Non è antisemita protestare contro l’ambasciatrice israeliana. Basta chiedere agli ebrei britannici

Non è antisemita protestare contro l’ambasciatrice israeliana. Basta chiedere agli ebrei britannici

La scorsa settimana le proteste durante il discorso a Londra dell’ambasciatrice israeliana nel Regno Unito, Tzipi Hotovely, sono state immediatamente definite antisemite e persino paragonate alla Notte dei Cristalli. Ma molti ebrei britannici hanno duramente criticato il razzismo di Hotovely e anche il suo sostegno all’occupazione.

Tommer Spence

15 novembre 2021 – Haaretz

 

Le proteste della scorsa settimana contro l’ambasciatrice israeliana nel Regno Unito, Tzipi Hotovely, durante il suo discorso alla London School of Economics (LSE), hanno innescato un’ondata di condanne nella politica britannica, con importanti esponenti conservatori e laburisti che le hanno etichettate come antisemitismo e un attacco alla libertà di parola.

In alcuni casi le istituzioni ebraiche britanniche sono andate oltre, e il Jewish Chronicle ha paragonato l’incidente alla Notte dei Cristalli, quando migliaia di ebrei furono mandati nei campi di concentramento dai paramilitari nazisti, le loro proprietà distrutte e le sinagoghe profanate.

In qualità di rappresentante eletto degli studenti ebrei nel Board of Deputies [la seconda maggiore organizzazione ebraica del Regno Unito, dopo la Initiation Society fondata nel 1745, ndtr.], il principale organo rappresentativo della comunità ebraica britannica, considero molto seriamente l’antisemitismo nei campus, anche perché è qualcosa che ho vissuto in prima persona.

L’antisemitismo è profondamente radicato nella società britannica, quindi non c’è dubbio che si annidi nelle università, e che i luoghi comuni sugli ebrei possano – inconsciamente o meno – influenzare il modo in cui le persone percepiscono e criticano lo Stato ebraico.

Ma se vogliamo sradicare l’antisemitismo da ogni tipo di discorso e di militanza relativi a Israele, allora dobbiamo essere molto chiari su cosa lo sia e cosa no.

Non si discute su eventuali minacce di violenza o intimidazioni rivolte a Hotovely: sono chiaramente inaccettabili.

Ma sono inaccettabili come atti individuali, riferibili solo a sé stessi. Suggerire che da soli rappresentino atti di antisemitismo semplicemente perché l’ambasciatrice è una funzionaria del governo israeliano è tanto inconsistente quanto dannoso, dato che uno dei messaggi fondamentali dell’educazione contro l’antisemitismo è che gli ebrei e lo Stato di Israele sono distinti e non intercambiabili.

Non ci sono testimonianze di canti antisemiti intonati durante la protesta quando Hotovely se n’è andata, e ha potuto parlare senza essere interrotta. L’idea che quanto accaduto sia paragonabile alla Notte dei Cristalli solo perché l’incidente è avvenuto nello stesso giorno è così grossolana che rasenta il revisionismo sull’Olocausto.

La realtà è che affermare che i manifestanti contro Hotovely potessero essere mossi solo da odio contro gli ebrei serve solo – inconsapevolmente o meno – a occultare il suo razzismo passato ed attuale. Implica che non vi sia alcuna ragione legittima che possa provocare espressioni di critica quando in realtà è vero il contrario.

Il curriculum di Hotovely in politica include l’invito alla Knesset [il parlamento israeliano] di un gruppo razzista e violento contrario ai matrimoni misti, e l’affermazione che fosse “importante prevedere delle procedure per prevenire i matrimoni misti”.

È sostenitrice dichiarata della soluzione discriminatoria di un unico Stato, avendo espresso esplicitamente la propria visione di come la Cisgiordania potrebbe essere portata sotto il permanente controllo israeliano senza dare la cittadinanza ai palestinesi che vi vivono. Da quando è diventata ambasciatrice ha chiarito che questo continua ad essere il suo punto di vista e ha continuato a fare commenti razzisti, descrivendo la Nakba come una “bugia araba” in uno dei suoi primi eventi pubblici lo scorso anno.

I politici e i commentatori che si sono precipitati ad accusare i manifestanti di antisemitismo pensavano senza dubbio di parlare in nome di, oppure a, una comunità concorde su questo punto. L’ironia è che, mentre si è registrata una condanna  unanime delle minacce di violenza contro Hotovely alla LSE, gli ebrei britannici non sono mai stati più divisi su Israele – in gran parte proprio grazie a Hotovely.

Dopo anni di latente scontento per l’occupazione, la nomina ad ambasciatrice di una nazionalista dichiarata ha provocato un’ondata di frustrazione nei confronti del governo israeliano. Quasi 2000 ebrei britannici hanno firmato una petizione chiedendo che la nomina di Hotovely fosse respinta ed è stata apertamente criticata da figure pubbliche di alto livello, tra cui il rabbino capo del Reform Movement [movimento religioso che vuole adattare l’ebraismo alle mutate condizioni del mondo moderno, ndtr.], la seconda comunità del Regno Unito.

Da quando è arrivata a Londra un anno fa, alcune istituzioni pubbliche hanno cercato di ignorare la frattura, ospitandola in numerose occasioni e rifiutandosi di contestare anche i suoi commenti più incendiari. Eppure all’interno della comunità ebraica ha continuato a crescere l’opposizione nei suoi confronti.

Dopo che la fazione progressista Liberal Judaism [seconda in Gran Bretagna dopo Reform Movement nella World Union for Progressive Judaism, ndtr.]  l’ha ospitata per un evento questa primavera, decine di membri di base sono intervenuti e uno dei membri del consiglio di amministrazione del movimento – il presidente del gruppo di azione antirazzista – si è dimesso per protesta. L’amministratore delegato di Liberal Judaism, il rabbino Charley Baginsky, ha in seguito espresso rammarico per come l’evento fosse stato strutturato in modo acritico e per come ai membri della comunità non fosse stata data l’opportunità di obiettare prima che esso fosse annunciato pubblicamente.

Il movimento giovanile sionista Noam, parte della corrente conservatrice di Masorti [movimento di ebrei tradizionali, non strettamente osservanti in Israele, che si identificano principalmente con l’ebraismo ortodosso, ndtr.], ha apertamente boicottato Liberal Judaism in merito ad un evento con Hotovely, un fatto senza precedenti nelle comunità ebraiche di tutto il mondo. La sua prima apparizione di persona nella comunità ebraica, meno di un mese fa, è stata accolta dall’uscita di attivisti ebrei.

Senza dubbio qualcuno – non ultima l’ambasciata israeliana – spera che gli eventi alla LSE della scorsa settimana mettano fine a questo malcontento all’interno della comunità ebraica, che la scena di Hotovely oggetto di feroci proteste evochi un senso di solidarietà che porti al fatto che futuri disaccordi vengano espressi a porte chiuse, come lo furono con i predecessori di Hotovely. Ma i fatti suggeriscono il contrario.

Le violenze di maggio in Israele-Palestina hanno mosso le proteste guidate da ebrei del Regno Unito più vaste mai avvenute a sostegno dei palestinesi, una tendenza che è molto probabile aumenti mentre continua l’occupazione. Le opinioni impudenti ed estremiste di Hotovely non faranno altro che esacerbare questa tendenza, e finché rimarrà in carica molti ebrei britannici con orgoglio la contesteranno sulla base dei loro principii.

Tommer Spence è uno dei fondatori di Na’amod [movimento di ebrei britannici contro l’occupazione, ndtr.], e rappresentante degli studenti ebrei nel Board of Deputies degli ebrei britannici.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Negazionismo e Nakba

Quando scoppia la bolla del negazionismo: un kibbutz israeliano di fronte alla Nakba

Salman Abu Sitta

5 settembre 2019 – Mondoweiss

 

Cosa succede quando un popolo è rinchiuso in una bolla in cui la “verità” ha un solo libro da leggere, da seguire e a cui ubbidire, e poi improvvisamente la bolla scoppia e il sole risplende su una verità completamente nuova, verificabile, chiara e corretta?

Ciò è quello che succede ai kibbutz [comunità agricole sioniste con proprietà collettiva, ndtr.] di Nirim, Nir Oz, Magen e Ein Hashloshla. Questi quattro kibbutz vennero fondati dopo la Nakba del 1948 sulla mia terra, Al Ma’in (65,000 dunum – 6.500 ettari). Al Ma’in è stato ed è da secoli il luogo d’origine della mia famiglia, Abu Sitta, ora rifugiata nella Striscia di Gaza e altrove.

Eitan Bronstein Aparicio, fondatore di “De-Colonizer” [De- Colonizzatore] (fondatore in precedenza di “Zochrot”, un gruppo israelo-palestinese che insegna la Nakba agli israeliani), ha fatto scoppiare la bolla. Eitan ha allestito una mostra piccola e semplice. Ha raccolto mappe, libri, video e una foto aerea della RAF [aviazione militare britannica, ndtr.] di Al Ma’in nel 1945, che mostra campi e l’aspetto principale del villaggio e le ha collocate in due stanze e un cortile. La mostra si è tenuta il 25 luglio 2019 nella “Casa Bianca”, l’unico edificio palestinese sopravvissuto alla demolizione del villaggio da parte degli israeliani nel 1948 e trasformata da Haim Peri, un artista di Nir Oz, in una galleria d’arte.

Eitan ha invitato i coloni di Al Ma’in e della zona circostante ad andare a vedere la mostra. Il suo messaggio era semplice. Quella era la gente che viveva qui e che ora è rifugiata a due chilometri di distanza dietro il filo spinato nella Striscia di Gaza. La presentazione lasciava intendere che Israele aveva preso la loro proprietà ed ora ci vivete voi.

Nonostante il fatto che il numero dei visitatori è stato modesto, probabilmente tra quaranta e cinquanta, le reazioni sono state indicative di gente a cui è stata negata la verità, le vittime del fatto di aver messo a tacere la Nakba.

Le considerazioni, e persino le minacce, più irate sono venute da un vecchio abitante di un kibbutz, di più di 80 anni, che aveva assistito e partecipato all’attacco contro Al Ma’in. La milizia Haganah [principale gruppo armato sionista prima della nascita di Israele, ndtr.] attaccò Al Ma’in il 14 maggio 1948 con 24 veicoli blindati, distrusse e bruciò case, demolì la scuola costruita nel 1920, fece saltare in aria il pozzo e il mulino a motore. Ad essa resistettero coraggiosamente per alcune ore 15 difensori palestinesi armati di vecchi fucili. Da bambino vidi le rovine fumanti del mio villaggio mentre ero ammassato insieme ad altri bambini e donne in una forra lì vicino. Non avevo mai visto un ebreo prima di allora e non sapevo chi fossero gli aggressori o perché fossero venuti a distruggere le nostre vite.

Il 14 maggio 1948 diventai un rifugiato.

Quel giorno sulle rovine del mio Paese, la Palestina, Ben Gurion proclamò lo Stato di Israele.

In seguito all’attacco e all’occupazione, nel periodo tra il 1949 e il 1955 sulla terra di Al Ma’in vennero costruiti i quattro kibbutz. La famiglia Abu Sitta, che era allora composta da circa 1.000 persone ed ora da circa 10.000, diventò rifugiata, per lo più nella Striscia di Gaza.

I coloni anziani, che erano presenti nel 1948, hanno accusato Eitan di eversione e gli hanno consigliato di trovare un altro Paese in cui emigrare. Hanno minacciato di dire alle autorità di negare l’ingresso a visitatori stranieri che potrebbero andare proprio per vedere la mostra. Ironicamente questi anziani sono stati i primi a visitare la mostra, probabilmente per trovare il modo di spiegare la loro storia negazionista.

Ovviamente la loro storia non merita neppure una replica. Hanno detto che lì non c’era nessuno: “Siamo arrivati dove c’era un deserto vuoto.” Come spiegare i campi coltivati nelle foto aeree? Chi li aveva seminati? La casa in cui è stata sistemata la mostra, il pozzo e il mulino a motore, le rovine che si trovano ancora lì, come li possono spiegare?

Il colono più anziano di Nirim, Solo (cioè Chaim Shilo o Solo Weicheck), 94 anni, un tedesco di origini russe, era indignato quando un giornalista britannico gli ha chiesto ripetutamente: “Perché non permettete alla famiglia Abu Sitta di tornare a casa?”

I coloni anziani hanno detto che quelle case erano state costruite dagli inglesi. Si tratta di una strana affermazione, in quanto chiunque abbia una conoscenza anche approssimativa della storia palestinese sa che abbiamo combattuto contro i britannici fin dalla [dichiarazione] Balfour. In particolare, il mio fratello maggiore Abdullah era il leader della rivolta del 1936-1939 nel distretto meridionale. Lui e i suoi compagni espulsero i britannici dal distretto di Beer Sheba per un anno, dall’ottobre 1938 al novembre 1939.

I coloni anziani sostengono di aver comprato le terre. Ma nessuno potrebbe fornire una prova di essere proprietario, legalmente o in altro modo, di un solo appezzamento di terreno per miglia e miglia.

La risposta più comune di giovani e anziani è stata: “Abbiamo vinto la guerra. Quando mai il vincitore ha restituito quello che ha vinto?”

Affermare che essere forti nella vittoria contro una controparte debole sia una giustificazione per un crimine solleverebbe la Germania nazista dai suoi crimini perché avrebbe potuto commettere e commise quei crimini. In base alla stessa argomentazione, i britannici sarebbero assolti da ogni colpa per il massacro di Amritsar  del 1919 [le truppe inglesi spararono contro la folla che assisteva ad un comizio nella città indiana, uccidendo più di 300 persone, ndtr.], i russi per aver giustiziato ufficiali polacchi nella foresta di Katyn nel 1940 [truppe sovietiche sterminarono più di 20.000 tra ufficiali e prigionieri polacchi, ndtr.] e i francesi per aver gettato in mare centinaia di prigionieri algerini da voli della morte con elicotteri nel 1957 [durante la “battaglia di Algeri” combattuta dal movimento di liberazione algerino, ndtr.].

I coloni hanno ripetuto il solito vecchio ritornello: “Noi abbiamo accettato il piano di spartizione [della Palestina tra arabi ed ebrei, approvato dall’ONU nel 1947, ndtr.], voi no. Sarebbe possibile che la Francia concedesse più di metà del Paese agli immigrati africani?”

Se i coloni fossero stati informati, avrebbero saputo che il piano di spartizione era una semplice raccomandazione, senza alcun valore giuridico vincolante. L’ONU non aveva l’autorità di dividere Paesi e lo disse. Oltretutto l’ONU, e sorprendentemente gli USA, lasciarono cadere il piano di spartizione a favore dell’amministrazione fiduciaria sulla Palestina da parte dell’ONU.

Nessuna fonte israeliana lo cita. I poveri coloni sarebbero gli ultimi a saperlo.

I coloni hanno sostenuto che “se non ci aveste fatto una guerra, tra di noi ci sarebbe stata la pace.” Ciò è molto strano. Non ricordo che la mia famiglia o qualunque altro gruppo di palestinesi abbia schierato un esercito ed abbia marciato verso la Polonia e la Russia per attaccarvi gli ebrei. É vero il contrario. Allora, chi ha scatenato la guerra? Non sanno rispondere.

Ciò che sicuramente non sanno è che l’abbandono del piano di spartizione a metà del marzo 1948 innescò un fondamentale avvenimento nella storia della Nakba. Ben Gurion [leader sionista e primo capo del governo israeliano, ndtr.] decise di conquistare la Palestina e ordinò di mettere in pratica immediatamente il piano Dalet [che prevedeva l’espulsione dei palestinesi dalla Palestina, ndtr.].

Di conseguenza iniziò l’invasione sionista della Palestina. In sei settimane, dal primo di aprile al 14 maggio 1948, l’Haganah conquistò località cruciali in Palestina e fondò sul terreno Israele, dopo che Herbert Samuel [politico ebreo sionista inglese nominato alto commissario del Mandato britannico sulla Palestina, ndtr.] (1920-1925) [periodo in cui Samuel fu alto commissario in Palestina, ndtr.] aveva definito le sue fondamenta giuridiche 28 anni prima.

In quelle sei settimane 220 villaggi, comprese molte cittadine, vennero attaccati e spopolati, quasi metà di tutti i rifugiati palestinesi vennero espulsi e vennero commessi 22 degli oltre 50 massacri avvenuti nel corso della Nakba. Durante quelle stesse sei settimane vennero condotte 17 operazioni militari da nove brigate. In ogni attacco ci fu una superiorità numerica di 10 a 1 contro i difensori. In totale Israele organizzò 31 operazioni militari per occupare parecchie regioni della Palestina, incrementando così il proprio controllo dal 6% della Palestina alla fine del Mandato [britannico] al 78% a metà del 1949. Vennero occupate nuove terre per formare una solida spina dorsale dalla pianura della costa centrale fino a Merj bin Amer e alle rive occidentali del fiume Giordano da Beisan a Metulla.

Quella fu la vera invasione della Palestina. Fu un’invasione sionista.

Ecco Adele Raemer, una nuova colona di Nirim. Arrivò dal Bronx [quartiere di New York, ndtr.] nel 1975 per insediarsi sulla mia terra. Scrive un blog sulla sofferenza dei kibbutz nell’‘enclave di Gaza’ e si lamenta degli aquiloni palestinesi che incendiano i ‘suoi’ campi di grano. Ho risposto dicendo che quelli sono i miei campi di grano. Le ho detto che ricordo che da bambino mi veniva permesso di sedermi sulla nostra mietitrebbia.

Ha voluto sapere: “Da quanto tempo la famiglia Abu Sitta ha vissuto ad Al Ma’in?”

Mi sono rifiutato di rispondere. Avrei potuto replicare che il nome Abu Sitta era sulle mappe di Allenby [generale britannico che sconfisse i turchi in Medio Oriente, ndtr.] quando conquistò Beer Sheba nel 1917, che il mio trisnonno fu citato per nome in un documento ottomano del 1845 riprodotto al Cairo e a Gerusalemme. Avrei potuto dirle che il nome Abu Sitta (Padre di Sei) venne coniato verso il 1720 in considerazione del fatto che il mio progenitore era un ben noto cavaliere accompagnato dalla scorta di sei compagni.

Mi sono rifiutato di rispondere perché non devo provare la mia discendenza a una colona i cui parenti sono arrivati di nascosto su una nave da uno shtetl [villaggio ebraico dell’Europa dell’est, ndtr.] sulle spiagge della Palestina nel cuore della notte.

Le sue lamentele sulla dura vita a Nirim sono state riprese da suo cugino, Gil Troy, un docente di storia all’università McGill [università canadese con sede a Montreal, ndtr.]. La formazione accademica non lo salva dai limiti della bolla della negazione. In risposta al devastante attacco israeliano contro Gaza dell’agosto 2014 [l’operazione “Margine protettivo”, ndtr.] ha scritto che Nirim venne fondato nel 1946, cioè prima della Nakba. Falso. Venne fondato sulla mia terra nella primavera del 1949, dopo che fummo attaccati ed espulsi. Egli ammira la “vera comunità di coltivatori”, ma omette di menzionare che venne fondata su una proprietà rubata e che i proprietari la vedono da dietro il filo spinato a due chilometri di distanza. Egli loda i coloni in quanto “agricoltori che persino sotto il continuo fuoco tendono la mano ai loro vicini gazawi, sconcertano il mondo con la loro straordinaria generosità ebraica, sionista e democratica.”

La bolla negazionista ha impedito al dotto professore di notare che la popolazione di 247 villaggi spopolati è stata ammassata nella stretta Striscia di Gaza con una densità di 7.000 persone per km2, mentre i coloni vagano sulla loro terra con una densità di 7 persone per km2.

Lo stesso Nirim ha 173 membri e le loro famiglie sfruttano 20.000 dunam (2.000 ettari) della mia terra, mentre la mia famiglia estesa, Abu Sitta, è composta da 10.000 rifugiati che vivono a due chilometri di distanza.

Il dotto professore parla del “confine” di Israele. Dovrebbe sapere che Israele non ha mai avuto un confine né per sua stessa ammissione né per le leggi internazionali. Probabilmente si riferiva alla linea dell’accordo di armistizio del 24 febbraio 1949. Ma il secondo articolo di questo accordo stabilisce che esso non concede diritti a Israele, né riguardo alla sua sovranità né alla proprietà di terre occupate.

Senza dubbio il dotto professore non sa che il confine di cui parla è solo una linea temporanea di ‘modus vivendi’ concordata nel febbraio 1950. La vera linea di armistizio è tre chilometri all’interno della terra occupata da Israele nel 1948, il che fa sì che Nirim, Ein Hashlosha e Nir Oz si trovino nella Palestina non occupata, nota ora come Striscia di Gaza.

Questo solo pensiero terrorizzerebbe i coloni e trasformerebbe la mostra di Eitan in una bomba di fatti che minerebbe tutte le loro rivendicazioni. Ma ciò non è stato citato.

È stranamente assente da ogni discussione l’orrendo stupro e l’uccisione di una ragazzina araba di 12 anni catturata da un plotone di Nirim nell’agosto 1949. I soldati di un plotone l’hanno violentata a turno, poi le hanno sparato e l’hanno sepolta. L’unico segno fu la sua mano che spuntava dalla fossa poco profonda. Ben Gurion citò brevemente questo fatto nel suo diario di guerra. Nessuno fa riferimento a questo crimine, neppure i coloni più anziani, come Solo, che all’epoca erano lì.

Ma c’è un raggio di speranza, un raggio così tenue da mettere in evidenza la dimensione della negazione. È una risposta di Efran Katz, un colono di Nir Oz. Vale la pena di citarlo integralmente:

Quello che oggi ho visto qui è stato molto toccante e persino doloroso. Nonostante abbia vissuto qui per più di 35 anni, sento la necessità e la speranza di tornare alla terra e riviverla con le emozioni passate, di riviverla con la cultura e i costumi vostri, degli abitanti.

Una terra non è un mattone. Una terra è un valore, è radici, è l’amore per un luogo. Non c’è posto per la deportazione. Il mio cuore è con voi.

Ai coloni può sembrare che la bolla della negazione sia un luogo sicuro in cui nascondersi. La logica è chiara. Se un crimine viene rivelato, chi lo ha commesso sarebbe un criminale meritevole di una punizione e obbligato a un risarcimento. La mostra di Eitan è un chiaro promemoria.

Ma ora non è rimasto molto spazio per nascondersi nella bolla della negazione. Quando tutto il mondo saprà del crimine, la giustizia li raggiungerà e il risarcimento sarà un prezzo molto pesante da pagare.

 

Salman Abu Sitta è fondatore e presidente della “Palestine Land Society” [Società Palestinese della Terra], di Londra, che si dedica alla documentazione sulla terra e il popolo palestinesi. É l’autore di sei libri sulla Palestina, compresi il compendio “Atlante della Palestina 1917-1966”, edizione in inglese e in arabo, l’“Atlante del viaggio di ritorno” e oltre 300 documenti e articoli sui rifugiati palestinesi, il diritto al ritorno, la storia della Nakba e i diritti umani. Gli viene attribuita una vasta documentazione e cartografia della terra e del popolo palestinesi di oltre 40 anni. La sua acclamata autobiografia “Mappare il mio ritorno” descrive la sua vita in Palestina e la sua lunga lotta in quanto rifugiato per tornare in patria.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)