Il Randello della Democrazia

Recensione del libro Il Muro della Hasbara’. Il giornalismo embedded de “La Stampa” in Palestina, di Amedeo Rossi, Zambon Editore, Ottobre 2017.

Angelo Stefanini, 9 dicembre 2017.

Chi controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato”. È lo slogan che sintetizza perfettamente il meccanismo psicologico di controllo della realtà che nella neo-lingua coniata da George Orwell viene chiamato “bi-pensiero”.

Nel mondo distopico descritto nel romanzo 1984, il Partito del Grande Fratello può contare su di una popolazione ciecamente fiduciosa nei dettami del Partito grazie al suo totale controllo sul passato. Tale controllo è talmente assoluto da potere dichiarare che un determinato avvenimento non sia mai successo: nel momento in cui tutti i documenti circolanti riportano la medesima storia imposta dal Partito, allora “la menzogna diventa verità e passa alla storia“.

Nella realtà attuale le cose non vanno in modo molto diverso. Edward Bernays, conosciuto come il “padre delle pubbliche relazioni” (PR), l’inventore della propaganda a fini commerciali e politici, parlava di un “governo invisibile” che è il vero potere dominante del mondo reale: si riferiva al giornalismo, ai media. “Per una democrazia,” sostiene il celebre teorico della comunicazione Noam Chomsky, “la propaganda è quello che è il randello per uno stato totalitario“.i

Più comunemente, le notizie che ci raggiungono quotidianamente attraverso i media esercitano un’influenza potente sulla nostra percezione, dicendoci quali eventi siano importanti e modellando la nostra comprensione dei problemi. Per questo motivo, il controllo delle immagini e delle parole usate per raccontare le guerre moderne, in particolare il conflitto israelo-palestinese, è diventato un elemento essenziale. Che per Israele tale controllo sia decisivo l’ha ammesso candidamente l’ex Console Generale di Israele a New York, Alon Pinks: “Siamo attualmente in conflitto con i palestinesi e impegnarsi in una campagna di pubbliche relazioni di successo è una componente della vittoria in quel conflitto“.ii

Dopo il disastro d’immagine che fece seguito al massacro di Sabra e Shatila in Libano nel 1982, Israele decise di creare una struttura istituzionale permanente per condizionare come il mondo vede il Medio Oriente. Nacque così il Progetto Hasbara’ (ebraico per “spiegazione”) che la rivista indipendente israeliana online +972 Magazine definisce come “una forma di propaganda rivolta a un pubblico internazionale… allo scopo di influenzare il discorso in un modo che raffiguri positivamente l’operato e le politiche israeliane, comprese le azioni intraprese da Israele nel passato. Spesso, ne risulta anche un ritratto negativo degli arabi e in particolare dei palestinesi.iii

Un modo di “influenzare” il discorso può essere, per esempio, attraverso uffici stampa talmente efficaci a diffondere i loro comunicati che un giornalista potrebbe rimanere seduto a scrivere articoli nel proprio ufficio a New York o a Roma senza dover sprecare tempo o energia immergendosi nella pericolosa realtà. Oppure, per contrastare le critiche, utilizzare schiere di “guardiani” che tengano sott’occhio e facciano pressione su giornalisti e mezzi di comunicazione.

Il tutto diventa così contorto nel panorama del conflitto israelo-palestinese che la mancanza d’informazione, l’assenza d’immagini, la scarsità di analisi, il vuoto di voci che descrivano l’esperienza dei palestinesi sotto occupazione è talmente vasto che la gente non ha nemmeno l’idea che da cinquanta anni in quelle terre si stia consumando la profonda ingiustizia di una crudele occupazione militare e una progressiva colonizzazione condannate più volte dalla comunità internazionale.

È di tutto questo che tratta il libro di Amedeo Rossi. Militante per la causa palestinese, l’autore collabora con un gruppo che si dedica alla traduzione in italiano di articoli di giornali pubblicati in Israele o su mezzi d’informazione palestinesi, che poi sono inseriti nel sito Zeitun.info. Da questa sua esperienza è nato il libro Il muro della Hasbarà. Il giornalismo embedded de «La Stampa» in Palestina. Sulla scia di lavori fondamentali come quelli di Noam Chomskyiv o di Greg Philov, Rossi si propone di “analizzare i meccanismi attraverso i quali il discorso filo-israeliano viene trasmesso ai lettori” cercando “forme di controinformazione e di denuncia che aiutino a smascherare l’operazione di fiancheggiamento”, insomma gli effetti dell’hasbara’. E lo fa in modo eccellente utilizzando come caso di studio il quotidiano “La Stampa”.

Il libro prende di mira più in generale quella che nella Prefazione Moni Ovadia definisce con l’ossimoro di “libera stampa embedded”, la stampa che vuole apparire rispettabile pilastro dell’establishment presentandosi come oggettiva, equidistante e asettica. È ciò che il famoso inviato di guerra John Pilger in modo beffardo descrive come “professional journalism”. Proprio quello che Amedeo Rossi espressamente dichiara NON essere la sua ricerca, affermando: “chi scrive è schierato dalla parte dei palestinesi”. “Il pericolo per i media “, chiarisce con una delle numerose citazioni di Jerome Bourdon, storico della comunicazione dell’università di Tel Aviv, “non è quello di fare delle scelte, ma di negare che le fanno”.

Tra la Prefazione e la Post-fazione scorrono l’Introduzione e cinque capitoli. Nei primi tre l’autore prende in esame in ordine cronologico l’operazione “Piombo fuso” (cap.1), l’attacco alla Freedom Flottilla e il massacro sulla nave Mavi Marmora (cap.2) e l’operazione “Margine protettivo” (cap.3). Il corposo cap.4, che occupa circa la metà dell’intero libro, è dedicato all’analisi de “Il conflitto a bassa intensità”. Gli innumerevoli e dettagliati esempi citati lungo tutto il percorso di analisi degli articoli del quotidiano trovano una sintesi conclusiva nel cap.5 che documenta in modo impeccabile come “a dispetto di ogni verosimiglianza, la versione fornita dai portavoce ufficiali israeliani viene costantemente riportata dai mass media”, soprattutto quelli italiani a cominciare da La Stampa.

Ciò che questo lavoro esemplare aiuta a svelare è l’importanza di cogliere non solo cosa c’è nella storia, ma, soprattutto, quello che non c’è. In questo senso l’assenza di un’informazione è vitale tanto quanto la sua presenza in termini di come le persone danno un significato alla storia stessa. Il contesto è tutto. Il contesto che spesso manca nel racconto della “libera stampa embedded” è che la rivolta palestinese è il risultato di 50 anni di brutale occupazione e di 70 anni di continua Nakba (“catastrofe”) palestinese. Quando questi fatti non sono presenti nella storia, ci mette in guardia Amedeo Rossi, allora la notizia in realtà non ha alcun senso e nasconde una situazione inaccettabile. Questo è il motivo per cui la maggior parte degli occidentali non ha la minima idea di quale sia la storia e la realtà del conflitto.

Con questo coraggioso ed elegante lavoro di ricerca l’autore ci offre, in questi tristi momenti della vita dei palestinesi, una lettura indispensabile per comprendere come sia possibile che uno Stato che continua a violare il diritto internazionale, ignorando con arroganza decine di risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite, possa essere dalla maggioranza dell’opinione pubblica ancora considerato il bastione della democrazia nel Medio Oriente, ed essere servilmente celebrato con l’offerta di ospitare l’inizio del Giro ciclistico d’Italia.

Un consiglio di ordine “tipografico” per la prossima edizione: arricchire l’Indice con i titoli delle sezioni e sotto-sezioni dei vari capitoli. Sarebbe un importante aiuto al lettore per avere davanti a se’, in un’unica pagina, il percorso analitico che compone la “disamina concreta, puntigliosa, certosina, inattaccabile”vi condotta al quotidiano La Stampa. Che ne esce nudo e disonorato per la… oggettività perduta.

ii “Peace, Propaganda & The Promised Land: Occupied Palestine”. https://bennorton.com/peace-propaganda-the-promised-land-occupied-palestine/

iii “Hasbara: Why does the world fail to understand us?” https://972mag.com/hasbara-why-does-the-world-fail-to-understand-us/27551/

iv Noam Chomsky & Edward S. Herman, La fabbrica del consenso. Ovvero la politica dei mass media. Il Saggiatore, 2014.

v Greg Philo and Mike Berry, Bad News From Israel, Glasgow University Media Group, 2004. Greg Philo and Mike Berry, More Bad News From Israel, Glasgow University Media Group 2013.

vi Nella Post-fazione di Ugo Giannangeli, p.367.




Opinione. Addio al linguaggio ambiguo: la terrificante visone di Israele per il futuro

L’ostinazione di Israele lascia palestinesi e israeliani con un’unica alternativa: uguale cittadinanza in uno Stato unico o un’orrenda apartheid e altra pulizia etnica

di Ramzy Baroud – Counterpunch

Ramallah, 17 febbraio 2017, Nena News

Le prove storiche empiriche combinate con un po’ di buon senso sono abbastanza per dirci il tipo di opzioni future che Israele ha nel cassetto per il popolo palestinese: apartheid perpetua o pulizia etnica, o un mix di entrambe.

L’approvazione della “Regularization Bill” del 6 febbraio è tutto quello di cui abbiamo bisogno per immaginare il futuro ideato da Israele. La nuova legge permette al governo israeliano di riconoscere retroattivamente gli avamposti ebraici costruiti senza permesso ufficiale su terra privata palestinese.

Tutte le colonie – quelle ufficialmente riconosciute e gli avamposti non autorizzati – sono illegali secondo il diritto internazionale. Tale verdetto è passato numerose volte alle Nazioni Unite e, più recentemente, riaffermato con chiarezza inequivocabile dalla risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza.

La risposta di Israele è stata l’annuncio della costruzione di oltre 6mila nuove case da costruire nei Territori Palestinesi Occupati, la costruzione di una colonia nuova di zecca (la prima in 20 anni) e la nuova legge che pavimenta la strada all’annessione di ampie porzioni della Cisgiordania occupata.

Indubbiamente la legge è “l’ultimo chiodo nella bara della soluzione a due Stati”, ma questo non è importante. Non ha mai interessato Israele, quanto meno. Le chiacchiere su una soluzione sono state mero fumo negli occhi per quanto riguardava Israele. Tutti i “dialoghi di pace” e l’intero “processo di pace”, anche quando era al suo apice, raramente hanno rallentano i bulldozer israeliani, la costruzione di altre case per ebrei o messo fine alla pulizia etnica incessante dei palestinesi.

Su Newsweek Diana Buttu descrive come il processo di costruzione delle colonie è sempre, sempre accompagnato dalla demolizione di case palestinesi. 140 strutture palestinesi sono state demolite dall’inizio del 2017, secondo l’agenzia Onu Ocha.

Da quando Donal Trump ha giurato, Israele si è sentito liberato dell’obbligo del linguaggio ambiguo. Per decenni, i funzionari israeliani hanno parlato appassionatamente di pace e hanno fatto tutto quello che potevano per ostacolare il suo raggiungimento. Adesso, semplicemente se ne fregano. Punto.

Avevano perfezionato il loro comportamento equilibrato semplicemente perché dovevano farlo, perché Washington se lo aspettava, lo chiedeva. Ma Trump gli ha dato un assegno in bianco: fate quello che vi piace; le colonie non sono un ostacolo alla pace, Israele è stato “trattato molto, molto ingiustamente” e io correggerò quest’ingiustizia storica, e così via. Quasi subito dopo l’avvento di Trump alla presidenza il 20 gennaio scorso, le maschere sono cadute.

Il 25 gennaio il vero Benjamin Netanyahu è riemerso, dichiarando con invidiabile sfrontatezza: “Noi stiamo costruendo e continueremo a costruire” colonie illegali.

Cosa c’è altro da discutere con Israele a questo punto? Nulla. La sola soluzione che interessa a Israele è la “soluzione” di Israele, sempre guidata dal cieco supporto americano e l’inutilità europea e sempre imposta ai palestinesi e agli altri paesi arabi, se necessario con la forza.

I guardiani della grande farsa della soluzione dei due Stati, chi astutamente ha costruito il “processo di pace” e ha danzato su ogni ritmo israeliano è ora frastornato. Sono stati esclusi dai terrificanti piani di Israele che spara la sua “soluzione” dritto in mezzo agli occhi, lasciando ai palestinesi la scelta tra l’assoggettamento, l’umiliazione e l’imprigionamento.

Jonathan Cook ha ragione. La nuova legge è il primo passo verso l’annessione della Cisgiordania o, almeno, di buona parte. Una volta che i piccoli avamposti saranno legalizzati, dovranno essere fortificati, (“naturalmente”) espansi e protetti. L’occupazione militare, in auge da 50 anni, non sarà più temporanea e reversibile. La legge civile continuerà ad essere applicata agli ebrei nei Territori Palestinesi Occupati e quella militare ai palestinesi occupati.

È l’esatta definizione di apartheid, nel caso ve lo stesse ancora chiedendo.

Per raggiungere i “bisogni di sicurezza” dei coloni, altre by-pass road per soli ebrei saranno costruite, altri muri eretti, altri cancelli per tenere lontani i palestinesi dalle loro terre, dalle scuole e dalle fonti di sussistenza saranno messi su, altri checkpoint, altra sofferenza, altro dolore, altra rabbia e altra violenza.

Questa è la visione di Israele. Anche Trump è più frustrato dalla sfacciataggine e l’audacia israeliane. Ha chiesto ad Israele in un’intervista con il quotidiano Israel Hayom di “essere più ragionevole con il rispetto per la pace”. “C’è molta terra ancora. E ogni volta che la prendete per le colonie, ce n’è di meno”, ha detto Trump. Ha frenato sulla promessa di trasferire l’ambasciata Usa e l’espansione senza controllo delle colonie, perché realizza che Netanyahu e i suoi sostenitori negli Stati Uniti lo hanno lasciato su un baratro e ora gli chiedono di saltare.

Ma ha poca importanza. Che Trump rimanga sulla sua posizione estremamente pro-israeliana o cambi marcia verso una più annacquata simile a quella del suo predecessore Obama, la realtà probabilmente non cambierà, perché solo Israele è alla fine autorizzato a influenzarne i risultati.

L’approvazione dei parlamentari israeliani della legge è, infatti, la fine di un’era. Abbiamo raggiunto il punto in cui possiamo apertamente dichiarare che il cosiddetto “processo di pace” è stato un’illusione fin dall’inizio, perché Israele non ha mai avuto intenzione di concedere Cisgiordania e Gerusalemme est ai palestinesi.

La leadership palestinese è difficilmente innocente in tutto ciò. Il più grave errore che i leader palestinesi hanno commesso (a parte la loro disgraziata divisione) è stato quello di aver creduto che gli Stati Uniti, il principale sponsor israeliano, avrebbero gestito un “processo di pace” che ha garantito a Israele tempo e risorse per terminare i propri progetti coloniali, devastando i diritti e le aspirazioni politiche palestinesi.

Ritornando agli stessi vecchi canali, usando lo stesso linguaggio, cercando la salvezza nell’altare della stessa vecchia soluzione a due Stati non si otterrà nulla se non lo spreco di altro tempo e altra energia.

Ma le umilianti opzioni di Israele per i palestinesi possono essere anche lette in un altro modo. Infatti, è l’ostinazione di Israele che oggi lascia i palestinesi (e gli israeliani) con un’unica alternativa: uguale cittadinanza in uno Stato unico o un’orrenda apartheid e altra pulizia etnica.

Con le parole dell’ex presidente Jimmy Carter, “Israele non troverà mai la pace fino a quando non permetterà ai palestinesi di esercitare i loro diritti fondamentali umani e politici”. Il “permesso” israeliano è lontano dall’arrivare, lasciando la comunità internazionale con la responsabilità morale di pretenderlo. Nena News

Traduzione a cura della redazione di Nena News




L’ipocrisia del boicottaggio da parte di Israele

La coalizione di Netanyahu è determinata a boicottare la Lista Araba Comune (alleanza politica di 4 partiti arabi in Israele, ndtr.).

di Neve Gordon –Counterpunch

22 ottobre 2016, Nena News

Paradossalmente, si tratta della stessa coalizione che si è espressa esplicitamente contro l’adozione della strategia del boicottaggio come strumento non violento e politicamente legittimo per lottare contro l’oppressione israeliana del popolo palestinese.

Il 9 ottobre il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato di aver intenzione di sostenere l’iniziativa della sua coalizione di boicottare la Lista Comune, il terzo maggior partito nella Knesset. L’iniziativa, promossa dal ministro della difesa Avigdor Lieberman, ha lo scopo di punire la decisione del partito di non recarsi al funerale dell’ex Presidente Shimon Peres, a cui hanno partecipato personalità provenienti da non meno di 70 paesi, incluso il Presidente Barak Obama e il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas. “I membri della Lista Comune hanno dimostrato che non c’è più niente di cui discutere né dibattere con loro”, ha asserito Lieberman, aggiungendo che “dobbiamo prendere la decisione di boicottare ogni loro presenza e intervento alla Knesset.”

Parlando all’israeliano Canale 2, il capo della Lista Comune Araba, Ayman Odeh, ha spiegato che il funerale di Peres era parte di una “giornata nazionale di lutto in cui io non mi riconosco; non nella narrazione, non nella simbologia che mi esclude, non nella storia di Peres come uomo che ha creato il sistema di difesa di Israele.” Ha poi proseguito ricordando episodi della lunga carriera pubblica di Peres: dal suo ruolo nel governo militare imposto ai cittadini palestinesi di Israele dal 1948 al 1966, per passare al suo ruolo centrale nel realizzare l’arsenale nucleare di Israele, fino all’attacco dell’esercito israeliano del 1996 ad una base ONU nel villaggio libanese di Qana, in cui furono uccisi 106 civili. Ha persino citato l’assenza di Peres al funerale di Arafat (insieme al quale aveva ricevuto il Premio Nobel per la Pace) e, ovviamente, di tutti gli altri leader arabo-israeliani.

Pensando forse che il pubblico israeliano non avrebbe potuto sopportarlo, Odeh non ha ricordato che Peres è stato in tutto e per tutto un colonialista. In documenti recentemente resi pubblici, si citano dichiarazioni di Peres in cui afferma di non credere in uno “stato di Arafat” e che la Giordania è l’unico stato palestinese, rammaricandosi dell’esistenza di cittadini palestinesi in Galilea (nel nord di Israele, ndtr.). “Vedo come si stanno mangiando la Galilea ed il mio cuore sanguina”, disse all’ex primo ministro Menachem Begin durante un loro incontro nel 1978. Molto più recentemente Peres si è spinto fino ad affermare che “le operazioni dell’esercito israeliano hanno reso possibile la prosperità in Cisgiordania, hanno sollevato i cittadini del sud del Libano dal terrore di Hezbollah ed hanno permesso agli abitanti di Gaza di avere nuovamente una vita normale.” Certamente fino alla sua morte è stato la voce esemplare della missione civilizzatrice del colonialismo.

Comunque, nel corso della stessa intervista a Canale 2, Odeh ha ricordato al suo pubblico ebreo israeliano che il sabato seguente la comunità arabo-israeliana avrebbe celebrato il 16^ anniversario dei disordini dell’ottobre del 2000, in cui 13 cittadini della comunità furono uccisi dalla polizia durante una serie di manifestazioni di protesta nei confronti delle azioni di Israele contro i palestinesi all’inizio della seconda intifada. “Vi parteciperà qualcuno del governo?” si è domandato Odeh; “Qualcuno riesce a capire le nostre sofferenze oppure non interessano a nessuno?”

Nonostante il sincero sforzo di Odeh per descrivere l’approccio razzista di Israele nei confronti dei suoi cittadini palestinesi, la coalizione di Netanyahu è decisa a boicottare la Lista Comune Araba.

Paradossalmente si tratta della stessa coalizione che si è espressa esplicitamente contro l’adozione della strategia del boicottaggio come strumento politico legittimo e non violento di lotta contro l’occupazione israeliana del popolo palestinese. Attualmente il governo Netanyahu sta spendendo milioni e milioni di dollari per contrastare il movimento palestinese di boicottaggio, criminalizzando chiunque osi sostenerlo pubblicamente. Il ministro dell’interno Aryeh Deri ed il ministro della pubblica sicurezza Gilad Erdan hanno annunciato la creazione di un comitato per impedire agli attivisti del movimento BDS di entrare nel paese e per espellere quelli che già si trovano in Israele/Palestina.

Netanyahu ed i suoi compari affermano che boicottare il progetto coloniale israeliano è antisemitismo, e intanto boicottano i leader palestinesi che hanno osato non onorare le spoglie di Peres. Sono talmente prigionieri della loro logica contorta che hanno perso il senso del paradosso.

Neve Gordon è co-autore (insieme a Nicola Perugini) del libro appena uscito ‘The human right to dominate’ (Il diritto umano di dominare. Edizione italiana: Perugini N., Gordon N. “Diritti umani e dominio”, Nottetempo, Firenze, 2016).

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Hebron, storia di una città sotto occupazione Video

Da Nena News

 

Il conflitto e l’occupazione nella città di Hebron raccontata dalle voci di coloni e residenti palestinesi. Il documentario di Francesco Sellari girato durante il seminario per giornalisti di Nena News

Hebron, 5 settembre 2016, Nena News – “Questo posto è la prova del fatto che abbiamo il diritto a stare ovunque in questo paese”. Basterebbero le poche parole di un colono ebreo di origini statunitensi che da trent’anni vive a Hebron, e la sua certezza resa inscalfibile dalla fede nelle Scritture, a spiegare il dramma di questa città di circa 170.000 abitanti nel sud della Cisgiordania.

Hebron – in arabo al Khalil – è la città della Grotta dei Patriarchi/Moschea di Abramo, sepolcro di Abramo, Isacco e Giacobbe e delle rispettive mogli. Un luogo sacro per ebrei e musulmani. Negli ultimi anni tuttavia, la “fama” di Hebron è associata alle durezza del conflitto e della occupazione militare israeliana. Solo per citare il più noto tra gli episodi più recenti: lo scorso 24 marzo nel quartiere di Tel Rumeida, il soldato israeliano Elor Azaria ha sparato ad un presunto attentatore palestinese, Abdel Fatah a-Sharif, ferito, disarmato e disteso a terra. La notizia è emersa e ha fatto il giro del mondo grazie ad un video girato da un attivista di B’Tselem.

In Palestina, Hebron vive una situazione paragonabile solo a Gerusalemme: una città divisa in due entità amministrative, una massiccia presenza dell’esercito israeliano, un nucleo di coloni (circa un migliaio ma mancano stime ufficiali) insediatisi nello stesso centro storico.

La città vecchia potrebbe essere un fiorente centro turistico ma nei fatti è una una città semi-deserta: tra continue tensioni e violenze, i pochi commercianti e artigiani rimasti devono convivere con i coloni e con i loro tentativi di espandere la loro presenza prendendo possesso, per vie legali e non, di case palestinesi, mentre Shuhada Street, quella che un tempo era la principale arteria cittadina,  il centro dei commerci, è zona militare chiusa dalla Seconda Intifada, ed è quasi del tutto interdetta al transito dei palestinesi.

Questo reportage video è stato realizzato alla fine di aprile 2016, nell’ambito del seminario per giornalisti organizzato da Nena News: una settimana tra Palestina e Israele per conoscere e capire la realtà del conflitto e dell’occupazione, con l’aiuto di associazioni locali, giornalisti e analisti sia israeliani che palestinesi.

Francesco Sellari

 




Perché i palestinesi combattono: la logica della vita e della morte a Gaza

Aspettarsi che Gaza non resista è un invito a Israele perché completi l’umiliazione del popolo palestinese, per utilizzare la Striscia per guadagni di carattere economico e per trasformare uomini, donne e bambini in manodopera a basso costo, che cerca di sbarcare il lunario garantendosi solo la sopravvivenza.

 – Nenanews

di Ramzi Baroud – Counterpunch

Si sta preparando un altro scontro tra Israele e il movimento di resistenza palestinese Hamas a proposito della liberazione di Avraham Mengitsu, un cittadino israeliano che, secondo fonti militari israeliane, “è entrato a Gaza” il 7 settembre 2014. Le circostanze dell’ingresso di Menghitsu a Gaza rimangono dubbie, soprattutto da quando il leader politico di Hamas Khaled Meshaal ha negato che l’ala militare di Hamas stia tenendo in ostaggio il cittadino israeliano.

Secondo il ministero della Difesa israeliano anche un altro israeliano è stato sequestrato a Gaza. Un divieto di parlare della sparizione di Mengitsu è appena stato revocato, ma un altro rimane in vigore a proposito dell’altro, supposto, detenuto israeliano. Secondo fonti ufficiali israeliane negoziati indiretti per il loro rilascio devono ancora iniziare. Per Hamas, che, secondo Meshaal, è stata contattata da Israele tramite interlocutori europei, nessuna discussione sarà possibile finché Israele non avrà liberato 71 palestinesi. Si tratta del numero di palestinesi che sono stati nuovamente arrestati poco dopo essere stati liberati nel 2011 in seguito allo scambio di prigionieri tra Hamas e Israele. All’epoca, uno scambio di prigionieri ha permesso la liberazione di 1.027 palestinesi (477 dei quali considerati membri di Hamas) e di Gilad Shalit, un soldato israeliano, catturato e tenuto prigioniero da combattenti di Hamas per 5 anni. La nuova prospettiva di negoziati permetterà ad Hamas di sollevare la questione della violazione dell’ultimo accordo per lo scambio di prigionieri da parte di Israele. Poiché ha arrestato di nuovo dei prigionieri liberati, il futuro accordo con Israele apparirebbe poco serio e come una misura temporanea per garantire gli immediati interessi di Israele, senza un totale e incondizionato impegno rispetto alla libertà dei prigionieri palestinesi appena liberati. Siccome il potere occupante ha accesso illimitato ai Territori Occupati palestinesi a Gerusalemme e in Cisgiordania, Israele può arrestare qualunque palestinese accusato di “terrorismo”, senza prove e senza un serio e giusto procedimento. Gli sforzi israeliani di stroncare qualunque forma di resistenza, armata o di qualunque altro genere, è ampiamente appoggiato dall’Autorità Nazionale Palestinese, i cui scagnozzi degli apparati di sicurezza sono totalmente addestrati ed equipaggiati per schiacciare ogni forma di dissenso in Cisgiordania. Una recente retata di arresti, che ha preso di mira principalmente simpatizzanti di Hamas ed altre voci dell’opposizione, ne è l’ultima prova. Molti scettici hanno messo in dubbio lo scambio di prigionieri del 2011. Qualcuno ha chiesto: “Che senso ha garantire la liberazione di centinaia di prigionieri se questi possono essere arrestati di nuovo da Israele quando gli pare?” I palestinesi si trovano a dover affrontare lo stesso dilemma di ogni movimento di liberazione moderno. Anche i nativi americani hanno dovuto fare i conti con lo stesso dilemma di fronte al genocidio e alla distruzione. Un intellettuale con le migliori intenzioni recentemente mi ha detto che i palestinesi dovrebbero lasciare le armi, smantellare le loro istituzioni e permettere a Israele di occupare Gaza, il che a sua volta metterebbe in chiaro che Israele deve rispettare le regole che riguardano i territori occupati. Ma Israele ha accolto gli impegni della Quarta Convenzione di Ginevra o qualunque altra legge internazionale riguardo ai diritti di una nazione occupata? Israele sta violando più risoluzioni dell’assemblea generale e del Consiglio di sicurezza ONU di qualunque altra nazione sulla terra, e preoccuparsi delle questioni relative alla popolazione civile occupata non è mai stata una priorità israeliana. La guerra di Israele contro Gaza di un anno fa ha causato più devastazioni che qualunque altra guerra in passato. Un rapporto dell’ONU recentemente pubblicato, mentre ha condannato Israele, ha anche denunciato i palestinesi per aver preso di mira i civili. Benché ci si aspettasse che il rapporto avrebbe condannato il lancio casuale di razzi artigianali su aree civili, la narrazione, nel suo complesso, mette sullo stesso piano Israele, un potente aggressore e occupante, e i palestinesi, che sono in una costante condizione di autodifesa. Eccetto il rapporto dell’ONU, insieme a pochi altri, così come il timido tentativo da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese di chiedere il coinvolgimento della Corte Penale Internazionale (CPI) per indagare sui crimini di guerra israeliani, ben poco è cambiato a Gaza. Le sofferenze abbondano, un aiuto insufficiente riesce ad entrare permettendo alla gente soltanto di sopravvivere, la ricostruzione è molto ridotta, i blackouts elettrici sono lunghi e frequenti, e l’assedio rimane in piedi, più feroce che mai. Oltretutto l’agenzia di aiuto dell’ONU, UNRWA, che si occupa del benessere dei palestinesi, ha un passivo di 101 milioni di dollari, e pochissimi donatori offrono fondi per salvarla. Il ragionamento vano, secondo cui “il mondo non sarebbe rimasto inerme a guardare la guerra israeliana di 51 giorni contro Gaza” (la cosiddetta operazione “Margine protettivo”), era solo quello, un ragionamento vano, simile a alla pia illusione che è seguita alla cosiddetta operazione “Piombo fuso” del 2008-09. Il prezzo di morte tra i palestinesi nelle due guerre è stato di 4.000 persone , per la maggior parte civili, un gran numero dei quali bambini. Ma le sofferenze, naturalmente, vanno oltre i 4.000 morti e il lutto delle loro famiglie, poiché decine di migliaia sono stati feriti o mutilati, le già misere infrastrutture della Striscia sono state distrutte e il trauma collettivo è senza precedenti. La giustificazione di Israele, secondo cui questa azione è stata motivata dalla necessità di proteggere i civili nelle zone di confine è quanto meno fragile, in quanto i 69 o 73 israeliani uccisi durante l’ultima guerra erano soldati, che sono stati uccisi mentre erano impegnati ad invadere la Striscia assediata. Ma è vero che, se i palestinesi non avessero resistito, Israele non avrebbe utilizzato così tanto potere di fuoco? E avrebbe forse trattato un po’ meglio i palestinesi? La resistenza armata ha raggiunto il suo minimo in Cisgiordania e a Gerusalemme, dove si trova la maggior parte dell’esercito israeliano e dove le colonie ebraiche, illegali e fortificate, sono in costante espansione. Persino chi lancia pietre e dimostranti disarmati vengono regolarmente uccisi e feriti dall’esercito e dai coloni ebraici. E mentre l’Autorità Nazionale Palestinese sta giocando un ruolo cruciale nel controllo della popolazione, Israele sta accumulando ricchezze grazie all’occupazione. Quella israeliana in Cisgiordania non solo è l’occupazione meno onerosa tra tutte quelle illegali in tempi moderni, è anche la più conveniente. Aspettarsi che Gaza non resista è un invito ad Israele per completare la sua umiliazione del popolo palestinese, per utilizzare la Striscia per ricavarne benefici economici (per esempio, il gas naturale sulle coste e impianti balneari segregati su base razziale, ecc.) e trasformare i suoi uomini, donne e bambini in manodopera a buon mercato, alla ricerca di un modo per sopravvivere. In effetti, così è stato per parecchi anni, dal 1967 fino al cosiddetto disimpegno nel 2005. Il fallimento della comunità internazionale nell’agire dopo l’ultimo episodio dei massacri a Gaza significa che i palestinesi sono soli, almeno per il momento. I loro fratelli arabi sono presi dalle loro disgrazie, o stanno apertamente tramando contro la sottile ma risoluta Striscia. Per cui, anche se i conti della resistenza non tornano -che si tratti di uno scambio di prigionieri non garantito o di un terrificante bilancio di morti – i palestinesi di Gaza continueranno a resistere. I loro “fedayn” (combattenti per la libertà) hanno fatto così, dalla sua nascita nel 1948 fino all’attuale generazione, che rimane vigile sui confini nel 2015. Non si tratta di una questione di strategia, ma un atto dominato da una semplice logica che essi seguono: o una vita dignitosa o una morte onorevole.

Il dottor Ramzy Baroud ha scritto per 20 anni sul Medio Oriente. E’ un editorialista quotato a livello internazionale, un consulente dei media, autore di parecchi libri e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo lavoro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza (Pluto Press, London)”. Il suo sito web è: ramzybaroud.net .

(traduzione di Amedeo Rossi)