Jean Stern, inviato speciale a Nazareth
6 febbraio 2023 – Orient XXI
Gli abitanti di Nazareth non vivono sotto occupazione militare come in Cisgiordania o sotto un blocco come a Gaza. Però, sia a Soweto visitata nel 1989 sia nella città araba del nord di Israele visitata nel 2022, lo spirito degli abitanti e l’organizzazione urbana e sociale riflettono il fulcro dell’apartheid che è la separazione.
Settembre 1989, Soweto. La gigantesca città nera alle porte di Johannesburg contava allora più di 2 milioni e mezzo di abitanti ed io mi ci recai poco prima che Nelson Mandela uscisse dal carcere, l’11 febbraio 1990. L’apartheid, che relegava i neri del Sudafrica in uno stato di cittadinanza di serie B e in zone specifiche, crollò allora ovunque. Sotto l’influenza di Mandela e dei suoi sostenitori le manifestazioni si moltiplicarono nelle strade delle città sudafricane. Vennero violentemente represse a Soweto come in tutto il Paese. Durante quelle proteste vennero uccisi centinaia di neri, così come dopo decenni centinaia di palestinesi durante manifestazioni a Gaza, nei Territori [palestinesi occupati, ndt.], a Gerusalemme est, ma anche a Nazareth. Nell’autunno del 2000 la polizia israeliana uccise molti abitanti di Nazareth, che manifestavano la loro solidarietà con la rivolta di Gerusalemme est.
“Stiamo conquistando la nostra libertà”
Soweto nel 1989 era un mondo a parte, un immenso ghetto urbano, ma è meno tagliato fuori dal mondo di quanto non lo siano oggi Gaza e i territori palestinesi occupati. Si poteva entrare ed uscire anche se, a seconda delle circostanze, i poliziotti controllavano più o meno severamente l’accesso alle sue strette strade e alle sue casette di lamiera ondulata.
Percorsi di notte i locali clandestini di Soweto, gli shebeens, incontrai persone ottimiste che preparavano il futuro di un Paese presto liberato da un sistema razzista contestato dal mondo intero. “Stiamo conquistando la nostra libertà”, diceva Souizo, un uomo di una trentina d’anni, che ballava con me per la gioia di vedere crollare l’apartheid. Dopo tanta rabbia e tanti morti, Souizo sapeva che la mobilitazione mondiale aveva fatto uscire dall’ombra la loro lotta. Con i suoi amici era fiero di spazzare via un sofisticato e subdolo sistema di discriminazione.
A Nazareth, grosso centro orientale e polveroso, più di 30 anni dopo incontro invece persone inquiete, depresse, che pensano che il loro futuro sia bloccato. Città di pellegrinaggi per una parte della cristianità, conosciuta a livello mondiale quanto Soweto, la città della Galilea si trova all’interno delle frontiere del 1948, non lontano dal lago di Tiberiade. In linea d’aria Jenin è a una ventina di chilometri. Popolata soprattutto da arabi, musulmani e cristiani, il suo agglomerato urbano conta circa 200.000 abitanti.
I miei interlocutori condividono la visione premonitrice di Nelson Mandela, espressa nel 2001:
“L’efficacia della separazione si misura in termini di capacità di Israele di mantenere lo Stato ebraico e di non avere una minoranza palestinese che potrebbe avere la possibilità di diventare maggioritaria nel futuro. Se questo accadesse, ciò costringerebbe Israele a diventare uno Stato democratico o binazionale laico, oppure a trasformarsi in uno Stato di apartheid de facto.”
“Sì, siamo guardati con ostilità”
La maggior parte di coloro che incontro, che una volta venivano chiamati arabi israeliani e che oggi in gran parte preferiscono definirsi palestinesi, ne è testimone. Mandela aveva ragione. Cittadini di serie B, solidali con i palestinesi rinchiusi dall’altra parte del muro o bloccati a Gaza, hanno assolutamente l’impressione di vivere quotidianamente un apartheid. “Sì, per noi l’orizzonte è bloccato, a meno di lasciare questo Paese. Sì, siamo guardati con ostilità dalla maggioranza ebrea di questo Paese. Non dicono tutti i giorni ‘morte agli arabi’, come i coloni più estremisti, ma molti lo pensano”, dice Nassira, una giovane architetta.
Nazareth è cambiata dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948. All’inizio c’era Nazareth “bassa”, 75.000 abitanti di cui il 35% cristiani. Dopo oltre un secolo la città della presunta Annunciazione è in maggioranza musulmana. “Nazareth è stata segnata nel 1948 dall’espulsione della popolazione e dalla demolizione da parte degli israeliani di due villaggi palestinesi contigui, Saffuriya e Ma’aloul”, mi spiega Reda, un intellettuale palestinese trentenne molto impegnato. Fare partire la popolazione araba era l’obbiettivo della creazione nel 1956 di “Nazareth alta”, ©, 40.000 abitanti, ribattezzata nel 2019 Nof HaGalil [Vista sulla Galilea] per distinguersi dalla sua rivale araba. Nazareth Illit è un progetto urbano concepito per riequilibrare la popolazione della Galilea. In questo Paese la demografia governa la politica, come osservava Mandela. Nel 1973 centinaia di persone appena arrivate dall’URSS si stabilirono a Nazareth Illit. Già allora, dopo un sordido fatto di cronaca scesero per le strade al grido di “morte agli arabi”.
La separazione urbana si vede a occhio nudo, anche se non ci sono posti di blocco né barriere tra la vecchia Nazareth araba e la nuova Nazareth a maggioranza ebrea.
Arrivando si scoprono due centri commerciali, il primo nella conca alle porte della città vecchia e il secondo sulle alture all’entrata di Nof HaGalil.
Quello in basso si chiama Big Fashion e quello in alto Mail One. Sono quasi uno di fronte all’altro, a qualche centinaio di metri. Gli stessi marchi internazionali, in basso H&M, Adidas, Mango, Pizza Hut, McDonald e in alto ancora Adidas e anche Mango, Castro, Diesel. La separazione è fatta, un centro per gli arabi, un altro per gli ebrei. A Nazareth ci si evita. I neri di Soweto non avevano il diritto di aggirarsi nei lussuosi centri commerciali del centro di Johannesburg e si accontentavano dei negozi del ghetto, spesso gestiti da indiani, classificati come “indians” dall’apartheid.
“L’apartheid inizia nel mio letto”
Ricchi e poveri, bianchi o neri, ebrei o arabi, la regola della separazione produce società spaccate. Si può tradurre il termine apartheid con ‘mettere da parte’, ed è proprio ciò che accade in Israele. Mata, cittadino israeliano, musicista di una quarantina d’anni, riccioli alla Jim Morrison, lo racconta: “La legge produce discriminazione. Per esempio mia moglie ed io abbiamo due status differenti; l’apartheid quindi è già nel mio letto.” Nassira, sua moglie, è “residente” di Gerusalemme est, dove è nata, e di fatto non ha gli stessi diritti di suo marito.
“È semplice,” mi spiega Nassira. “Mata ha il diritto di voto, io no. Può prendere l’aereo per andare dove vuole da un momento all’altro, io no. Ha potuto andare nell’università che ha scelto, io no. Viviamo qui insieme, ma io potrei essere costretta da un momento all’altro a ritornare a Gerusalemme est.” Infatti l’assemblea nazionale israeliana nella primavera del 2022 ha rimesso in vigore una legge che impedisce il ricongiungimento familiare per matrimonio tra palestinesi di Israele, di Gerusalemme est e dei territori [palestinesi occupati].
Quale democrazia prevede per una parte della sua popolazione quattro status differenti, a seconda che abiti, come a Nazareth, entro le frontiere del 1948 [cioè in Israele, ndt.], a Gerusalemme est, in Cisgiordania o a Gaza?
“L’identità araba è percepita come una minaccia”
Reda denuncia anche la legge del 2018 sullo Stato-Nazione del popolo ebraico, che consacra Israele come una teocrazia ebraica. “Non capisco come gli amici di Israele possano accettare questo. A me non importa di essere ebreo, cristiano o musulmano. Qui l’identità araba è percepita come una minaccia. I media, la vox populi, ci fanno sapere chiaramente che facciamo parte di coloro che minacciano Israele”, precisa.
La piccola galleria-libreria- sala da concerto nel cuore di un suk in piena rinascita, dove ci ritroviamo una sera per un’avvincente esibizione della cantante elettro-folk Sama Mustafa, è un locale accogliente, come i numerosi caffè nei dintorni, come il Centro Baladna – “la nostra città” in arabo – aperto nel 2021 da un collettivo di giovani palestinesi.
Ritrovo l’atmosfera degli shebeens [bar clandestini sudafricani in cui si servivano alcoolici senza licenza, ndt.]. Come a Soweto, ognuno racconta una storia di oppressione, di umiliazione. “Si sta bene qui ed è il nostro momento di tranquillità”, mi spiega Louisa. “Essere israeliane non significa niente per noi. Il mio bisnonno era turco, mio nonno inglese, mio padre israeliano. Israele non è il mio Paese, e me lo fa sapere.”
Quarantenne gioviale, Siman viene da una famiglia comunista e cristiana di Nazareth. Ha lavorato a lungo nel cinema, a Tel Aviv e in tutto il mondo. “Nell’ottobre 2000 si erano organizzate a Nazareth delle manifestazioni a sostegno dell’Intifada. Sono state brutalmente represse, ci sono stati dei morti. Allora ho capito che Israele era uno Stato di apartheid. Non voglio più essere una marionetta imprigionata.” Siman fa una pausa. “Gli israeliani non vogliono porre rimedio alle discriminazioni, le utilizzano e le gestiscono. È questo il loro apartheid.”
Khaled, un professore di matematica incontrato il giorno seguente, mi dice più o meno la stessa cosa. “L’apartheid? Bisogna intendersi sul senso dei termini. Per esempio, io posso dirvi che sono antisionista, quindi godo di una certa libertà di espressione, ma non posso sposare una ragazza di Ramallah o di Gaza, che non potrà venire a vivere con me. E se per esempio io lavorassi nella filiale di Nazareth di una ditta di informatica di Tel Aviv, sarei pagato il 40% in meno di un ebreo israeliano…”
A Soweto avevo incontrato un commesso di una profumeria, che guadagnava nettamente meno dei suoi colleghi bianchi e non lavorava nemmeno nello stesso posto.
“Ho capito che era la mia terra”
Certo a Nazareth c’è una borghesia araba ricca, come a Soweto c’era una borghesia nera. Amat, un aitante giovanotto anch’egli molto gioviale, lavora in una società di gestione e guadagna bene. A 27 anni gira in decappottabile, porta vestiti di marca, si destreggia con due cellulari. Si fa il segno della croce davanti ad ogni chiesa, rendendo la scoperta delle stradine strette e ripide nel suo coupé divertente, ma caotica… “Io dico che sono Amat, non dico mai che sono cristiano, musulmano o ebreo”, mi spiega trascinandomi in una visita approfondita dei confini della città, alcuni visibili, un viale, la fine di un isolato, altri invisibili. “Ci sono molti bambini musulmani nelle scuole cristiane, ma non ci sono cristiani o musulmani nelle scuole ebraiche”, dice ad esempio. Amat sottolinea anche la crescente insicurezza. I numerosi e sanguinosi regolamenti di conti fra trafficanti di droga per lui sono la prova che il governo si cura poco della vita degli arabi. Amat segnala l’impossibilità per la sua famiglia di acquistare un appartamento sulle alture di Haifa o a Tel Aviv. Non è una questione di soldi, ma “nessuno vende a noi.”
Kaid è un ragazzo gracile, appena uscito dall’adolescenza. A 18 anni, nella primavera del 2021 ha subito un arresto arbitrario, un pestaggio e tre notti di prigione. Kaid manifestava la sua solidarietà con i palestinesi di Gerusalemme est, di Gaza, della Cisgiordania. La manifestazione è stata brutalmente dispersa, molti giovani arrestati a Nazareth, ma anche a Haifa e a Lod [altre città israeliane con presenza araba, ndt.]. Kaid ammette senza vergogna di aver avuto paura. “Ho l’età per divertirmi, ma le cose che mi sono successe mi hanno cambiato. Dopo sono andato a Gerusalemme e a Betlemme, per la prima volta nella mia vita. Ho capito che era la mia terra.” Ciò che lo rende orgoglioso è che suo nonno e suo padre si sono battuti senza sosta per farlo liberare e non hanno avuto una parola di rimprovero per aver manifestato.
Per Reda, a cui racconto la storia di Kaid, “parlare di una polizia che ci prende di mira è parlare di apartheid. Dieci o venti anni fa quando parlavamo di apartheid ci si accusava di radicalismo,” aggiunge. “Un’organizzazione israeliana, B’Tselem, ha posto la questione dell’apartheid, seguita da Amnesty. È bello sapere che almeno il problema dei nostri diritti non è più a geometria variabile.”
Anche se, aggiunge Mata, “le cose non stanno cambiando. È molto deprimente.”
L’accesso all’acqua e all’educazione al primo posto
Due esempi tratti dal rapporto di Amnesty International chiariscono le differenze di livello nelle discriminazioni di cui sono vittima i palestinesi a seconda del luogo in cui risiedono. Per chi vive nei territori [palestinesi occupati, ndt.] l’accesso all’acqua è limitato. Il loro consumo è di circa 70 litri al giorno per persona, contro i 369 litri per un colono israeliano. Secondo le Nazioni Unite il 90% delle famiglie di Gaza deve comprare l’acqua a un prezzo molto alto presso gli impianti di desalinizzazione o di purificazione. I palestinesi che vivono in Israele invece hanno accesso alle stesse quantità di acqua degli altri cittadini. Con la notevole eccezione dei beduini del Negev, soggetti ad una serie di misure restrittive, compreso l’accesso all’acqua corrente…
Quanto all’educazione, gli alunni palestinesi di ambienti sfavoriti in Israele e a Gerusalemme est dispongono di meno risorse rispetto agli alunni ebrei. Secondo uno studio del 2016 il 30% di finanziamenti in meno per ora di apprendimento nella scuola elementare, il 50% in meno alle medie inferiori e il 75% in meno alle superiori.
Molti detrattori della posizione di Amnesty considerano che ciò che può sembrare pertinente per la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est non lo è per l’Israele di prima del 1967. Significa dimenticare che dopo la Nakba gli arabi rimasti in Israele sono stati sottoposti dal 1948 al 1966 ad un regime militare con espulsione dalle case, arresti arbitrari e un sistema drastico di controllo e sorveglianza – antenato di Pegasus [sistema israeliano di spionaggio elettronico, ndt.]. Rimuovere la polvere della Storia è uno dei meriti del rapporto di Amnesty.
Jean Stern
Veterano di Libération, La Tribune e La Chronique d’Amnesty International. Ha pubblicato nel 2012 Les patrons de la presse nationale, tous mauvais [I padroni della stampa nazionale, tutti cattivi] per La Fabrique; per le edizioni Libertalia: nel 2017 Mirage gay à Tel Aviv [Miraggio gay a Tel Aviv] e nel 2020 Canicule [Canicola].
(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)