La normalizzazione di Israele potrebbe portare alla divisione della moschea di Al-Aqsa

Mersiha Gadzo

14 settembre 2020 – Al Jazeera

Secondo alcuni analisti una clausola degli accordi Emirati -Bahrain e Israele spalanca la porta alle preghiere degli ebrei nel luogo sacro.

Una frase inserita negli accordi di normalizzazione fra Emirati Arabi Uniti (EAU), Bahrain e Israele, mediati dagli Stati Uniti, potrebbe portare alla divisione del complesso di Al-Aqsa perché viola lo status quo, dicono alcuni analisti.

Secondo un’inchiesta di Terrestrial Jerusalem (TJ) un’organizzazione non governativa israeliana, le affermazioni segnano un “cambiamento radicale dello status quo” e hanno ” conseguenze di vasta portata e potenzialmente esplosive”.

Secondo lo status quo stabilito nel 1967, solo i musulmani possono pregare sull’al-Haram al-Sharif [il Nobile Santuario in arabo, cioè la Spianata delle Moschee, ndtr.], Monte del Tempio, secondo gli ebrei, noto anche come complesso della moschea Al-Aqsa, un’area di 14oo mq.

I non-musulmani possono visitare il sito, ma non pregare. Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, aveva confermato questo status quo in una dichiarazione formale nel 2015.

Tuttavia una clausola inclusa nei recenti accordi fra Israele e gli Stati del Golfo Arabo indica che potrebbe non essere più così.

Secondo la dichiarazione congiunta fra USA, Israele e EAU rilasciata il 13 agosto dal presidente americano Donald Trump: “Come sancito nella Visione di Pace, tutti i musulmani che vengono in pace possono visitare e pregare nella moschea di Al-Aqsa e gli altri siti sacri a Gerusalemme devono restare aperti ai fedeli pacifici di tutte le fedi.”

Ma Israele definisce Al-Aqsa come ‘struttura di una moschea’, come nella dichiarazione, chiarifica la relazione di TJ.

“Secondo Israele (e apparentemente gli Stati Uniti), tutto quello che c’è sul Monte che non sia la struttura della moschea, è definito come ‘uno degli altri siti sacri di Gerusalemme’, aperto a tutti, ebrei inclusi, per pregare,” dice la dichiarazione.

“Questa scelta di terminologia non è né casuale né un passo falso e non può essere vista se non come un tentativo intenzionale, seppure furtivo, di lasciare la porta spalancata alla preghiera ebraica al Monte del Tempio, cambiando così radicalmente lo status quo.”

La stessa dichiarazione è stata ripetuta nell’accordo con il Bahrain, annunciato venerdì.

Khaled Zabarqa, un avvocato palestinese specializzato nelle questioni relative ad Al-Aqsa e Gerusalemme, ha detto ad Al Jazeera che si “dice molto chiaramente che la moschea non è sotto la sovranità musulmana”.

“Quando gli EAU hanno accettato tale clausola, si sono detti d’accordo e hanno dato il via libera alla sovranità di Israele sulla moschea di Al-Aqsa,” ha detto Zabarqa.

“È una chiara e significativa violazione dello status quo legale internazionale della moschea di Al-Aqsa (concepito) nel 1967 dopo l’occupazione di Gerusalemme e secondo cui tutto ciò che si trova all’interno delle mura è sotto la custodia giordana.

Non è un errore innocente’

I palestinesi sono preoccupati da tempo per i possibili tentativi di partizione della sacra moschea, come è successo con la moschea di Ibrahimi [la Tomba dei Patriarchi per gli ebrei, ndtr.] a Hebron.

Nel corso degli anni si è sviluppato un Movimento del Tempio, costituito in gran parte da ” di ebrei religiosi nazionalisti di estrema destra” che cercano di cambiare lo status quo, riferisce TJ.

Alcuni chiedono la preghiera per gli ebrei all’interno del complesso sacro, mentre altri mirano a costruire il Terzo Tempio sulle rovine della Cupola della Roccia che, secondo le profezie messianiche, annuncerebbe la venuta del messia.

Nel corso degli anni, l’ONG israeliana Ir Amim ha pubblicato numerose relazioni di questo gruppo, un tempo marginale, ma che oggi fa parte di una tendenza politica e religiosa dominante e gode di stretti legami con le autorità israeliane.

Questi attivisti credono che permettere agli ebrei di pregare nel complesso e dividere il sito sacro fra musulmani ed ebrei sia un passo verso la sovranità, per raggiungere un giorno il loro scopo finale, la costruzione del tempio.

In anni recenti, un numero crescente di visitatori ebrei hanno cercato di pregare in violazione dello status quo.

Daniel Seidemann, un avvocato israeliano specializzato nella geopolitica di Gerusalemme, ha detto ad Al Jazeera di essere “profondamente preoccupato per quello che sta succedendo “.

“Quello che stiamo vedendo a Gerusalemme è l’ascesa delle fazioni religiose che usano la religione come un’arma. Siamo su una strada che ci porterà a una conflagrazione.

Noi sappiamo che queste clausole, ogni singola parola, sono state elaborate insieme da un gruppo congiunto USA/ Israele. Il passaggio dal termine Haram al-Sharif a quello di moschea di Al-Aqsa non è un errore,” secondo Seidemann.

‘Scritto con astuzia’

Una dichiarazione più sfacciata è stata inclusa nell’ “accordo del secolo”, il piano per il Medio Oriente svelato alla fine di gennaio da Trump e Netanyahu alla Casa Bianca.

Jared Kushner, importante consigliere e genero di Trump, è stato la persona di maggior spicco che ha lavorato alla proposta, mentre a Ron Dermer, ambasciatore israeliano negli USA, è stata attribuita la formulazione dell’accordo.  

Il piano stipula che “lo status quo del Monte del Tempio/Haram al-Sharif dovrebbe rimanere inalterato”, ma nella frase successiva si dice anche che: “persone di ogni fede possono pregare sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif.”

La clausola ha causato polemiche e ha spinto David Friedman, ambasciatore USA in Israele, a tornare sui suoi passi durante l’incontro con la stampa il 28 gennaio. “Non c’è nulla nel piano che imporrebbe modifiche dello status quo senza l’accordo fra tutte le parti,” ha detto.

Un alto funzionario americano, che conosce sia le parti in causa che i problemi, ha detto ad Al Jazeera che “non ha dubbi che il linguaggio nella dichiarazione Israele-EAU è stato scelto con malizia premeditata da parte di Israele, senza una chiara comprensione da parte degli Emirati e con la complicità di mediatori americani incompetenti.”

“La rapida ritrattazione di Friedman della frase contenuta nel piano di Trump attesta che probabilmente Dermer l’aveva inserita e che Kushner non l’aveva capita,” ha rivelato il funzionario in forma anonima.

“Il fatto che sia stato Friedman a ritrattare e non la Casa Bianca significa anche che il linguaggio del piano di Trump è ancora ufficiale e determinante quando si arriverà al dunque… Anche se gli idioti Kushner-Friedman hanno capito le conseguenze, è chiaro che se ne fregano.”

Eddie Vasquez, esperto consigliere e portavoce del Dipartimento di Stato americano, ha riferito in un’email ad Al Jazeera di una scheda informativa pubblicata dopo l’annuncio “dell’accordo del secolo” che dice che lo status quo non verrà modificato.

“Tutti i musulmani sono benvenuti a visitare in pace la moschea di Al-Aqsa,” dice uno dei punti. Ma non si chiarisce perché negli accordi con gli EAU e Bahrain sia stato usato il termine di moschea di Al-Aqsa e non Haram al-Sharif.

Sovranità israeliana su Al-Aqsa’

Gli accordi di normalizzazione arrivano dopo che, la scorsa settimana, le autorità israeliane hanno installato degli altoparlanti sui lati est e ovest del complesso di Al-Aqsa senza il permesso del Waqf, (istituzione islamica).

Il complesso sacro è amministrato dal Waqf islamico con sede in Giordania. Secondo lo status quo, Israele è responsabile solo della sicurezza fuori dai cancelli.

“La polizia israeliana dice che è per motivi di sicurezza, ma noi non riusciamo a vedere questi motivi,” dice Omar Kiswani, direttore del complesso di Al-Aqsa.

“Noi consideriamo questa azione un tentativo di imporre il controllo sulla moschea di Al-Aqsa e di indebolire il ruolo del Waqf nella moschea,” dice Kiswani.

Zabarqa afferma che la Giordania, custode del sito, “non ha alcun potere di trattare con le [autorità] di occupazione “.

“Credo che la Giordania debba cambiare e trovare nuovi alleati, come la Turchia. Dovrebbe usare le relazioni finanziarie e diplomatiche con Israele per far pressione, ma invece sembra così debole da mettersi al fianco degli americani,” aggiunge Zabarqa.

Nel suo rapporto TJ nota che nell’accordo non si parla del Waqf e del suo ruolo autonomo.

“Le rivendicazioni musulmane su Haram al-Sharif/Al-Aqsa sono state trasformate da quelle di proprietario a quelle di ‘ospite benvenuto’ con il diritto di visitare e pregare,” conclude.

Una bomba’

Zabarqa sostiene che la clausola è “rivoluzionaria nella narrazione israelo-americana ” e crede che gli ” EAU abbiano accettato di fare da apripista “.

Zabarqa rileva che nel 2014 gli EAU sono stati coinvolti nel trasferimento della proprietà di oltre 30 edifici a coloni israeliani illegali a Silwan, nella Gerusalemme est occupata.

“Questo ci mostra il ruolo evidente che gli Emirati giocano nel cambiare il termine di status quo con un altro che riconosca la sovranità israeliana su Al-Aqsa,” afferma Zabarqa.

Seidemann dice che martedì, quando gli emiratini e i rappresentanti del Bahrain prenderanno parte alla cerimonia tenuta da Trump alla Casa Bianca per firmare una “storica dichiarazione di pace” con Israele dovrebbero chiedere dei chiarimenti per assicurarsi che lo status quo resti immutato.

Ci sarebbe solo bisogno che Kushner e Netanyahu dicano: ‘Continuo a credere a quello che ho detto nel 2015.’ Nelle ultime due settimane gli è stato chiesto, ma non l’hanno ancora detto. Questa non è ingenuità,” commenta Seidemann.

“Questa è una bomba che le amministrazioni di Trump e Netanyahu lasciano alle successive, al prossimo governo israeliano. Stanno giocando con Haram al-Sharif/Al-Aqsa/ Monte del Tempio. Accenderà una miccia,” dice Seidemann.

“Forse è una miccia lunga, ci sarà un’esplosione, ma non è troppo tardi per evitare che scoppi.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




I palestinesi devono respingere e ignorare le false dichiarazioni degli USA e a livello internazionale

Ramona Wadi

3 settembre 2020 – Middle East Monitor

Come prevedibile, il consigliere esperto di Donald Trump, Jared Kushner, non ha dato mostra di alcuna sagacia storica quando ha giustificato la normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli EAU e riguardo a quanto ciò influenzerà di diritti politici del popolo palestinese. I palestinesi, ha dichiarato, non dovrebbero “rimanere attaccati al passato”. Questa è stata un’affermazione generica, tipica non solo degli USA, ma anche della comunità internazionale e delle sue astrazioni riguardo a “pace” e “negoziati”, che hanno preso il sopravvento rispetto a chiamare l’espansione colonialista israeliana su terra palestinese esattamente per quello che è.

C’è una differenza tra gli sforzi diplomatici per raggiungere un accordo favorevole per entrambe le parti e la coercizione per obbligare una popolazione colonizzata ad accettare le richieste del colonizzatore e dei suoi alleati. Riguardo ai palestinesi, ha aggiunto Kushner, “devono venire al tavolo delle trattative. La pace sarà a loro disposizione, ci sarà un’opportunità pronta per loro appena saranno pronti a coglierla.”

Quello che Kushner dice non è altro se non che i palestinesi saranno obbligati ad accettare di essere colonizzati come parte di un accordo, oppure obbligati ad essere colonizzati senza di esso. Più o meno nello stesso modo in cui il compromesso dei due Stati garantiva la preservazione di Israele, che venisse o meno messo in pratica il paradigma.

La normalizzazione non è ciò che sembra, cioè, con le parole del primo ministro Benjamin Netanyahu, “pace in cambio di pace”. L’accordo tra Israele e gli EAU elimina i palestinesi dall’equazione, quindi non c’è pace, ma una metaforica e verbale eliminazione della popolazione indigena dall’attuale narrazione politica, per abbinarsi alla pulizia etnica che i paramilitari sionisti hanno operato prima, durante e dopo la Nakba del 1948.

A livello internazionale il discorso è simile. L’ONU e i leader internazionali stanno parlando dell’opportunità di riprendere i negoziati, quindi si schierano con gli USA benché il quadro di riferimento per la “pace” differisca. Kushner è semplicemente stato più esplicito nel travisare la lotta anticolonialista dei palestinesi come “rimasti attaccati al passato”, mentre la comunità internazionale ha utilizzato il passato del popolo palestinese, aiutata e sostenuta dall’interesse dell’ONU nel progetto coloniale sionista, per rinchiuderli all’interno dell’inganno diplomatico.

Quindi da una parte gli USA hanno totalmente rimosso la storia palestinese, mentre l’ONU la riconosce per i propri fini. Entrambi hanno manifestato, in modi diversi, il rifiuto palestinese di negoziati con termini che sono già compromessi. Tuttavia l’ONU rifiuta di ammettere il fatto di avere un alleato nell’Autorità Nazionale Palestinese, che continua nel suo doppio gioco di rifiutare il negoziato rimanendo legata al compromesso dei due Stati.

Dopotutto c’è un tacito accordo tra l’ONU e l’ANP. Persino in tempi in cui è necessaria un’alternativa, il leader dell’ANP Mahmoud Abbas non si allontana dall’avvertimento del segretario generale dell’ONU António Guterres, secondo cui “non c’è un piano B.”

Con una simile coesione internazionale contro i palestinesi, indubbiamente Kushner si sente appoggiato nelle sue affermazioni secondo cui essi sono “rimasti attaccati al passato”, non da ultimo perché anche l’ONU ha relegato i palestinesi a una questione per la quale il tempo è passato, rendendo irrilevante, attraverso il suo appoggio a un contesto che porta all’ingiustizia, il loro legittimo diritto al ritorno. Tuttavia le affermazioni riguardanti i palestinesi sono sbagliate ed essi devono respingere ed ignorare le false dichiarazioni internazionali sulla loro situazione.

Sappiamo per certo che vogliono continuare a vivere sulla loro terra, con l’autonomia e l’indipendenza che può venire solo dalla decolonizzazione. Quello che gli USA e la comunità internazionale rifiutano di ammettere e di accettare è che per i palestinesi non ci può essere un progresso senza la loro terra.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il Bahrein segue gli EAU e normalizza i rapporti con Israele

Al-Jazeera e agenzie

12 settembre 2020 – Al-Jazeera

La Palestina richiama l’inviato in Bahrein, denunciando l’ultimo accordo come “un’altra coltellata a tradimento contro la causa palestinese.”

Il Bahrein si è unito agli Emirati Arabi Uniti accettando di normalizzare i rapporti con Israele, con un accordo mediato dagli USA che i dirigenti palestinesi hanno denunciato come “un’altra coltellata a tradimento contro la causa palestinese”.

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato l’accordo venerdì su Twitter, dopo aver parlato per telefono con il re del Bahrain Hamad bin Isa Al Khalifa e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

È veramente un giorno storico,” ha detto Trump ai giornalisti nello Studio Ovale, affermando di credere che altri Paesi faranno altrettanto.

Era impensabile che ciò potesse avvenire e così in fretta.”

Con un comunicato congiunto gli Stati Uniti, il Bahrein e Israele hanno detto che “aprire un dialogo e rapporti diretti tra queste due società dinamiche e le loro economie avanzate continuerà la trasformazione positiva del Medio Oriente e aumenterà la stabilità, la sicurezza e la prosperità nella regione.”

Un mese fa gli EAU hanno accettato di normalizzare i rapporti con Israele in base ad un accordo mediato dagli USA che dovrebbe essere firmato martedì durante una cerimonia alla Casa Bianca ospitata da Trump, che sta cercando di essere rieletto il 3 novembre.

Alla cerimonia parteciperanno Netanyahu e il ministro degli Esteri degli Emirati, lo sceicco Abdullah bin Zayed Al Nahyan. Il comunicato congiunto afferma che il ministro degli Esteri del Bahrein Abdullatif al-Zayani si aggiungerà a questa cerimonia e firmerà una “storica dichiarazione di pace” con Netanyahu.

La storia della normalizzazione tra arabi e israeliani

Come l’accordo degli EAU, quello di venerdì tra il Bahrain e Israele normalizzerà le relazioni diplomatiche, commerciali, per la sicurezza ed altro tra i due Paesi. Il Bahrein, insieme all’Arabia Saudita, ha già annullato il divieto di passaggio sul suo spazio aereo ai voli israeliani.

Il comunicato congiunto di venerdì menziona solo marginalmente i palestinesi, che temono che le iniziative del Bahrein e degli EAU indeboliscano la tradizionale posizione di tutti i Paesi arabi di chiedere il ritiro di Israele dai territori già illegalmente occupati e l’accettazione di uno Stato palestinese in cambio della normalizzazione dei rapporti con i Paesi arabi.

Il comunicato afferma che il Bahrain, Israele e gli USA continueranno nel tentativo di “raggiungere una soluzione giusta, esauriente e duratura del conflitto israelo-palestinese per consentire al popolo palestinese di realizzare appieno il suo potenziale.”

Grave danno”

Netanyahu ha accolto positivamente l’accordo ed ha ringraziato Trump.

Ci sono voluti 26 anni tra il secondo accordo di pace con un Paese arabo e il terzo, ma solo 29 giorni tra il terzo e il quarto, e ce ne saranno altri,” ha detto in riferimento al trattato di pace del 1994 con la Giordania e all’accordo più recente.

Secondo l’agenzia di stampa statale [del Bahrein] BNA, per parte sua il Bahrein ha affermato di appoggiare una pace “giusta ed esauriente” in Medio Oriente. Questa pace dovrebbe essere basata su una soluzione a due Stati per risolvere il conflitto israelo-palestinese, dice l’articolo citando re Hamad.

Il genero di Trump e importante consigliere alla Casa Bianca Jared Kushner ha salutato gli accordi come “il culmine di quattro anni di grande lavoro” da parte dell’amministrazione Trump.

Parlando al telefono con i giornalisti dalla Casa Bianca subito dopo l’annuncio di venerdì, Kushner ha detto che gli accordi degli EAU e del Bahrein “contribuiranno a ridurre le tensioni nel mondo musulmano e consentiranno al popolo di separare la questione palestinese dai propri interessi nazionali e dalla politica estera, che dovrebbe essere concentrata sulle priorità interne.”

Tuttavia la dirigenza palestinese ha condannato l’accordo come un tradimento della causa palestinese e ha richiamato per consultazioni l’ambasciatore palestinese in Bahrein.

In un comunicato l’Autorità Nazionale Palestinese ha dichiarato di “respingere la decisione presa dal regno del Bahrein e gli chiede di ritrattarlo immediatamente per il grave danno che causa agli inalienabili diritti nazionali del popolo palestinese e all’azione congiunta degli arabi.”

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), con sede a Ramallah, in Cisgiordania, ha definito la normalizzazione “un’altra coltellata a tradimento alla causa palestinese.” E a Gaza il portavoce di Hamas Hazem Qassem ha affermato che la decisione del Bahrein di normalizzare i rapporti con Israele “rappresenta un grave danno per la causa palestinese e appoggia l’occupazione.”

Una decisione puramente saudita”

Khalil Jahshan, direttore esecutivo dell’Arab Center [Centro Arabo] di Washington, ha detto che il consenso saudita è stato fondamentale per la decisione del Bahrain.

È una decisione puramente saudita. Non potendo rispondere positivamente a Trump a causa di contrasti interni, la dirigenza dell’Arabia Saudita gli ha dato il Bahrein su un piatto d’argento.”

Il Bahrein, un piccolo Stato insulare, è sede del quartier generale regionale della flotta USA. Nel 2011 l’Arabia Saudita ha inviato truppe in Bahrein per contribuire a reprimere una rivolta, e nel 2018, insieme al Kuwait e agli EAU, ha offerto al Bahrein un salvataggio finanziario di 10 miliardi di dollari.

Nida Ibrahim, inviata di Al Jazeera a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, concorda, affermando che fonti ufficiali palestinesi credono che gli accordi di Bahrein e EAU non ci sarebbero stati “senza un sostegno regionale.”

Il timore tra i palestinesi è che questi accordi rappresentino la luce verde perché altri Stati arabi normalizzino i rapporti con Israele,” dice. “E molti palestinesi che dicono di aver per anni visto gli USA come avvocati o partner di Israele, ora li vedono come i rappresentanti di Israele. Perché è Trump che annuncia gli accordi di normalizzazione.”

Da quando ha assunto il potere, l’amministrazione Trump ha perseguito politiche risolutamente filo-israeliane, compreso lo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, ordinando la chiusura dell’ufficio di rappresentanza dell’OLP a Washington e riconoscendo l’occupazione israeliana delle Alture del Golan siriane. Il presidente USA e i suoi consiglieri hanno promosso la proposta del cosiddetto “accordo del secolo” per risolvere il conflitto israelo-palestinese ed hanno corteggiato gli Stati arabi del Golfo per cercare di ottenere appoggio all’iniziativa.

Per esempio nel giugno 2019 il Bahrein ha ospitato la conferenza organizzata dagli USA per rivelare gli aspetti economici della proposta, e all’epoca dirigenti emiratini e sauditi hanno espresso il loro appoggio a qualunque accordo economico che beneficiasse i palestinesi. Tuttavia i dirigenti palestinesi hanno boicottato quel summit, affermando che l’amministrazione Trump non era un mediatore imparziale per qualunque futuro negoziato con Israele.

Riferendo da Washington, Kimberly Halkett di Al Jazeera afferma che, mentre gli accordi tra Israele, il Bahrein e gli EAU non sono tra le principali priorità per molti elettori USA, gran parte dei sostenitori di Trump sono cristiani evangelici, favorevoli alle sue posizioni a favore di Israele.

Halkett dice che Trump sta cercando di dimostrare loro prima delle elezioni del 3 novembre che può ottenere l’“accordo del secolo” durante il suo secondo mandato.

Sta agendo come se questo fosse il quadro che porterà al cosiddetto “accordo del secolo”, afferma Halkett, nonostante il fatto che “finora il presidente e i rappresentanti della sua amministrazione non abbiano neppure parlato con i palestinesi.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Aggrapparsi ai corpi dei martiri è il modo in cui Gantz sfugge a questioni imbarazzanti

Ahmed El-Komi

10 settembre 2020 – Middle East Monitor

Due giorni dopo che la scorsa settimana i gruppi della resistenza palestinese e le autorità dell’occupazione israeliana hanno raggiunto un accordo per il cessate il fuoco, il ministro israeliano della Difesa Benny Gantz ha chiesto al gabinetto per la Sicurezza dello Stato di continuare a trattenere i corpi dei martiri palestinesi. Lo scorso mercoledì, in un momento accuratamente valutato da Israele, il gabinetto ha dato la sua approvazione.

Gli israeliani trattengono decine di corpi di palestinesi e rifiutano di restituirli alle loro famiglie, sostenendo che sono stati uccisi mentre compivano o cercavano di compiere attacchi contro lo Stato occupante. Sono tenuti in refrigeratori speciali e tombe circondate da pietre, ma senza lapidi. Su ogni tomba viene lasciata invece una placca metallica con un numero specifico, per cui sono chiamati “cimiteri di numeri”, in quanto alle tombe vengono assegnati numeri invece dei nomi dei martiri.

L’Autorità di Vigilanza israeliana ha informato dell’approvazione della richiesta di Gantz da parte del gabinetto anche nel caso in cui i martiri non fossero affiliati ad Hamas. È come se il ministro, e primo ministro in alternanza, volesse attirare l’attenzione sulla sua vendetta contro il movimento. Ciò gli consente anche di agire da leader e limitare la sua guerra a un solo avversario.

La mancata restituzione dei corpi di terroristi è parte del nostro impegno per la sicurezza dei cittadini israeliani,” ha spiegato Gantz, “e ovviamente per far tornare a casa i ragazzi.” Quest’ultimo è un riferimento ai quattro soldati israeliani catturati da Hamas nel 2014.

La decisione del gabinetto fa seguito a quella presa esattamente un anno fa, il 9 settembre, dalla Corte Suprema israeliana, che ha dato alle autorità dell’occupazione il permesso di continuare a trattenere i corpi dei palestinesi. Ciò fa di Israele l’unico Paese al mondo che continua ad adottare una politica di vilipendio dei cadaveri, con una chiara e provocatoria sfida alla comunità internazionale e in spregio ad ogni norma legale e sociale.

La tempistica dell’ultima decisione è servita a coprire il fallimento di Gantz contro la resistenza palestinese e come tentativo di placare i cittadini israeliani ed evitare le loro domande e critiche. Qualche settimana fa aveva affermato in modo arrogante: “Nel sud, Hamas continua a consentire che vengano lanciati attacchi con palloni esplosivi nello Stato di Israele. Non siamo disposti ad accettarlo e in seguito a ciò abbiamo chiuso il valico di Kerem Shalom.

Farebbero meglio a non violare l’incolumità e la sicurezza di Israele. Se ciò non avverrà, noi dovremo rispondere, e con la forza.” Tuttavia non ha osato toccare un solo ragazzo palestinese che lancia i palloni da Gaza.

Gantz ha fatto seguito alla sua decisione di trattenere i corpi con l’appoggio alla costruzione di 5.000 unità abitative nelle colonie illegali della Cisgiordania occupata, dimostrando che stava cercando un’immaginaria vittoria che gli fornisse una via d’uscita per evitare imbarazzanti domande dopo il suo fallimento. Vuole preservare la sua immagine di ministro forte di fronte al pericolo e di uomo politicamente “pulito” nel corrotto contesto politico di Israele.

Questo non è un comportamento tipico da parte di Gantz, diplomato alla scuola della leadership militare di Israele; è più adeguato a chi cerca una via d’uscita, come quelle utilizzate dagli ex-generali e ministri israeliani sempre in cerca di una vittoria di altro genere. Sfuggono al dovere di dare spiegazioni e risposte sulle sconfitte.

Nel caso di Gantz sembra che cinque mesi di lavoro con il primo ministro Benjamin Netanyahu gli abbiano insegnato come cavarsela da situazioni complicate bluffando. Tuttavia molte delle decisioni prese da Netanyahu e Gantz, entrambi abili nelle menzogne, sono condizionate dalle posizioni che impongono loro i gruppi della resistenza palestinese. L’unica risposta che un ministro del livello di Gantz può escogitare è mostrare i muscoli…e aggrapparsi ai corpi dei martiri palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’uccisione di un beduino è un’arma della guerra di Netanyahu per sopravvivere

Edo Konrad

9 settembre 2020 – +972 magazine

Netanyahu sta utilizzando l’uccisione colposa di Yacoub Abu al-Qi’an come clava per attaccare le autorità che lo accusano di corruzione.

Le ultime 24 ore hanno fatto comprendere nel dettaglio il profondo cinismo con cui i dirigenti israeliani trattano i cittadini palestinesi del Paese. Martedì notte il primo ministro Benjamin Netanyahu ha finalmente chiesto scusa alla famiglia di Yacoub Abu al-Qi’an, un beduino abbattuto a fucilate dalla polizia israeliana nel gennaio 2017 durante un’incursione nel villaggio non riconosciuto di Umm al-Hiran, nel deserto del Naqab/Negev.[vedi su questo argomento zeitun]

Le scuse di Netanyahu giungono dopo più di tre anni di tentativi da parte della polizia di calunniare Abu al-Qi’an e la sua famiglia; una presunta inchiesta sull’incidente e prove incontrovertibili dimostrano senza ombra di dubbio che Abu al-Qi’an oggi dovrebbe ancora essere vivo.

Per anni la versione ufficiale, sostenuta dalla polizia e a livello politico, è stata che la sparatoria era giustificata. Improvvisamente, poiché deve affrontare una crescente indignazione sulla gestione della crisi di COVID-19 e un processo penale che minaccia il suo futuro politico, Netanyahu ha trovato il modo di utilizzare un beduino assassinato che è stato senza mezzi termini dipinto e condannato come un terrorista.

Nel 2017 Umm al-Hiran era impegnato in una lotta per la sopravvivenza. Per circa due decenni Israele aveva progettato di radere al suolo il villaggio e di sostituirlo con la città ebraica di Hiran, in base al fatto che le case dei beduini erano state costruite su terra demaniale (negli anni ’50il governo militare israeliano aveva ordinato alla tribù di Abu al-Qi’an di spostarsi su questa terra).

Durante un’incursione avvenuta nelle prime ore del mattino dell’unità speciale della polizia incaricata di far applicare le leggi sulla costruzione e la pianificazione, i poliziotti israeliani spararono e uccisero Yacoub Abu al-Qi’an, che si era appena messo alla guida della sua macchina nelle vicinanze delle demolizioni. Poi Yacoub finì per sbandare uccidendo l’ufficiale della polizia israeliana Erez Levy.

Al momento degli spari, l’allora capo della polizia Roni Alsheikh e l’ex ministro della Sicurezza Pubblica Gilad Erdan definirono l’uccisione di Levy “un attacco indiscutibilmente terroristico.” I principali mezzi di informazione israeliani ripresero senza metterla in dubbio questa menzogna. Riguardo alla sparatoria il dipartimento di Indagini Interne della polizia iniziò un’inchiesta preliminare, ma nel maggio 2018 i pubblici ministeri israeliani chiusero il caso, affermando che non ci fossero basi per un procedimento penale contro i poliziotti coinvolti.

Al funerale dell’agente Levy il capo della polizia Alsheikh ripeté l’affermazione senza fondamento che Abu al-Qi’an fosse un violento radicale islamista. Per più di un anno e mezzo dopo l’uccisione, e nonostante prove video e testimonianze del contrario, Erdan continuò a sostenere che Abu al-Qi’an era un terrorista. Erdan poi chiese allo Shin Bet di riaprire l’inchiesta “per dimostrare” che l’incidente era stato un attacco terroristico.

Lentamente iniziarono ad accumularsi prove che smentivano le affermazioni della polizia, compresa un’inchiesta preliminare da parte del centro di ricerche londinese Architettura Forense [organizzazione che ricostruisce con metodi scientifici avvenimenti controversi, fondata dall’architetto israeliano Eyal Weizman, ndtr.] e le testimonianze oculari presentate alla Corte Suprema e consegnate ai media, che confutavano nei fatti il racconto della polizia.

Poi lunedì notte il telegiornale israeliano più seguito, su Canale 12, ha rivelato che l’ex- procuratore generale Shai Nitzan era intervenuto per evitare un’inchiesta sulla condotta del capo della polizia Alsheikh nel caso, nonostante un importante funzionario delle forze dell’ordine avesse affermato che Alsheikh aveva fatto filtrare alla stampa materiale delle indagini.

In una mail inviata nel 2018, Nitzan affermava che mettere in evidenza le divergenze tra la polizia e l’ufficio della procura generale avrebbe “fatto del bene solo a quanti vogliono fare del male alle forze dell’ordine.” Sembra che la decisione di Nitzan di frenare l’inchiesta fosse motivata dal timore che le malefatte della polizia potessero danneggiare l’immagine delle forze dell’ordine e del sistema penale mentre stavano indagando Netanyahu per corruzione. Ora siamo a due giorni da questa rivelazione e la destra israeliana ci va a nozze.

“Hanno detto che era un terrorista,” ha sottolineato Netanyahu in un discorso in televisione martedì notte. “Ieri è risultato chiaro che non lo era. Ieri è risultato chiaro che pubblici ministeri esperti e la polizia lo hanno trasformato in terrorista per proteggere se stessi.”

Nel contempo il deputato del partito di estrema destra Yamina Bezalel Smotrich, che ha descritto il tasso di natalità dei beduini come una “bomba” che deve essere disinnescata e che sostiene la segregazione razziale nei reparti di maternità, si è scusato per aver definito Abu al-Qi’an un terrorista. Smotrich inizialmente ha negato di averlo mai detto, finché un utente di twitter gli ha rinfrescato la memoria con delle schermate.

Anche Regavim, l’organizzazione dei coloni fondata da Smotrich per promuovere la demolizione di case e l’espulsione dei palestinesi, ha inviato scuse per il comunicato emesso dopo l’uccisione, in cui il gruppo definiva Abu al-Qi’an un “terrorista assassino” incitato da organizzazioni di sinistra, elementi estremisti islamici e membri della Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani, ndtr.].

Il ministro della Giustizia Amir Ohana, uno dei più strenui sostenitori di Netanyahu e il cui ministero è competente per la polizia, ha chiesto una revisione delle risultanze della polizia. Questa è la prima volta che un funzionario del governo mette pubblicamente in discussione rapporti della polizia riguardo agli avvenimenti occorsi a Umm al-Hiran.

Come ha scritto martedì Oren Ziv su Local Call [versione in ebraico di +972, ndtr.], Netanyahu ha ragione a chiedere scusa alla famiglia di Abu al-Qi’an, ogni altro funzionario coinvolto nella sua morte deve fare altrettanto ed essere chiamato a risponderne. Ma non c’è alcuna ragione per lasciare che il primo ministro se la cavi così facilmente. Se Netanyahu non è interessato ad utilizzare l’uccisione di Abu al-Qi’an solamente per trarne dei vantaggi personali contro la polizia e la procura, dovrebbe andare molto al di là di semplici scuse.

Potrebbe iniziare, per esempio, scusandosi con le 170 famiglie di Umma al-Hiran che sono state obbligate a firmare un accordo di ricollocamento prima della demolizione del loro villaggio. Potrebbe chiedere scusa ai beduini del Naqab per gli incessanti tentativi del suo governo di rinchiuderli in township [quartieri in cui venivano costretti a vivere i neri nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.] per poter costruire al posto dei loro villaggi nuove città ebraiche.

Poi potrebbe scusarsi di aver incitato all’odio contro i cittadini palestinesi di Israele, una pratica che ha raggiunto l’apice negli ultimi cinque anni. E infine potrebbe chiedere scusa alle innumerevoli famiglie di palestinesi erroneamente uccisi per mano delle forze di sicurezza israeliane.

Ma Netanyahu non vuole fare niente di tutto questo. Yacoub Abu al-Qi’an si è trasformato in una preziosa clava per il primo ministro, un’occasione d’oro in cui la morte di un innocente, che risulta anche appartenere a una comunità regolarmente etichettata come “terrorista”, si trasforma in un’arma della sua guerra personale.

Ovviamente c’è qualcosa di fondamentalmente marcio nelle forze di sicurezza israeliane e nel loro sistema di controllo interno. I palestinesi, sia cittadini di serie B dentro Israele che sottoposti alla dittatura militare e all’assedio in Cisgiordania e a Gaza, lo hanno sempre saputo. La recente uccisione da parte della polizia di Iyad al-Hallaq, un palestinese di Gerusalemme est affetto da autismo, ne è ulteriore prova.

Ma la guerra di Netanyahu contro la polizia e la procura non ha niente a che vedere con la giustizia per le vittime della violenza della polizia. Al contrario, ha molto a che fare con la sua lotta per rimanere il più possibile sul trono. Lo stesso trono costruito con il sangue di quanti sono stati colpiti proprio dalle autorità che giurano di proteggerli.

Edo Konrad è caporedattore di +972 Magazine. Residente a Tel Aviv, in precedenza ha lavorato come redattore di Haaretz.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Netanyahu mette gli ebrei gli uni contro gli altri

Akiva Eldar

2 settembre 2020 – Al Jazeera

Mentre procede alla normalizzazione nelle relazioni estere, il primo ministro israeliano sta seminando tensioni etniche in casa

In questi giorni in Israele tutti parlano di “normalizzazione”. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e i suoi sostenitori stanno festeggiando la normalizzazione dei rapporti di Israele con gli Emirati Arabi Uniti (EAU).

Gli opinionisti politici stanno scommettendo su quale sarà il prossimo Stato musulmano che normalizzerà le sue relazioni con lo Stato ebraico: il Bahrain o il Sudan, o presto sarà la bandiera saudita a sventolare nel cuore di Tel Aviv?

Netanyahu, con il generoso aiuto del suo compare presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ha effettivamente colmato con successo la frattura formale tra Israele e i governanti di diversi Stati del Golfo.

Tuttavia, anche se pontifica sulla storica riconciliazione tra Israele e il mondo arabo (mentre inasprisce l’occupazione israeliana sul territorio palestinese), sta lasciando traccia negli annali del popolo ebraico come arci-divisore, che mette gli ebrei gli uni contro gli altri. Il suo talento nel creare spaccature sta rivaleggiando con quello di Trump.

Nel tentativo di liberarsi dell’accusa di corruzione e della possibile incarcerazione, Netanyahu si è ripetutamente presentato come vittima della persecuzione della sinistra liberale, che molti chiamano “l’élite ashkenazita” riferendosi agli ebrei che provengono dall’Europa, tradizionalmente considerati privilegiati rispetto ai loro fratelli provenienti dagli Stati arabi, noti come ebrei mizrahi.

Netanyahu e i suoi seguaci considerano le decine di migliaia di manifestanti che ogni settimana protestano in massa davanti alla porta della sua residenza ufficiale a Gerusalemme come una banda di “mestatori” intenti a spodestare lui e la destra politica. Sono gli stessi appartenenti alle “tribù bianche” che nel 1997, in un rumoroso sussurro all’orecchio dell’anziano rabbino capo sefardita, ha accusato di “dimenticare cosa significa essere ebrei” data la loro propensione per i valori occidentali, liberali e la politica di sinistra.

Usando come portavoce il suo impudente figlio Yair, Netanyahu ha fatto presto a cavalcare l’onda della discussione pubblica del momento e a farla crescere contro le “élite ashkenazite” – nonostante suo padre sia nato a Varsavia e sia stato docente universitario negli Stati Uniti.

Il suo ultimo ricorso a tattiche ciniche riguarda una disputa tra la parte orientale della città di Beit She’an e il vicino kibbutz chiuso di Nir David in merito all’accesso a un tratto del fiume Hasi che attraversa la comunità.

Piuttosto che proporre una soluzione a una ferita socioeconomica vecchia di decenni e ormai purulenta, che ha contrapposto gli ebrei mizrahi che vivono in alloggi angusti ai kibbutzim possessori di terre prevalentemente ashkenaziti, Netanyahu, che possiede una villa sul mare a Cesarea, ha invece alimentato le fiamme. Suo figlio Yair ha twittato contro i fondatori dei kibbutz e la loro condizione privilegiata, definendoli “dannati comunisti che hanno rubato metà delle terre statali a spese delle città di sviluppo “, riferendosi alle città costruite per gli immigrati mizrahi negli anni ’50.

Il movimento dei kibbutz, a lungo considerato baluardo della politica di sinistra in Israele, ha reagito, sottolineando il proprio ruolo pionieristico. “Mentre in Galilea i bambini dei kibbutz stanno in rifugi, il perdigiorno di Balfour pensa sia meglio calunniarci” ha postato su Facebook, riferendosi al giovane disoccupato Netanyahu che vive nella residenza ufficiale del primo ministro in via Balfour a Gerusalemme. “Non andiamo da nessuna parte. Se c’è qualcuno che dovrebbe andare via sei tu, da Balfour.”

Nella sua corsa al potere, Netanyahu non è affatto il primo politico di destra a sfruttare quello che gli israeliani chiamano “il demone etnico”. Il defunto Menachem Begin, primo leader del Likud [lo stesso partito di destra di Netanyahu, ndtr.] a diventare primo ministro, mise gli abitanti delle “città di sviluppo” e dei quartieri urbani poveri, la maggior parte immigrati dal Medio Oriente e dal Nord Africa, contro gli abitanti dei kibbutz (“proprietari di piscine”, come li chiamava), in maggioranza di origine europea.

Tuttavia, se Begin aveva il diritto di accusare il partito laburista dominato dagli ashkenaziti e la sinistra politica – che governarono lo Stato dal 1948 fino alla sua vittoria nel 1977 – di discriminare gli immigrati mizrahi, Netanyahu è a capo di un partito che ha governato Israele quasi senza interruzioni per quattro decenni. Tuttavia, nonostante denunci costantemente il privilegio ashkenazita, il primo ministro israeliano non ha fatto quasi nulla per migliorare le condizioni dei mizrahi.

E’ stato sotto lo sguardo suo e del suo partito, il Likud, che il tasso di laureati tra gli ebrei ashkenaziti di terza generazione è arrivato a essere 1,5 volte superiore a quello dei loro coetanei mizrahi.

Questo divario era già comparso fra le generazioni precedenti perché i mizrahi si indirizzavano a scuole professionali, sulla base della loro origine, indipendentemente dalle capacità, piuttosto che a scuole superiori con maggiori possibilità di raggiungere l’università e migliorare il proprio status sociale.

Tra gli ashkenaziti era il contrario.

Nel corso degli anni, ciò ha determinato un più alto tasso di povertà e scarsa mobilità socioeconomica all’interno della comunità mizrahi.

Begin mobilitava i mizrahi alla lotta politica, e Netanyahu sta facendo lo stesso per minare i guardiani della democrazia israeliana: il ministero della Giustizia, la procura generale, il capo della polizia, i media, le organizzazioni per i diritti umani e i manifestanti contro la corruzione al vertice.

Diversi giornalisti di spicco e docenti universitari hanno preso posizioni alla destra di Netanyahu, del suo governo e dei suoi adulatori in parlamento.

Il più eminente ed esplicito è un analista della televisione Canale 13, il dottor Avishay Ben Haim, diventato il portabandiera di quello che chiama “il secondo Israele”, sinonimo di ebrei mizrahi.

A maggio, quando stava per iniziare il processo per corruzione a Netanyahu, Ben Haim ha dichiarato: “Sono sotto processo,” intendendo che il processo di Netanyahu fosse un complotto del “primo Israele” per vanificare la scelta del primo ministro fatta dagli elettori del “secondo Israele” e per umiliare la “personalità ebrea più ammirata del XXI secolo”.

A luglio, mentre stava facendo un reportage sulle manifestazioni davanti alla residenza di Netanyahu a Gerusalemme, i manifestanti lo hanno identificato e lo hanno coperto di insulti. Uno o due di loro lo hanno chiamato “feccia marocchina” [“marocchino” è il termine dispregiativo per indicare tutti i mizrahi, ndtr.]. Diversi leader di spicco della manifestazione hanno sostenuto che le persone che hanno attaccato e insultato Ben Haim fossero provocatori di destra.

Ciò non ha impedito ad Aryeh Deri – ministro degli Interni e leader del partito conservatore Shas [partito religioso sefardita, ndtr.], che esclude le donne e gli ashkenaziti dalle sue fila – di intervenire rapidamente.

“Non importa che Avishai Ben Haim abbia un dottorato di ricerca, sia stato tenente colonnello in un’unità militare di combattimento, sia un giornalista rispettato: per la gente della società israeliana rimane ‘feccia marocchina’ solo a causa delle sue origini”, ha twittato Deri. “Non chineremo più la testa a simili affermazioni […] Siamo orgogliosi di essere marocchini!” ha dichiarato l’anziano ministro, salito alla ribalta grazie al “demone etnico”, che negli anni ’90 ha radunato manifestanti contro la sua condanna per corruzione, affermando fosse basata su motivi etnici.

Nonostante i tentativi di Netanyahu e dei suoi alleati di presentare le proteste come esclusivamente ashkenazite, la folla che si raduna da mesi davanti alla sua residenza è piuttosto varia. Tra i manifestanti devoti ci sono persone di origini diverse, da giovani donne tatuate a uomini che portano la kippa [copricapo degli ebrei religiosi, ndtr.].

L’opposizione a Netanyahu supera le divisioni etno-religiose. Un recente sondaggio indica che solo il 30 % degli ebrei di confessione tradizionale (che tendono ad essere mizrahi/sefarditi), e solo il 20 % dei laici (che tendono ad essere ashkenaziti) pensa che gli obbiettivi di Netanyahu siano il bene dello Stato o un’ideale. La maggioranza fra i religiosi (52%) e la maggioranza assoluta tra i laici (68%) pensano che Netanyahu sia mosso principalmente dal proprio futuro in tribunale. I suoi elettori più devoti sono membri delle comunità ultraortodosse sia ashkenazite che sefardite.

I tuoi distruttori e i tuoi devastatori si allontaneranno da te” (Isaia 49:17), così il profeta Isaia avvertiva il popolo d’Israele. Da te, non da Dubai e non da Riad. La normalizzazione deve iniziare a casa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione della redazione di Al Jazeera.

Akiva Eldar è un analista israeliano

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’antisemitismo israeliano sotto falso nome

Asa Winstanley

31 agosto 2020 – Middle East Monitor

Gli antisemiti diventeranno i nostri amici più fidati, i Paesi antisemiti sono i nostri alleati,”disse il fondatore del sionismo, Theodor Herzl.

Herzl non era affatto l’unico sionista a sostenere un’alleanza con gli antisemiti, e questo modello malefico continua anche oggi.

In Ucraina, per esempio, Israele ha armato e addestrato il Battaglione Azov, una milizia neonazista ferocemente antisemita.

Attualmente uno degli alleati politici e morali più accesi di Israele sono i Cristiani Uniti per Israele, un’organizzazione che, basandosi su dati discutibili, afferma di contare circa sei milioni di aderenti.

Il gruppo cristiano sionista è stato fondato da John Hagee, un predicatore evangelico in televisione e pastore protestante statunitense con una redditizia serie di pubblicazioni teologiche sulla “fine dei tempi”, DVD e vari altri prodotti. Una volta in una predica Hagee ha detto che Adolf Hitler era “un cacciatore” inviato da dio per ricacciare gli ebrei in Palestina, trasformarli in coloni e far sì che fondassero lo Stato di Israele.

I sionisti cristiani evangelici come Hagee hanno una posizione teologica terribilmente antisemita che profetizza che, alla fine della storia, gli ebrei si divideranno tra quelli che si convertiranno in massa al cristianesimo e quelli che verranno condannati alle fosse ardenti dell’inferno.

Ciononostante Hagee è un grande amico ed alleato del primo ministro Benjamin Netanyahu. Nel 2018 Hagee ha pronunciato la preghiera di commiato all’inaugurazione della nuova ambasciata degli USA a Gerusalemme, quando essa venne aperta.

Si rivolse ai partecipanti a quella cerimonia anche un altro leader evangelico di destra, Robert Jeffress.

Jeffress è un altro razzista antisemita e islamofobo. Durante un’intervista a un canale televisivo cristiano ha sostenuto che gli ebrei, i musulmani e i mormoni finiranno tutti all’inferno. “L’Islam è sbagliato. E’ un’eresia infernale,” ha dichiarato. “La religione dei mormoni è sbagliata. E’ un’eresia infernale.” Ed ha proseguito: “Ebraismo: non ti puoi salvare se sei ebreo. Tra l’altro, sai chi l’ ha detto? I tre ebrei più importanti del Nuovo Testamento: Pietro, Paolo e Gesù Cristo.”

I politici israeliani come Netanyahu sono sicuramente consapevoli dell’odiosa ideologia di simili alleati. Ma, finché essi si impegnano ad appoggiare lo Stato di Israele e a difendere i suoi crimini, a loro non importa.

In fin dei conti la lobby evangelica ha ancora un immenso potere e influenza nella politica degli USA. E, mentre l’appoggio ebraico a Israele si riduce, essa sta diventando gradualmente una componente fondamentale della lobby israeliana.

Il vertice annuale dei Cristiani Uniti per Israele comincia a rivaleggiare con l’American Israel Public Affairs Committee [Comitato di Affari Pubblici Americano-Israeliano, principale organizzazione lobbystica filoisraeliana USA, ndtr.] (AIPAC) riguardo al numero di assassini politici che riesce ad attrarre. In giugno la sua riunione virtuale ha incluso oratori come il presidente di Israele Reuven Rivlin, il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz, il ministro contro il BDS Gilad Erdan, l’ex-ambasciatrice degli USA all’ONU Nikki Haley, il senatore ed ex-candidato alla presidenza Ted Cruz, l’ambasciatore israeliano negli USA Ron Dermer e l’ambasciatore USA in Israele David Friedman.

Dati questo contesto e questa storia, non dovrebbe stupire trovare sionisti che promuovono l’antisemitismo. Dopotutto sia i sionisti che gli antisemiti vogliono vedere gli ebrei andarsene dai loro Paesi di origine per diventare coloni in Palestina.

Per alcuni ciò può sembrare controintuitivo. Ma si basa sull’idea sbagliata molto diffusa secondo cui la parola “sionista” sia sinonimo di “ebreo”: non lo è.

L’ “ebraismo” è un’identità religiosa o culturale (o entrambe), mentre il sionismo è una ideologia politica. Questa è una differenza importante.

Come ha detto il grande intellettuale afro-americano James Baldwin: “Per essere sionista non c’è bisogno di amare gli ebrei. Conosco alcuni sionisti che sono assolutamente antisemiti. Ed essere ebreo non significa necessariamente essere sionista.”

Un esempio particolarmente impressionante, se non sorprendente, di antisemitismo sionista si è verificato all’inizio di agosto in Scozia.

È apparsa la notizia che Edward Sutherland, un attivista della Confederazione degli Amici di Israele, era indagato dall’ispettorato all’istruzione per pubblicazioni antisemite su Facebook.

Tra le menzogne antiebraiche che ha esternato c’era quella che il “grande naso” dell’avvocato ebreo Matthew Berlow [avvocato ebreo scozzese condannato per aver espresso frasi offensive contro filopalestinesi, ndtr.] era stato messo “fuori combattimento”. Per molti decenni le caricature degli ebrei grotteschi con il naso grande sono state un tema comune della propaganda antisemita.

Fino ai suoi problemi recenti Sutherland si recava ogni fine settimana alle riunioni degli Amici di Israele di Glasgow. Ora deve affrontare la possibilità di perdere il suo posto di insegnante. Nelle notizie del dipartimento “non lo potevi fare”, la qualifica di Sutherland è “direttore dell’educazione religiosa e morale” nella scuola dove insegna, la Accademia Belmont ad Ayr.

Sutherland ha postato in rete usando un falso profilo Facebook, il nome di una persona inventata che ha presentato come attivista “filo-palestinese”. Il piano era diffamare il movimento di solidarietà con la Palestina. Quindi questa potrebbe essere definita come una campagna sotto falso nome.

C’è una lunga storia di partecipazione di Israele e dei filo-israeliani in queste cose, con il fine di fare propaganda contro i palestinesi e i loro sostenitori.

Per esempio, nel decennio 1980-90 l’Anti-Difamation League [Lega contro la Diffamazione, organizzazione della lobby filo-israeliana negli USA, ndtr.] ha diretto una rete di spionaggio infiltrandosi nei movimenti solidali con i palestinesi e in altri gruppi di sinistra e antirazzisti negli USA. Diffondeva e vendeva informazioni sia su Israele che sul regime dell’apartheid sudafricano.

La sua spia più importante, Roy Bullock, cercò di fare qualcosa di simile, tentando di creare un legame tra il gruppo arabo in cui si era infiltrato e un gruppo neonazista che negava l’Olocausto. E quale miglior esempio di questa campagna che l’attacco durato vari anni contro Jeremy Corbyn e il partito Laburista per il loro “antisemitismo”? Israele era profondamente coinvolto anche in quello.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

Asa Winstanley

Redattore di The Electronic Intifada, Asa Winstanley è un giornalista d’inchiesta che vive a Londra e che dal 2004 si reca regolarmente in Palestina.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




In Israele martirizzare Gaza procura vantaggi politici

Ramzy Baroud

29 agosto 2020 – Chronique de Palestine

Fino a poco tempo fa Hamas, che è parte della resistenza palestinese, e l’occupante israeliano sembravano sul punto di concludere un accordo di scambio di prigionieri.

Nell’ambito di questo accordo diversi soldati israeliani detenuti a Gaza sarebbero stati liberati, mentre Israele avrebbe rilasciato un numero ancora imprecisato di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.

Il 10 agosto, invece dell’annuncio molto atteso di una forma di accordo, le bombe israeliane hanno iniziato a cadere sulla Striscia assediata e palloni incendiari provenienti da Gaza sono finiti sul lato israeliano della barriera.

Poi che cosa è successo?

La risposta si trova in gran parte – ma non del tutto – in Israele, nel conflitto politico tra il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ed il suo schieramento politico, da un lato, ed i suoi partner di governo guidati dal Ministro della Difesa Benny Gantz, dall’altro.

La contesa tra Netanyahu e Gantz si incentra su un feroce conflitto relativo al bilancio nella Knesset [parlamento israeliano, ndtr.], che non ha molto a che vedere con le spese governative o con le competenze in materia fiscale.

Gantz, che è previsto occupi la carica di Primo Ministro a partire da novembre 2021, pensa che Netanyahu voglia fare approvare un bilancio della durata di un anno per far fallire l’accordo di coalizione e chiamare a nuove elezioni prima dell’avvicendamento alla carica di Primo Ministro.

Insiste quindi per un bilancio che riguardi due anni, per evitare ogni possibile tradimento da parte del partito Likud di Netanyahu.

Il gioco di Netanyahu, che è stato rivelato dal quotidiano Haaretz il 29 luglio, non è esclusivamente motivato dall’attaccamento al potere del dirigente israeliano, ma dalla sua diffidenza riguardo alle motivazioni stesse di Gantz. Se quest’ultimo diventerà il Primo Ministro del Paese è probabile che nominerà nuovi giudici che saranno ben disposti nei confronti del suo partito Blu e Bianco e, di conseguenza, saranno d’accordo per mettere sotto accusa Netanyahu nell’ambito del processo per corruzione in corso.

Per Netanyahu e Gantz si tratta forse della lotta più importante nella loro carriera politica: il primo si batte per rimanere libero, il secondo per la sua sopravvivenza politica.

I due dirigenti tuttavia si intendono su un punto: il fatto che l’uso della forza militare permetterà sempre di ottenere un maggiore sostegno dell’opinione pubblica israeliana, soprattutto se diventassero inevitabili nuove elezioni. È probabile che, se nella battaglia sul bilancio non troverà un compromesso, si terrà una quarta tornata elettorale.

Dal momento che una prova di forza militare nel sud del Libano risulta impensabile a causa dell’enorme esplosione che ha sconvolto Beirut il 4 agosto, i due dirigenti israeliani hanno spostato la loro attenzione su Gaza. Con una reazione rapida, come se fossero in campagna elettorale, Gantz e Netanyahu sono intenti a difendere la loro causa presso gli israeliani che vivono nelle città del sud al confine con la Striscia di Gaza.

Gantz ha fatto visita ai dirigenti di queste comunità il 19 agosto. Si è riunito con una delegazione accuratamente selezionata di alti responsabili del governo e dell’esercito israeliani, tra cui il Ministro dell’Agricoltura, Alon Schuster, ed il comandante della divisione di Gaza, generale di brigata Nimrod Aloni, che era presente in videoconferenza.

In aggiunta alle solite minacce di prendere di mira chiunque a Gaza osi minacciare la cosiddetta sicurezza di Israele, Gantz si è impegnato in una campagna elettorale di tipo autopromozionale. “Abbiamo cambiato l’equazione a Gaza. Dopo la mia entrata in carica c’è stata una risposta ad ogni violazione della nostra sicurezza”, ha dichiarato, mettendo in evidenza le proprie azioni in contrasto con quelle del governo di coalizione – negando così qualunque merito a Netanyahu.

Netanyahu d’altra parte ha minacciato severe rappresaglie contro Gaza se Hamas non impedirà il lancio di palloni incendiari. “Abbiamo adottato una politica in base alla quale un lancio incendiario viene considerato al pari di un razzo,” ha dichiarato il 18 agosto ai sindaci delle città del sud.

Netanyahu mantiene l’opzione di una guerra aperta contro Gaza nel caso questa diventasse la sua unica risorsa. Gantz, in quanto Ministro della Difesa e rivale di Netanyahu, gode tuttavia di un più ampio margine di manovra politica.

Dopo il 10 agosto ha ordinato al suo esercito di bombardare Gaza ogni notte. Ad ogni bomba sganciata su Gaza la credibilità di Gantz presso gli elettori israeliani, soprattutto nel sud, aumenta leggermente.

Se l’attuale violenza porterà ad una guerra totale, sarà tutto il governo di coalizione – compreso Netanyahu ed il suo partito Likud – ad avere la responsabilità delle sue conseguenze potenzialmente disastrose. Questo pone Gantz in una posizione di forza.

La presente prova di forza militare a Gaza non è solo il risultato del conflitto politico all’interno di Israele. La società di Gaza in questo momento è a un punto di rottura.

La tregua tra i gruppi della resistenza a Gaza ed Israele, che era stata conclusa sotto l’egida dell’Egitto nel novembre 2019, non è servita a niente.

Nonostante le numerose assicurazioni che i gazawi assediati avrebbero beneficiato di una tregua tanto necessaria, la situazione si è invece aggravata ad un punto senza precedenti ed insopportabile: l’unico generatore elettrico di Gaza è a corto di carburante e non funziona più; il 16 agosto la ridottissima zona di pesca della Striscia di Gaza, di sole tre miglia nautiche, è stata dichiarata da Israele zona militare chiusa; il valico di Karem Abu Salem, attraverso il quale entrano a Gaza via Israele scarsi approvvigionamenti, è ufficialmente chiuso.

L’assedio israeliano della Striscia di Gaza, che dura da 13 anni, mostra attualmente il suo aspetto peggiore, persino con poco spazio perché la popolazione di Gaza possa almeno esprimere la propria indignazione di fronte alla sua miserabile situazione.

A dicembre 2019 le autorità di Hamas hanno deciso di limitare la frequenza delle manifestazioni note col nome di “Marcia del Ritorno di Gaza”, che dal marzo 2018 si sono svolte quasi ogni giorno.

Durante queste manifestazioni più di 300 palestinesi sono stati uccisi dai cecchini israeliani.

Nonostante il numero di morti e il fallimento nel suscitare una protesta internazionale contro l’assedio, le manifestazioni non violente hanno permesso ai comuni palestinesi di esprimersi, di organizzarsi e di prendere iniziative.

La crescente frustrazione a Gaza ha costretto Hamas ad aprire uno spazio perché i manifestanti possano ritornare alla barriera, nella speranza che la questione dell’assedio venga riportata all’ordine del giorno nei mezzi di comunicazione.

I palloni incendiari, che hanno recentemente scatenato la collera dell’esercito di occupazione israeliano, sono uno dei tanti messaggi palestinesi che dicono che i gazawi rifiutano di accettare che l’assedio sia ormai la loro realtà permanente.

Se la mediazione egiziana può alla fine offrire ai palestinesi una soluzione temporanea ed evitare una guerra totale, la violenza israeliana a Gaza, stanti gli attuali rapporti politici, non cesserà comunque.

È certo che finché i dirigenti israeliani continueranno a considerare una guerra contro Gaza come un’opportunità politica ed una tribuna per le proprie ambizioni elettorali, l’assedio proseguirà senza alcun allentamento.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo saggio è “Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane” (Pluto Press). Baroud è dottore di ricerca in studi sulla Palestina presso l’università di Exeter e associato presso il centro Orfalea di studi mondiali e internazionali dell’università della California.

(traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Crepe nel muro di separazione israeliano e la fragilità del potere di Netanyahu

Shir HeverNadia Nasser-Najjab

19 agosto 2020 – MiddleEastEye

Anche se quest’estate con l’allentamento delle misure di sicurezza alcuni palestinesi sono potuti andare in spiaggia, dietro questo si celano i problemi che affliggono il primo ministro israeliano.

Questa estate i media israeliani hanno riferito con sorpresa una scena inaudita: migliaia di famiglie palestinesi sulle spiagge di Tel Aviv e di altre città israeliane. Gli israeliani si sono abituati a svolgere la loro routine senza vedere i 2 milioni e mezzo di vicini della Cisgiordania occupata, che vivono giusto dall’altra parte del muro di separazione.

Da una spiaggia di Tel Aviv, dei palestinesi hanno condiviso il video di un bagnino israeliano che lasciava entrare i palestinesi di Nablus. La voce che i soldati stessero chiudendo un occhio di fronte ai famosi varchi nel muro si è diffusa rapidamente tra i palestinesi, che si sono affrettati ad approfittare dell’occasione, pagando prezzi esorbitanti ai taxi per andare oltre il muro.

Molti giovani palestinesi hanno visto per la prima volta il mare (che dista meno di 100 chilometri da gran parte della Cisgiordania occupata) e alcune famiglie hanno approfittato dell’occasione per visitare le zone in cui vivevano le loro famiglie prima della Nakba del 1948.

Qualche giornalista ha aspettato a riferire questi fatti finché i passaggi nel muro non sono stati nuovamente chiusi. In effetti la scorsa settimana, non appena la notizia delle famiglie palestinesi sulle spiagge è apparsa sulle pagine dei giornali israeliani, l’esercito ha rapidamente e aggressivamente richiuso i varchi per evitare l’accusa di essere indulgente con i palestinesi.

Rafforzare il potere coloniale

Negli ultimi anni, migliaia di lavoratori palestinesi sono entrati in Israele attraverso i buchi nel muro di separazione in cerca di lavoro e spesso muovendosi proprio sotto gli occhi dei soldati israeliani. La richiesta di manodopera palestinese a buon mercato, e la consapevolezza tra i politici israeliani del fatto che il reddito ricavato dal lavoro fatto in Israele sia un’ancora di salvezza essenziale per l’economia palestinese in rovina hanno dissuaso l’esercito israeliano dal sigillare quei buchi.

Ma nell’epoca del coronavirus è stato davvero sorprendente vedere che i buchi nel muro venivano usati non solo dai lavoratori, ma anche da intere famiglie.

La politica arbitraria di apertura e chiusura dei passaggi attraverso il muro crea tra i palestinesi un senso di incertezza, e rafforza il potere coloniale delle autorità israeliane sulla popolazione palestinese.

Quando l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha impartito direttive alle persone perché rispettassero il blocco del Covid-19 e rimanessero a casa, sapeva benissimo che le sue istruzioni sarebbero state ignorate. E con il coordinamento della sicurezza con Israele sospeso per via dei piani di annessione del primo ministro Benjamin Netanyahu, le forze di sicurezza palestinesi non si sono nemmeno preoccupate di impedire alle persone di entrare in Israele – un’ulteriore umiliazione e indebolimento per l’autorità e la legittimità dell’ANP.

I palestinesi però sanno che l’improvvisa e inaspettata clemenza rispetto ai valichi non è un segno della generosità israeliana. Il colonizzatore “non regala niente per niente”, come disse una volta il filosofo Frantz Fanon.

Per anni, un piccolo gruppo di donne israeliane ha fatto entrare clandestinamente [in Israele] dei palestinesi sulle proprie auto attraverso i posti di blocco, prendendo le corsie riservate agli ebrei israeliani. La più famosa è Ilana Hammerman, che ha spesso sfidato le autorità israeliane portando palestinesi attraverso il checkpoint.

Non è mai stata arrestata, probabilmente perché ciò svelerebbe regole dell’apartheid che consentono agli ebrei di attraversare i posti di blocco solo se non hanno palestinesi in auto. Ma lasciando che le aperture nel muro rimangano aperte, le autorità israeliane rendono irrilevante l’attivismo di Hammerman e altri.

Distogliere l’attenzione del pubblico

Una spiegazione ancora migliore per la decisione presa dal governo di allentare il blocco è la precaria situazione politica di Netanyahu. Ogni volta che le proteste contro il suo governo si fanno sentire, Netanyahu utilizza una crisi nella sicurezza per distogliere l’attenzione pubblica dai problemi economici e legali che affliggono la sua amministrazione.

Dieci anni fa, mentre i manifestanti invocavano giustizia sociale, Netanyahu ha falsamente accusato gli abitanti della Striscia di Gaza di essere coinvolti in un attacco che aveva avuto origine in Egitto, e ha ordinato il bombardamento del territorio costiero. Allo stesso modo, nel 2014-15, mentre gli investimenti stranieri in Israele crollavano e il Paese affrontava una crisi abitativa, Netanyahu spostò l’attenzione sull’Iran, affermando che prima di potersi prendere cura della qualità della vita bisogna prendersi cura della “vita stessa”.

Adesso i manifestanti stanno protestando contro le pesanti conseguenze economiche provocate dal blocco del Covid-19, la massiccia disoccupazione e il fatto che Netanyahu sia piuttosto impegnato a combattere le accuse di corruzione che ad affrontare la crisi – e niente può essere più utile di una piccola guerra o di una rivolta palestinese per dichiarare elezioni anticipate e vincerle come “Mr. Security”.

Sembra ormai chiaro che Benny Gantz, il “primo ministro di rimpiazzo” e rivale di Netanyahu, abbia interessi opposti. Nella sua qualità di ministro della Difesa è nella posizione ideale per mettere a frutto quanto appreso come comandante dell’esercito israeliano, vale a dire che le restrizioni alla libera circolazione dei palestinesi non creano sicurezza per gli israeliani, anzi – e che lasciare le famiglie palestinesi passare attraverso i varchi del muro diminuisce la loro motivazione immediata ad attaccare Israele.

Provocazioni fallite

Netanyahu non ha perso l’occasione di scatenare un po’ di violenza e cavalcare l’ondata di paura per un altro mandato come primo ministro, ma i suoi tentativi di provocare uno scontro con Hezbollah in Libano sono falliti, con l’esplosione di Beirut che rende il momento particolarmente inopportuno perché le forze israeliane scatenino attacchi mentre il resto del mondo invia aiuti.

Quindi, proprio come il suo predecessore Ehud Olmert, Netanyahu ha spostato l’attenzione dal Libano alla Striscia di Gaza. All’inizio di questo mese, alcuni palloni che trasportavano materiali incendiari sono stati lanciati da Gaza in Israele, provocando incendi nei campi israeliani. Non sono stati riportati feriti, tuttavia Netanyahu li ha usati come giustificazione per lanciare attacchi aerei, chiudere posti di blocco, fermare l’importazione di combustibile a Gaza e persino bloccare gli aiuti del Qatar al territorio assediato.

Tutto ciò, tuttavia, non è riuscito finora a indurre Hamas ad un attacco di ritorsione. Hamas ha già una chiara comprensione della politica israeliana e sa esattamente cosa Netanyahu stia cercando di ottenere.

Qualche gita al mare non farà dimenticare ai palestinesi il dolore dell’occupazione, né allevierà lo stress e la paura di una vita senza diritti – ma questa breve storia è sufficiente a dimostrare che il muro non ha mai riguardato la sicurezza israeliana, e che separare le diverse popolazioni che vivono sotto il controllo israeliano non è sostenibile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Shir Hever è membro del consiglio di Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East [Voce ebraica per una pace giusta in Medio Oriente].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Mustafa al-Barghouti: “Di fronte all’annessione occorre mostrarsi combattivi”

Mustafa Barghouti

15 agosto 2020 – Chronique de Palestine

Il governo di occupazione non cessa di intensificare i propri abusi in parecchi ambiti: l’espansione delle colonie e gli ordini di demolizione di case palestinesi, i quotidiani arresti di palestinesi – alcuni dei quali si accompagnano ad odiosi omicidi, come nel caso della martire Dalia Al-Samoudi a Jenin, gli attacchi contro le istituzioni di Gerusalemme ed il tentativo di ridurre la presenza palestinese nella città.

La decisione israeliana di costruire 1.000 nuovi blocchi di colonie nella zona E1 tra Gerusalemme e la Valle del Giordano è stata di fatto il segnale d’avvio del processo di annessione e di ebraizzazione.

Alcuni analisti pensano che questo processo sia stato rinviato o interrotto, nonostante il fatto che Benjamin Netanyahu non smetta di ripetere che esso è all’ordine del giorno e la sua attuazione viene accuratamente predisposta.

Ma occorre guardare in faccia la realtà: anche senza questo, le costanti pratiche degli israeliani sul terreno modificano lo status quo, attraverso l’ebraizzazione delle aree palestinesi e l’annessione di fatto di tutte le zone che sono purtroppo classificate come zona “C”, cioè il 62% della Cisgiordania [la zona C è sotto completo controllo israeliano in base agli accordi di Oslo del ’93, ndtr.].

Ciò dimostra l’importanza della dichiarazione dei diplomatici americani ai loro omologhi internazionali, che è stata oggetto di una fuga di notizie, relativa al mancato rispetto delle Risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite (due delle principali risoluzioni dell’ONU, del 1967 e del 1973, che essenzialmente impegnano al ritiro dai territori occupati e al diritto al ritorno dei profughi, ndtr.) e di altre risoluzioni internazionali. Queste violazioni sono antiche, essi affermano, e la realtà sul terreno cambia con gli anni e si evolve quotidianamente.

Non bisogna collegare le iniziative necessarie a contrastare il processo di annessione e impedire l’attuazione dell’Accordo del Secolo all’annuncio ufficiale dell’annessione. Bisogna collegarle in termini generali alla politica di colonizzazione israeliana e all’applicazione concreta del suo sistema di apartheid.

Il governo israeliano studia le reazioni alle sue pratiche e alle sue dichiarazioni relative all’attuazione dell’annessione ufficiale e tenta di contenere tali reazioni e prendere le sue misure in base ad esse.

Tuttavia si scontra con tre ostacoli evidenti: la presenza fisica di palestinesi che resistono ai suoi piani e rifiutano il regime di apartheid; l’eventualità di dover affrontare sanzioni concrete, compreso un boicottaggio che si sviluppa in modo esponenziale a livello popolare; l’unanimità palestinese riguardo al rifiuto dell’Accordo del Secolo, delle sue mappe geografiche e dei suoi inganni.

Inoltre per Israele il tempo stringe, perché Donald Trump potrebbe perdere le elezioni presidenziali di novembre.

Dal lato palestinese la cosa più pericolosa che potrebbe verificarsi sarebbe adottare una posizione di attesa passiva, o sopravvalutare ed esagerare le conseguenze di un’eventuale caduta di Trump ed elezione di Biden. Infatti, anche se Biden è contrario al piano di annessione di Netanyahu, non farebbe niente per impedire che proseguano i tre processi in atto sul terreno di cui ho parlato prima.

Proseguire il processo di modifica dello status quo, ufficialmente o no, significa eliminare la possibilità di creare uno Stato palestinese indipendente. Basti pensare che il numero di coloni presenti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza non superava i 120.000 all’epoca della firma degli Accordi di Oslo (1993), mentre ora ammonta a 750.000.

Che alla Casa Bianca ci sia Trump o Biden, e che il primo ministro israeliano sia Netanyahu o Gantz, le iniziative palestinesi che devono essere avviate urgentemente sono le stesse: una reale unità nazionale, l’adozione di una strategia nazionale di lotta unitaria e azioni efficaci per imporre il boicottaggio dell’occupazione e del regime di apartheid.

Non sarà un male per il popolo palestinese se le sue differenti fazioni e dirigenti adotteranno un approccio adeguato. Ma sarà pericoloso se esse si accontenteranno di reagire invece di prendere l’iniziativa.

Il dottor Mustafa al-Barghouti è Segretario generale dell’Iniziativa Nazionale Palestinese, presidente della Società palestinese di assistenza sanitaria e membro del Consiglio Legislativo Palestinese.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)