Apartheid in Palestina. Origini e prospettive della questione palestinese,

Gabriel Traetta. Apartheid in Palestina.Origini e prospettive della questione palestinese DeriveApprodi, Roma 2022

Recensione di Amedeo Rossi

25 settembre2022

Il libro rappresenta una denuncia della situazione che nel corso dei decenni è andata progressivamente deteriorandosi in Medio Oriente. Nelle due autorevoli prefazioni Luisa Morgantini e Wasim Dahmash evidenziano uno dei pregi di questo libro: “Chiamare le cose con il proprio nome”, come afferma Dahmash, cioè “colonialismo d’insediamento, apartheid, occupazione militare”, come enumera Morgantini. Inoltre, aggiungono, la peculiarità di questo libro è il riferimento puntuale al contesto internazionale. L’autore ne tratta con cognizione di causa, avendo collaborato con l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite specificamente dedicata ai profughi palestinesi. E il fulcro di questo lavoro è proprio la contraddizione tra dichiarazioni di principio, denunce e risoluzioni ONU e la sostanziale inanità, quando non connivenza e sostegno, della comunità internazionale nei confronti di Israele a rappresentare.

La tragedia di cui i palestinesi sono vittime è maturata soprattutto a partire dal Mandato britannico e dalla dichiarazione Balfour, che impegnava l’impero a favorire la costituzione di un “focolare ebraico” in Palestina. Fin da allora alla popolazione autoctona è stato riservato un ruolo marginale, ignorandone il diritto all’autodeterminazione e liquidandola come “popolazione non ebraica” da tutelare solo dal punto di vista religioso e sociale. È singolare che i sostenitori di Israele citino questa dichiarazione come una delle fonti di legittimazione di Israele, nonostante si tratti di un documento di chiaro stampo colonialista. E d’altra parte il colonialismo di insediamento è una delle caratteristiche che definiscono l’impresa sionista.

Il secondo momento cruciale su cui si sofferma Traetta è rappresentato dalla risoluzione 181 dell’ONU che nel 1947 stabilì la spartizione della Palestina tra uno Stato ebraico e un altro arabo, ignorando la situazione demografica sul terreno e le legittime aspirazioni del popolo palestinese. Si tratta, scrive l’autore, “dell’unico caso nella storia delle Nazioni Unite e del diritto internazionale in cui è stato conferito a un movimento politico-coloniale il diritto di fondare uno Stato e per di più a evidente discapito del popolo indigeno.” Ciò fu possibile grazie alla maggiore capacità del gruppo dirigente sionista rispetto alla controparte araba di muoversi nel contesto internazionale e trovare quindi legittimazione alle proprie pretese non solo in Occidente, ma anche nel blocco socialista. Infatti, pur nell’imminenza della Guerra fredda, la risoluzione 181 venne votata sia dagli Stati Uniti che dal blocco socialista in via di formazione. Da allora lo Stato ebraico ha continuato a violare impunemente le disposizioni delle Nazioni Unite, a cominciare proprio dalla stessa risoluzione 181. I territori occupati andavano ben oltre quelli destinati al cosiddetto Stato ebraico, ma vennero annessi senza conseguenze. La capitale venne spostata da Tel Aviv a Gerusalemme ovest, che era invece destinata ad essere un territorio gestito dalla comunità internazionale. Infine, Israele si rifiutò di consentire il ritorno delle centinaia di migliaia di profughi palestinesi, nonostante nell’atto di adesione all’ONU accettasse di riaccoglierli.

Dal problema dei profughi nacque nel dicembre 1949 la United Nation Relief and Works Agency for Palestinian Refugees in the Near East (l’UNRWA), incaricata di fornire una serie di servizi ai profughi palestinesi. Logicamente a questa agenzia Traetta dedica particolare attenzione, in quanto essa sintetizza tutte le contraddizioni e le incongruenze della comunità internazionale rispetto al conflitto israelo-palestinese. Egli evidenzia che l’UNRWA non ha un mandato specifico: “Non esiste infatti una dichiarazione esplicativa del termine unica ed esaustiva, ma vari documenti e risoluzioni ONU contengono elementi che, se correlati, forniscono la descrizione dell’istituto del mandato.” Il risultato è che “le risoluzioni sulle quali poggiano i mandati utilizzano prevalentemente […] una terminologia che lascia spazio all’arbitrio e non prevede l’esecutività della richiesta.”

Questa voluta ambiguità si manifestò anche nel 1967, quando circa altri 350.000 palestinesi vennero cacciati dalla Cisgiordania e da Gaza. L’ulteriore pressione sull’UNRWA ne accrebbe il ruolo dal punto di vista quantitativo, ma Israele scaricò sui finanziatori internazionali dell’agenzia il costo della sua espansione territoriale.

Nel 2000 l’UNRWA aveva 30.000 dipendenti, al 95% palestinesi (rappresentando quindi una fonte di lavoro imprescindibile per i rifugiati) e forniva ai suoi beneficiari servizi nei campi della salute, dell’istruzione, della formazione, dei servizi sociali, ecc. Tuttavia queste attività sono soggette alla disponibilità di fondi, a loro volta subordinati alle erogazioni da parte dei Paesi donatori, che per ragioni di politica internazionale possono decidere di ridurre o negare gli stanziamenti. È quanto ha fatto l’amministrazione Trump, che ha contribuito alla campagna di discredito e il boicottaggio promosso da Israele per eliminare alla radice la questione dei profughi palestinesi.

Nella seconda parte del libro Traetta parla delle radici colonialiste dello Stato di Israele e delle sue innumerevoli violazioni delle leggi internazionali, della Convenzione di Ginevra e delle risoluzioni ONU. Ricorda che dal 2008 Israele nega impunemente al relatore speciale ONU l’accesso sia al suo territorio che a quelli occupati. Non c’è quindi da stupirsi che oltre il 50% delle risoluzioni di denuncia per violazioni dei diritti umani, sia da parte del Consiglio ONU per i diritti umani che dell’Assemblea generale riguardino Israele.

Una serie di pratiche e di politiche discriminatorie in atto già dalla fondazione dello Stato nel 1948 hanno dato vita a sistema di apartheid istituzionalizzato sia nei territori occupati che sul territorio israeliano. Lo hanno affermato nel 2021 rapporti dell’ONU, di ong internazionali come Amnesty International e Human Rights Watch e israeliane come B’Tselem, ma i palestinesi lo denunciano da decenni. Ancora più grave è la situazione a Gaza, sottoposta dal 2007 a un assedio asfissiante che sta distruggendo l’economia, l’ambiente e la vita stessa di 2 milioni di persone. I periodici attacchi israeliani hanno provocato migliaia di vittime e preso di mira le infrastrutture fondamentali per la sopravvivenza della popolazione, compresi i servizi dell’UNRWA. Nel 2019, durante la Grande Marcia del Ritorno, i cecchini israeliani hanno fatto strage dei manifestanti. A questo proposito Traetta cita il rapporto del relatore speciale ONU, secondo il quale, nonostante la comunità internazionale sia pienamente consapevole di quanto sta avvenendo in Palestina, essa si dimostra “riluttante ad agire in merito a tali prove schiaccianti e a utilizzare gli abbondanti strumenti politici e legali a sua disposizione per porre fine all’ingiustizia.”

Proprio tra il 2018 e il 2020, afferma l’autore, ci sono stati tre cambiamenti epocali che hanno riconosciuto come legittime le violazioni operate da Israele: lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, la legge sullo Stato-Nazione ebraico e infine l’Accordo del secolo proposto dall’amministrazione Trump, che ha escluso la partecipazione dei palestinesi persino dalla definizione dei suddetti “accordi”. Questi avvenimenti non solo rafforzano il progetto sionista, ma fanno a pezzi le leggi internazionali e ogni norma che pretenda di regolare i rapporti tra gli Stati e i popoli. Come afferma in chiusura Traetta, “la questione palestinese ricorda al mondo intero, ogni giorno, quanto l’ordinamento internazionale contemporaneo sia una farsa: nel nome del diritto internazionale, i cinque membri permanenti possono utilizzare secondo le proprie esigenze nazionali il potere vastissimo conferito loro dal Consiglio di sicurezza ma al tempo stesso, tramite il diritto di veto, sono immuni dalla possibilità di esserne oggetto.”

Come dimostra questo libro, la questione palestinese non riguarda solo un’area relativamente marginale del mondo, ma i diritti di tutti, e non è un problema di carattere umanitario, ma è eminentemente politico.




Vita e morte di un quartiere di Gerusalemme.

Lemire V., Au pied du Mur. Vie et mort du quartier maghrébin de Jérusalem (1187-1967), Seuil, Paris, 2022, ‎ 416 pagine.

Recensione di Amedeo Rossi

22 giugno 2022

In questo libro lo storico francese Vincent Lemire ricostruisce la vicenda del quartiere marocchino (o più precisamente maghrebino) di Gerusalemme attraverso i suoi oltre 8 secoli di vita. Va detto subito che questo saggio non rompe solo il “muro del silenzio”, come lo definisce Lemire, riguardo alla vicenda del quartiere maghrebino di Gerusalemme. È anche un saggio estremamente dettagliato e un esempio di uso delle fonti più disparate: lavoro d’archivio in svariati Paesi e in molte lingue (tra cui l’ebraico e l’arabo), materiale fotografico e articoli di giornale, lettere private, fonti orali, controversie giudiziarie e petizioni, oltre a una vastissima bibliografia. Nel libro sono frequentemente presenti immagini a testimonianza di questa ricerca capillare, che ha dato vita a una ricostruzione che mette in rapporto l’oggetto di studio (il quartiere) con le vicende più generali dell’area mediorientale e non solo. A fine anno è annunciata la pubblicazione in inglese. Si spera che presto sia disponibile anche un’edizione italiana.

Nato su iniziativa di Salah al-Din (Saladino), il quartiere era inizialmente destinato ad ospitare i pellegrini che dal Maghreb si recavano alla Mecca. Per questo venne affidato a un waqf (fondazione benefica religiosa), che prese il nome dal mistico sufi Abu Madyan, la cui famiglia era originaria di Tlemcen, in Algeria. Con il tempo alcuni pellegrini si stabilirono nel quartiere e divennero parte della comunità gerosolimitana. La sua posizione centrale, a ridosso della Spianata delle Moschee (Haram al-Sharif, il Monte del Tempio per gli ebrei) lo rese un luogo pienamente integrato nella vita urbana, che condivise quindi la sorte di Gerusalemme, sottoposta nel corso dei secoli alla dominazione araba, ottomana e infine britannica. Cosmopolita come il resto della città, dal libro emerge l’immagine di un quartiere vivace e differenziato sia dal punto di vista sociale che economico.

Fu nel periodo del mandato britannico che iniziò a delinearsi il drammatico destino che lo attendeva. L’impero intendeva favorire l’immigrazione sionista in Palestina. A sua volta i dirigenti del nazionalismo ebraico utilizzarono il messianismo biblico come legittimazione delle proprie pretese di conquista e nel contempo come forza attrattiva per incentivare l’emigrazione nella “Terra promessa”. Il quartiere si trovava a ridosso del cosiddetto Muro del Pianto, i contrafforti occidentali della Spianata delle Moschee che dal XVI secolo erano diventati luogo di preghiera per gli ebrei. Paradossalmente, nota l’autore, “il quartiere maghrebino si trovò nelle immediate vicinanze del propulsore che galvanizzava le identità religiose di Gerusalemme fin dai suoi inizi”.

Nel 1927 una forte esplosione fece tremare il quartiere, con uno scambio di accuse tra le due comunità. Come si è scoperto di recente, in realtà si trattò di un attentato organizzato dalla milizia sionista Haganà per intimidire la popolazione del quartiere in seguito a numerosi incidenti con i fedeli che si recavano al Muro del Pianto. Fu sempre in seguito a uno scontro avvenuto nel quartiere maghrebino tra nazionalisti ebrei che rivendicavano il possesso di quello che secondo loro era il Monte del Tempio e i fedeli musulmani che scoppiò la rivolta araba del 1929. “Il quartiere maghrebino”, scrive Lemire, “era ormai al centro del conflitto, e rimarrà in questa pericolosa posizione fino alla sua distruzione nel giugno 1967.”

La guerra del 1947-49 e la conseguente nascita di Israele rappresentarono un duro colpo per i suoi abitanti. Pur rimanendo sul lato giordano della città, le attività benefiche del waqf Abu Madyan vennero notevolmente ridotte a causa dell’occupazione israeliana dei terreni di Ain Karem, da cui l’ente benefico ricavava buona parte delle risorse necessarie ad aiutare i propri assistiti.

È in questo contesto che compare un altro attore, il colonialismo francese, che negli anni ’50 si erse a difensore dei cittadini originari dei suoi possedimenti nel Maghreb per contrastare le crescenti spinte indipendentiste del nazionalismo arabo. L’intervento francese fu però contraddittorio, anche a causa dei rapporti di collaborazione con Israele, come nel caso della crisi di Suez del 1956 e della lotta contro l’FNL algerino, a cui parteciparono attivamente i servizi di intelligence israeliani. In quegli anni la Francia stava anche contribuendo al programma atomico di Israele. L’indipendenza dell’Algeria pose fine a questa attività diplomatica francese.

La guerra dei Sei giorni e l’occupazione israeliana decretarono la fine del quartiere. Tra il 10 e l’11 giugno (il conflitto era finito proprio il 10) i bulldozer israeliani rasero al suolo quasi tutto il quartiere. Agli abitanti vennero concesse 2 ore per lasciare le proprie case. Nella demolizione morirono, a seconda delle fonti, da una a tre persone. Con un formalismo tipico del modus operandi di Israele, prima dell’operazione venne riunita una commissione composta da tre architetti, uno storico e un archeologo. “L’obiettivo”, scrive Lemire,” è evidentemente di occultare le responsabilità politiche mettendo in primo piano le competenze scientifiche.” La commissione suggerì di preservare il 60% degli edifici. L’intervento di demolizione interesserà invece quasi tutto il quartiere. La responsabilità di non aver seguito il parere degli esperti venne attribuita dall’esercito e dal potere politico locale (Comune di Gerusalemme) e statale all’iniziativa di un gruppo di imprenditori edili. La motivazione ufficiale: si sarebbe trattato di un quartiere di baracche, quindi di un’operazione di risistemazione urbanistica per ragioni di igiene e sicurezza, in quanto gli edifici sarebbero stati pericolanti. La situazione era ben diversa, come dimostrano le testimonianze personali, la documentazione d’archivio anche israeliana e il materiale fotografico che accompagnano la narrazione del libro. Ma l’operazione propagandistica funzionò, persino riguardo alla corretta risistemazione degli abitanti del quartiere, 650 persone, che invece vennero abbandonati a se stessi. Un patrimonio storico plurisecolare di 135 edifici venne distrutto, e al suo posto rimase la spianata che si trova a ridosso del Muro del Pianto.

Ciò che rimase del quartiere, l’isolato noto come Dar Abu Said, venne demolito nel giugno 1969, sostenendo anche in questo caso che si trattava di edifici pericolanti. In questo caso ci fu uno scontro tra il ministero degli Affari religiosi e parte del governo da una parte e dall’altra l’amministrazione comunale, il Dipartimento delle Antichità e il ministero degli Esteri, che si opponevano per varie ragioni all’operazione. Uno solo degli edifici da demolire effettivamente presentava una crepa, definita “utile” dal Menachem Begin, allora ministro senza portafoglio, poi primo ministro di Israele nonché premio Nobel. Ma era stata provocata da lavori di scavo di caterpillar israeliani. Ciò fu sufficiente a giustificare la distruzione. Quella che lo storico chiama “ebrezza messianica” che si era impadronita di Israele dopo la vittoria del 1967 ebbe la meglio.

Nelle conclusioni Lemire afferma che “la funzione dello storico è capire e non giudicare, indagare e stabilire i fatti e non giudicarli sul piano morale né definirli su un piano giudiziario.” E citando il grande storico Marc Bloch insiste: “Quando lo studioso ha osservato e spiegato, il suo compito è finito.” Se ciò può valere per il ricercatore, il lettore non può esimersi dal constatare che la pratica della pulizia etnica ha accompagnato fin dalla sua nascita lo Stato di Israele. Quanto avvenuto al quartiere maghrebino era già toccato in sorte a centinaia di villaggi palestinesi nel 1947-49 (la Nakba), si ripeté durante e dopo la guerra del 1967 (la Naksa) e da allora continua a segnare le vicende dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e a Gaza, come allora nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale. Questo libro non può che destare nel lettore indignazione e condanna.




Rifugiati dell’apartheid: perché Israele deve parlare del ritorno dei palestinesi

Yaara Benger Alaluf

17 marzo 2022 – +972 magazine

Il rapporto bomba di Amnesty e la crisi dei rifugiati ucraini sono un’opportunità perché gli israeliani ripensino il rifiuto al ritorno dei palestinesi nella loro patria.

In Israele il dibattito, se c’è stato, sul recente “rapporto sull’apartheid” è consistito nei soliti tre giudizi riguardo a ciò che esso significherebbe: qualcuno lo ha liquidato come un’accusa del sangue antisemita [secondo cui gli ebrei berrebbero sangue umano durante i loro riti, ndtr.]; alcuni lo hanno bollato come un’affermazione di ciò che è ovvio; altri ancora hanno riflettuto sull’eventualità che si tratti di una novità con concrete conseguenze giuridiche. Ciò che nel frattempo è mancato e continua a mancare è una discussione onesta sulle nostre responsabilità come ebrei israeliani, non solo riguardo al passato ma anche al futuro del nostro Paese.

Pubblicato all’inizio di febbraio, il rapporto di Amnesty International è sistematico e approfondito, ma non offre nuove informazioni significative e le sue raccomandazioni sono limitate. Le prove delle violazioni delle leggi internazionali da parte di Israele elencate nel rapporto risulteranno ben poco sorprendenti a qualunque israeliano abbia mai prestato attenzione alle notizie, per non parlare degli attivisti di sinistra. La sua importanza e rilevanza pratica risiede piuttosto nei suoi due meta-argomenti. Il primo è che la variante israeliana dell’apartheid non è limitata ai territori occupati o a una qualunque specifica componente della popolazione palestinese, ma è parte integrante della stessa frammentazione del territorio e della popolazione in unità con differenti status giuridici.

Il secondo meta-argomento è che la negazione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi alle terre e case da cui furono espulsi nel 1948 è il meccanismo che sta al cuore di questo principio politico.

La decisione di fare riferimento ai rifugiati palestinesi in un rapporto sulle attuali responsabilità di Israele e sui passi necessari per un futuro di giustizia, uguaglianza e riconciliazione è senza precedenti, e irrompe negli angusti confini del dibattito politico tra gli ebrei israeliani. All’interno di questo discorso il diritto al ritorno è in genere affrontato in termini che hanno la loro origine nella macchina propagandistica israeliana: da “c’era una guerra e loro l’hanno persa” all’affermazione secondo cui il ritorno dei rifugiati palestinesi è sinonimo di fine dell’esistenza degli ebrei in Israele. Leggere il “rapporto sull’apartheid” offre l’opportunità di capire che è vero il contrario: è impedire il ritorno dei rifugiati che costituisce una continua minaccia esistenziale.

1948: mossa iniziale

Il rapporto afferma che la politica di apartheid di Israele è stata messa in atto esplicitamente e coerentemente fin dal primo giorno. Una delle sue principali argomentazioni è che prima della fondazione dello Stato di Israele nel 1948 erano state predisposte tutte le condizioni per una supremazia demografica ebraica e per massimizzare il controllo ebraico su terre e risorse naturali. I numeri precedenti alla guerra del 1948 chiariscono bene questo punto: fino a quell’anno i palestinesi rappresentavano il 70% degli abitanti del Paese, e possedevano circa il 90% della sua terra, mentre gli ebrei erano meno del 30% della popolazione e detenevano meno del 7% della terra. Due iniziative prese dal nuovo Stato gli consentirono di ribaltare completamente questa situazione: la decisione del 1948 di impedire ai rifugiati di tornare e la legge del 1950 sulle Proprietà degli Assenti [1].

Nel maggio 1948, mentre la guerra stava infuriando, venne creata una commissione speciale per esaminare il modo in cui trasformare la fuga dei palestinesi “in un fatto compiuto” [2]. La commissione raccomandò alla dirigenza israeliana di distruggere le località palestinesi, impedire la coltivazione della terra, insediare ebrei nei villaggi spopolati, approvare leggi per congelare la situazione di quel momento e investire nella propaganda [3]. Le raccomandazioni vennero religiosamente messe in pratica: già in un incontro del governo il 16 giugno venne annunciato che Israele non avrebbe consentito il ritorno di alcun rifugiato; unità militari furono inviate a far saltare in aria villaggi o incendiarli (601 villaggi vennero distrutti, in maggioranza nella prima metà del 1949); nuovi immigrati ebrei furono ospitati nelle case disabitate dei palestinesi (350 dei 370 nuovi insediamenti ebraici fondati nel 1948-53 vennero costruiti su terre dei rifugiati); i palestinesi che cercarono di tornare per recuperare alcuni dei loro beni, procurarsi del cibo o riunirsi con la famiglia rimasta indietro furono sommariamente fucilati [4].

Gli impedimenti al ritorno non terminarono con l’armistizio nel 1949. Continuano fino ad ora, in violazione delle leggi internazionali, senza nessuna giustificazione relativa alla sicurezza e spesso persino senza una giustificazione demografica [5]. Inoltre la legge sulle Proprietà degli Assenti autorizzò lo Stato a impossessarsi dei beni di chiunque fosse assente durante il primo censimento del Paese nel novembre 1948, che fosse o meno all’interno dei confini dello Stato. Ciò consentì a Israele di impossessarsi della maggior parte della terra coltivabile del Paese, di decine di migliaia di abitazioni ed edifici commerciali, di veicoli e macchinari agricoli e industriali, di conti bancari, di mobili e tappeti, di circa un milione di animali da allevamento, e via di seguito.

Benché la legge fosse pensata per essere provvisoria, e anche se al Custode delle Proprietà degli Assenti venne vietato di rivendere i beni espropriati, nel corso degli anni furono approvate leggi e norme aggiuntive per consentire a Israele di espropriare terreni palestinesi di proprietà di privati su entrambi i lati della Linea Verde [che separa Israele dalla Cisgiordania, ndtr.] e destinarli a uso militare, ai coloni ebrei o come parchi e strutture riservate, in quasi tutti i casi, a ai cittadini ebrei di Israele e a favorirne il benessere.

Rafforzare il controllo, annientare la resistenza

Da allora la supremazia spaziale e demografica della popolazione ebraica è stata rafforzata e mantenuta dividendo i palestinesi in status giuridici differenti: rifugiati in Paesi non arabi, in Paesi arabi, quelli rimasti all’interno dello Stato di Israele, compresi gli sfollati interni, gli abitanti di Gerusalemme est, gli abitanti dei villaggi beduini “non riconosciuti” nel Naqab/Negev e gli abitanti della Cisgiordania occupata e della Striscia di Gaza assediata. Come rileva Amnesty [6]:

L’esistenza stessa di questi regimi giuridici separati […] è uno dei principali strumenti attraverso i quali Israele frammenta i palestinesi e impone il suo sistema di oppressione e dominazione, e, come notato dalla Commissione Economica e Sociale dell’ONU per l’Asia Occidentale (ESCWA), ‘[…] per eliminare qualunque forma di dissenso contro il sistema che ha creato [7]’.”

Il rapporto enumera le forme di oppressione esercitate sotto ogni regime giuridico, come arresti di massa, torture, furto di terre, massacri, limitazioni negli spostamenti, negazione dell’accesso alle risorse, distruzione della vita familiare e via di seguito. Ciò è già stato fatto in precedenza. Ma la questione più importante è l’avvertimento del rapporto che l’opposizione alle caratteristiche specifiche dell’oppressione senza riferimento al fatto stesso della frammentazione in sé è funzionale al sistema di oppressione. Per esempio, concentrarsi unicamente sui crimini israeliani nei territori occupati nasconde le ulteriori violazioni delle leggi internazionali relative ai rifugiati, occultando nel contempo la discriminazione dei palestinesi che rimangono al di là della Linea Verde e a Gerusalemme est, o quanto meno li rappresenta erroneamente come parte del discorso sui diritti delle minoranze in una società liberale [8].

Gli autori del rapporto affermano che il contesto concettuale dell’apartheid consente una comprensione coerente della metalogica delle varie forme di oppressione: il tentativo di conservare un sistema di controllo, instaurando e conservando nel contempo l’egemonia ebraica. Questo è specificamente il senso di quanto i palestinesi hanno voluto definire “Nakba che continua”. Oltretutto apartheid è un termine radicato anche nelle leggi internazionali, e comporta quindi usualmente delle sanzioni. Il riferimento all’obiettivo del controllo, piuttosto che solo ai metodi, chiarisce anche che il problema non è, e non è mai stato, riducibile a un “gruppo di estremisti”. La responsabilità del problema risiede in tutte le istituzioni statali e parastatali, come l’Organizzazione Sionista Mondiale, in ogni governo dello Stato indipendentemente dall’affiliazione di partito, nel sistema giudiziario, nel Custode delle Proprietà degli Assenti, nel Fondo Nazionale Ebraico.

La chiave del problema

Impedire il ritorno dei rifugiati, dal 1948 al 1967 fino ai nostri giorni, è presentato nel rapporto come un meccanismo importantissimo della versione israeliana dell’apartheid. Il diritto al ritorno è citato più di 50 volte nel rapporto, e ne guida l’analisi giuridica, storica e spaziale. In termini giuridici una conseguenza della negazione del ritorno è che il controllo israeliano non è limitato ai confini israeliani, ma riguarda anche i palestinesi che sono stati sradicati nel corso degli anni, dato che la loro assenza è essenziale per conservare la maggioranza ebraica [9]. Non meno importante è l’implicazione che l’apartheid prevarrà necessariamente finché ai rifugiati verrà impedito di tornare [10].

Storicamente l’espulsione e l’impedimento al ritorno rappresentano la logica esplicita delle iniziative di Israele, persino dopo il 1948. Nell’immediato dopoguerra Israele impose un governo militare sull’85% dei palestinesi che restarono sul suo territorio, nonostante il loro status formale di cittadini. Per non meno di 18 anni Israele negò loro i diritti fondamentali, come quello di proprietà, di libertà di parola e di movimento, confiscando le loro terre e altre proprietà e stabilendo un intricato sistema di monitoraggio e supervisione che limitò la loro possibilità di organizzarsi politicamente e di plasmare il loro futuro. Il rapporto afferma, in base a documenti ufficiali, che il governo militare venne abolito nel 1966 solo dopo che ci fu la sicurezza sufficiente che i rifugiati non erano più in grado di tornare, soprattutto dopo che quasi tutti i villaggi palestinesi vennero distrutti e coperti da alberi [11].

Anche l’occupazione della Cisgiordania iniziò proprio l’anno dopo, la re-imposizione del governo militare sull’altro lato della Linea Verde non può essere compresa separatamente dalla politica israeliana di spopolamento. Nel corso della guerra del 1967 più di 350.000 palestinesi, metà dei quali rifugiati della guerra del 1948, furono cacciati [12]. Alcuni vennero obbligati ad andarsene in convogli diretti verso la Giordania, compresi migliaia provenienti dai villaggi di Imwas, Yalu e Beit Nuba [13]. Altri furono obbligati a fuggire in vario modo, con massicci bombardamenti e demolizioni, come nel campo profughi di Iqbat Jaber, a sud di Gerico, il più grande del Medio Oriente finché il 90% dei suoi abitanti fu deportato in Giordania [14]. Anche ai rifugiati del 1967 vennero negati i diritti garantiti dalle leggi internazionali.

Un’opportunità per la società ebraica

Sono tutti argomenti sostenuti dalla società palestinese per oltre settant’anni, ed è positivo che la comunità internazionale abbia iniziato a dare loro credito, sia in linea di principio che attraverso ricerche e diffusione di informazioni.

Ma cosa dire della società ebraica in Israele? Il rapporto di Amnesty International rappresenta un ulteriore opportunità perché questa società, o almeno quella parte che crede nei principi umanitari e nell’uguaglianza, riconosca la centralità della questione dei rifugiati palestinesi nella storia dell’esistenza sionista di Israele. Tuttavia farlo significherebbe dover abbandonare vari miti persistenti:

Fu una conseguenza non voluta.” Di fatto, fin dagli inizi, la colonizzazione sionista in Israele cercò di acquisire quanto più territorio possibile a unico vantaggio degli ebrei. Anche se non tutti i pensatori e dirigenti politici sionisti erano d’accordo con questa interpretazione del sionismo, questa era l’ideologia che venne effettivamente messa in atto. Ci sono prove che fino a 57 villaggi palestinesi vennero sradicati prima del 1948, così come spiegazioni che minano l’affermazione secondo cui la terra da cui vennero cacciati era stata comprata con mezzi legali.

Hanno cominciato loro”. Il 1948 non fu l’inizio ma il culmine di un processo di spopolamento sistematico. Anche la narrazione secondo cui la dirigenza sionista accettò il Piano di Partizione dell’ONU del 1947, migliaia di ebrei danzarono per le strade di Tel Aviv e gli arabi iniziarono la guerra è propaganda menzognera. Fonti storiche mostrano che la dirigenza sionista non aveva assolutamente alcuna intenzione di accontentarsi del territorio assegnato allo Stato ebraico in base a vari piani di partizione. Sia il primo ministro israeliano David Ben Gurion che altri dirigenti sionisti affermarono in termini inequivocabili che accettare il piano era una mossa diplomatica intesa ad accelerare il ritiro britannico e facilitare l’occupazione di quanto più territorio possibile [15].

Persino i rapporti di forza sul terreno non riflettevano una situazione in cui gli ebrei erano sulla difensiva contro un’offensiva araba, come cercò di dimostrare la narrazione dei “pochi contro molti” o “Davide contro Golia”. Alla fine del 1947 la comunità ebraica in Palestina aveva una forza militare organizzata di circa 40.000 miliziani per affrontare solo 10.000 combattenti palestinesi non addestrati e poco organizzati e volontari da Paesi arabi, la maggior parte dei quali senza esperienza militare. Persino nel maggio 1948, quando la guerra si estese includendo eserciti arabi, Israele aveva il doppio vantaggio di maggiori risorse e miglior armamento [16].

Cosa ci puoi fare? La guerra è una cosa terribile.” Anche solo per le sue dimensioni, la deportazione e la spoliazione dei palestinesi non può essere liquidata come una parte necessaria della lotta. In questa guerra circa 750.000 donne e uomini divennero rifugiati e i loro beni vennero espropriati. Circa metà di essi fu obbligata a fuggire o espulsa prima che gli eserciti arabi si unissero alla guerra [17]. Dal punto di vista giuridico anche la distinzione tra “fuga” e “deportazione” è falsa: i civili tendono a sfuggire alle guerre e ad altri disastri cercando un rifugio temporaneo con l’intenzione di tornare a casa dopo che le ostilità si sono placate, e il diritto internazionale riconosce loro questo diritto. In effetti ciò avvenne durante la guerra del 1948, insieme ad esempi documentati di sradicamento forzato [18]. In entrambi i casi impedire il ritorno è ingiustificabile e assolutamente non correlato alla questione della responsabilità per lo scoppio della guerra.

Le cose vanno così.” La condizione di rifugiati dei palestinesi è spesso associata ad altri casi storici di pulizia etnica che servono a giustificarla. Nessuna deportazione è mai giustificata e i crimini di altri non giustificheranno mai i propri. Anche gli ebrei vennero sradicati e deportati con grande crudeltà e questa è una delle ragioni per cui il mondo riconobbe il loro diritto a uno Stato sovrano. In molti casi (compresi gli attuali discendenti della Spagna medievale e della Germania nazista) gli eredi dei criminali hanno chiesto scusa dopo il fatto, pagato compensazioni, eretto monumenti, sviluppato programmi di studio e consentito a vittime di seconda e terza generazione di ottenere la cittadinanza e rivendicare proprietà. Nel contesto palestinese non è stato avviato nessuno di questi passi e oltretutto l’oppressione continua senza sosta.

Mettiamoci una pietra sopra.” La convinzione che le conseguenze della guerra del 1948 debbano essere separate da tutto quello che era avvenuto prima e avvenne dopo e che Israele può semplicemente “andare avanti” è basata sulla supremazia ebraico-sionista che non ha giustificazioni politiche, giuridiche né morali. Mentre dal 1948 la superiorità demografica ebraica è stata garantita, la politica israeliana di pulizia etnica non si è limitata al periodo bellico [19]. Secondo, un simile approccio cancella completamente i palestinesi: la catastrofe è tutt’altro che finita per i palestinesi, cui viene negato persino il diritto di visitare le rovine dei loro villaggi, alle famiglie separate non è possibile gioire e piangere insieme, a un abitante di Giaffa [in Israele, ndtr.] la cui sorella è assediata a Gaza o a un abitante di Hebron [in Cisigordania, ndtr.] è impedito di sposare la persona amata di Haifa [in Israele, ndtr.].

È giunto il momento di parlare del ritorno

Ciò che afferma il rapporto di Amnesty International, come hanno sempre fatto i palestinesi, è che ogni soluzione che conservi il sistema di diritti separati e non protegga le libertà di tutto il popolo palestinese – nella diaspora, in Israele, in Cisgiordania, a Gerusalemme est e a Gaza – non fornirà una soluzione sostenibile alla continua ingiustizia. “Smantellare questo sistema crudele di apartheid è fondamentale per i milioni di palestinesi che continuano a vivere in Israele e nei territori occupati, così come il ritorno dei rifugiati palestinesi […] in modo che possano godere dei loro diritti umani liberi da discriminazioni” [20]. Lo smantellamento del regime di supremazia ebraica è essenziale anche per milioni di ebrei dentro e fuori Israele – non perché lo dica Amnesty, ma perché fare così porterà a un futuro migliore per tutti noi.

La storia dimostra che le società fondate su una ideologia suprematista ed esclusivista sono necessariamente razziste e militariste. In effetti questa è la direzione verso la quale sta andando la società israeliana. Riconoscere i diritti dei rifugiati, fondati sulle leggi internazionali, è un prerequisito per porre fine al regime di supremazia ebraica e quindi per la riconciliazione, la democrazia e l’uguaglianza. Tale riconoscimento consentirà di stabilire una politica migratoria equa che beneficerà la società, la cultura e l’economia e promuoverà anche la giustizia all’interno della società ebraica in Israele.

È vero, mettere in pratica il diritto al ritorno richiederà che gli ebrei rinuncino ai propri privilegi. Ma qual è il prezzo di conservare uno “Stato ebraico”? Finora, nonostante abbia giustificato la propria legittimazione attraverso le promesse di pluralismo e appelli ai diritti universali con il diritto all’autodeterminazione, questo Stato ha interpretato in modo ottuso e rigido la legge ebraica, creando diseguaglianze ed esclusioni (esemplificate in modo chiarissimo dalla legge sui matrimoni e dalla politica sull’immigrazione) che contraddicono qualunque nozione di liberalismo o universalismo. La definizione dello Stato di Israele come ebraico danneggia in primo luogo i non ebrei, ma estorce un costo considerevole anche a molti ebrei, soprattutto neri, LGBTQ e donne che non possono ottenere il divorzio (agunot). Danneggia la stessa vita degli ebrei, imbrigliandola sia nel progetto sionista che nella legge ortodossa ashkenazita, impedendo quindi uno sviluppo indipendente e spontaneo della tradizione come è avvenuto e ancora avviene nella diaspora. In contrasto con la vita sottoposta a istituzioni su base comunitaria, gli ebrei in Israele sono obbligati a finanziare e ad essere soggetti al monopolio del rabbinato sui servizi religiosi.

Inoltre il costante timore della “minaccia demografica” continua a giustificare la destinazione di risorse alle esigenze militari e alle colonie illegali nei territori occupati invece che alla sanità pubblica, all’edilizia e all’educazione. La necessità di giustificare la costante ansietà e la posizione di difesa impone a sua volta un sistema educativo profondamente razzista e militarista. Il futuro promesso da questo percorso non è quello che voglio io. Non c’è niente di coraggioso nel cercare la sicurezza totale fuori dal costante timore di una presunta minaccia esistenziale. Possiamo e dobbiamo liberarci della concezione secondo cui la liberazione degli ebrei deve avvenire a spese di altri. Dobbiamo iniziare a prenderci la responsabilità del nostro futuro.

Chiunque si impegni per la giustizia e l’uguaglianza, chiunque si opponga al razzismo, chiunque semplicemente non voglia partecipare a un crimine contro l’umanità e chiunque voglia anche solo che le cose vadano meglio qui deve osare riflettere e parlare seriamente del ritorno. Un primo passo positivo sarebbe dare ascolto agli stessi rifugiati e alle organizzazioni della società civile palestinese, e scoprire che il ritorno non significherebbe la deportazione degli ebrei fuori dal Paese [21]. Al-Awda, la Coalizione Palestinese per il Diritto al Ritorno, che è la più grande associazione globale non partitica che promuove la messa in pratica del diritto al ritorno, ha chiaramente evidenziato che “i rifugiati palestinesi nel loro complesso accettano che esercitare il loro diritto al ritorno non sarebbe fondato sulla cacciata dei cittadini ebrei ma sui principi di eguaglianza e sui diritti umani.” Allo stesso modo BADIL, Centro Risorse per la Permanenza dei Palestinesi e il Diritto al Ritorno, spiega:

Ciò che avvenne nel 1948 è storia. Non si torna indietro. Il diritto al ritorno, tuttavia, non significa tornare indietro nel tempo. Il ritorno riguarda molto di più il futuro. Riguarda iniziare realmente a vivere, rispondere al profondo senso di appartenenza alla terra da cui i rifugiati furono strappati decenni fa e riguarda la costruzione di rapporti tra palestinesi ed ebrei basati sulla giustizia e sull’uguaglianza.”

Questa posizione cambierà una volta che sia cambiato il rapporto di potere? Forse. Qualcuno definisce l’omofobia come “la paura che uomini gay ti trattino come tu tratti le donne.” La fobia del ritorno sarebbe la paura che i rifugiati palestinesi ti tratteranno come il sionismo ha trattato loro. Io scelgo di non vivere con la paura, ma ho invece fiducia nelle persone che credono nei diritti umani e nell’uguaglianza. Scelgo di fidarmi dei rifugiati come Isma’il Abu Hashash, cacciato da Iraq al-Manshiyah e che oggi vive in Cisgiordania e dice:

Non dobbiamo ripetere gli errori degli israeliani e condizionare la nostra presenza sulla nostra terra alla non-presenza del popolo che ora vi vive. Gli israeliani, o gli ebrei, pensavano che avrebbero potuto vivere in Palestina solo se non lo avessero potuto fare gli altri. Non è quello che crediamo noi. Vediamo il diritto al ritorno come la richiesta di un diritto individuale e collettivo sulla terra da cui siamo stati espulsi. Non vogliamo dire a loro di andarsene, né vogliamo dividere il loro Paese.”

Si può anche stare a sentire dagli ebrei che appoggiano il ritorno perché essi credono che ciò sarebbe positivo anche per gli ebrei di questo Paese. Si scoprirà che, per quanto la questione del ritorno sia estremamente controversa ed emotiva nella società israeliana, negli anni scorsi si è scritto molto sull’argomento [22]. In seguito possiamo continuare con una discussione più pragmatica. Salman Abu Sitta è un geografo palestinese che ha dedicato la propria vita ad analizzare gli aspetti concreti del ritorno. I suoi studi indicano che, tra le altre cose, la grande maggioranza della terra a cui i rifugiati intendono tornare attualmente è disabitata. Il Documento di Città del Capo, un progetto per il ritorno formulato insieme da Zochrot, un’associazione israeliana che promuove il diritto al ritorno, e Badil, un’organizzazione palestinese per i diritti dei rifugiati, offre un quadro giuridico per la realizzazione del ritorno. Ci sono anche molte informazioni sui rifugiati che nel resto del mondo tornano ai loro Paesi d’origine e sulle sfide e opportunità poste dal ritorno volontario, per esempio nel numero dell’ottobre 2019 di Forced Migration Review [Rivista delle Migrazioni Forzate].

Se c’è qualcosa che gli ebrei israeliani possono imparare dal rapporto di Amnesty è che il tentativo di slegare gli eventi del 1948 dall’esistenza dei palestinesi nel 2022 è artificioso e cinico, e che la richiesta di riconoscerlo non pretende empatia ma riparazione, in quanto la Nakba è un tentativo deliberato e continuo di cancellare il popolo palestinese dalla sua terra, a nome nostro e con la nostra partecipazione. È importante opporsi alla demolizione delle case e accompagnare i pastori palestinesi della Valle del Giordano. È importante chiedere acqua ed elettricità per chi è sottoposto all’occupazione, monitorare la costruzione delle colonie in Cisgiordania e parlare di pace. Tuttavia mettere in pratica il diritto al ritorno dei rifugiati è l’unica iniziativa che riconosca onestamente l’ingiustizia fondamentale che ha creato la relazione di oppressione tra ebrei e palestinesi che continua fino ad oggi. È l’unica iniziativa che risponda alla reale volontà delle vittime che comporti giustizia e riparazione. Spaventa, ma è anche esaltante. È complicato e ci vorrà tempo. È proprio per questo che dobbiamo iniziare a prenderlo sul serio.

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[1] Ogni riferimento al rapporto di Amnesty è ricavato dalla versione completa in inglese.

[2] Il divieto al ritorno è discusso, tra le altre, nelle pagine 14-15, 61, 64, 72, 75, 81 e 93-94; sull’appropriazione dei beni dei palestinesi attraverso la legge sulle proprietà degli assenti e sulla acquisizione delle terre del 1953 vedi tra le altre pp. 22-23, 114-116, 119-121, 124.

[3] Memorandum di Y. Weitz, E. Sasson e E. Danin a Ben-Gurion, “Retroactive Transfer: A Scheme for Resolving the Arab Question in the State of Israel,” June 5, 1948 [Trasferimento Retroattivo: uno schema per risolvere la questione araba nello Stato di Israele, 5 giugno 1948], citato in Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem Revisited (Cambridge: Cambridge University Press) [Esilio. Israele e l’esodo palestinese 1947-1949, Rizzoli, 2004], pp. 314-316.

[4] Noga Kadman, “Erased from Space and Consciousness: Israel and the Depopulated Palestinian Villages of 1948” [Cancellati dallo spazio e dalla coscienza: Israele e i villaggi palestinesi spopolati nel 1948] (Bloomington: Indiana University Press, 2015), Introduzione; Oren Yiftachel e Alexandre (Sandy) Kedar, “On Power and Land: The Israeli Land Regime,” [Su potere e terra: il regime territoriale israeliano] Theory and Criticism 16 (2000): p. 77 (in ebraico).

[5] Le considerazioni demografiche non spiegano i passi compiuti per impedire il ritorno di sfollati interni come gli abitanti di Saffuriyya or Kafr Bir’im, la maggioranza dei quali vive ancora sul territorio israeliano.

[6] Pp. 74-81.

[7] P. 17.

[8] Ad es. pp. 62, 75.

[9]  Pp. 62, 81.

[10] Pp. 33, 47, 93-94, 220, 259-260, 276.

[11] Pp. 105-106.

[12] Pp. 41, 76-77, 81.

[13] “Chiesero di tornare al villaggio e dissero che avremmo fatto meglio ad ucciderli […] Non abbiamo consentito loro di andare al villaggio a prendere i loro averi perché l’ordine era che non vedessero come era stato demolito il loro villaggio.” Testimonianza del defunto scrittore israeliano Amos Keinan, che combatté durante la guerra, in “Report on Village Demolition and Refugee Deportation, June 10, 1967,” [Rapporto sulla distruzione di villaggi e la deportazione di rifugiati, 10 giugno 1967] citato in Sedeq 2 (2007): 96-97 (in ebraico).

[14] Nur Masalha, The Politics of Denial: Israel and the Palestinian Refugee Problem [La politica della negazione: Israele e il problema dei rifugiati palestinesi] (London: Pluto Press, 2003), pp. 203-205.

[15] Fin dal marzo 1937 il dirigente sionista e futuro presidente di Israele Chaim Weizmann disse all’alto commissario britannico per la Palestina: “Anche se ogni tanto subiamo delle battute d’arresto, in ultima istanza siamo obbligati a impossessarci di tutto il paese, salvo che il paese sia diviso in due e venga tracciato un limite alla nostra espansione […] Anche se venisse approvato il piano di partizione, siamo obbligati in definitiva a espanderci su tutto il paese […]. Questo non è altro che un accordo per i prossimi 25-30 anni.” Moshe Sharett, Yoman Medini, Vol. 2, p. 67 (in ebraico), citato in Alexander B. Downes, “Targeting Civilians in War” [Prendere di mira i civili in guerra] (Ithaca: Cornell University Press, 2011), p. 187.

[16] Benny Morris, “1948: A History of the First Arab-Israeli War” (New Haven: Yale University Press, 2008) [1948: Israele e Palestina tra guerra e pace, Bur, 2014], pp.  81-93, pp. 197-207.

[17]  Documenti interni dell’intelligence confermano che “l’espulsione di circa il 70% degli arabi durante questo periodo dovrebbe essere attribuito a operazioni militari da parte delle forze ebraiche, mentre gli ordini da parte dei dirigenti arabi hanno influito sullo spostamento solo per il 5%.”

[18] Quelli che seguono sono solo alcuni dei molti esempi. Il soldato ebreo Amnon Neumann testimoniò: “Circondammo il villaggio da varie direzioni, iniziammo a sparare in aria, tutti si misero a urlare e li cacciammo.” Gli ordini operativi del piano D (marzo 1948) esigevano di “ripulire” e “distruggere” villaggi. Agli abitanti di Ramle e Lydda vennero distribuiti volantini che ordinavano loro di andarsene a piedi, e le truppe israeliane spararono sopra le loro teste finché i convogli di rifugiati arrivarono in territorio giordano. A Majdal il trasferimento venne effettuato utilizzando camion militari.

[19] Nel 1950 2.500 palestinesi che erano rimasti nella città di Majdal (oggi Ashkelon) vennero deportati; nel 1956 più di 20.000 beduini palestinesi che erano rimasti nel Negev [Naqab in arabo, ndtr.] furono cacciati, e nel solo 1956 circa 5.000 palestinesi furono espulsi da zone smilitarizzate nel nord di Israele. Come detto, anche la guerra del 1967 ebbe la sua parte di espulsioni, e il fenomeno continua fino ad oggi sia in Israele che in Cisgiordania. Continuano anche ad essere utilizzati vari metodi di emigrazione forzata.

[20] P. 33.

[21] È difficile fare una scelta tra le varie pubblicazioni di palestinesi sul ritorno. Ecco una selezione molto ridotta. Potete leggere alcune brevi citazioni di rifugiati che parlano del ritorno; leggete l’articolo di Abir Kopty “Without Return, Palestine Will Not Be Free” [Senza ritorno la Palestina non sarà libera], del 15.5.2013; vedete il corto di Firas Khouri “Three Returning Bouquets” [Tre mazzi di fiori di ritorno] e ascoltate come alcuni adolescenti descrivono il loro desiderio di tornare; vedete “Internally displaced Palestinians plan their return” [Palestinesi sfollati interni progettano il proprio ritorno]; immaginate, insieme a Umar al-Ghubari e altri, possibili futuri del ritorno e la vita in comune raccontata nel libro “Adwa”, passeggiate nei luoghi immaginati dalla coalizione per il ritorno Al-Awda e da BADIL, Centro Risorse per la Permanenza dei Palestinesi e i Diritti dei Rifugiati.

[22] In inglese: Peter Beinart, A Jewish case for Palestinian refugee return [Una causa ebraica per il ritorno dei rifugiati palestinesi], The Guardian, 18.5.2021; Alma Biblash, Who’s afraid of the right of return? [Chi ha paura del diritto al ritorno?], +972 Magazine, 15.5.2014; Tom Pessah, Yes, the right of return is feasible. Here’s how [Sì, il diritto al ritorno è praticabile. Ecco come], +972 Magazine, 7.11.2017; Moran Barir, I have a dream — to see the Palestinian refugees return, [Ho un sogno: vedere il ritorno dei rifugiati palestinesi], 2012; Henriette Chacar, The Jewish Israelis helping make Palestinian return a reality [Gli ebrei israeliani che contribuiscono a rendere possibile il ritorno dei palestinesi], +972 Magazine, 29.5.2020.

In ebraico: Alma Biblash, It’s Time to Talk about Return as a Practical Option [E’ tempo di parlare del ritorno come un’opzione praticabile], Local Call, 5 maggio 2014; Rachel Beit Arie, We Have Grown Used to Viewing the Return as a Threat Rather than a Hope [Siamo cresciuti abituati a vedere il ritorno dei profughi come una minaccia piuttosto che una speranza], Local Call, 2 dicembre, 2018; Tom Pessah, Time for a Serious Discussion on the Right of Return [E’ tempo di una discussione seria sul diritto al ritorno], Haokets, 5 novembre 2017; Tom Pessah, The Right of Return: Not What You Thought [Il diritto al ritorno: non è quello che pensi], Sicha Mekomit, 18 aprile 2018; Joint Meeting on the Ruins of the Village Mighar [Incontro insieme sulle rovine del villaggio Mighar], Israel Social TV, 7 novembre 2017; una serie di servizi della Israel Social TV sul diritto al ritorno, con interviste, tra gli altri, ad Avi-Ram Tzoreff, Jessica Nevo, Yossef(a) Mekyton e Moran Barir.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Una sofferenza lunga un secolo

Cecilia Dalla Negra

Si chiamava Palestina

Storia di un popolo dalla Nakba a oggi

Edizioni Aut Aut, Palermo 2018, pagg.301

Recensione di Cristiana Cavagna

La giornalista esperta di Palestina Cecilia Dalla Negra ( che tra i suoi tanti lavori ha contribuito alla cura del numero dedicato alle donne palestinesi della storica rivista femminista DWF) torna sulla storia di questo popolo che ancora resiste su una terra “così piccola, e insieme così carica di simboli e significati”.

Prima di parlare del libro, mi permetto una nota personale: pur conoscendo da anni le vicende della Palestina, ho letto questo libro tutto d’un fiato, come si legge un romanzo avvincente, quando vuoi sapere “come va a finire”…. una bellissima sorpresa, anche per l’ottimo stile in cui è scritta. Anche il titolo è avvincente: “si chiamava Palestina” è un verso di una poesia (“Su questa terra”) del poeta palestinese Mahmoud Darwish….

Però questo non è un romanzo, e la tragedia del popolo palestinese – la Nakba (catastrofe) – non “va a finire”, perché continua ancora adesso, con gli oltre 200 morti della “Grande Marcia del Ritorno” a Gaza nel 2018, 70 anni dopo quel 1948.

L’autrice mette proprio la Nakba al centro e al cuore del suo lavoro, dedicato a un pubblico di “non addetti ai lavori”, come ci dice nella premessa metodologica, ma dotato di rigore storico, di un robusto apparato di note e di una bibliografia molto vasta, e si conclude con 6 toccanti testimonianze di storie personali.

La Nakba come “dolore….quello individuale e quello collettivo…divenuto elemento fondante dell’identità individuale e collettiva palestinese..” : passaggio dell’introduzione dell’autrice, messo opportunamente in evidenza nella prefazione di Wasim Dahmash, palestinese nato in Siria, saggista e docente di letteratura araba. Dahmash ci ricorda anche un’altra cosa importante, che la Palestina non è l’unico caso di colonialismo di insediamento nella storia, ma è l’unico a non essersi concluso nel XXI secolo…

Nei 6 capitoli del libro si snoda la storia della “Nakba mustamirra”, la “catastrofe ancora in corso”, nei 70 anni dal 1948 alla Grande Marcia del Ritorno a Gaza iniziata nel 2018: l’occupazione del 1967 con la guerra dei 6 giorni, la prima Intifada, gli accordi di Oslo, la seconda Intifada, la questione di Gaza e la nascita e il ruolo di Hamas.

Tutti “fatti storici”, dai quali si è spesso allontanata tanta stampa internazionale, che ha favorito la narrazione dominante e contribuito alla “disumanizzazione” di un popolo… “ogni volta che l’occupazione è stata descritta come conflitto; ogni volta che un’offensiva contro Gaza è diventata una guerra, che una vittima civile è diventata un effetto collaterale, che la resistenza è stata sovrapposta al terrorismo”.

E ogni “fatto storico” viene inquadrato entro un’ampia disamina delle sue premesse, e ne viene messa in luce la specifica caratterizzazione.

Così, alla Nakba si arriva partendo dagli accordi segreti di Sykes-Picot del 1916, dalla dichiarazione Balfour del 1917, dalla nascita del sionismo politico col programma di colonizzare la Palestina e conquistare la sua terra, passando per la “grande rivolta” del 1936-39. Viene citata una lettera del 1937 di Ben Gurion al figlio:”…dopo la formazione di un esercito forte nel quadro della fondazione dello Stato, aboliremo la spartizione e ci estenderemo su tutta la Palestina…Dobbiamo cacciare gli arabi e prendere il loro posto”.

Il 1967 (la “Naksa”, la “ricaduta”) viene considerato uno “spartiacque fondamentale”: viene avviata la costruzione dei primi insediamenti illegali in Cisgiordania, “che non si arresterà mai, a prescindere dall’indirizzo politico dei governi israeliani”. Ed è l’inizio della politicizzazione di massa della popolazione palestinese: “per i palestinesi diventerà evidente che gli Stati arabi non sarebbero mai stati in grado di fronteggiare l’avanzata israeliana e che quindi avrebbero dovuto essere loro, da soli, a cercare la propria liberazione.”

Gli accordi di Oslo, “l’inizio della fine”, trovano le loro premesse nella dichiarazione unilaterale di indipendenza dello Stato di Palestina del 1988, con il reciproco riconoscimento con Israele, e contengono la “pretesa di poter costruire la pace senza il presupposto della giustizia”. Dopo Oslo, “i diritti per i quali i palestinesi si sono battuti per anni…saranno ridotti a singole ‘questioni’: Gerusalemme, il diritto al ritorno dei profughi, i confini, le colonie diventeranno capitoli separati di una storia che non ha più un passato.”

Se la prima Intifada, con i Comitati Popolari della Resistenza e la disobbedienza civile, attraverso il boicottaggio di massa dei prodotti israeliani, parla di riappropriarsi della dignità negata, di autorganizzazione e di solidarietà, la seconda “ non può essere considerata esclusivamente una rivolta contro il potere occupante, ma anche come una sollevazione del popolo palestinese contro la propria leadership”.

La situazione attuale infine, da un lato vede l’assenza di un coordinamento politico del dissenso e la mancanza di strutture forti di riferimento, oltre al rischio di una “depoliticizzazione della vicenda palestinese, ridotta a mera questione economica o umanitaria” (anche con il contributo delle organizzazioni internazionali che hanno reso la popolazione dipendente dai loro finanziamenti); dall’altro riscontra ancora la presenza, nelle mobilitazioni a Gaza, della volontà di “porre fine ad un’ingiustizia troppo a lungo ignorata” e la capacità delle nuove generazioni di trovare forme alternative di espressione, riappropriandosi del “diritto di narrare”, di cui parlava Edward Said.

Citando nella prefazione la bella frase di Vittorio Arrigoni, “la Palestina può essere anche fuori dall’uscio di casa”, Dalla Negra ci dice che “ciò che accade lì è il paradigma di ogni ingiustizia e di ogni violazione…difendere la Palestina è il più scontato tentativo di restare umani.”




Quando Israele minaccia i palestinesi di una nuova Nakba, minaccia sé stesso di estinzione

Bradley Burston, 25 luglio 2017 ,Haaretz

C’è una vera e propria operazione di istigazione che le autorità israeliane non hanno affrontato o neanche riconosciuto per decenni. E’ il violento discorso di odio che inizia dall’interno.

Che cosa ci dice riguardo ad Israele il fatto che un importante ministro del governo, che è anche una pappamolla, ritiene necessario, in un momento di tensioni al limite della guerra con i palestinesi, andare alla televisione israeliana e su Facebook a diffondere un messaggio di puro incitamento all’uso delle armi?

Il ministro della Cooperazione Regionale Tzachi Hanegbi, un alleato chiave di Netanyahu che spesso proclama e difende le politiche del primo ministro, è stato per lungo tempo considerato un elemento relativamente moderato nel governo più ferocemente oltranzista nella storia della Nazione.

Eppure, questa settimana, quando Israele si è trovato di fronte ad esplosioni di violenza al suo interno e con i suoi vicini, Hanegbi ha usato uno dei termini più incendiari per avvertire i palestinesi delle possibili conseguenze dei brutali omicidi di tre israeliani, un settantenne e due dei suoi figli adulti, avvenuti sabato sera:

Ecco come inizia una ‘Nakba’”, ha minacciato Hanegbi il giorno dopo sulla sua pagina Facebook.

Esattamente così”, ha scritto, citando il termine arabo per “catastrofe”, che è diventato sinonimo dell’esperienza palestinese della guerra del 1948, in cui centinaia di migliaia di palestinesi fuggirono o furono cacciati dalle forze israeliane dalle loro case nella Terra Santa.

Ricordatevi il ‘48”, ha poi scritto. La guerra, che ha portato alla nascita dello Stato di Israele, ha creato anche circa settecento mila rifugiati palestinesi. La Nakba è un evento profondamente traumatico per i palestinesi. Il dolore e la rabbia che si accompagnano alla Nakba sono stati indirettamente riconosciuti dal governo Netanyahu nei suoi sforzi di impedire che la narrazione palestinese fosse oggetto di insegnamento nelle scuole arabe in Israele.

Ricordatevi il ‘67”, ha continuato. Centinaia di migliaia di palestinesi, alcuni dei quali profughi della guerra del 1948, furono sfollati dalla guerra dei Sei Giorni, in cui le forze israeliane occuparono Gerusalemme est, la Cisgiordania e Gaza.

Hanegbi, che in una precedente intervista nello stesso giorno ha detto che la violenza non stava conducendo ad una terza intifada, ma ad una terza Nakba, ha ribadito il concetto nel post su Facebook: “Quando vorrete fermarla, sarà già stata persa. Sarà già avvenuta la terza ‘Nakba’.”

L’attento uso delle virgolette da parte di Hanegbi per modificare – più precisamente, per attenuare – il termine Nakba non è certamente sfuggito ai lettori palestinesi. Né lo è stato il senso della sua conclusione:

Per due volte avete pagato il prezzo della follia dei vostri dirigenti. Non provocateci nuovamente, perché il risultato non sarà diverso. Siete stati avvertiti!”

Il post di Hanegbi è arrivato in un momento in cui la rabbia covata sotto la cenere dei social media, scaturita da quel vulcano sacro nel cuore di Gerusalemme, stava infiammando gli animi di mezzo mondo.

Arriva anche nel periodo in cui i dirigenti israeliani, da Benjamin Netanyahu in giù, stanno dedicando un’enorme quantità del loro prezioso tempo per parlare di istigazione [all’odio].

Parlano di come l’istigazione può diventare armata, trasformarsi in atti di assassinio, di terrore, di escalation, di intransigenza, di vendetta e di guerra. E non mancano loro gli esempi, dal momento che i social media arabi diffondono innumerevoli esempi di minacce terroristiche e ignobili caricature antisemite.

Ma c’è una vera e propria operazione di istigazione che le autorità israeliane non hanno affrontato e neppure riconosciuto per decenni. E’ il violento discorso di odio che inizia dall’interno. Attacchi verbali vergognosamente fanatici contro i palestinesi. Dichiarazioni di dirigenti israeliani e di rabbini compiacenti che descrivono tutti gli arabi come bestie feroci, esseri subumani, una razza di terroristi sanguinari.

Incoraggiate e appoggiate da mezzi di informazione condiscendenti e scandalistici, le deboli e fragili coalizioni delle politiche israeliane non hanno fatto che accelerare l’istigazione israeliana, mentre i politici fanno a gara su tutti i social media per mostrare quanto può essere distruttiva la loro volontà di rendere le cose sempre più insopportabili.

E così è accaduto che, invece di operare per disinnescare l’atmosfera esplosiva dell’ultima settimana, i politici di estrema destra si sono avvicendati nelle trasmissioni televisive per promuovere misure di ulteriore privazione del diritto dei palestinesi di pregare alla moschea di Al-Aqsa, premendo al tempo stesso per dare via libera agli ebrei per pregare sul Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee per i musulmani, ndt.], che è parte dello stesso complesso. In toni che potevano essere seri ma anche non esserlo, il deputato di estrema destra Bezalel Smotrick ha suggerito in un tweet che dovrebbe essere immediatamente costruita una sinagoga sul Monte.

Quando gli attivisti musulmani hanno accusato Israele di pianificare di impadronirsi del sito a proprio uso esclusivo, gli attivisti ebrei sono apparsi fin troppo felici di confermare le accuse.

Al tempo stesso, quando alcuni ministri del governo hanno chiesto l’introduzione della pena di morte, un deputato del partito di Netanyahu, il Likud, li ha superati.

Voglio dire la verità senza sembrare, dio non voglia, troppo estremista”, ha detto il deputato Oren Hazan in un video postato nel weekend.

Ma se fosse dipeso da me, ieri notte sarei andato dalla famiglia dell’assassino, avrei preso lui e i suoi familiari e li avrei ammazzati tutti. Sì, proprio così. Senza alcun rimorso. Li avrei ammazzati.”  

Cosa ci dice questo su Israele? Che se vuoi che la tua voce sia ascoltata, puoi dire – impunemente – “Vedrò la demolizione delle vostre case e la pena di morte per voi, ed aggiungerò l’esecuzione di massa di civili.”

Che cosa ci dice questo sui leaders israeliani? Che per mantenere l’illusione di essere più duri di chiunque altro, possono fare minacce che arrivano fino all’ espulsione di massa e alla pulizia etnica – una nuova Nakba. Proprio il genere di minacce che in un mondo come il nostro possono alla fine offrire il pretesto per minacciare lo stesso Israele di estinzione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)