche un contesto storico.

Il bisogno di dimostrare ciò che si vale con un’istruzione superiore è un ethos adottato da molti ‘migranti interni’ dopo la Nakba,” dice riferendosi alla guerra del 1947-49, la “catastrofe” quando oltre 700.000 arabi palestinesi fuggirono o furono espulsi dalle loro case. “Persero casa, terra e fonti di sostentamento, quindi gli studi diventarono parte della loro lotta per la sopravvivenza. Per chi è restato nelle proprie comunità e sulle proprie terre l’aspirazione a conseguire un’istruzione non è stata cosi forte, mentre i migranti interni hanno sviluppato una resilienza nel seguire questa strada.”

Daoud ricorda che la biblioteca nella casa dei genitori era sempre ricca e varia e includeva testi di politica. Normalmente andava con il padre alle riunioni del partito comunista, la sorella ha studiato medicina in Bulgaria con il sostegno del partito. Lei ha preferito rimanere in Israele e iscriversi a un corso di laurea in infermieristica all’Università Ebraica di Gerusalemme e da allora ha sempre fatto parte del mondo accademico.

Durante il mio dottorato in salute pubblica presso l’Hadassah (Centro Medico a Gerusalemme) ero l’unica araba del corso e praticamente l’unica araba in giro, a parte gli addetti alle pulizie,” racconta. “Nessuno mi ha fatto concessioni. Al contrario ho dovuto lavorare più duro per farmi strada.”

E per spiegarsi cita il caso di “quando ho contattato la Commissione di Helsinki (che supervisiona la ricerca medica e la sperimentazione sugli esseri umani) presso una notissima istituzione accademica di cui non farò il nome e chiesto di parlare al direttore. La segretaria l’ha chiamato al telefono dicendo: ‘C’è una tizia araba che vuole parlare con lei.’”

Durante la sua permanenza a Toronto, agli inizi del 2010, dove ha studiato per il post-dottorato, Anwar e i figli andavano a trovarla durante le vacanze mentre lei tornava in Israele appena poteva. Per la maggior parte del periodo i lavori di casa furono svolti dal marito. “Capitava anche che arrivassi alle otto di sera, lui non aveva cucinato e non ci fosse niente da mangiare.”

Il femminismo di Daoud non si limitava alla sua casa. Ha fatto la volontaria per la hotline per donne picchiate nella comunità arabo-israeliana ed è stata intensamente coinvolta in organizzazioni della società civile come Women and their Bodies [Donne e i loro corpi], un’ong ebraica e araba. Il suo ultimo progetto, che ha fondato con altre quattro professoresse, si prefigge di incoraggiare studentesse arabe a impegnarsi in carriere accademiche ad alto livello in tutti i campi. Comunque un tentativo di stabilire un comitato per l’avanzamento delle donne arabe è finito in modo frustrante: “Erano coinvolte nell’iniziativa donne provenienti da un’ampia gamma di campi: legge, educazione, sanità e così via. Avrebbe dovuto funzionare secondo il modello della rete delle Donne di Israele [una organizzazione lobbystica]. È stata una grande delusione. Donne di partiti arabi che si considerano vere femministe l’hanno semplicemente silurata a causa di conflitti interni per ottenere fondi.”

Ha provato una delusione simile all’inizio della sua carriera. Allora era la funzionaria del Ministro della Salute incaricata di creare programmi didattici per il sistema scolastico.

I programmi erano destinati al pubblico ebraico e quando ho chiesto che fosse implementato nella comunità araba mi dissero che non c’erano i soldi,” ricorda Daoud. “Ho capito allora che non era il posto giusto per me e ho deciso di cambiare direzione e concentrarmi sulla ricerca.”

La sua prima ricerca significativa si è occupata di come i meccanismi di discriminazione ed esclusione causino problemi di salute fra le donne beduine.

Abbiamo esaminato l’accesso ai servizi sanitari facendo un paragone fra donne di comunità riconosciute dallo Stato e donne di località non riconosciute. Naturalmente la situazione nelle comunità non riconosciute era molto più grave. Abbiamo visto chiaramente che il basso livello sociale fra le donne aveva implicazioni per la loro salute mentale e fisica. Una conseguenza di questo è la frequenza di depressione postnatale fra le beduine. La discriminazione è così profonda e radicata che si può fare molto poco a proposito. Mi sono sentita persa, non avendo nulla da offrire a queste donne.”

E poi si è chiesta: “Che senso ha?”

No, non mi sono mai limitata alle pubblicazioni accademiche, ma ho incontrato le persone rilevanti per parlare dell’argomento. Il tema della poligamia, per esempio, è emerso in un comitato insediato dal Ministero della Giustizia. Purtroppo non sono state invitate abbastanza arabe per comparire in commissione e le sue conclusioni sono state limitate. Lo Stato legalizza la poligamia per far star zitti i beduini su altri temi. In pratica lo Stato ha detto loro: ‘Tenete sotto controllo le vostre donne, ma non parlateci delle terre.’ Lo dico nel modo più diretto. E sfortunatamente l’oppressione delle donne nella società beduina ha conseguenze distruttive per la società nel suo complesso.” (Mentre la poligamia è praticamente illegale in Israele, sembra che in certi contesti le autorità chiudano un occhio).

Come?

Se l’uomo si occupa a malapena della sua ex moglie o della prima moglie, se lei è stata privata della possibilità di studiare, se non ha fonti di reddito, allora in realtà non ha status. E quindi anche la sua autorità sui figli viene meno. Che investimento nei propri figli ci si può aspettare da una donna così? E come ci si può sorprendere di quello che sta succedendo oggi?”

Sta alludendo alla cosiddetta “perdita di governance nel Negev”?

Certamente, questa è una delle spiegazioni. Quando le donne non hanno quasi controllo sulle proprie vite, il loro influsso sui figli è limitato.”

Alcuni anni fa, Daoud ha condotto con la partecipazione di 1.401 donne uno studio che analizzava le dimensioni della violenza domestica in Israele. “Abbiamo visto che la percentuale di denunce di violenza che riguardavano donne arabe era più del doppio che fra le ebree,” dice. Il database da lei creato le è servito come piattaforma per un ulteriore studio, centrato sull’uso dei servizi sanitari da parte delle donne.

I risultati hanno mostrato che le donne arabe che subiscono violenza consultano un ginecologo tre volte più spesso delle donne ebree picchiate. Le donne arabe si servono anche del servizio di stanze di emergenza con frequenza maggiore. La nostra interpretazione è che le donne arabe cercano l’aiuto del sistema sanitario solo quando subiscono gravi violenze fisiche. La decisione di vedere un ginecologo si spiega con la riluttanza a consultare il medico di famiglia e il timore che non risponderebbe adeguatamente. Inoltre il ginecologo consultato molto probabilmente sarà una donna che non vive necessariamente nello stesso paese e con ogni probabilità non sarà parente della paziente.”

Questa osservazione allude a uno dei maggiori ostacoli che si trovano davanti le donne arabe che sono cittadine israeliane nella loro ricerca del migliore servizio sanitario. L’ostacolo, fa notare la docente, parte dalla struttura familiare della medicina di comunità nella società araba, in particolare nelle zone rurali. Quindi molte donne vengono indirizzate a un medico di famiglia che è anche un parente.

Questo è un problema critico per le donne che sono vittime di violenza,” spiega Daoud. “Queste donne non hanno il coraggio di andare da un medico che è un parente oppure se quel dottore nota segni di violenza probabilmente non ci farà molta attenzione.”

Suppongo che ciò faccia sorgere difficoltà anche con problemi di salute meno seri.

Giusto. Dopo tutto non tutte le visite da un medico di famiglia riguardano un raffreddore. Talvolta c’è bisogno di un’impegnativa per un esame al seno o si devono rivelare dettagli intimi. Non è piacevole per una donna se il dottore che la esamina è suo cugino o il cugino di suo marito. Inoltre lei non può scegliere un dottore senza il consenso del compagno. Farsi visitare da un dottore di un’altra hamula (famiglia estesa) richiede una spiegazione: cosa è successo? Perché proprio lui? Perché non vai dal nostro parente? Questo ostacolo è un problema all’interno della comunità araba, ma è collegato a un vizio di tutto il sistema: più un medico ha successo nell’attrarre molti pazienti, più guadagna e la platea più facile da raggiungere per reclutare pazienti è la famiglia.”

Questo è un fenomeno problematico in sé: l’abuso della struttura familiare nella società araba per reclutare medici per scopi di marketing: le health maintenance organizations – HMO [enti privati di previdenza medica, ndtr.] approcciano i medici di famiglia arabi e li pagano enormi somme di denaro per portare i loro parenti nell’HMO. O, alternativamente, offrono loro un posto fisso a condizione che le loro famiglie aderiscano al HMO. Quali sono le conseguenze?

Serie. È una forma di corruzione. Così il sistema sanitario calpesta i diritti delle clienti assicurate. Quando i medici sono assunti non per la qualità dei loro servizi o per la loro eccellenza, ma solo per i benefici economici che possono fornire, si abbandona l’obbligo fondamentale di fornire alla comunità il servizio migliore da parte di tali professionisti. Alcuni di questi dottori sono assunti per lavori a contratto, non in medicina. Io vedo medici di famiglia che sono diventati piuttosto ricchi in questo modo, fanno soldi a spese dei pazienti. Comunque le stesse cose succedono anche nella società haredi [ebrei ortodossi e ultraortodossi, ndtr.]. Il fatto che il sistema permetta che il fenomeno esista, che addirittura lo incoraggi fra i gruppi più deboli della popolazione, è molto grave. Non deve succedere. Il Ministero della Salute deve intervenire.”.

La ricerca più recente di Daoud tratta della separazione tra le madri ebree e quelle arabe nei reparti di maternità degli ospedali. Il fenomeno in sé non è nuovo: è apparso sulle prime pagine dei giornali cinque anni fa in seguito a un’affermazione sull’argomento di Bezalel Smotrich (all’epoca parlamentare di Habayit Hayehudi, [“Casa Ebraica” partito di estrema destra dei coloni, ndtr.]): “È semplicemente naturale che mia moglie non voglia stare vicino a una che ha appena dato alla luce  un bambino che potrebbe assassinare nostro figlio fra 20 anni.” Daoud non cerca di quantificare il fenomeno, ma di svelarne l’origine. Il suo studio è consistito di interviste approfondite con direttori di ospedali, ostetriche, infermiere e neomamme, che hanno consentito a Daoud di rintracciare tre meccanismi di quello che lei chiama separazione razziale e cura iniqua nei reparti di maternità.

Il primo livello è la separazione che esiste in Israele in ogni ambito della vita e ci sono donne che vogliono imporre la separazione all’interno degli ospedali. Il secondo meccanismo è la commercializzazione dei servizi di maternità in Israele. Gli ospedali ricevono grandi somme di denaro dallo Stato per ogni parto e perciò lo staff capitola davanti alle richieste delle donne: ‘Vi daremo quello che volete purché veniate da noi.’ Il terzo meccanismo è ‘l’adattamento culturale.’ Il personale dell’ospedale ha trovato la giustificazione per la segregazione sostenendo che è per il bene delle donne.

Uno dei direttori ci ha detto chiaramente: ‘Quando Svetlana lascia la sala travaglio, perché dovrei metterla in un reparto con Fatma? Per lei sarà molto meglio una stanza con qualcuno come lei. Una mamma russa al massimo avrà un visitatore, un’araba sarà inondata da visitatori di tutta l’hamula.’ Proprio cosi, queste precise parole.”

Dopo lo shock vale la pena chiedere: E cosa ci sarebbe di così tremendo? Se una donna incontra solo gente come lei per tutta la sua vita, perché deve cercare di coabitare in una situazione così intima come il parto?

Una domanda legittima. Noi sappiamo che questa separazione è all’origine di discriminazione e razzismo in tutti gli ambiti della vita: alloggi, istruzione, welfare, trasporti. E noi vediamo come la separazione fra comunità arabe ed ebraiche causi un razzismo sistemico. Quindi non si deve prendere quel modello e clonarlo nel sistema sanitario. Gli ospedali dovrebbero essere strutture aperte a tutti.”

Non è che la conclusione che la segregazione conduca a un trattamento medico non ottimale sia un po’ esagerata?

Non credo che medici e infermieri agiscano in base a un razzismo consapevole o vogliano dare alle donne arabe trattamenti al di sotto della media. Ma noi sappiamo che il sistema sanitario è oberato e affamato di risorse, e così il personale deve stabilire delle priorità. La preoccupazione è che per il solo fatto che tu (in quanto professionista medico) stia mettendo un gruppo di donne appartenenti alla maggioranza della popolazione in una stanza e un gruppo di donne appartenenti alla minoranza in un’altra stanza, visiterai per prima la prima stanza. Quando il sistema soffre di mancanza di personale entrano in gioco gli istinti primari ed è lì che sta il pericolo.”

Cecità culturale’

All’inizio del mese Daoud ha ricevuto il premio Sami Michael Prize for Equality and Social Justice [Premio Sami Michael per l’Eguaglianza e la Giustizia Sociale], assegnato dall’Heksherim Institute for Israeli and Jewish Literature [Istituto Heksherim per la Letteratura Israeliana ed Ebraica] (che prende il nome da un famoso autore israeliano). Buona parte del suo discorso alla cerimonia l’ha dedicata alla pandemia da coronavirus e alle sue gravi conseguenze per i gruppi più deboli della popolazione. Daoud è un membro del gruppo di esperti per la crisi da COVID, un’iniziativa di volontari ebrei e arabi supportato dal New Israel Fund che si sta occupando, fra altri problemi, della diseguaglianza nell’assistenza medica che si è intensificata in conseguenza dello scoppio della pandemia. In questo quadro Daoud ha condotto uno studio che ha anticipato di sei mesi una ricerca simile del Ministero della Salute sul legame fra zone “rosse” (cioè quelle con alte percentuali di COVID) e lo status socio-economico.

La gestione della crisi da coronavirus nella società araba ha fallito,” asserisce. “Un personaggio che non viene dal campo [della sanità pubblica] è stato nominato direttore del progetto per la comunità araba. Questo mi ha fatto davvero infuriare. Ci sono moltissimi esperti e fra tutti si nomina lui? Abbiamo tutti visto le conseguenze. Le località arabe sono state in rosso quasi tutto il tempo. In generale i ministri tendono a nominare arabi con cui è comodo lavorare perché hanno legami con il governo. Questa è la mentalità di un regime militare.”

La nomina del Prof. Salman Zarka come commissario generale per il coronavirus ha portato un cambiamento in meglio nei rapporti con la società araba?

Non ho visto alcun cambiamento di questo tipo. Il commissario si occupa della società in generale.”

Ha importanza che un medico druso [corrente dell’Islam sciita una minoranza arabo-israeliana che il sionismo è riuscito a cooptare, ndtr.] sia l’autorità professionale suprema per la gestione della crisi?

Proviene dall’esercito (Zarka è un colonnello della riserva), dai Medical Corps (Corpi sanitari militari). Come tale si è formato per essere un arabo in quell’ambiente.”

Daoud ha cercato di esercitare un’influenza dall’interno. Mentre il Prof. Hezi Levi prestava servizio come direttore generale del Ministero della Sanità, lei ha lavorato per stabilire una commissione specializzata sotto i suoi auspici per affrontare la crisi da coronavirus nella società araba. In effetti una commissione è stata avviata, ma Daoud si è dimessa dopo un solo incontro.

Hanno nominato figure politiche in un modo inappropriato e inadatto,” spiega. “Quando ho visto che il direttore generale [del ministero] non si è presentato al primo meeting, ho capito che era un corpo senza denti, naso, bocca o occhi in quanto non ci erano stati presentati neppure dei dati trasparenti. Hanno nominato una commissione per poter dire che avevano nominato una commissione. Ho ringraziato e me ne sono andata.”

Sembra un po’ delusa per non essere stata chiamata a ricoprire una carica più importante.

Veramente no. Come ho detto ho avuto la possibilità di farne parte, sono stata invitata alle riunioni. In questo caso non è una questione di ego. Sto cercando di segnalare un problema molto più sistematico. È inaccettabile che non ci siano arabi nei centri decisionali del sistema sanitario eccetto i medici che hanno fatto il servizio militare nei Medical Corps. Non è ragionevole che la persona che ora supervisiona un budget ministeriale di centinaia di milioni di shekel destinati a migliorare la sanità nella società araba sia un ebreo. È illogico che le discussioni sulle disuguaglianze nella salute non siano guidate da un arabo. Ma dove siamo?”

Continua facendo notare che “si è creata una situazione assurda e inspiegabile. Nel sistema sanitario c’è moltissimo personale arabo, inclusi medici in posizioni apicali, ma gli arabi costituiscono meno dell’1% dello staff nella sede principale del Ministero della Sanità. Gli apparati che prendono le decisioni, impostano le politiche e incanalano i fondi sono quasi del tutto senza arabi.”

Eppure Daoud conclude: “Non sto dicendo che va tutto male. Il sistema sanitario in Israele è uno dei migliori in Occidente. Anche il Ministero della Salute ha ammesso le disparità esistenti al suo interno, il che è una situazione molto migliore che nel passato. Semplicemente non sta facendo abbastanza per ridurle.”

In questo contesto la professoressa ha elaborato un piano sistematico che richiede la messa in atto di un’unità ministeriale che si occupi di minoranze e il ritorno della categoria “nazionalità” nei documenti medici.

Negli anni ’80 le organizzazioni della società civile hanno lottato per farla cancellare, un errore da parte loro,” spiega. “La classificazione per nazionalità e altre categorie sociali possono servire come strumenti per implementare delle politiche. Se sai che esiste un certo fenomeno fra gli arabi e ci sono altri dati chiari sugli haredim, si possono adattare risposte specifiche per quelle comunità. Ciò sarebbe meglio della situazione odierna in cui il sistema soffre di cecità culturale.”

Daoud asserisce che riconoscere questo problema è già una mezza soluzione: “Il sistema sanitario deve essere coragggioso e riconoscere le diseguaglianze che esistono al suo interno. Una volta affrontate, vedremo la serenità arrivare nel sistema. Gran parte della violenza contro i team medici deriva dagli atteggiamenti razzisti dei pazienti contro i professionisti dell’assistenza medica che li cura, dagli atteggiamenti dei professionisti verso i pazienti o dagli atteggiamenti dei pazienti verso altri pazienti. Il sistema deve riconoscerlo. La sparatoria all’ingresso di Soroka (avvenuta recentemente nel Centro Medico di Be’er Sheva) non è stato un evento casuale. Il sistema sanitario è un microcosmo di tutti i mali della società. Le disparità in istruzione, impiego, alloggio e trasporti si esprimono in modo tangibile nei nostri corpi e poi noi le curiamo in un sistema sanitario malato.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Paradossalmente è la destra israeliana a riconoscere la Nakba palestinese

Yehouda Shenhav-Shahrabani

13 dicembre 2021 – Haaretz

Alla fine qui sta succedendo che gli arabi hanno dimenticato la Nakba. È tempo di ricordargliela”

Un interessante voltafaccia nel riconoscere la Nakba (“catastrofe”) è arrivato questa settimana da un giornalista di nome Itamar Fleischman, ex portavoce del primo ministro Naftali Bennett. Durante un programma televisivo su Canale 14 Fleischman ha detto quanto segue: “Alla fine quello che sta succedendo adesso è che gli arabi hanno dimenticato la Nakba. Ed è giunto il momento di iniziare a ricordargliela, la Nakba”.

Anche se i termini sono invertiti (“Gli arabi hanno dimenticato… e bisognerebbe ricordarglielo”), non capita tutti i giorni che un ebreo sionista salti su e riconosca con tanta franchezza la tragedia palestinese.

Anche se la Nakba è il buco nero nella costituzione dello Stato di Israele, e sebbene il riconoscimento della Nakba sia una condizione per la convivenza, lo Stato sovrano di Israele la nega ancora risolutamente. Con la macchina della memoria nazionale e con i suoi rappresentanti culturali, la discussione sulla Nakba resta sotto chiave: ogni tentativo di tornarci è bloccato da una barriera di tabù, e le “strategie di accesso” a una discussione critica sulla Nakba sono interdette.

I libri di testo del sistema scolastico non comprendono il riconoscimento della Nakba e offrono una prospettiva storica superficiale, che ha istruito generazioni di studenti israeliani ad una sistematica ignoranza. La storia della Nakba è anche confusa dalla percezione del governo e del pensiero politico rappresentato dal modello di “Stato ebraico e democratico” che comporta spiegazioni tortuose (“Hanno iniziato gli arabi”, “Non accettarono il Piano di Partizione [della Palestina, elaborato dall’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) e approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1947; assegnava il 56% della Palestina ad Israele, ndtr.]”, “Non hanno perso occasione”, “I loro capi gli ordinarono di fuggire”).

Il motivo di questa radicale negazione è che rappresenta lo scheletro nell’armadio di Israele, scheletro che minaccia di diventare pubblico e di sconvolgerne l’immagine virtuosa e corretta. La negazione della Nakba è il pilastro del governo israeliano, e gli scheletri che tiene nell’armadio sono la pulizia etnica del 1948, i massacri, la distruzione di villaggi e città e il furto di terre e proprietà palestinesi.

La stessa parola, Nakba, come descrizione della tragedia palestinese era quasi sconosciuta agli israeliani fino al 2011 quando, grazie a una legge insensata soprannominata Legge sulla Nakba, in quasi tutte le case israeliane è comparsa a descrivere la tragedia palestinese. Sino ad allora l’uso specifico della parola “Nakba” alimentava la negazione e assumeva un senso diverso, ad esempio in maniera volgare nell’orrendo (e antisemita) opuscolo titolato Nakba Harta (Cazzate Nakba) distribuito da Im Tirtzu [“Se lo vuoi”, organizzazione sionista non governativa con lo scopo di delegittimare le associazioni israeliane di sinistra e per i diritti umani, ndtr.].

Bisogna ammettere che negli ultimi due decenni il muro della negazione è stato scalfito, grazie soprattutto alle correnti di revisione della storiografia del 1948, a nuove scoperte d’archivio (anche in arabo) che descrivono la pulizia etnica della Palestina e al lavoro di organizzazioni commemorative, la più importante delle quali è Zochrot [organizzazione non profit israeliana fondata nel 2002 a Tel Aviv, con lo scopo di promuovere la conoscenza della Nakba palestinese, ndtr.]

Da queste rivelazioni abbiamo appreso che, anche se accettiamo la dubbia affermazione che in ogni guerra è probabile che ci siano delle espulsioni, in questo caso si tratta di qualcosa di più di un semplice sottoprodotto della guerra perché, anche alla conclusione della guerra, lo Stato sovrano di Israele ha impedito il ritorno dei profughi alle loro case, confiscato le loro terre e saccheggiato le loro proprietà. Ecco perché il concetto di “pulizia etnica” non si riferisce solo alla guerra del 1948, ma anche al divieto di ritorno dei profughi dopo l’instaurazione della sovranità ebraica e alla cancellazione della storia palestinese. Questa è anche una delle ragioni dell’affermazione che la Nakba non è mai finita, e nel discorso palestinese è definita “una Nakba continua”.

Le parole di Fleischman ci portano un passo avanti nel riconoscimento della Nakba, e non sorprende che la dichiarazione provenga dai ranghi dell’estrema destra. Una delle fantastiche anomalie nel discorso pubblico israeliano è che la destra ha sempre preceduto la sinistra sul problema del riconoscimento della Nakba, anche se a scopo di sfida e provocazione.

Circa 10 anni fa, quando Itamar Ben-Gvir [avvocato e leader del partito di estrema destra antiarabo Otzma Yehudit, Potere Israeliano, ndtr.] venne a manifestare davanti all’Università di Tel Aviv sostenendo che sorge sulle rovine del villaggio palestinese Sheikh Munis, studenti e docenti di sinistra uscirono per allontanare i manifestanti. Rimettere in discussione la questione del 1948 mina l’idea di due Stati per due popoli, che si basa su una soluzione del conflitto che non riconosce la Nakba, come se il conflitto fosse iniziato nel 1967.

Ma torniamo a Fleischman. Proseguendo nel discorso, non si è preoccupato di raccontarci la memoria della Nakba o la sua storia. Invece, ci ha presentato il suo progetto per il futuro.

“Se non tornano presto in sé e se continuano a cercare di uccidere i nostri bambini, la loro prossima tappa è trasferirsi in Giordania o nel campo di Al Yarmouk in Siria. Questo accadrà se le cose continueranno in questo modo. La grande tragedia degli arabi è… che semplicemente li caricheremo sui camion, li scaricheremo oltre il confine, ed è così che andrà a finire”.

Fleischman traccia una linea diretta tra passato e futuro con la minaccia di espulsione, legittimando la prossima espulsione. La minaccia di una seconda Nakba è il prezzo da pagare per il riconoscimento della prima Nakba. Questa minaccia di Nakba non ha data di scadenza. Continuerà ad accompagnare i palestinesi come una Spada di Damocle finché vivranno e respireranno. L’unica data di scadenza collegata alla minaccia è la catastrofe. Il riconoscimento della Nakba da parte di Israele è la sola opportunità di dare vita a una discussione che impedisca una seconda Nakba.

L’autore è professore di sociologia all’Università di Tel Aviv e caporedattore di Maktoob, collana di libri di prosa e poesia in arabo ed ebraico presso il Van Leer Institute di Gerusalemme

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gerusalemme: palestinesi rischiano lo sgombero a seguito di una demolizione

Gerusalemme: palestinesi rischiano lo sgombero a seguito di una demolizione

Settanta abitanti affermano che se le autorità israeliane autorizzeranno la demolizione del loro edificio nella Gerusalemme est occupata rimarranno senza casa.

Zena Al Tahhan

9 novembre 2021 – Al Jazeera

 

Al-Tur, Gerusalemme Est occupata – A Gerusalemme, nel quartiere di al-Tur, circa 70 palestinesi, di cui più o meno la metà minori, sono a rischio di sgombero forzato in attesa di una decisione del tribunale israeliano sul destino dell’edificio di cinque piani in cui vivono.

Il 4 novembre le autorità di occupazione israeliane hanno informato i residenti che avrebbero potuto restare nelle loro case ancora una settimana prima che l’edificio venisse demolito per l’assenza di una licenza edilizia.

Gli abitanti hanno dichiarato ad Al Jazeera che domenica gli è stato proposto un altro ultimatum: pagare 200.000 shekel (55.572 euro) rimborsabili e avere tempo fino alla fine del mese per effettuare da sé la demolizione, o [lasciare che] lo Stato lo faccia per loro – al costo di due milioni di shekel (558.000 euro).

Hussein Ghanayem, l’avvocato dei condomini, ha affermato di aver presentato ricorso lunedì e che giovedì è prevista un’udienza in tribunale per stabilire quali misure potranno essere intraprese dalle autorità.

Il condominio di cinque piani si trova nell’abitato di Khallet al-Ain, all’interno del quartiere di Al-Tur (pronuncia At-Tur), noto anche come Jabal al-Zaytun (Monte degli Ulivi). Secondo l’avvocato, come nel caso di molte altre case della zona, fin dalla sua costruzione nel 2012, senza il rilascio da parte israeliana di una licenza edilizia, il palazzo ospita i 70 abitanti appartenenti a 10 famiglie.

Le organizzazioni per i diritti umani e i palestinesi hanno da tempo documentato il rifiuto delle autorità israeliane di rilasciare licenze edilizie nella Gerusalemme Est occupata, il che secondo le Nazioni Unite fa parte di un “regime di pianificazione restrittivo” che “rende virtualmente impossibile per i palestinesi ottenere permessi di costruzione, impedendo lo sviluppo di alloggi, infrastrutture e mezzi di sussistenza adeguati”.

Gli abitanti hanno scelto di rimanere nell’edificio fino all’arrivo dei bulldozer. Hanno ripetutamente chiesto di ottenere un permesso e hanno trascorso quasi nove anni nei tribunali combattendo contro l’ordine di demolizione, ma riferiscono che ogni volta si sono dovuti scontrare col rifiuto da parte delle autorità di occupazione con vari pretesti.

“Restiamo qui fino a quando non verranno e ci obbligheranno ad andarcene”, ha detto lunedì mattina la 47enne Rania al-Ghouj, mentre stava facendo colazione con i familiari nel suo appartamento al piano terra.

Lei e altri inquilini affermano di non avere i 200.000 shekel da versare allo Stato, né di voler demolire da sé l’edificio a causa dei rischi per la sicurezza.

“È uno sgombero forzato collettivo. Non c’è niente che possiamo fare a questo punto”, fa eco Iyad, il figlio 25enne di Rania.

“Pensano che se demoliranno le nostre case si libereranno di noi – non sanno che questo aumenterà solo la nostra resilienza”, aggiunge Iyad, mentre infila il falafel in un pezzo di ka’ak, una qualità di pane palestinese con sesamo tipico di Gerusalemme.

Da quando si sono trasferite nell’edificio le famiglie hanno pagato mensilmente alla municipalità di Gerusalemme controllata da Israele sanzioni per un totale di 75.000 shekel (20.917 euro) all’anno per famiglia per aver vissuto in un “edificio senza licenza”. Pagano anche un’elevata tassa di proprietà nota come Arnona in ebraico, così come gli onorari degli avvocati. Molti di loro dicono di essere indebitati, mentre altri affermano di non potersi permettere di prendere una casa in affitto in un’altra zona.

Secondo l’avvocato Ghanayem il terreno è proprietà privata di un membro della famiglia Abu Sbeitan, che possiede degli appartamenti nell’edificio. Ma egli afferma che le autorità di occupazione hanno rifiutato di concedere una licenza edilizia, sostenendo che il terreno “è destinato ad uso pubblico”. L’avvocato riferisce ad Al Jazeera che le autorità hanno dichiarato di voler invece costruire una scuola da destinare a quel territorio.

Secondo le Nazioni Unite solo il 13% della Gerusalemme Est occupata, che Israele ha annesso dopo la guerra del 1967, gran parte della quale è già stata edificata, è attualmente destinata ad opere di sviluppo e di tipo residenziale dei palestinesi.

“Una pianificazione inadeguata e inappropriata dei quartieri palestinesi ha portato al diffuso fenomeno delle costruzioni ‘abusive’ e della demolizione di strutture da parte delle autorità israeliane”, ha affermato l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA).

Circa il 57% di tutta la terra nella Gerusalemme est occupata è stato espropriato, anche a proprietari palestinesi privati, sia per la costruzione di colonie illegali che per la destinazione di zone territoriali ad “aree verdi e infrastrutture pubbliche”. Il restante 30%, osserva l’OCHA, comprende “aree escluse dal piano regolatore” in cui è vietata la costruzione.

‘Prosciugare i nostri nervi’

Myassar Abu Halaweh, una giovane madre di tre figlie, si è trasferita nell’edificio con suo marito nel 2013 dopo aver venduto parte del suo oro per permettersi un acconto per l’acquisto dell’appartamento, all’epoca del valore di 86.600 euro.

La 31enne ha detto ad Al Jazeera che la decisione del 4 novembre è stata uno shock per i residenti, che speravano di ricevere prima o poi una licenza edilizia.

“Nel corso degli ultimi nove anni ci siamo sempre trovati di fronte alla stessa situazione – abbiamo già ricevuto diversi ordini di demolizione, ma non ci siamo arresi – abbiamo continuato a fare ricorso contro le decisioni”, dice Abu Halaweh. “L’anno scorso abbiamo avuto delle indicazioni in base alle quali avremmo ottenuto la licenza, quindi io e mio marito abbiamo iniziato a investire di più nella nostra casa”.

“Questa doveva essere la casa in cui sistemarci. È come se ti rimandassero al punto di partenza quando finalmente cominci a vedere la tua vita procedere come dovrebbe.”

Mi sono laureata mentre vivevo in questa casa, in essa ho partorito, vi ho cresciuto le mie figlie. Essa è testimone dell’amore che abbiamo coltivato nella nostra famiglia. Il tempo che ci abbiamo trascorso durante il coronavirus!” prosegue con le lacrime che le rigano il viso, finché la figlia più piccola, Mariam di cinque anni, l’abbraccia e le dà un bacio.

“Ci stanno stressando, prosciugandoci finanziariamente ed emotivamente”, dice, aggiungendo che lei e suo marito stanno ancora pagando il costo dell’appartamento.

“Resteremo qui, in una tenda. Perché dovremmo partire con tanta facilità? Questo non è diverso da Sheikh Jarrah. Settanta persone senza casa sono un’altra Nakba [castrofe in arabo, in riferimento all’espulsione dei palestinesi nel 1947-49, ndtr.]”.

Nessun luogo dove espandersi

At-Tur è uno dei quartieri palestinesi più sovraffollati di Gerusalemme. Sui terreni del quartiere sono state costruite due colonie israeliane illegali, mentre l’espansione è bloccata dai vicini villaggi palestinesi, dalle strade dei coloni e dal muro di separazione.

Secondo Bimkom – un’organizzazione israeliana per i diritti composta da urbanisti e architetti – il “nucleo storico” di At-Tur “presenta una notevole densità abitativa e non ha quasi nessuno spazio per l’edilizia residenziale”.

L’organizzazione per i diritti legati alla progettazione urbana ha osservato che “l’unica speranza di espansione è a nord-est, dove si trova l’abitato non riconosciuto di Khallet al-Ain”, ma che lì è stata proposta la progettazione di un parco nazionale, per cui “ulteriori complessi abitativi sono considerati illegali in quanto costruiti su aree non destinate all’edilizia abitativa”.

Nel 2014 Bimkom scriveva: “Gli abitanti di At-Tur, principalmente quelli che si trovano nelle aree non riconosciute e non pianificate, vivono sotto la costante minaccia di demolizioni di case e ordini di evacuazione”.

Ghanayem riferisce ad Al Jazeera di difendere nella zona di Khallet al-Ain gli abitanti di altri 155 edifici e abitazioni prive di licenza.

“Dal 1967 ad oggi non hanno creato un piano regolatore che soddisfi le esigenze degli abitanti di At-Tur”, afferma Ghanayem. “L’edificio di At-Tur è privo di licenza non perché le persone non la vogliono ottenere, ma a causa della situazione in cui le persone vivono”,  aggiunge, rilevando il drammatico aumento della popolazione del quartiere rispetto alla mancanza di licenze rilasciate dal Comune di Gerusalemme.

Secondo gli organi di informazione israeliani domenica il comune ha presentato una mappa strutturale per At-Tur e la vicina città di al-Issawiya che dovrà essere discussa e approvata dalle autorità. Non è chiaro se il piano consentirà agli abitanti di ottenere le licenze, processo lungo e costoso sia per fabbricati esistenti che nuovi.

Secondo l’OCHA almeno un terzo di tutte le case palestinesi nella Gerusalemme est occupata è privo di licenza edilizia, il che mette potenzialmente a rischio di sgombero più di 100.000 abitanti.

Le ONG locali e le organizzazioni per i diritti hanno a lungo indicato una serie di pratiche e politiche israeliane a Gerusalemme volte ad alterare il rapporto demografico a favore degli ebrei, un obiettivo definito nel piano generale del comune del 2000 nei termini di “mantenere una solida maggioranza ebraica nella città”.

Secondo le organizzazioni per i diritti umani l’espansione illegale delle colonie, la demolizione di case palestinesi e le restrizioni allo sviluppo urbanistico sono alcune delle modalità principali utilizzate per realizzare questo obiettivo.

‘Nessuna scusa

Tornando a casa della famiglia al-Ghouj, Iyad, che vive con i suoi genitori, insieme ai suoi due figli, moglie e fratelli nel loro appartamento con tre camere da letto, dice ad Al Jazeera che spera che i suoi figli “avranno un futuro migliore” del suo.

“Non c’è nessuna alternativa per noi, nessun posto dove andare. Ci sono spazi enormi qui, non ci sono scuse per proibirci di ottenere una licenza”, sostiene Iyad, indicando il grande spazio aperto adiacente all’edificio.

“Il mondo dovrebbe venire a vedere l’ingiustizia in cui vive il popolo palestinese, l’umiliazione. Non siamo né i primi né gli ultimi ad affrontare tutto questo.

Assistiamo al proliferare di costruzioni in colonie come Modi’in, o a come in Cisgiordania un gruppo di coloni piazza case mobili e pochi anni dopo diventa una colonia”, dice Iyad.

Fayez Khalafawi, 60 anni, la cui famiglia possiede due appartamenti nell’edificio, è d’accordo.

“Se facciamo venire a vivere qui i coloni, otterranno un permesso in 24 ore e lo Stato farà di tutto per loro”, dice ad Al Jazeera.

“Il Comune di Gerusalemme non vuole palestinesi in città”.

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I residenti di Sheikh Jarrah rifiutano l’accordo con i coloni

 I residenti di Sheikh Jarrah rifiutano l’accordo “tirannico” con i coloni

I residenti di Sheikh Jarrah hanno respinto una proposta della Corte Suprema israeliana che li avrebbe resi “inquilini protetti” nelle loro stesse case e avrebbe aperto la strada a future evacuazioni da parte dei coloni israeliani.

 Yumna Patel  

 2 novembre 2021 Mondoweiss

 

Martedì i residenti di Sheikh Jarrah hanno annunciato che avrebbero respinto la proposta della Corte Suprema israeliana che li avrebbe resi “inquilini protetti” nelle loro stesse case, aprendo la strada a future evacuazioni delle loro famiglie da parte dei coloni israeliani.

Dopo aver mancato all’inizio di quest’anno di pronunciarsi in merito all’appello delle famiglie contro gli sgomberi, la Corte Suprema ha presentato ad agosto una proposta di “compromesso” tra le famiglie palestinesi e Nahalat Shimonim, l’organizzazione di coloni che cerca di sfrattarli dalle loro case.

L’accordo mirava a dichiarare i residenti palestinesi “inquilini protetti”, che avrebbero pagato un canone annuo di 2.400 shekel (750 dollari) all’organizzazione dei coloni per poter rimanere nelle loro case.

Accettare lo status di residenti protetti riconoscerebbe in effetti la proprietà della terra ai coloni, una condizione che i residenti hanno categoricamente rifiutato.

L’accordo offriva comunque ai residenti tale status solo per altre due generazioni, dopodiché le famiglie sarebbero state nuovamente costrette allo sfratto da parte di Nihalat Shimonim, che sostiene che la terra appartenga a coloni ebrei.

“È ora che la nostra Nakba finisca”

In una dichiarazione, le famiglie hanno definito la proposta un “accordo tirannico”, in cui la “espropriazione sarebbe comunque incombente e le nostre case sarebbero comunque considerate appartenere a qualcun altro”.

“Tali ‘accordi’ distraggono dal crimine in corso: la pulizia etnica perpetrata da una magistratura coloniale e dai suoi coloni”, afferma la dichiarazione.

Martedì, in conferenza stampa, Muna El-Kurd ha affermato che il rifiuto delle famiglie deriva “dalla convinzione della giustizia della nostra causa e dei nostri diritti alle nostre case e alla nostra patria”.

Le famiglie hanno accusato il tribunale di “eludere la responsabilità a pronunciarsi sul caso” e di costringere i residenti a prendere una decisione – qualcosa che secondo loro ha creato “l’illusione di essere noi ad avere la palla”.

Con il rifiuto delle famiglie, il tribunale dovrà ora pronunciarsi sulla causa di sfratto. Se la corte suprema deciderà a favore dei coloni, i residenti palestinesi del quartiere saranno allontanati con la forza dalle loro case e sostituiti dai coloni, una realtà che è già stata imposta a diverse famiglie di Sheikh Jarrah.

Il caso attuale riguarda solo quattro famiglie, ma una sentenza contro i residenti palestinesi aprirebbe la strada alla futura espulsione di più di una dozzina di altre famiglie di Sheikh Jarrah, anch’esse già sottoposte a ordini di sfratto.

La lotta delle famiglie di Sheikh Jarrah è piombata sulla scena mondiale all’inizio di quest’anno, attirando massicce proteste in Palestina e all’estero e l’attenzione dei leader mondiali.

Durante le proteste nel corso dell’estate, è stato documentato che le forze israeliane attaccavano violentemente i residenti locali e anche i giornalisti che seguivano gli eventi.

Sembrerebbe che la crescente attenzione internazionale che circonda Sheikh Jarrah abbia evitato per un po’ qualsiasi sgombero forzato, ma i residenti sostengono che occorre intraprendere un’azione effettiva per proteggerli.

“La comunità internazionale ha a lungo sostenuto che l’espansione dei coloni e l’espulsione forzata da Sheikh Jarrah sono crimini di guerra. Pertanto, deve rispondere a tali gravi violazioni del diritto internazionale con reali ripercussioni diplomatiche e politiche”, afferma la dichiarazione delle famiglie, aggiungendo che “la cultura dell’impunità non deve continuare”.

“È tempo che la nostra Nakba finisca”, hanno detto le famiglie. “Le nostre famiglie meritano di vivere in pace senza il fantasma incombente di un’imminente espropriazione”.

La Corte Suprema confisca terreni per il comune

Lunedì, in una sentenza separata, la Corte Suprema ha deciso di confiscare ai residenti di Sheikh Jarrah un pezzo di terra all’ingresso del quartiere e di consegnarlo alla municipalità israeliana di Gerusalemme.

Il terreno confiscato misura circa 4.700 metri quadrati e, secondo quanto riferito, dovrebbe utilizzarsi come terreno “pubblico” del comune.

In una dichiarazione a The New Arab, Hashem Salaymeh, membro del consiglio locale di Sheikh Jarrah, ha affermato che la decisione di confiscare la proprietà e consegnarla al comune è stata “estremamente dannosa” per la causa dei residenti.

“Questo manda il messaggio che Sheikh Jarrah è preso di mira da tutti gli attori israeliani: dal governo, dal comune e dai coloni privati. Questo rende il caso di Sheikh Jarrah ancora più complicato”, ha detto Salaymeh.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 




Ottobre 2000 vs maggio 2021: come i palestinesi hanno sfidato la frammentazione

Zena Al Tahhan

4 ottobre 2021 – Al Jazeera

Analisti e attivisti affermano che le proteste del maggio 2021 hanno segnato un punto di svolta nella mobilitazione e nell’unità dei palestinesi.

Gerusalemme Est occupata – Durante i primi otto giorni dell’ottobre 2000 le forze israeliane uccisero a colpi di arma da fuoco 13 giovani palestinesi disarmati nelle proteste di massa all’interno di Israele (denominati dai palestinesi territori occupati nel 1948).

Definite “ottobre habbet” in arabo – che significa l’esplosione popolare di ottobre – le proteste e gli scontri avvennero all’inizio della seconda Intifada, o insurrezione, dopo l’uccisione e il ferimento di palestinesi da parte dell’esercito israeliano nei territori occupati nel 1967.

Interrompendo decenni di sistematica frammentazione fisica, politica e sociale del popolo palestinese da parte di Israele, le proteste di ottobre e l’Intifada segnarono un momento di unità popolare tra i palestinesi nei territori occupati del 1948 e del 1967

In particolare dopo gli accordi di Oslo del 1993 – che miravano, senza successo, a creare uno stato palestinese nei territori del 1967 – i palestinesi all’interno di Israele

erano stati lasciati fuori dall’equazione del progetto politico palestinese e subirono tentativi da parte del governo israeliano di pacificarli attraverso finanziamenti e stringenti controlli di polizieschi, mantenendo la loro emarginazione politica, sociale ed economica.

Sebbene dal 2000 siano scoppiate diverse grandi rivolte popolari palestinesi – anche tra i palestinesi all’interno di Israele – secondo analisti e attivisti le proteste e gli scontri che hanno spazzato il paese da nord a sud nel maggio 2021, definiti “habbet Ayyar” (esplosione di maggio), hanno segnato un evidente punto di svolta nel rapporto tra palestinesi e Stato, e nella mobilitazione popolare palestinese.

Ameer Makhoul, analista politico e scrittore con sede ad Haifa, dice ad Al Jazeera che, mentre le proteste del 2000 avvennero “per inviare un messaggio che [anche noi in Israele ndt.] siamo parte del popolo palestinese” e furono caratterizzate come “sostegno alla lotta del nostro popolo” nei territori occupati nel 1967, le proteste del maggio 2021 “hanno inviato il messaggio che siamo un’unica causa – che siamo parti interessate direttamente” e aggiunge che “non sono state proteste di solidarietà”, ma che i palestinesi in Israele ” sono stati in prima linea”.

Molteplici fronti

A fronte della serie di eventi rapidamente succedutisi tra fine aprile e maggio – principalmente le proteste contro i piani israeliani di pulizia etnica del quartiere palestinese di Sheikh Jarrah a Gerusalemme, i giorni dei violenti raid israeliani con centinaia di feriti nel complesso della moschea di Al-Aqsa durante il Ramadan e alla campagna di bombardamenti sulla Striscia di Gaza – la quarta in 13 anni – i palestinesi all’interno di Israele si sono mobilitati, obbligando lo Stato ad affrontare molteplici fronti aperti.

Il 10 maggio in almeno 20 località, compresi i villaggi più piccoli e meno conosciuti, palestinesi nelle aree del 1948 migliaia di persone sono scese in piazza con proteste e scontri descritti come “senza precedenti”.

Gli abitanti hanno bloccato strade, lanciato bottiglie molotov e pietre contro le forze israeliane, dato fuoco alle auto della polizia, rotto le telecamere di sorveglianza israeliane e rimosso le bandiere israeliane dai lampioni per sostituirle con quelle palestinesi.

Nelle grandi città come Haifa, Lydd e Ramle – città che sono state sottoposte a pulizia etnica nel 1948 e che oggi ospitano una minoranza palestinese – la questione è cresciuta di intensità quando israeliani armati, molti dei quali provenienti dalla Cisgiordania occupata, si sono trasformati in bande di strada che hanno attaccato case palestinesi e perpetrato linciaggi, che Makhoul descrive come “una minaccia esistenziale per il popolo”

Il 12 maggio per la prima volta dal 1966 [anno in cui finì l’amministrazione militare nei territori abitati da palestinesi con cittadinanza israeliana, ndtr.] Israele ha dichiarato lo stato di emergenza a Lydd e ha imposto il coprifuoco alla città mentre iniziava la guerra a Gaza. Ha anche fatto affluire rinforzi della guardia di confine, un corpo dell’esercito che di solito opera nella Cisgiordania occupata.

Secondo Mossawa, un’organizzazione per i diritti dei palestinesi, al 10 giugno la polizia aveva arrestato più di 2.150 palestinesi, oltre il 90% dei quali erano palestinesi residenti in Israele o a Gerusalemme. Le organizzazioni per i diritti umani hanno anche documentato l’uso eccessivo della forza, inclusi proiettili veri, proiettili di metallo ricoperti di gomma, lacrimogeni e granate stordenti. Si è anche rilevato che la polizia ha torturato i detenuti palestinesi in custodia e ha chiuso un occhio sugli attacchi di bande ebraiche contro abitanti palestinesi, collaborando in alcuni casi con loro.

Durante gli eventi Moussa Hassouna, un abitante palestinese di Lydd di 32 anni, è stato ucciso da un colono e il 17enne Mohammad Kiwan è stato ucciso in seguito dalla polizia a Umm al-Fahm. In migliaia si sono recati ai loro funerali.

Nel 2000 Israele ha trattato i “palestinesi in Israele” – come ci chiama – come se le questioni che si verificano in Cisgiordania– o in altre parole, alle questioni del popolo palestinese -non li riguardassero”, ha detto Makhoul. “Soprattutto dopo Oslo, ha tentato di separare e frammentare il popolo palestinese come se i palestinesi nei territori del ’48 fossero estranei alla causa Palestinese.

“Quello che è successo quest’anno è che Israele, per come ci ha aggrediti, ci ha trattati come se facessimo parte del popolo palestinese [nei territori occupati nel 1967, ndt.]. Continua “Nel 2000 ha cercato più di contenerci. Ora ha cercato di dissuaderci con la repressione… ha considerato gli ultimi scontri un fronte di guerra”.

Mohamad Kadan, uno scrittore palestinese che vive ad Haifa, è d’accordo. “Israele è rimasto scioccato dagli shabab (giovani) che sono scesi in strada, il che è dimostrato dal modo in cui la polizia ha interagito con loro”,dice ad Al Jazeera.

Loro (la polizia) erano stremati – era evidente. In alcuni casi, hanno finito le manette di metallo, quindi hanno portato quelle di plastica”, afferma Kadan, aggiungendo che “l’atteggiamento di Israele nei loro confronti è terrorizzare e incutere paura”.

Guidate dal basso

Ciò che distingue le proteste di maggio da quelle dell’ottobre 2000 è anche che sono state guidate dal basso, sia durante le proteste iniziali che nell’organizzazione dei movimenti giovanili che è seguita.

La decisione popolare di agire nel 2000 venne dai leader politici – dall’Higher Follow Up Committee [un’organizzazione che opera come coordinamento e rappresentanza nazionale dei palestinesi cittadini di Israele, ntd.] – e non dal basso”, afferma Makhoul.

Ora, le decisioni sono state prese dalla gente in tutti i sensi. Dai movimenti giovanili, dai movimenti popolari, dai comitati popolari di ogni città”, sostiene.

Kadan descrive coloro che inizialmente sono scesi in strada come provenienti da “situazioni di estrema marginalità”. Hanno gridato “dalle periferie più povere – le persone che qui non vedono un futuro”, dice. “Il potere e l’impatto di questi shabab sono stati molto chiari: è la voce che si è sentita e sempre lo dovrebbe essere”.

Mohammad Taher Jabareen, un 29enne abitante di Umm al-Fahm e uno dei fondatori del movimento (Hirak) di Umm al-Fahm, dice ad Al Jazeera che i giovani scesi in strada “non avevano nulla da perdere”.

Avevano bisogno di queste proteste, che hanno permesso loro di rompere la barriera della paura e prendere posizione per dire ‘quando è troppo è troppo’, per uscire dall’atmosfera di problemi familiari, politiche sistematiche contro di loro – tra cui criminalità organizzata, demolizioni di case, confisca di terre, restrizioni finanziarie, multe – tra le altre questioni”, afferma Jabareen.

Le organizzazioni per i diritti umani hanno da tempo documentato la lotta dei palestinesi in Israele, che sono 1,8 milioni. A parte gli sforzi di Israele nel corso degli anni per sopprimere la loro identità palestinese, la maggioranza vive in città densamente popolate e con scarso accesso alla terra e alle risorse – la maggior parte delle quali sono state espropriate durante e dopo il 1948 a beneficio dei coloni ebrei.

Dalla Seconda Intifada un nuovo fenomeno di criminalità organizzata – di cui gli abitanti affermano essere responsabile Israele– è diventato il problema numero uno per i palestinesi all’interno di Israele, ha causato centinaia di vittime e ha portato a grandi proteste.

Tuttavia gli abitanti sostengono che gli episodi che hanno spinto la gente a scendere in piazza sono stati gli attacchi israeliani a Sheikh Jarrah e al complesso della moschea di Al-Aqsa.

“La criminalità organizzata è uno dei mezzi attraverso i quali Israele allontana i palestinesi nelle aree del ’48 dalla scena politica”, sostiene Jabareen. “È come dire: ‘Tenetevi occupati tra voi con i vostri problemi e saremo liberi di agire come vogliamo con la moschea di Al-Aqsa e di imporre divisioni spaziali e temprali’”.

Il 7 maggio, la notte più santa del Ramadan, su un’autostrada la polizia israeliana ha tentato di impedire ad alcuni grandi autobus che trasportavano palestinesi dalle aree del 1948 di raggiungere la moschea di Al-Aqsa. Quando i passeggeri sono scesi e hanno iniziato a farsi strada a piedi, i palestinesi di Gerusalemme sono andati ad accompagnarli con le loro auto in città, in quella che è stata salutata come una vittoria e un momento di coesione.

Kadan descrive la Città Vecchia e il complesso della moschea di Al-Aqsa come “l’ultima fortezza del movimento nazionale palestinese”.

Sheikh Jarrah rappresenta il passato – lo sradicamento e la Nakba –, mentre Al-Aqsa e la Città Vecchia rappresentano ciò che è ancora possibile – che c’è ancora speranza per la liberazione della Palestina”, dice Kadan.

Makhoul afferma che il modo in cui “Al-Aqsa e Sheikh Jarrah hanno mobilitato Gaza, che poi ha mobilitato Gerusalemme” ha mostrato che si tratta di questioni sulle quali esiste un “pieno consenso popolare”.

“Ogni palestinese sentiva di avere una responsabilità individuale e personale nei confronti di Sheikh Jarrah e Al-Aqsa”, un sentimento che secondo Makhoul deriva anche dalla “debolezza della leadership politica palestinese”.

Mobilitazione e movimenti giovanili

Secondo Kadan, molti movimenti giovanili, che in seguito hanno consentito un’unità sostanziale tra i palestinesi nelle aree del ’48 e del ’67, sono emersi dopo i primi scontri con la polizia

A seguito dell’uso eccessivo della forza da parte della sicurezza israeliana e “una volta che la gioventù (shabab) si è stancata degli scontri, sono nate forme di lotta diverse”, afferma Kadan, spiegando che “in ogni città sono cresciute cellule per organizzare movimenti” composte da giovani che sono attivi nelle università, nei partiti politici e in altri contesti.

“Tutti hanno iniziato a organizzare discussioni su ciò che è accaduto nei giorni precedenti di intensi scontri e su cosa possiamo fare per andare avanti”, continua Kadan, osservando che oltre a movimenti già organizzati come Hirak [cioè movimento ntd.] Haifa e Hirak Umm al-Fahm, hanno iniziato a organizzarsi nuovi movimenti giovanili anche nelle città di Shefa ‘Amr, Kabul, Baqa al-Gharbiya, Kufr Kanna.

Dalle mobilitazioni di maggio sono nati anche i comitati di volontari per rispondere alla crisi locale, che comprendono un comitato di avvocati e un comitato di supporto psicologico per aiutare i detenuti nelle aree di Gerusalemme e del ’48.

Questa generazione non ha solo elaborato progetti, ma ha iniziato a costruire alternative. Hanno visto che i partiti politici e le istituzioni – quelli tradizionali come The Higher Follow Up Committee – non avevano più un ruolo. Non sapevano cosa fare”, dice Kadan.

Il 17 maggio è stato proclamato uno storico sciopero generale organizzato dai giovani nelle aree del ’48 e del ’67 con lo slogan “dal fiume al mare”, che Kadan descrive come un “punto di svolta” per la mobilitazione dei giovani.

C’era un’atmosfera in cui ogni città e villaggio si impegnava a prepararsi per lo sciopero – i giovani hanno iniziato a incontrarsi, a parlare e ad organizzare attività per il giorno dello sciopero – girando per le strade per verificare che lo sciopero fosse in atto, distribuire volantini alle persone, organizzare conferenze, interventi, seminari”, ha affermato Kadan.

Tra le altre iniziative, tra cui una maratona a Gerusalemme, i movimenti giovanili nelle aree del ’48 e del ’67 hanno organizzato contemporaneamente una “Settimana dell’economia palestinese” per appoggiare l’economia palestinese e boicottare i prodotti israeliani.

Makhoul afferma che “la forza di questa sfida sta aumentando di giorno in giorno”, guidata dal ruolo dei giovani e dei social media nell’esplosione popolare del maggio 2021.

“I social media sono la nuova geografia”, dice Makhoul. “Oggi il popolo palestinese può agire e considerarsi come un unico popolo, anche se non è tutto in patria o se non può incontrarsi in patria.

Ciò che ci distingue oggi è che ci siamo resi conto che il nostro campo di gioco è prima di tutto e principalmente il mondo e che Israele non detta le regole del gioco su come protestiamo, lottiamo per la nostra causa e la nostra gente e lavoriamo per raggiungere gli obiettivi del nostro popolo”, continua.

Makhoul afferma di ritenere che, anche se Israele “cerca di distruggere la cultura della resistenza nelle aree del ’48”, “avrà un problema maggiore con le nuove generazioni, che non prestano attenzione a ciò che dice Israele e non ne sono intimidite”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Il sistema scolastico israeliano fa un piccolo ma significativo passo nella discussione sulla Nakba

Il sistema scolastico israeliano fa un piccolo ma significativo passo nella discussione sulla Nakba

La nuova prova, che sembra destinata ad estendersi oltre le attuali 55 scuole superiori, analizza le affermazioni di un capo militare israeliano che intendeva “ripulire l’interno della Galilea” dai palestinesi.

Or Kashti

19 settembre 2021 – Haaretz

 

Una domanda negli esami di maturità di storia di quest’estate ha sorpreso le persone che sono al corrente del conflitto fra narrazioni che segna l’argomento. Per la prima volta in questo esame, che fa parte del diploma di scuola superiore, agli studenti è stato chiesto di analizzare una fonte storica sulla Nakba dei palestinesi, quando più di 700.000 arabi fuggirono o furono espulsi dalle loro case durante la guerra del 1947-49, e la responsabilità israeliana in questo, anche se parziale.

Il testo che gli studenti sono stati invitati ad affrontare non è poco significativo: viene dalle memorie di Yigal Allon, comandate della squadra speciale d’elite del Palmach [formazione dell’ Haganah, milizia paramilitare ebraica all’epoca del mandato Britannico in Palestina, ndtr.] in seguito uno dei  comandanti del nuovo esercito israeliano durante la guerra. Allon scrisse con orgoglio di come, durante il conflitto, riuscì a “ripulire l’interno della Galilea” dai suoi abitanti arabi attraverso la guerra psicologica.

Questa domanda provocatoria era destinata a studenti con un curriculum di storia più approfondito di quello normale, ma i suoi principi sono già entrati nell’esame del programma regolare.

La domanda sulla “creazione del problema dei rifugiati palestinesi” appare nell’esame di storia in un programma speciale avviato in circa 55 scuole superiori. Il programma prevede meno materiale ma approfondisce maggiormente alcuni periodi. Include due testi da analizzare.

Uno venne pubblicato nel giugno del 1948 in un giornale arabo con sede a Giaffa: esso criticava la “quinta colonna, quanti abbandonano le proprie case e attività economiche e vanno a vivere altrove.” L’altra cita Allon sulla conquista della parte orientale dell’Alta Galilea e la valle di Hula, all’estremo nord.

“Abbiamo solo cinque giorni fino all’imminente data del 15 maggio [quando era prevista la fine del Mandato britannico sulla Palestina, ndtr.]. Abbiamo visto la necessità di ripulire l’interno della Galilea e di creare una contiguità territoriale ebraica nell’Alta Galilea,” scrisse Allon nel “Libro del Palmach”. Allon intendeva provocare la fuga di “decine di migliaia di arabi ostili rimasti in Galilea, e che durante un’invasione potrebbero colpirci dal fronte interno.” Così fece diffondere la voce secondo cui “in Galilea erano arrivati molti rinforzi e stavano per andare a bruciare tutti i villaggi nella [valle di] Hula.”

Chiese agli ebrei che erano in rapporto con gli arabi “di avvertirli in quanto amici di fuggire prima che fosse troppo tardi. E nella valle di Hula si è diffusa la voce che era tempo di scappare. Decine di migliaia sono fuggiti. Lo stratagemma ha ottenuto pienamente il suo obiettivo… vaste zone sono state purificate.”

Riguardo alla fonte palestinese, agli studenti è stato chiesto di distinguere tra il fatto storico, la partenza di arabi benestanti da Giaffa e da altre città, e l’opinione del giornalista su di essi (“quinta colonna”). Agli studenti è stato anche chiesto di confrontare i due testi e spiegare se il confronto “corrisponde a quanto si è studiato sulla creazione del problema dei rifugiati.”

Quindi in questo caso la novità risiede nel riconoscimento di un contributo israeliano al “problema”. Mentre ci sono citazioni in lavori di Benny Morris [noto storico israeliano, ndtr.] e di altri studiosi che affrontano l’espulsione di palestinesi e l’impedimento del loro ritorno durante e dopo la guerra, è difficile ignorare il posto che il problema ha ottenuto in un esame ufficiale. Forse il prossimo anno verrà persino menzionato il termine “Nakba”.

Il cambiamento è significativo anche nel contesto delle lotte negli ultimi due decenni, soprattutto da parte dei ministri dell’Istruzione di destra, contro i tentativi di modificare la narrazione storica che generazioni di studenti hanno imparato a memoria. All’inizio degli anni 2000 l’allora ministra dell’Istruzione Limor Livnat avversò i testi scolastici apparsi poco prima che assumesse l’incarico (e che erano stati approvati dal ministero dell’Istruzione; il testo “Mondo di Cambiamenti” venne bandito).

Allo stesso modo nel 2009 l’allora ministro dell’Istruzione Gideon Sa’ar [ex dirigente del Likud e attuale segretario del partito di destra “Nuova Speranza”, ndtr.] ritirò dalle librerie un testo che proponeva una discussione in base alle fonti contrastanti sulle cause del problema dei rifugiati.

All’interno di questa controversia c’era l’articolo di uno studioso palestinese che scrisse che il Piano D dell’Haganah, la milizia pre-statale, era un’“opportunità storica (per gli ebrei) di ripulire il Paese dagli arabi, di negare la presenza araba cancellandola.” Nel 2016 anche l’allora ministro dell’Istruzione Naftali Bennett curò la pubblicazione di un testo riscritto di educazione civica, secondo cui la maggioranza dei rifugiati scappò “temendo per la propria vita o rispondendo alla richiesta dei dirigenti locali o dei Paesi arabi limitrofi.”

“Grande progresso”

Il prof. Eyal Naveh dell’università di Tel Aviv, il cui testo della fine degli anni ’90 venne duramente criticato dalla destra, afferma di non ricordare nulla riguardo alla “questione dei profughi” nei precedenti esami di maturità. “È un grande progresso,” afferma. “L’inizio della guarigione…In fin dei conti la citazione di Allon può essere utilizzata per criticare la nascita dello Stato, eppure chi ha scritto il testo dell’esame ha avuto sufficiente fiducia da utilizzarlo.”

Naveh afferma che chiedere un confronto tra i due testi potrebbe comportare niente meno che un profondo cambiamento pedagogico.

“Il confronto consente agli studenti di comprendere che non c’è una sola verità, ma che alla storia, come a qualunque questione umana, viene data un’interpretazione diversa, a cui gli studenti devono aggiungere la propria interpretazione,” sostiene. “Questo esame dialoga con il passato, si collega a dilemmi contemporanei e provoca un pensiero critico. Gli studenti devono affrontare le questioni, e ciò è eccellente.”

Tsafrir Goldberg dell’università di Haifa è stato uno degli autori del testo “Costruire uno Stato in Medio Oriente”, che venne eliminato nel 2009.

Afferma che i nuovi programmi di storia, noti con l’acronimo in ebraico di “Sahlav”, “consentono una discussione critica e invitano i docenti a sfidare i loro studenti con domande meditate e a tenere una discussione e un dibattito su questioni insidiose. È stato Bennett a decidere che l’esame di maturità in storia dovesse essere assegnato in base alle linee innovative di Sahlav. Quindi dovrebbe essere visto come un chiaro sentiero di chiarezza.”

Le lettere dell’acronimo ebraico Sahlav non significano niente di particolarmente stimolante: “Curiosità, ragionamento e apprendimento in modo divertente.” L’obiettivo è incoraggiare “l’apprendimento attivo”, un approccio che dovrebbe impedire che gli studenti dimentichino quello che hanno imparato pochi minuti dopo l’esame. Un modo per farlo, concordano i pedagogisti, è il continuo impegno su questioni complesse che possono anche essere delicate: per esempio la Nakba.

Il 60% del voto nel programma si basa su esami predisposti dagli insegnanti e su documenti assegnati da loro, il 40% su un esame con il libro a disposizione sviluppato specificamente per il programma. Due anni fa circa 7.000 studenti hanno fatto l’esame. Durante la pandemia le scuole hanno scelto di fare solo un esame esterno per le materie umanistiche, per cui il numero di studenti che hanno fatto l’esame Sahlav è sceso a circa la metà. Non ci sono state praticamente differenze nella media dei voti tra l’esame Sahlav e quella dell’esame di maturità normale.

Le scuole che vogliono far parte del programma Sahlav devono rispondere a certe condizioni, comprese più ore di classe di storia, e gli insegnanti devono partecipare a una serie di seminari di formazione. Il programma è in corso in scuole di tutto il Paese, ma non distribuito in modo omogeneo: circa metà delle scuole sono nelle comunità agricole come kibbutz [con proprietà collettiva, ndtr.] e moshav [con proprietà cooperativa, ndtr.], e non è inclusa alcuna scuola della comunità araba.

Il risultato potrebbe essere un involontario allargamento del divario: da una parte ci sono insegnanti che insistono a indagare questioni controverse e studenti che imparano a fare domande e vedono le cose da una prospettiva differente. Dall’altra, insegnanti e studenti che si basano più su un insegnamento ripetitivo.

Secondo Gilad Maniv, responsabile per l’insegnamento della storia nel ministero dell’Istruzione e l’ideatore di Sahlav, il programma si basa sul normale curriculum di insegnamento della storia, ma in modo più approfondito, quindi le questioni sono più impegnative.

Non si tratta solo della responsabilità israeliana per la fuga dei palestinesi dalla Galilea, ma comporta l’invito agli studenti a dire la loro e forse anche a mettere a confronto affermazioni di studiosi famosi (per esempio Tom Segev, sull’indifferenza del ministero dell’Istruzione e di “moltissime persone nel Paese per la lotta agli immigrati clandestini” – ebrei che entrarono illegalmente durante il Mandato britannico. Anche il fatto che “nel curriculum la Prima Aliyah [immigrazione ebraica in Palestina tra il 1881 e il 1903, ndtr] e la Seconda Aliyah [dal 1904 al 1914, ndtr.] siano raggruppate insieme. Ciò è giustificato?)”

Una simile sfida non è nuova. Quando Bennett era ministro dell’Istruzione agli studenti venne chiesto se “la principale enfasi nell’insegnamento della Guerra d’Indipendenza [la prima guerra arabo-israeliana nel 1947-49, ndtr.]” dovesse essere posta sulla sua natura in quanto “guerra esistenziale dell’Yishuv (la comunità ebraica nel periodo pre-statale) e dello Stato di Israele.”

“I libri di testo si occupano della Nakba e del problema dei profughi, quindi il test riflette il curriculum,” afferma Maniv, aggiungendo che, dato che l’esame permette di utilizzare il libro di testo, “ciò consente un ragionamento critico come fare un confronto.”

L’unità Ricerca e Sviluppo dell’insegnamento della storia

Naveh, dell’università di Tel Aviv, suggerisce una spiegazione lievemente diversa. Sostiene che i cambiamenti sono principalmente il risultato delle “pressioni e critiche da parte di accademici e giornalisti che sono andate avanti per decenni. Il ministero dell’Istruzione lavora con lentezza, ma le cose mano a mano filtrano.” Un’altra possibilità è che il piccolo contesto esclusivo consente una maggiore libertà.

Maniv definisce il programma “l’unità ricerca e sviluppo dell’insegnamento della storia.” I cambiamenti richiedono “una preparazione a lungo termine.” Gli insegnanti “che sono abituati a dettare il materiale per l’esame devono rileggere fonti storiche e affrontare questioni complesse.”

È difficile anche per gli studenti: a volte hanno difficoltà a emanciparsi da un “apprendimento meccanico,” sicuramente quando gli altri argomenti sono ancora insegnati in modo tradizionale.

Maniv afferma che qualche anno fa questo è stato il contesto di una protesta studentesca nella scuola in cui l’insegnamento è stato impostato con il programma Sahlav. Hanno presentato una petizione al preside per “ritornare alla dettatura nelle lezioni di storia.”

Eppure Maniv dice che il prossimo anno la sua unità prevede di aggiungere una parte con il libro a disposizione per l’esame di maturità normale. “Se gli esami di diploma continueranno ad esistere nei prossimi anni, saranno nel formato Sahlav,” afferma.

Il “problema dei profughi palestinesi” è stato inserito nel programma ufficiale alla fine degli anni ’90, ma è passato più di un decennio prima che i libri di testo iniziassero ad affrontarlo. Da allora esso è comparso a distanza di qualche anno nei normali esami di maturità.

Un altro esempio, totalmente diverso dall’approccio Sahlav, può essere trovato nell’esame di storia della maturità nell’inverno del 2020: “Spiegare i due fattori della creazione del problema dei profughi palestinesi: uno associato alla società palestinese e uno che ha contribuito a questo problema.” Secondo Goldberg, dell’università di Haifa, simili parole “invitano ad una discussione molto ridotta.”

Tuttavia, secondo le risposte pubblicate lo scorso anno dal ministero dell’Istruzione, i fattori che portarono al problema dei rifugiati non solo include il “gravissimo shock” della partenza delle famiglie palestinesi benestanti che “lasciarono il Paese” (cioè, fu colpa dei palestinesi). Le risposte hanno incluso anche il fatto che “dopo l’invasione da parte delle armate arabe ci furono casi in cui le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] allontanarono o espulsero la popolazione araba e ne distrussero i villaggi.” E ci furono altri fattori: “Il rifiuto dei Paesi arabi, tranne la Giordania, di accettare i rifugiati,” insieme al “(rifiuto) dello Stato di Israele di consentire ai profughi di tornare nel suo territorio.”

In uno studio di qualche anno fa Goldberg scoprì che circa il 5% degli studenti che hanno sostenuto l’esame aveva scelto di rispondere alle domande relative al problema dei rifugiati. “Questo dato potrebbe indicare quanto i docenti si impegnino nell’insegnare questa complicata questione, o il numero di docenti che scelgono di insegnarlo,” afferma. “Verosimilmente gli studenti si devono sentire preparati per rispondere” a queste domande.

In un altro studio i docenti hanno riportato che il timore di insegnare questioni storiche sensibili proviene meno da preoccupazioni riguardo la censura dall’alto e più dall’autocensura, soprattutto “dalla confusione che può scatenare in classe.” Un’altra spiegazione è che l’argomento è insegnato in genere alla fine dell’anno scolastico, quando la pressione per completare tutto il programma prima dei test e degli esami di maturità non consente una trattazione approfondita.

Domande simili compaiono occasionalmente anche negli esami di maturità di storia nelle scuole religiose statali. Secondo Roy Weintraub, studente di dottorato all’università di Tel Aviv che studia l’argomento, le scuole religiose statali “non vogliono occultare le ingiustizie che gli ebrei commisero nella Guerra di Indipendenza. Dalla nostra prospettiva imparare le sofferenze dei palestinesi durante la fondazione dello Stato ci aiuta a sostenere che non ci sono differenze tra l’insediamento degli ebrei sulle terre conquistate nel 1948 e su quelle conquistate nel 1967. Ciò è parte della narrazione che i coloni presentano in quanto successori dei pionieri [i primi colonizzatori sionisti, ndtr.].”

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Attivisti lanciano una campagna di boicottaggio contro Duty Free Americas per il suo sostegno ad associazioni di coloni israeliani in Cisgiordania

Michael Arria

3 settembre 2021 – Mondoweiss

Una coalizione di organizzazioni in Florida chiede di boicottare Duty Free Americas per il suo sostegno finanziario a gruppi di coloni razzisti e ultranazionalisti in Cisgiordania.

La South Florida Coalition for Palestine [Coalizione nella Florida meridionale per la Palestina] chiede di boicottare la compagnia di Miami “Duty Free Americas” [catena di negozi duty free che opera in aeroporti USA e in altre parti del mondo, ndtr.] per i suoi legami con le colonie illegali israeliane e l’espulsione forzata dei palestinesi.

La catena Duty Free Americas, che appartiene alla famiglia Falic, gestisce oltre 180 negozi in aeroporti e valichi di frontiera negli USA e in America latina. Secondo un’inchiesta del 2019 di Associated Press, nell’arco di dieci anni la famiglia Falic ha donato a gruppi di coloni 5,6 milioni di dollari, oltre a fornire sostegno finanziario a gruppi ebraici razzisti e ultranazionalisti di Hebron.

Simon Falic, uno dei tre fratelli che gestisce Duty Free, ha dichiarato ad Associated Press che gli ebrei dovrebbero poter vivere in tutta la Terra Santa a loro piacimento. “Siamo orgogliosi di sostenere delle associazioni che aiutano a promuovere la presenza ebraica su tutta la terra di Israele,” ha detto. “Secondo noi l’idea che la semplice presenza ebraica in qualche area geografica possa costituire un ostacolo alla pace non ha alcun senso.”

La coalizione che promuove il boicottaggio comprende Dream Defenders, Jewish Voice for Peace South Florida, Al-Awda South Florida, Students for Justice in Palestine South Florida, CAIR Florida, e South Florida Muslim Federation.

Siamo soprattutto noi che viviamo in Florida che dovremmo aderire all’appello di boicottare Duty Free Americas, in quanto i proprietari della compagnia vivono qui, molti dei loro negozi si trovano in questo Stato e dobbiamo richiamarli alle loro responsabilità e chiedere loro conto dei milioni di dollari che hanno donato per sostenere la perpetuazione della Nakba [”catastrofe”, termine con cui si indica l’esodo forzato di circa 700.000 palestinesi dopo la proclamazione dello Stato di Israele, ndtr.],” ha detto a Mondoweiss la coordinatrice regionale per la Florida centrale di CAIR-Florida [Consiglio sulle Relazioni USA-Musulmani, ndtr.]. “La South Florida Coalition for Palestine risponderà a questo appello da parte del popolo palestinese ospitando una protesta virtuale il 12 settembre per lanciare la campagna in Florida – non rimarremo in silenzio di fronte all’occupazione, l’apartheid e la pulizia etnica.”

All’evento di promozione del boicottaggio si unirà alla coalizione anche Campaign to Defund Racism, movimento a guida palestinese che prende di mira le organizzazioni “benefiche” collegate alle colonie israeliane.

Oltre duecento organizzazioni, villaggi e attivisti palestinesi si sono appellati alla comunità internazionale affinché si taglino i fondi alle associazioni di coloni israeliani. Ciò che vediamo arrivare dagli organizzatori nella Florida del Sud, quali al Awda, Jewish Voice for Peace e Dream Defenders, non è che una delle varie strategie che si dovranno utilizzare per mettere i bastoni fra le ruote al movimento di occupazione israeliano,” dice Cody O’Rourke del collettivo Good Shepherd [“Buon Pastore”, che ha sede nelle colline di Hebron, ndtr.], organizzazione che fa parte della campagna Defund Racism. “Prendere di mira i donatori, partecipare a campagne di pubblica utilità, ricorrere ai tribunali e fare pressione sui procuratori generali e sul Dipartimento del Tesoro affinché facciano rispettare le norme già in vigore sulle associazioni benefiche sono tutte tattiche che si dovranno assumere ed usare.”

All’inizio dell’anno gli attivisti hanno protestato davanti alla sede centrale di Duty Free Americas nella città di Hollywood, in Florida. “Come si è visto recentemente nei quartieri di Sheikh Jarrah e Silwan a Gerusalemme Est, i coloni ebrei israeliani stanno espellendo con la forza i palestinesi dalle loro case,” ha affermato nel corso dell’evento l’organizzatore Thomas Kennedy. “Siamo qui per protestare contro i finanziamenti provenienti dai proprietari di Duty Free Americas, che sostengono la costruzione di colonie illegali ebraiche in Cisgiordania e Gerusalemme Est.”

 

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero

 

 

 




‘La natura ha parlato’: un incendio boschivo riaccende il sogno palestinese del ritorno

Johnny Mansour

28 agosto 2021 – Middle East Eye

Un enorme incendio vicino a Gerusalemme ha distrutto i pini provenienti dall’Europa piantati dai sionisti, rivelando i terrazzamenti e le antiche fattorie palestinesi che li avevano ricoperti

Durante la seconda settimana di agosto circa 20.000 dunam [2.000 ettari] di terra sulle montagne di Gerusalemme sono stati avvolti dalle fiamme. 

È stata una gravissima calamità naturale. Ma nessuno si aspettava quello che si sarebbe visto dopo che sono stati spenti. O piuttosto, nessuno aveva immaginato quello che avrebbero rivelato. 

Domate le fiamme, il paesaggio ha presentato una visione tremenda, specialmente agli occhi dei palestinesi. Gli incendi hanno infatti svelato i resti di antichi villaggi palestinesi e dei terrazzamenti agricoli realizzati dai loro antenati che avevano permesso loro di coltivare e piantare olivi e vigneti lungo i declivi montani. 

Su queste montagne, che costituiscono il paesaggio naturale sul lato occidentale di Gerusalemme, correva la strada che collegava la Città Santa a Giaffa, il suo porto storico. Questo passaggio attraverso le montagne era usato dai pellegrini che provenivano dall’Europa e dal Nord-Africa per visitare i siti sacri al cristianesimo. Essi non avevano altra scelta se non attraversare valli, dirupi e le cime dei monti. Con il passare dei secoli centinaia di migliaia di pellegrini, invasori e turisti hanno calcato questi sentieri.

I terrazzamenti costruiti dai contadini palestinesi hanno un pregio: la loro solidità. Secondo gli archeologi risalgono a oltre 600 anni fa, ma io credo che siano persino più antichi.

Lavorare con la natura

Il duro lavoro dei contadini palestinesi è visibile sulla superficie della terra. Molti studi hanno provato che essi hanno sempre investito nella terra, indipendentemente dal suo aspetto, anche nei territori montani che sono molto difficili da coltivare. 

Alcune fotografie prese prima della Nakba (Catastrofe) del 1948, quando i palestinesi furono cacciati dalle milizie ebraiche, o che risalgono persino alla seconda metà del diciannovesimo, mostrano che olivi e viti erano le due colture più comuni in queste zone. 

Queste piante mantengono l’umidità del suolo e offrono una risorsa economica alla gente del posto. Gli olivi, in particolare, aiutano a prevenire l’erosione e insieme alle viti possono anche creare una barriera naturale contro gli incendi perché le loro foglie trattengono l’umidità e necessitano di poca acqua. Nel sud della Francia alcune strade nei boschi sono fiancheggiate da vigneti che fungono da protezione contro gli incendi. I contadini palestinesi che li hanno piantati sapevano come lavorare in collaborazione con la natura, come trattarla con attenzione e rispetto. È una relazione che si è stabilita nel corso dei secoli.

Ma che cosa ha fatto l’occupazione sionista? Dopo la Nakba e la forzata espulsione di buona parte della popolazione, inclusa la pulizia etnica di ogni villaggio, paese e città lungo la strada Giaffa-Gerusalemme, per coprire e cancellare quello che le mani dei contadini palestinesi avevano creato, i sionisti cominciarono a piantare in vaste zone di queste montagne i pini europei, una specie non nativa e molto infiammabile.

Specialmente nella regione montuosa di Gerusalemme è stato cancellato tutto quello che è palestinese, con i suoi 10.000 anni di storia, in nome di qualsiasi cosa che evocasse il sionismo e l’ebraicità del luogo. Il risultato della mentalità colonialista europea è stato il trasferimento di “luoghi” europei in Palestina, in modo che ai coloni fosse ricordato quello che si erano lasciati alle spalle.

Il processo di occultamento mirava a negare l’esistenza dei villaggi palestinesi. E il processo di cancellazione dei loro tratti distintivi mirava a cancellarne l’esistenza dalla storia.

Va notato che gli abitanti dei villaggi che hanno modellato la vita sulle montagne di Gerusalemme e che sono stati espulsi dall’esercito israeliano vivono vicino a Gerusalemme stessa, in comunità e in campi profughi, come Qalandiya, Shu’fat e altri.

Pinete simili si trovano in altre località a celare cittadine e fattorie palestinesi demolite da Israele nel 1948. Anche organizzazioni internazionali israeliane e sioniste hanno piantato pini europei sui terreni dei villaggi di Maaloul, vicino a Nazareth, Sohmata, nei pressi del confine Palestina-Libano, e quelli di Faridiya, Kafr Anan, al-Samoui, sulla strada Akka-Safad, e altri. Ora sono nascosti e non si possono vedere a occhio nudo. 

Enorme significato

Ai villaggi è stato persino cambiato il nome. Per esempio, Suba è diventato “Tsuba”, Beit Mahsir è diventato “Beit Meir”, Kasla è ora “Ksalon”, “Shoresh” invece di Saris, ecc. 

Anche se i palestinesi non sono ancora riusciti a risolvere il loro conflitto con gli occupanti, la natura ha ora parlato nel modo che ha ritenuto più appropriato. Gli incendi hanno rivelato un aspetto lampante degli elementi ben pianificati e realizzati del progetto sionista.

Per i palestinesi la scoperta dei terrazzamenti sulle montagne afferma che la loro narrazione secondo cui c’era vita su questa terra, che i palestinesi stessi erano i più attivi in questa vita e che gli israeliani li hanno espulsi in modo da prenderne il posto.

E anche solo per questo i terrazzamenti hanno un enorme significato. Essi affermano che la questione non è chiusa, la terra aspetta il ritorno dei suoi figli che saprebbero trattarla nel modo giusto. 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Johnny Mansour è uno storico e ricercatore, vive ad Haifa. È inoltre docente di storia e scienze politiche e autore di vari testi, tra cui: “The Military Institution in Israel”, [Le istituzioni militari in Israele] “Israeli colonisation” [La colonizzazione israeliana], “The Hijaz Railway” [La ferrovia di Hijaz] e “The Other Israel: A Look from the Inside” [L’altro Israele: uno sguardo dall’interno].

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Diventa virale il cortometraggio su Sheikh Jarrah girato da un regista palestinese

Aziza Nofal

22 giugno 2021 – Al Monitor

Il giovane regista palestinese Omar Rammal continua a raccogliere commenti positivi per “The Place,” [Il Posto], il corto che ha prodotto e postato sui social durante i recenti eventi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme.

RAMALLAH, Cisgiordania — Il 15 maggio, quando il regista palestinese Omar Rammal, 23 anni, ha postato il corto “The Place,” [Il posto] sul suo canale YouTube, non si aspettava che diventasse virale. “Credevo che avrebbe ricevuto vari apprezzamenti, ma non così tanti,” ha detto Rammal ad Al-Monitor.

Il video apparso il 15 maggio sul suo account Instagram ha totalizzato più di 6 milioni di visualizzazioni e parecchi altri canali l’hanno condiviso. Rammal l’ha postato senza copyright in modo che fosse disponibile a chiunque volesse ripostarlo, per fare conoscere in tutto il mondo la realtà della Palestina, e di Sheikh Jarrah in particolare.

In “The Place”, che dura solo un minuto e mezzo, Rammal sintetizza l’espulsione di 28 famiglie palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, dove gruppi di coloni israeliani stanno tentando di espandersi.

Rammal ha deciso deliberatamente di postare il suo video proprio il giorno dell’anniversario della Nakba [la Catastrofe, la pulizia etnica operata dai sionisti nel ’47-’48, ndtr.] per dire che il furto delle case palestinesi continua da allora e che il quartiere di Sheikh Jarrah non sarà l’ultimo, perché ogni “posto” in Palestina è preso di mira in vista della continua occupazione.

Nel suo film si concentra sulla storia di una famiglia palestinese che parla della propria casa: c’è la mamma che dice che la sua cucina è “condita con amore”, la ragazzina che ama la sua cameretta e i suoi giocattoli, il ragazzo che rappresenta i giovani palestinesi e il padre che l’ha ereditata insieme a un albero nel giardino piantato dal nonno, la cosa che ama di più della casa.

Alle spalle di queste immagini “normali”, si vedono i coloni che stanno portando via i ricordi della famiglia a cui stanno rubando la casa.

Rammal ha voluto mettere i sottotitoli in inglese con un commento semplice alla fine che riassumesse il messaggio del film: “Il posto siamo noi … la nostra esistenza … i nostri ricordi e il nostro futuro.”

Quando a Rammal è venuta l’idea per “The Place,” ne ha parlato con il suo amico sceneggiatore Suleiman Tadros che l’ha aiutato a trasformarla in un copione. Il produttore Abdel Rahman Abu Jaafar e l’intera troupe, inclusi gli attori, sono tutti volontari che hanno contribuito, ognuno nel proprio ruolo, per sostenere la lotta palestinese.

Le riprese sono durate tre giorni, ma Rammal non ha pensato che il film fosse abbastanza potente fino a quando non hanno girato la scena della mamma, interpretata dall’attrice giordana Hind Hamed. “Riguardandola dopo le riprese mi sono venuti i brividi. È stato in quel momento che mi sono detto che avrebbe avuto un enorme impatto,” ha concluso Said.

Rammal crede che, oltre ad aver postato il film sui social in un momento in cui il mondo stava mostrando grande solidarietà alla causa palestinese e al quartiere di Sheikh Jarrah, il segreto del suo successo stia nel modo in cui ne ha trasmesso il messaggio umanitario.

Rammal osserva che il cinema palestinese e arabo, nonostante la carenza di risorse, se usato in modo intelligente e sensibile, può comunicare i temi palestinesi in tutto il mondo.

Lui paragona il successo di “The Place” a quello del suo primo film del 2019, “Hajez” (“Checkpoint”), che parla delle sofferenze quotidiane dei palestinesi ai checkpoint israeliani. Sebbene entrambi illustrino una realtà palestinese, il primo non era stato accolto molto bene a causa dell’esplicito messaggio politico.

Il successo di questo film pone Rammal davanti a una scelta: lui non vuole essere visto come un regista palestinese che fa solo vedere la lotta palestinese, dato che invece crede che si debba mostrare l’altro lato della vita dei palestinesi che non è diversa da quella di qualsiasi altra persona in qualunque altro posto. “È vero che la vita dei palestinesi è complicata dall’occupazione, ma noi viviamo la nostra quotidianità come chiunque altro.”

Lui sostiene che i registi palestinesi non dovrebbero solo presentare tematiche palestinesi o mostrare i palestinesi solo sotto una luce negativa o in modo superficiale, ma piuttosto dovrebbero concentrarsi nel rispecchiarne il lato umano e la vita quotidiana.

Rammal viene da Salfit, nella Cisgiordania settentrionale, e ha completato i suoi studi in cinematografia nella capitale giordana, Amman. Nel 2018 ha diretto: “Fatimah,” un breve documentario su una ragazza siriana sfollata in Giordania e ha partecipato a vari festival arabi e internazionali, come il film festival franco-arabo, l’Elia film festival di corti e il Winter Film Awards a New York.

“The Place” non ha solo trasmesso un messaggio palestinese in tutto il mondo. Ha anche dimostrato che il cinema palestinese può comunicare un’autentica storia palestinese usando in modo intelligente gli strumenti disponibili e i social per contrastare la narrazione israeliana che falsa l’immagine dei palestinesi.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)