E’ trapelato un elenco di obbiettivi israeliani: Tel Aviv teme il peggio nell’indagine della CPI sui crimini di guerra

Ramzy Baroud

29 luglio 2020 – Palestine Chronicle

Quando nel dicembre scorso la Procuratrice della Corte Penale Internazionale (CPI), Fatou Bensouda, ha confermato che la Corte dispone di ampie prove per condurre un’indagine sui crimini di guerra nella Palestina occupata, il governo israeliano ha reagito con la consueta retorica, accusando la comunità internazionale di pregiudizio e sostenendo il “diritto di Israele a difendersi.”

Al di là dei luoghi comuni e del classico discorso israeliano, il governo di Israele sapeva fin troppo bene che un’indagine della CPI sui crimini di guerra in Palestina potrebbe costare molto caro. Un’indagine, di per sé, rappresenta in certo modo un atto d’ accusa. Se individui israeliani venissero imputati di crimini di guerra, questa sarebbe un’altra storia, in quanto si porrebbe un obbligo giuridico per gli Stati membri della CPI di arrestare i criminali e consegnarli alla Corte.

Israele si è mantenuto pubblicamente imperturbabile, anche dopo che lo scorso aprile Bensouda ha dettagliato la sua decisione di dicembre in un rapporto legale di 60 pagine, intitolato: “Situazione nello Stato di Palestina: risposta della Procura alle osservazioni degli ‘Amici Curiae’, dei rappresentanti legali delle vittime e degli Stati.”

Nel rapporto la CPI affronta molte delle questioni, dubbi e relazioni presentate o emerse nei quattro mesi seguiti alla sua precedente decisione. Paesi quali la Germania e l’Austria, tra gli altri, hanno utilizzato la propria posizione di ‘Amici Curiae’ – ‘amici della Corte’ – per mettere in discussione la giurisdizione della CPI e lo status della Palestina come Paese.

Bensouda ha sostenuto che “la procuratrice è convinta che vi sia una ragionevole base per avviare un’indagine sulla situazione in Palestina in base all’articolo 53 (1) dello Statuto di Roma e che l’ambito della giurisdizione territoriale della Corte comprenda la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, e Gaza (“Territori Palestinesi Occupati”).”

Tuttavia Bensouda non ha previsto scadenze definitive per l’indagine; ha invece richiesto che la Camera Preliminare della CPI “confermi l’ambito della giurisdizione territoriale della Corte in Palestina”, un passaggio ulteriore di cui non c’era bisogno, dato che lo Stato di Palestina, firmatario dello Statuto di Roma, è quello che concretamente ha presentato il caso direttamente all’ufficio della procuratrice.

Il rapporto di aprile in particolare è stato una sveglia per Tel Aviv. Tra la decisione iniziale di dicembre e la pubblicazione del suddetto rapporto, Israele ha esercitato pressioni su vari fronti, garantendosi l’aiuto di membri della CPI e arruolando il suo principale benefattore, Washington – che non è membro della CPI – perché intimidisse la Corte per farle revocare la sua decisione.

Il 15 maggio il Segretario di Stato USA, Mike Pompeo, ha diffidato la CPI dal proseguire l’indagine, prendendo di mira in particolare Bensouda per la sua decisione di ritenere responsabili i criminali di guerra in Palestina.

L’11 giugno gli USA hanno colpito con sanzioni senza precedenti la CPI e il presidente Donald Trump ha emesso un “ordine esecutivo” che autorizza il congelamento dei beni e un divieto di viaggio nei confronti di funzionari della CPI e delle loro famiglie. Inoltre l’ordine consente di punire altri individui o enti che assistano la CPI nella sua indagine.

La decisione di Washington di procedere con misure punitive proprio contro la Corte, che è stata creata con l’unico scopo di rendere responsabili i criminali di guerra, è sia oltraggiosa che odiosa. Inoltre mette in luce l’ipocrisia dell’America – il Paese che sostiene di difendere i diritti umani sta cercando di impedire l’attribuzione della responsabilità legale a coloro che hanno violato i diritti umani.

Dopo aver fallito nel bloccare le procedure legali della CPI relative all’indagine sui crimini di guerra, Israele ha iniziato a prepararsi al peggio. Il 15 luglio il quotidiano israeliano Haaretz ha riferito di una ‘lista segreta’ stilata dal governo israeliano. Essa include “da 200 a 300 importanti personalità pubbliche”, che spaziano da politici a funzionari dell’esercito e dei servizi segreti passibili di arresto all’estero se la CPI avviasse ufficialmente l’indagine sui crimini di guerra.

I nomi iniziano dal vertice della piramide politica israeliana, tra cui il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ed il suo attuale partner di coalizione, Benny Gantz.

Il numero stesso dei dirigenti israeliani presenti sulla lista è indicativo dell’obbiettivo dell’indagine della CPI e, in qualche modo, è un’autoaccusa, in quanto include ex Ministri israeliani della Difesa – Moshe Ya’alon, Avigdor Lieberman e Naftali Bennett; capi ed ex capi di stato maggiore dell’esercito – Aviv Kochavi, Benny Gantz e Gadi Eisenkot, e del servizio di sicurezza interno, lo Shin Bet – Nadav Argaman e Yoram Cohen.

Autorevoli organizzazioni internazionali dei diritti umani hanno già ripetutamente accusato tutti questi individui di gravi violazioni dei diritti umani nel corso delle letali guerre di Israele nella Striscia di Gaza sotto assedio, a partire dalla cosiddetta ‘Operazione Piombo Fuso’ del 2008-2009.

Ma l’elenco è molto più lungo e riguarda “persone in posizioni molto inferiori, compresi ufficiali dell’esercito di grado inferiore e forse anche dirigenti coinvolti nel rilascio di vari tipi di permessi per colonie e loro avamposti.”

Israele così si rende pienamente conto del fatto che la comunità internazionale sostiene ancora che la costruzione di colonie illegali nella Palestina occupata, la pulizia etnica dei palestinesi ed il trasferimento di cittadini israeliani in territori occupati sono tutte iniziative inammissibili in base al diritto internazionale e costituiscono crimini di guerra. Netanyahu deve essere deluso nel sapere che tutte le concessioni fatte da Washington a Israele sotto la presidenza Trump non sono riuscite a modificare in alcun modo la posizione della comunità internazionale e l’applicabilità del diritto internazionale.

Inoltre non sarebbe esagerato sostenere che il rinvio da parte di Tel Aviv del suo piano di annettere illegalmente circa un terzo della Cisgiordania sia direttamente collegato all’indagine della CPI, in quanto l’annessione avrebbe completamente annullato gli sforzi degli amici di Israele tesi ad impedire che l’indagine venga anche solo iniziata.

Mentre il mondo intero, soprattutto i palestinesi, gli arabi ed i loro alleati, attendono ancora con ansia la decisione finale della Camera Preliminare, Israele continuerà la sua campagna, palese e occulta, per intimidire la CPI ed ogni altra istituzione che intenda far luce sui suoi crimini di guerra e processare i criminali di guerra israeliani.

Anche Washington continuerà a cercare di rassicurare Netanyahu, Gantz e gli altri “200 o 300” dirigenti israeliani che non compariranno mai di fronte alla Corte.

Tuttavia il fatto che esista una “lista segreta” è un segnale che Tel Aviv comprende che ora le cose sono cambiate e che il diritto internazionale, che ha abbandonato i palestinesi per oltre 70 anni, potrebbe, per una volta, rendere almeno un minimo di giustizia.

Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo saggio è “Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane” (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), Istanbul Zaim University (IZU).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Perché i cittadini palestinesi si tengono fuori dalle proteste contro Netanyahu?

Yaser Abu Areesha

24 luglio 2020 – +972

Gli ebrei israeliani si stanno rendendo conto solo adesso dell’abbandono e del razzismo che hanno a lungo caratterizzato la nostra situazione.

Martedì scorso ho viaggiato fino a Gerusalemme con un amico per l’ultima di una serie di manifestazioni contro il primo ministro Benjamin Netanyahu, il governo e il sistema economico. Insieme a migliaia di dimostranti che rappresentavano un’ampia gamma di obiettivi, abbiamo camminato dalla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] alla residenza del primo ministro in via Balfour. Nonostante tutti i diversi gruppi presenti, tra i manifestanti non ho individuato nessun cittadino palestinese oltre a me, il giornalista della radiotelevisione pubblica Suleiman Maswadeh e il capo della Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani, ndtr.] Ayman Odeh.

In un mondo diverso ci saremmo aspettati di vedere una maggiore partecipazione di palestinesi in Israele a una protesta contro la fallimentare risposta del governo alla crisi del coronavirus. Dopotutto la nostra società ha subito un forte impatto dall’epidemia. Secondo i dati resi noti dal Servizio per l’Impiego israeliano, i cittadini palestinesi sono stati duramente colpiti dalle conseguenze economiche della pandemia, ed hanno costituito il 20% dell’approssimativamente 1 milione di cittadini che hanno fatto domanda di disoccupazione in marzo e aprile.

Quindi perché una lotta contro l’ingiustizia istituzionale, portata avanti da una coalizione di gruppi, non attira quelli che sono storicamente stati danneggiati da quelle stesse istituzioni? La risposta risiede nella lotta per la sopravvivenza della comunità palestinese in quanto è una minoranza nazionale marginalizzata e discriminata.

I palestinesi in Israele sono in una situazione diversa rispetto alle persone che partecipano alle attuali proteste. Dalla nostra prospettiva questa è una lotta per un cambiamento che non ci include e per cui quindi noi abbiamo scarso interesse. Di conseguenza, benché noi abbiamo un evidente interesse a spodestare Netanyahu, il nostro entusiasmo e la nostra speranza per quello che ne seguirebbe sono molto scarsi – e ci risulta indifferente chi guiderà il prossimo governo.

La storia ci ha insegnato che nessuno vuole realmente i cittadini palestinesi al tavolo di governo. La raccomandazione totalmente inutile della Lista Unita a favore di Benny Gantz, il capo del partito Blu e Bianco, perché formasse una coalizione di governo al posto di Netanyahu dimostra che il nostro status nella società israeliana non è ancora cambiato e che non facciamo parte del gioco politico.

C’è una qualche possibilità che le cose possano essere diverse? Odeh, della Lista Unita, ha diffuso immagini della protesta di martedì ed ha invitato i cittadini palestinesi a partecipare. Ma dubito che possa fare la differenza – il cambiamento avverrà solo quando saranno modificate le regole del gioco, e quando il resto dell’opinione pubblica degli ebrei israeliani riconoscerà che la società palestinese ha le proprie sofferenze e necessità. La mobilitazione deve essere basata sulla comprensione e sulla buona volontà.

Siamo una popolazione ferita. Nel corso di molti decenni, fin dalla fondazione dello Stato, le politiche governative hanno frammentato dall’interno la nostra collettività. Stiamo andando verso la catastrofe a causa dell’abbandono, del razzismo e delle discriminazioni che hanno caratterizzato la nostra situazione ben prima che la popolazione ebraica si rendesse conto che il sistema stava ingannando tutti e giocando con il futuro di tutti noi.

Tre palestinesi sono stati colpiti a morte nell’arco di 12 ore tra sabato e domenica: uno a Kufr Qasim, uno a Kufr Ibtin e uno a Tira. Anche altre due persone sono state uccise da colpi di arma da fuoco martedì. La violenza armata è diventata molto frequente.

L’uso di armi sta aumentando senza alcun controllo intorno a noi, senza che se ne veda la fine. Il sistema politico, che da molto tempo ci ha abbandonati, non sta facendo abbastanza per opporsi a questa devastante violenza e per migliorare le infrastrutture, l’economia e l’educazione nella comunità palestinese. Sentiamo spesso di spettacolari operazioni poliziesche per cercare armi e droga, ma queste notizie sono inevitabilmente seguite da un altro assassinio, da un’altra sparatoria e da ulteriore violenza, soprattutto contro le donne.

Abbiamo bisogno di un ascolto attento e di un impegno collettivo che affrontino i problemi sia a breve che a lungo termine. Abbiamo bisogno di un pensiero condiviso che prospetti un futuro per le prossime generazioni. Ma sappiamo già che nessuno nel sistema sta dando la priorità alla popolazione palestinese, non da ultimo a causa della pandemia. Chi ha il tempo per parlare di uguaglianza civile e di diritti umani?

Eppure la popolazione ebraica ha un evidente interesse nello sviluppo della comunità palestinese. I cittadini di Umm al-Fahem devono avere gli stessi diritti e le stesse opportunità dei cittadini di Herzliya [ricca città israeliana abitata quasi esclusivamente da ebrei, ndtr.]. La produttività e la prosperità dipendono dalla diversità, non dalla discriminazione.

Se i manifestanti di oggi stanno veramente pensando in prospettiva futura, allora uno sforzo congiunto è possibile. Ogni cambiamento deve andare oltre chi governa il Paese e mettere al centro le persone, costruendo un sistema che non escluda i cittadini palestinesi.

E chissà, forse le proteste di via Balfour potrebbero essere l’inizio di qualcosa di nuovo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Proteste contro Netanyahu: si sta preparando una rivoluzione?

Orly Noy

20 luglio 2020 – Middle East Eye

Le recenti manifestazioni in Israele mostrano il potenziale sostanziale della sinistra ebraica per imporre un cambiamento radicale

Le vaste proteste di piazza della scorsa settimana di fronte al complesso residenziale del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a Gerusalemme sono iniziate quasi come una festa: percussioni all’aperto, gente che ballava nelle strade attorno a piazza Paris – una specie di Hyde Park, dove oratori si sono spontaneamente alternati su un palco improvvisato per fare i loro discorsi.

Parecchie ore dopo, prima della conclusione definitiva, verso l’una, l’assembramento è degenerato in duri scontri tra i manifestanti e la polizia, con il blocco per un lungo periodo di tempo sia di una importante arteria che della metropolitana leggera di Gerusalemme. La polizia a cavallo ha caricato la folla, mentre altri usavano cannoni ad acqua per cercare di disperdere i dimostranti, decine dei quali sono stati arrestati.

La strenua resistenza dei manifestanti e la loro volontà di scontrarsi con la polizia hanno sorpreso molti. Alcuni commentatori hanno suggerito che in realtà ci siano state due diverse dimostrazioni: una protesta “perbene” contro la corruzione, seguita da disordini da parte di radicali, anarchici di sinistra che si sarebbero “impadroniti” della protesta originaria. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Sì, la prima parte della protesta è stata più calma e più “rispettabile”, ma solo un cieco e sordo potrebbe non aver individuato l’intensità della rabbia presente fin dall’inizio in quella piazza di fronte alla residenza di Netanyahu.

In quanto veterana manifestante di sinistra a Gerusalemme, non riesco a ricordare di aver mai visto in città un profilo tanto diverso di dimostranti: giovani e anziani, laici e religiosi, persino ultra-ortodossi. In un periodo in cui il timore del coronavirus fa sì che la gente ci pensi due volte prima di partecipare a riunioni di massa, questa ha attirato persone anziane con deambulatore e altri di gruppi molto radicali, tutti riuniti insieme.

I giovani che in seguito si sono scontrati con la polizia non erano separati dai manifestanti anziani che si sono riuniti lì all’inizio, ma erano piuttosto il loro servizio d’ordine.

Non c’erano palestinesi alla manifestazione, tranne un giovane che è salito sul palco ed ha parlato di apartheid e occupazione ed è stato molto applaudito dalla folla. Il giorno dopo, quando ho parlato con un’amica palestinese a questo proposito, mi ha detto: “Non è la nostra protesta.”

E naturalmente ha ragione: noi, l’opinione pubblica ebraica, siamo responsabili per aver introiettato le dimensioni dell’ingiustizia dell’attuale sistema; spetta a noi lavorare per sostituirlo con un sistema che offra uguale giustizia per tutti. La principale domanda oggi è se l’attuale movimento di protesta cerchi solo dei cambiamenti di facciata o se abbia un potenziale più radicale. Io penso di sì.

Corruzione di Stato

L’ultima manifestazione a Gerusalemme è avvenuta nove anni dopo le proteste sociali di massa del 2011. Quell’estate orde di giovani piazzarono tende lungo corso Rothschild nel centro di Tel Aviv per protestare contro la situazione, soprattutto l’alto costo della vita e i prezzi inaccessibili delle abitazioni. La delusione seguita a quell’ondata di proteste può facilmente suscitare dubbi sulle prospettive di quella attuale, ma ci sono fondamentali differenze.

Cosa più importante, a differenza delle proteste del 2011, che vennero a ragione viste come manifestazioni di giovani privilegiati di Tel Aviv che faticavano ad arrivare a fine mese nella città con gli affitti più elevati del Paese, dove era impossibile comprare anche uno yoghurt al cioccolato a un prezzo decente, l’attuale rivolta è significativamente più vasta in termini sia della sua base che del suo messaggio.

Non riguarda il prezzo del nostro yoghurt gelato preferito. Riguarda la corruzione nelle, e delle, regole generali. Non riguarda più neppure solo Netanyahu. Sì, la richiesta delle sue dimissioni è ancora centrale, ma ora Benny Gantz, il generale che era stato visto come l’alternativa più onesta a Netanayhu, si è unito al governo arrogante e corrotto di quest’ultimo.

Evidentemente ora più israeliani comprendono che il problema non è Netanyahu in sé, ma qualcosa di più profondo e marcio. Nell’emergere di questa consapevolezza c’è, credo, un grande potenziale di radicalizzazione.

Un’altra significativa differenza è che le proteste del 2011, come molte altre in Israele, evitarono accuratamente ogni etichettatura politica, cioè come qualcosa di sinistra, mentre i dirigenti dell’attuale movimento non sono caduti nella trappola della delegittimazione, riproposta dalla destra.

Niente scuse

Dopo i duri scontri con la polizia e i numerosi arresti di martedì, i mezzi di comunicazione e i politici di destra hanno cercato di definire la protesta come disordini di sinistra, anarchici. Come prova, notano tra le altre cose che alcuni degli arrestati quella notte erano rappresentati dalla nota avvocatessa per i diritti umani Leah Tsemel, che spesso difende i diritti dei palestinesi in Israele.

Gli organizzatori della protesta, evitando saggiamente di lasciarsi intrappolare in questo modo, non si sono scusati. Tra gli oratori invitati all’ultima manifestazione c’era Ofer Cassif, un ben noto membro ebraico della Lista Unita, a maggioranza araba, il quale ha parlato sul palco dei rapporti tra la corruzione politica e la corruzione morale dell’occupazione. Non solo il pubblico di Cassif non è rimasto scioccato, ma lo ha applaudito entusiasticamente.

Martedì a piazza Paris ho visto cartelli che chiedevano giustizia per Iyad al-Hallaq [palestinese affetto da autismo, ndtr.], ucciso da poco nella Gerusalemme est occupata, e la gente che li esponeva sembrava una componente assolutamente naturale di quest’ultima manifestazione.

C’è qualcos’altro che vale la pena di notare: con un’iniziativa astuta, invece di chiedere scusa, gli organizzatori dell’ultima dimostrazione sono riusciti a sfruttare la violenza poliziesca contro di loro per portare più persone alla protesta. I gruppi di giovani arrestati includevano più di qualche ben noto attivista di sinistra.

È da notare in modo particolare che sono stati fermati dalla polizia non durante una manifestazione contro l’occupazione a Bilin [villaggio della Cisgiordania occupata noto per le proteste settimanali, ndtr.], ma durante una protesta contro la corruzione nel cuore di Gerusalemme ovest. Il movimento di protesta contro la corruzione ha beneficiato della notevole esperienza nello scontro con le autorità. Ha portato il suo programma di sinistra su un palco davanti a una folla diversa in via Balfour, dove le loro prospettive di essere ascoltati sarebbero state altrimenti molto ridotte. Anche questo ha un notevole potenziale.

Massimo vantaggio

È vero che, rispetto alle manifestazioni dei palestinesi da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e i Territori occupati, ndtr.], la risposta della polizia contro i dimostranti di via Balfour è stata molto moderata. Il punto è che noi eravamo manifestanti ebrei in un Paese fondato sulla supremazia ebraica.

Alcuni poliziotti a cavallo si sono lanciati in mezzo alla folla, una tattica minacciosa che indubbiamente ha provocato timore, ma non ci hanno sparato né proiettili veri né ricoperti di gomma. Ci hanno sparato contro con cannoni ad acqua, ma era solo acqua, non il disgustoso liquido cosiddetto “puzzola” che usano contro i palestinesi. E la maggior parte degli arrestati è stata rilasciata dopo poche ore.

Senza dubbio una manifestazione palestinese sarebbe finita in modo ben diverso. Ma vedere questa dimostrazione solo e nient’altro che come un ennesimo esempio dei privilegi degli ebrei vorrebbe dire non vedere il potenziale di radicalità dell’attuale momento. Esso è sicuramente presente. La domanda in gioco riguardo a questa protesta è molto semplice: se il nostro obiettivo politico è cacciare Netanyahu per le accuse di corruzione oppure no. La risposta è sì. Non solo perché una società che si rivolta contro la corruzione è una società più sana, ma anche perché praticamente ogni cambiamento per cui si batte la sinistra ebraica inizia dalla rimozione di Netanyahu dal potere.

Il modo in cui Netanyahu ha rafforzato il suo dominio come primo ministro, l’identificazione che ha creato tra se stesso e lo Stato e i suoi continui tentativi di incitare diversi settori della popolazione uno contro l’altro sono cose molto pericolose, e rendono la sua cacciata un compito necessario per ottenere un qualunque cambiamento. Ora è arrivato un momento interessante, in cui il regime stesso sta trasformando in dissidenti politici quelli che sono considerati il “sale della terra”, gli ebrei privilegiati e sionisti convinti.

La questione più impellente ora è se noi, la sinistra ebraica, saremo abbastanza saggi da approfittare al massimo di questo potenziale, spingendo in avanti verso il cambiamento più sostanziale che stiamo cercando di determinare.

Le opinioni espresso in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Orly Noy è una giornalista e attivista politica che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La crisi dovuta al coronavirus accentua lo scontro tra Netanyahu e Gantz

Mazal Mualem

16 luglio 2020 – Al Monitor

La crisi dovuta al coronavirus e le gravi difficoltà economiche non hanno fatto che approfondire la distanza tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo alleato di coalizione, il primo ministro che lo dovrebbe sostituire e attuale ministro della Difesa Benny Gantz.

Il capo di Blu e Bianco, Benny Gantz, che è il primo ministro di riserva e il ministro della Difesa, sperava che la serie di interviste che ha rilasciato dalla casa in cui è in quarantena a Rosh HaAyin alle tre principali stazioni televisive del Paese il 15 luglio avrebbe mitigato, almeno parzialmente, le sue carenze nel campo delle pubbliche relazioni.

Le interviste sono state registrate e si pensava che sarebbero state messe in onda in prima serata, con l’obiettivo di suscitare attenzione. Gantz è arrivato preparato, con una pagina di messaggi al pubblico e due importanti notizie: una riguardo alla possibilità che Israele, alla luce dell’incremento giornaliero della diffusione del virus del COVID-19, rinnovi una chiusura totale del Paese; la seconda in merito all’insistenza di Gantz per un bilancio biennale, a differenza del primo ministro Benjamin Netanyahu, che vorrebbe un bilancio annuale. Quest’ultima differenza di opinione potrebbe persino portare, in uno scenario improbabile, alle elezioni.

Ma mentre Gantz si stava preparando a queste importanti interviste, Netanyahu e il ministro delle Finanze Israel Katz erano impegnati a dare gli ultimi ritocchi a un altro turbinoso piano economico da presentare durante una conferenza stampa. Quel giorno Netanyahu intendeva occupare l’attenzione dell’opinione pubblica, proprio mentre Gantz si stava preparando a fare altrettanto.

Negli ultimi giorni Netanyahu ha dovuto occuparsi di una crescente ondata di proteste e manifestazioni; aveva bisogno di una “soluzione” immediata per calmare le masse. La notte precedente, il 14 luglio, davanti alla casa di Netanyahu su via Balfour a Gerusalemme si era svolta una turbolenta manifestazione, terminata con decine di arresti e una sensazione di perdita di controllo. Alla stregua della decisione del presidente USA Donald Trump di distribuire soldi alla popolazione all’inizio della crisi di coronavirus, Netanyahu ha deciso un’immediata elargizione di fondi a tutti i cittadini del Paese.

Gantz è stato aggiornato da Netanyahu e da Katz riguardo alla loro intenzione di distribuire 6 miliardi di shekel (circa 1 miliardo e mezzo di euro) solo poche ore prima della conferenza stampa del 15 luglio.

Benché Gantz si fregi del titolo di primo ministro in alternanza, Netanyahu e la sua gente non lo hanno consultato né hanno preso in considerazione l’opposizione di principio di Gantz a distribuire denaro senza fare differenze tra chi ha realmente bisogno di aiuto e chi invece no. L’approccio di Gantz è quello consigliato dai più alti livelli del ministero delle Finanze, guidato dal governatore della Banca di Israele.

Netanyahu ha semplicemente annunciato la sua decisione al primo ministro che lo dovrebbe sostituire. È vero, il primo ministro ha suggerito che lo stesso Gantz partecipasse alla conferenza stampa, ma persino Gantz ha capito che ciò gli avrebbe provocato più danni che benefici, e si è rifiutato di essere presente.

Il risultato finale è stato che le interviste a Gantz sono state oscurate dalla grande discussione provocata dalla conferenza stampa in diretta, con centinaia di migliaia di cittadini incollati agli schermi televisivi. Ancora una volta Netanyahu ha preso il controllo dell’agenda pubblica e, dopo una serie di lunghe settimane di “ibernazione da COVID-19”, è tornato in prima linea. Come prevedibile, la proposta di Netanyahu e Katz è stata attaccata da ogni parte e deve ancora essere approvata dal governo.

Ma ha ottenuto il suo scopo: nelle strade si parla meno delle manifestazioni e, se Gantz si dovesse opporre all’iniziativa, Netanyahu apparirà ancora come la figura che cerca di assistere e aiutare la popolazione.

L’avvenimento qui descritto è un’ulteriore manifestazione della grave crisi di fiducia tra Netanyahu e Gantz, due persone che hanno promesso ai cittadini di risolvere la crisi del coronavirus. Ma non hanno avuto successo nel creare un meccanismo per lavorare insieme in armonia e collaborazione per risolvere una delle maggiori crisi vissute dallo Stato di Israele da sempre.

Quasi ogni cosa diventa argomento di discussioni e tensioni tra le due parti: il bilancio, la “guerra” di Netanyahu contro il sistema giudiziario, opposte visioni del mondo. A ciò si aggiungono “ego ipertrofici” e l’enorme numero di ministeri di ambo le parti che stanno lottando per ottenere “rilevanza” – a spese gli uni degli altri.

Gantz è certo che Netanyahu stia preparando il terreno per elezioni anticipate e non abbia intenzione di lasciare libero il posto di primo ministro tra un anno e mezzo, come stabilito nell’accordo di unità tra i partiti Likud e Blu e Bianco. Nel caso specifico non si tratta di paranoia, ma di una possibilità concreta. Netanyahu, da parte sua, detesta in ogni momento questo governo. Si è abituato a comandare con il pugno di ferro, praticamente da solo, senza una vera opposizione all’interno del governo. Ma ora, mentre gestisce la crisi e si scontra con degli ostacoli, deve prendere in considerazione le opinioni dei ministri di Blu e Bianco. Il 14 luglio ha cercato di richiudere le piscine e le palestre del Paese, ed è stato bloccato dai ministri; la questione è arrivata alla commissione COVID-19 della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], che ha annullato la sua decisione. Le piscine e le palestre non sono state chiuse, provocando la sensazione tra la popolazione che il modo in cui il Paese è governato non funzioni.

Netanyahu si sente come Gulliver nella terra di Lilliput. Nelle riunioni del governo ogni sorta di giovane ministro di Blu e Bianco gli fa la predica. Ne soffre e, secondo me, rimpiange di non aver convocato le elezioni quando era avanti nei sondaggi,” afferma ad Al-Monitor un ministro del Likud che vuole rimanere anonimo.

La sera del 14 luglio, sullo sfondo della pessima pubblicità riguardante la vastissima diffusione del coronavirus, un importante membro del Likud ha duramente criticato Gantz, e le sue parole sono state citate dai media. Il membro del Likud ha detto che il primo ministro è furioso con Gantz e il suo partito perché bloccano le iniziative necessarie a impedire la diffusione dell’infezione, e che Blu e Bianco lo fa per ragioni politiche. “Gantz e Blu e Bianco devono smetterla immediatamente con i giochetti politici riguardo al COVID-19; questo comportamento mette in pericolo le vite dei cittadini israeliani. Da quando il governo di unità ha stabilito che ogni decisione debba essere presa in accordo tra il Likud e Blu e Bianco, loro (Blu e Bianco) silurano ogni risoluzione non in linea con le loro valutazioni populiste,” ha affermato il referente, che ricopre un ruolo importante, gettando così benzina sul fuoco.

Gantz non ha nessun dubbio sul fatto che le parole del politico del Likud siano arrivate direttamente dall’ufficio di Netanyahu, ed ha reagito. Poco dopo un politico di Blu e Bianco ha accusato Netanyahu di cercare di dare la colpa a Gantz della sua fallimentare gestione della crisi del COVID-19, e che il primo ministro non consente a Gantz, in quanto ministro della Difesa, di condurre lui la lotta contro il COVID-19. “Questo non è tempo per la politica e scontri (interni), solo per battaglie per risanare l’economia, il sistema sanitario e la società… Ci sono quelli che affrontano questi problemi, e quelli che sfuggono alle proprie responsabilità a questo riguardo,” ha detto alla stampa, citato come fonte anonima, il politico di Blu e Bianco.

Fino a stamattina sono stati fatti tentativi da entrambe le parti di spegnere le fiamme del conflitto interno. Sono stati intervistati ministri di Blu e Bianco, compreso il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi, che si è limitato a critiche moderate contro la munificenza di Netanyahu nei confronti della Nazione. È quello che succede quando due parti opposte sono imprigionate in un governo da incubo sull’orlo di una gravissima crisi e non hanno nessuna via di fuga.

Ma i segnali indicano un altro imminente scontro politico, che si prevede scoppierà molto presto. La prossima settimana Netanyahu deve far approvare dal governo il suo programma di distribuzione del denaro.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Fine impunità israeliana

L’impunità israeliana sta per terminare

Maureen Clare Murphy

19 luglio 2020 – The Electronic Intifada

 

Il tempo dell’impunità di Israele si sta riducendo man mano che il Tribunale Penale Internazionale si avvicina all’apertura di un’indagine completa sui crimini di guerra in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Un’offensiva diplomatica israeliana e le sanzioni da parte degli Stati Uniti non hanno ancora piegato la corte.

La sentenza della camera preliminare in merito alla giurisdizione della corte sulla Palestina è attesa in tempi brevi (la Corte Penale Internazionale si è appena aggiornata per le vacanze estive e si riunirà nuovamente a metà agosto), e il governo israeliano non prevede che i giudici decideranno a suo favore.

Il quotidiano di Tel Aviv Haaretz ha riferito questa settimana che Israele sta compilando “una lista segreta di funzionari militari e dell’intelligence che potrebbero essere soggetti ad arresti all’estero” nel caso in cui  un’indagine della CPI dovesse proseguire .

Il giornale afferma che a quanto si dice, l’elenco “ora comprende tra 200 e 300 funzionari”.

Il documento, ha aggiunto Haaretz, rimane segreto perchè la CPI “probabilmente considererebbe un elenco di nomi come un’ammissione ufficiale israeliana del coinvolgimento di questi funzionari nei casi sotto inchiesta”.

Tra i probabili sospetti, ministri di alto livello e gerarchie militari che hanno supervisionato e portato avanti l’offensiva israeliana del 2014 contro la Striscia di Gaza. Tra i potenziali sospetti di alto rango citati da Haaretz ci sono Benjamin Netanyahu e l’ex capo dell’esercito Benny Gantz, che guidano congiuntamente il governo di coalizione israeliano.

La lista potrebbe comprendere anche funzionari di livello inferiore coinvolti nella costruzione di colonie in Cisgiordania.

Ma il numero di persone responsabili di crimini di guerra perseguibili penalmente aumenta ad ogni esecuzione in strada di un palestinese da parte della polizia e dei militari israeliani.

Disarmato e indifeso”

Decine di organizzazioni per i diritti umani hanno dichiarato questa settimana alle Nazioni Unite  che i responsabili dell’esecuzione extragiudiziale del 26enne Ahmad Erakat ad un checkpoint il mese scorso devono essere chiamati a risponderne.

Israele ha sostenuto che Erakat sia andato intenzionalmente a sbattere contro il checkpoint con la sua auto, causando lievi ferite a una soldatessa. Il video dell’incidente mostra che i soldati hanno sparato a Erakat quando è uscito dal suo veicolo con le mani in alto.

Le organizzazioni per i diritti umani affermano nel loro appello che, quando è stato ucciso, Erakat  stava sbrigando delle commissioni poco prima del matrimonio di sua sorella. La sposa “stava già indossando il suo abito per il matrimonio quando ha saputo che suo fratello era stato ucciso”.

Erakat avrebbe dovuto sposarsi a settembre dopo che il suo matrimonio, previsto a maggio, era stato posticipato a causa della pandemia.

Le associazioni per i diritti umani affermano che Erekat, “palesemente disarmato e indifeso”, è stato lasciato morire dissanguato per circa 90 minuti, durante  i quali le forze di occupazione gli hanno negato le cure mediche.

I soldati israeliani presenti non hanno fornito ad Erakat nessun intervento di pronto soccorso. Dieci minuti dopo la sparatoria, un’ambulanza israeliana è arrivata al posto di blocco. Quei medici hanno curato solo la soldatessa leggermente ferita senza fornire aiuto a Erakat.

“Avendo curato un soldato israeliano ferito ma lasciando (Erakat) senza assistenza medica nonostante fosse gravemente ferito, la condotta di Israele equivale a una illegale discriminazione razziale”, aggiungono le organizzazioni a favore dei diritti umani.

I soldati israeliani hanno impedito ai paramedici palestinesi di avvicinarsi ad Erakat.

Le organizzazioni per i diritti umani affermano che negare le cure ai palestinesi feriti dalle forze israeliane “deve essere inteso come parte integrante di una diffusa e sistematica politica israeliana nei confronti dei palestinesi consistente nello sparare per uccidere”.

L’intento di questa politica, aggiungono le associazioni, “è quello di mantenere il regime israeliano di sistematica oppressione razziale e dominio sul popolo palestinese”.

Solo nel corso del 2019 l’esercito israeliano non ha prestato le cure ai palestinesi feriti in almeno 114 occasioni .

“La negazione di un’assistenza medica il prima possibile” proseguono nell’appello urgente le organizzazioni, equivale a “violazioni dei diritti alla salute e alla vita.”

“Clima di paura”

Israele sta trattenendo il corpo di Erakat come parte di una politica che consiste nel negare i resti dei palestinesi uccisi in quelli che sostiene siano stati attacchi a soldati e civili.

Dall’inizio dell’attuazione di tale politica, nel 2015, Israele ha ritardato la restituzione dei corpi di oltre 250 palestinesi uccisi dai propri soldati.

Continua a trattenere 63 di questi corpi in modo che possano essere usati come oggetto di contrattazione nei futuri scambi di prigionieri.

Questa pratica, approvata dalla corte suprema israeliana, è una forma di punizione collettiva che, affermano le organizzazioni per i diritti umani, “equivale a tortura e maltrattamenti nei confronti delle famiglie delle vittime”.

L’appello precisa che le pratiche israeliane di punizione collettiva “intendono creare un clima di paura, repressione e intimidazione” e “indebolire la capacità del popolo palestinese di opporsi efficacemente al regime”.

L’uccisione intenzionale di Ahmad Erakat è una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra, affermano le organizzazioni per i diritti umani. Gli Stati firmatari, incluso Israele, sono obbligati a portare le persone sospettate di aver commesso tali violazioni dinanzi ai loro tribunali.

Tuttavia, aggiungono le associazioni, le procedure investigative interne da parte dell’esercito israeliano “hanno più volte dimostrato di non essere minimamente all’altezza degli standard internazionali per garantire indagini efficaci, oneste e credibili”.

Data la mancanza di accesso alla giustizia nei tribunali israeliani, le organizzazioni affermano che “le reali responsabilità riguardo le vittime palestinesi possono essere accertate solo attraverso la giustizia penale internazionale e i tribunali con giurisdizione internazionale.”

“La (Corte Penale Internazionale) a questo proposito rappresenta per i palestinesi un tribunale di ultima istanza”, aggiungono. Le organizzazioni esortano gli esperti delle Nazioni Unite per i diritti umani “a chiedere alla CPI di deliberare, senza indugio, a favore del riconoscimento della giurisdizione territoriale della corte” in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Fino a quando non sarà garantita la giustizia, ci saranno nuove famiglie palestinesi in lutto per un figlio o una figlia, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno.

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il coronavirus accentua la crisi politica in Israele

La crisi dovuta al coronavirus accentua lo scontro tra Netanyahu e Gantz

 

La crisi dovuta al coronavirus e le gravi difficoltà economiche non hanno fatto che approfondire la distanza tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo alleato di coalizione, il primo ministro che lo dovrebbe sostituire e attuale ministro della Difesa Benny Gantz.

Mazal Mualem

16 luglio 2020 – Al Monitor

 

Il capo di Blu e Bianco, Benny Gantz, che è il primo ministro di riserva e il ministro della Difesa, sperava che la serie di interviste che ha rilasciato dalla casa in cui è in quarantena a Rosh HaAyin alle tre principali stazioni televisive del Paese il 15 luglio avrebbe mitigato, almeno parzialmente, le sue carenze nel campo delle pubbliche relazioni.

Le interviste sono state registrate e si pensava che sarebbero state messe in onda in prima serata, con l’obiettivo di suscitare attenzione. Gantz è arrivato preparato, con una pagina di messaggi al pubblico e due importanti notizie: una riguardo alla possibilità che Israele, alla luce dell’incremento giornaliero della diffusione del virus del COVID-19, rinnovi una chiusura totale del Paese; la seconda in merito all’insistenza di Gantz per un bilancio biennale, a differenza del primo ministro Benjamin Netanyahu, che vorrebbe un bilancio annuale. Quest’ultima differenza di opinione potrebbe persino portare, in uno scenario improbabile, alle elezioni.

Ma mentre Gantz si stava preparando a queste importanti interviste, Netanyahu e il ministro delle Finanze Israel Katz erano impegnati a dare gli ultimi ritocchi a un altro turbinoso piano economico da presentare durante una conferenza stampa. Quel giorno Netanyahu intendeva occupare l’attenzione dell’opinione pubblica, proprio mentre Gantz si stava preparando a fare altrettanto.

Negli ultimi giorni Netanyahu ha dovuto occuparsi di una crescente ondata di proteste e manifestazioni; aveva bisogno di una “soluzione” immediata per calmare le masse. La notte precedente, il 14 luglio, davanti alla casa di Netanyahu su via Balfour a Gerusalemme si era svolta una turbolenta manifestazione, terminata con decine di arresti e una sensazione di perdita di controllo. Alla stregua della decisione del presidente USA Donald Trump di distribuire soldi alla popolazione all’inizio della crisi di coronavirus, Netanyahu ha deciso un’immediata elargizione di fondi a tutti i cittadini del Paese.

Gantz è stato aggiornato da Netanyahu e da Katz riguardo alla loro intenzione di distribuire 6 miliardi di shekel (circa 1 miliardo e mezzo di euro) solo poche ore prima della conferenza stampa del 15 luglio.

Benché Gantz si fregi del titolo di primo ministro in alternanza, Netanyahu e la sua gente non lo hanno consultato né hanno preso in considerazione l’opposizione di principio di Gantz a distribuire denaro senza fare differenze tra chi ha realmente bisogno di aiuto e chi invece no. L’approccio di Gantz è quello consigliato dai più alti livelli del ministero delle Finanze, guidato dal governatore della Banca di Israele.

Netanyahu ha semplicemente annunciato la sua decisione al primo ministro che lo dovrebbe sostituire. È vero, il primo ministro ha suggerito che lo stesso Gantz partecipasse alla conferenza stampa, ma persino Gantz ha capito che ciò gli avrebbe provocato più danni che benefici, e si è rifiutato di essere presente.

Il risultato finale è stato che le interviste a Gantz sono state oscurate dalla grande discussione provocata dalla conferenza stampa in diretta, con centinaia di migliaia di cittadini incollati agli schermi televisivi. Ancora una volta Netanyahu ha preso il controllo dell’agenda pubblica e, dopo una serie di lunghe settimane di “ibernazione da COVID-19”, è tornato in prima linea. Come prevedibile, la proposta di Netanyahu e Katz è stata attaccata da ogni parte e deve ancora essere approvata dal governo.

Ma ha ottenuto il suo scopo: nelle strade si parla meno delle manifestazioni e, se Gantz si dovesse opporre all’iniziativa, Netanyahu apparirà ancora come la figura che cerca di assistere e aiutare la popolazione.

L’avvenimento qui descritto è un’ulteriore manifestazione della grave crisi di fiducia tra Netanyahu e Gantz, due persone che hanno promesso ai cittadini di risolvere la crisi del coronavirus. Ma non hanno avuto successo nel creare un meccanismo per lavorare insieme in armonia e collaborazione per risolvere una delle maggiori crisi vissute dallo Stato di Israele da sempre.

Quasi ogni cosa diventa argomento di discussioni e tensioni tra le due parti: il bilancio, la “guerra” di Netanyahu contro il sistema giudiziario, opposte visioni del mondo. A ciò si aggiungono “ego ipertrofici” e l’enorme numero di ministeri di ambo le parti che stanno lottando per ottenere “rilevanza” – a spese gli uni degli altri.

Gantz è certo che Netanyahu stia preparando il terreno per elezioni anticipate e non abbia intenzione di lasciare libero il posto di primo ministro tra un anno e mezzo, come stabilito nell’accordo di unità tra i partiti Likud e Blu e Bianco. Nel caso specifico non si tratta di paranoia, ma di una possibilità concreta. Netanyahu, da parte sua, detesta in ogni momento questo governo. Si è abituato a comandare con il pugno di ferro, praticamente da solo, senza una vera opposizione all’interno del governo. Ma ora, mentre gestisce la crisi e si scontra con degli ostacoli, deve prendere in considerazione le opinioni dei ministri di Blu e Bianco. Il 14 luglio ha cercato di richiudere le piscine e le palestre del Paese, ed è stato bloccato dai ministri; la questione è arrivata alla commissione COVID-19 della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], che ha annullato la sua decisione. Le piscine e le palestre non sono state chiuse, provocando la sensazione tra la popolazione che il modo in cui il Pase è governato non funzioni.

“Netanyahu si sente come Gulliver nella terra di Lilliput. Nelle riunioni del governo ogni sorta di giovane ministro di Blu e Bianco gli fa la predica. Ne soffre e, secondo me, rimpiange di non aver convocato le elezioni quando era avanti nei sondaggi,” afferma ad Al-Monitor un ministro del Likud che vuole rimanere anonimo.

La sera del 14 luglio, sullo sfondo della pessima pubblicità riguardante la vastissima diffusione del coronavirus, un importante membro del Likud ha duramente criticato Gantz, e le sue parole sono state citate dai media. Il membro del Likud ha detto che il primo ministro è furioso con Gantz e il suo partito perché bloccano le iniziative necessarie a impedire la diffusione dell’infezione, e che Blu e Bianco lo fa per ragioni politiche. “Gantz e Blu e Bianco devono smetterla immediatamente con i giochetti politici riguardo al COVID-19; questo comportamento mette in pericolo le vite dei cittadini israeliani. Da quando il governo di unità ha stabilito che ogni decisione debba essere presa in accordo tra il Likud e Blu e Bianco, loro (Blu e Bianco) silurano ogni risoluzione non in linea con le loro valutazioni populiste,” ha affermato il referente, che ricopre un ruolo importante, gettando così benzina sul fuoco.

Gantz non ha nessun dubbio sul fatto che le parole del politico del Likud siano arrivate direttamente dall’ufficio di Netanyahu, ed ha reagito. Poco dopo un politico di Blu e Bianco ha accusato Netanyahu di cercare di dare la colpa a Gantz della sua fallimentare gestione della crisi del COVID-19, e che il primo ministro non consente a Gantz, in quanto ministro della Difesa, di condurre lui la lotta contro il COVID-19. “Questo non è tempo per la politica e scontri (interni), solo per battaglie per risanare l’economia, il sistema sanitario e la società… Ci sono quelli che affrontano questi problemi, e quelli che sfuggono alle proprie responsabilità a questo riguardo,” ha detto alla stampa, citato come fonte anonima, il politico di Blu e Bianco.

Fino a stamattina sono stati fatti tentativi da entrambe le parti di spegnere le fiamme del conflitto interno. Sono stati intervistati ministri di Blu e Bianco, compreso il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi, che si è limitato a critiche moderate contro la munificenza di Netanyahu nei confronti della Nazione. È quello che succede quando due parti opposte sono imprigionate in un governo da incubo sull’orlo di una gravissima crisi e non hanno nessuna via di fuga.

Ma i segnali indicano un altro imminente scontro politico, che si prevede scoppierà molto presto. La prossima settimana Netanyahu deve far approvare dal governo il suo programma di distribuzione del denaro.

 

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 

 




Alexandra Ocasio-Cortez, Tlaib, Jayapal, McCollum minacciano di condizionare l’aiuto USA a Israele a causa dell’annessione

Michael Arria

29 giugno 2020 – Mondoweiss

Una lettera indirizzata al Segretario di Stato Mike Pompeo cita un Relatore Speciale delle Nazioni Unite che ha detto che l’annessione “cristallizzerebbe un’apartheid del XXI secolo, lasciandosi alle spalle la scomparsa del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi”.

Jewish Insider [sito informativo con un’ottica ebraica, ndtr.] riferisce che quattro deputate del Congresso stanno attualmente facendo circolare una lettera tra i membri della Camera che prenderebbe di mira l’aiuto militare a Israele se il Paese procedesse con il previsto piano di annettere parti della Cisgiordania.

La lettera, indirizzata al Segretario di Stato Mike Pompeo, è promossa dalle deputate Alexandra Ocasio-Cortez (Deputata –New York), Pramila Jayapal (Dep.-Washington), Betty McCollum (Dep. -Minnesota) e Rashida Tlaib (Dep.-Michigan). In essa si specifica che il piano israeliano viola il diritto internazionale e si cita il Relatore Speciale dell’ONU sul conflitto, che ha affermato che l’annessione “cristallizzerebbe un’apartheid del XXI secolo, lasciandosi alle spalle la scomparsa del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi.”

Alla fine della lettera le deputate dichiarano che si impegneranno affinché i finanziamenti militari ad Israele vengano condizionati se il Paese procedesse con i suoi piani: “Se il governo israeliano procedesse con la prevista annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr.] con l’avallo di questa amministrazione, noi lavoreremo per fare in modo che [l’annessione] non venga riconosciuta e per imporre condizioni sui 3,8 miliardi di dollari del finanziamento militare USA ad Israele, includendo clausole relative ai diritti umani e il blocco dei fondi per forniture all’estero di armamenti israeliani pari o superiori all’ammontare della spesa annua israeliana per finanziare le colonie, come anche le politiche e le prassi che le appoggiano e le consentono.”

Benché la lettera non sia stata ancora pubblicata ufficialmente, l’AIPAC (la principale organizzazione lobbistica filoisraeliana americana, ndtr.) ha già inviato un tweet di condanna.

Il gruppo di esperti sul Medio Oriente dell’amministrazione Trump si è riunito la settimana scorsa e ha detto di essere in procinto di fare un annuncio riguardo all’annessione, ma non ha ancora preso una decisione ufficiale. Ieri Barak Ravid di Axios [sito web americano di informazioni, ndtr.] ha riferito che il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si sta rivolgendo ai gruppi evangelici negli USA perché lo appoggino nel fare pressione sull’amministrazione Trump in merito alla questione. “Dirigenti israeliani dicono che Netanyahu pensa che a quattro mesi dalle elezioni USA il presidente Trump sia politicamente debole e che potrebbe perdere contro il probabile candidato democratico alla presidenza Joe Biden”, ha scritto Ravid. “Pensa che, per avere una possibilità di vincere, Trump abbia bisogno che la base degli evangelici vada a votare.

Michael Arria è il corrispondente di Mondoweiss per gli USA. I suoi lavori sono comparsi su ‘In These Times’, ‘The Appeal’, ‘Truthout’. É autore di ‘Medium Blue: The politics of MSNBC’

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

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Senza il via libera USA, Netanyahu rinvia l’annessione ma non rinuncia

Michele Giorgio

1 luglio 2020, Nena News  da Il Manifesto

Oggi avrebbe dovuto essere il giorno previsto dal governo israeliano per l’avvio della cosiddetta estensione di sovranità al 30% della Cisgiordania. Ma in assenza dell’ok definitivo da Washington, scrive la stampa locale, il premier congela il piano. Previste per oggi manifestazioni di protesta nei Territori Occupati, mentre cresce la contrarietà al piano dei democratici statunitensi

Non sarà il primo luglio la data di inizio dell’annessione unilaterale a Israele del 30% della Cisgiordania, ma nei Territori occupati si svolgeranno ugualmente le previste manifestazioni di protesta del «Giorno della rabbia» palestinese.

«Stiamo lavorando (all’annessione) e continueremo a lavorarci nei prossimi giorni», ha detto ieri il premier israeliano Netanyahu dopo aver incontrato l’ambasciatore Usa Friedman e l’inviato speciale americano Berkowitz. Oggi perciò non accadrà nulla. E sarà così per il resto della settimana, scriveva ieri il Jerusalem Post citando fonti americane.

In più di una occasione Netanyahu aveva indicato il primo giorno di luglio come quello dell’avvio dell’iter legislativo per «l’estensione della sovranità israeliana» su larghe porzioni di Cisgiordania, territorio palestinese che Israele ha occupato nel 1967 al termine della Guerra dei sei giorni. Ora frena ma non rinuncia. Non lo preoccupano più di tanto le critiche dell’Onu e gli ammonimenti dell’Ue. E neppure le esitazioni del suo principale partner di governo Gantz.

Gli occorre però il via libera definitivo degli Usa all’annessione che con ogni probabilità sarà limitata nella sua prima fase – quindi senza la Valle del Giordano – e completata nei prossimi mesi, prima delle presidenziali Usa di novembre quando il suo alleato Trump rischierà di lasciare la Casa Bianca al suo rivale democratico Biden. Il premier israeliano vede crescere nel Partito democratico il dissenso verso le politiche di Israele.

Ieri anche il senatore democratico Sanders, il rappresentante più noto e autorevole della corrente socialista nel suo partito, ha aggiunto il suo nome a una lettera, «Apartheid», contro il piano di Israele di annettere parti della Cisgiordania. Fatta circolare dalla deputata Alexandria Ocasio-Cortez, la lettera chiede di bloccare gli aiuti militari statunitensi a Israele se Netanyahu attuerà il piano di annessione che, si legge, creerebbe una realtà di apartheid in Cisgiordania.

Il testo di Ocasio-Cortez è diverso per contenuto e tono da una lettera anti-annessione più moderata diffusa all’inizio di giugno e firmata da oltre 190 deputati democratici della Camera dei rappresentanti, tra i quali persino storici alleati di Israele come Ted Deutch e Steny Hoyer. L’iniziativa non pare destinata a raccogliere un alto numero di firme. Tuttavia, assieme alla lettera diffusa all’inizio del mese scorso, conferma che tra i democratici il dibattito su Israele e palestinesi è più vivo che mai e si sta intensificando. E Joe Biden, pur rappresentando l’establishment tradizionale del partito, non potrà non tenerne conto.




Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ammonisce Israele a rinunciare ai piani di annessione

23 giu 2020 – Al Jazeera

L’alto rappresentante dell’ONU afferma che una simile mossa sarebbe “devastante” per le speranze di nuovi colloqui e sull’eventuale soluzione dei due Stati.

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha invitato Israele ad abbandonare il piano di annessione di parti della Cisgiordania occupata, affermando che tale mossa sarebbe una “grave violazione del diritto internazionale”.

L’alto rappresentante dell’ONU ha formulato queste affermazioni martedì nel corso di una relazione al Consiglio di sicurezza, un giorno prima che la commissione, composta da 15 membri, si riunisse per l’incontro semestrale sul conflitto israelo-palestinese.

Il governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che il processo di annessione potrebbe avere inizio dal 1° luglio.

Nel documento, Guterres ha affermato che un’annessione israeliana sarebbe “devastante” per le speranze di nuovi negoziati e sull’eventuale soluzione dei due stati.

“Ciò sarebbe disastroso per palestinesi, israeliani e per la regione”, ha detto, aggiungendo che il piano è una minaccia contro “i tentativi di far progredire la pace nella regione”.

Le affermazioni di Guterres sono giunte il giorno dopo la protesta di migliaia di palestinesi a Gerico contro il piano israeliano, con una manifestazione alla quale hanno partecipato anche decine di diplomatici stranieri.

La scorsa settimana la leadership palestinese ha proposto un piano che mira a creare uno “Stato palestinese sovrano, indipendente e smilitarizzato”, con Gerusalemme est come capitale. Lascia inoltre la porta aperta a modifiche dei confini tra lo Stato proposto e Israele, così come a scambi di territori di uguale “dimensione, volume e valore – alla pari”.

La proposta palestinese è arrivata in risposta al controverso piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump che ha dato il via libera a Israele sull’annessione di ampie zone della Cisgiordania occupata, comprese le colonie considerate illegali ai sensi del diritto internazionale, e della Valle del Giordano.

Presentato alla fine di gennaio, il piano di Trump propone l’istituzione, sul restante mosaico di parti frammentate dei territori palestinesi, di uno Stato palestinese smilitarizzato, con l’esclusione di Gerusalemme est occupata. Il piano è stato respinto nella sua interezza dai palestinesi.

La riunione del Consiglio di sicurezza, che si terrà in videoconferenza, sarà l’ultima grande riunione internazionale sulla questione prima della scadenza del 1 luglio.

“Qualsiasi decisione sulla sovranità sarà presa solo dal governo israeliano”, ha detto martedì nel corso di una dichiarazione l’inviato israeliano alle Nazioni Unite Danny Danon.

I diplomatici si aspettano che mercoledì la stragrande maggioranza dei membri delle Nazioni Unite si opponga nuovamente al piano israeliano.

“Dobbiamo inviare un messaggio chiaro”, ha detto un inviato all’agenzia di stampa AFP [l’agenzia di stampa France Presse, ndtr.], aggiungendo che “non è sufficiente” limitarsi a condannare la politica israeliana, e ha prospettato la possibilità di portare il caso dinanzi alla Corte internazionale di giustizia.

Per decenni Israele ha goduto del sostegno bipartisan [sia dei democratici che dei repubblicani, ndtr.] degli Stati Uniti che gli ha permesso di ignorare le critiche internazionali e le numerose risoluzioni delle Nazioni Unite sulla sua occupazione dei territori palestinesi.

Quando Trump alla fine del 2017 ha cambiato la politica degli Stati Uniti riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele, 14 dei 15 membri del Consiglio di sicurezza hanno adottato una risoluzione di condanna dell’iniziativa, ma gli Stati Uniti hanno posto il veto.

Una risoluzione simile è stata quindi presentata all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (UNGA), dove nessuna nazione ha il potere di veto: è stata approvata con 128 voti a favore, 9 contrari e 35 astensioni.

I diplomatici, tuttavia, sembrerebbero escludere la possibilità che per la prevista annessione Israele possa subire sanzioni, quali quelle imposte da alcuni Paesi dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia.

“Qualsiasi annessione avrebbe conseguenze piuttosto gravi per la soluzione dei due Stati contenuta nel processo di pace”, ha detto un altro ambasciatore in forma anonima all’AFP.

Ma l’inviato ha affermato che non è un'”operazione semplice” mettere a confronto la Cisgiordania con la Crimea.

All’inizio di questo mese, centinaia di docenti e studiosi di diritto internazionale hanno firmato una lettera aperta che condanna il piano israeliano di annessione dei territori della Cisgiordania, definendolo una “flagrante violazione delle regole fondamentali del diritto internazionale e costituirebbe anche una grave minaccia alla stabilità internazionale in una regione instabile”.

Kevin Jon Heller, docente di diritto internazionale, ha dichiarato ad Al Jazeera che l’annessione prevista da Israele è “una chiara e sostanziale violazione del diritto internazionale, che vieta l’annessione dei territori presi con la forza”.

“L’annessione da parte di Israele delle alture del Golan e di Gerusalemme,” ha affermato Heller, “e il contemporaneo silenzio internazionale e arabo, l’hanno incoraggiato a intraprendere ulteriori azioni in quella direzione, come sta ora pianificando”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Il macabro piano di Israele culmina nell’annessione”

Richard Falk

24 giugno 2020 Nena News

Grazie a Trump, scrive l’ex relatore speciale delle Nazioni Unite, il governo israeliano insiste sui Territori palestinesi occupati: «Sono una necessità per la nostra sicurezza». Nessuno pensa ai diritti dei palestinesi, nessuno ha intenzione di ascoltarli. È una geopolitica da gangster nella giungla globale in aperta violazione della Carta dell’Onu.

Viviamo in tempi strani. In giro per il mondo le vite sono devastate dal Covid-19 oppure da crisi sociali, economiche e politiche. In momenti così, non sorprende che emergano il peggio e il meglio dell’umanità. Eppure la geopolitica da gangster nelle sue varie manifestazioni sembra spingersi ancora oltre.

Si pensi all’inasprimento delle sanzioni statunitensi nel bel mezzo della crisi sanitaria che colpisce società già gravemente provate e popolazioni sofferenti in Iran, Venezuela, Siria e Cuba.

Un’altra pagina nera è la danza macabra di Israele intorno alla plateale illegalità dell’annessione che il premier Benjamin Netanyahu ha promesso di avviare da luglio, grazie all’assenso del rivale e alleato di governo Benny Gantz. Israele è pronta ad annettere i territori senza nemmeno cercare di giustificare la violazione del diritto internazionale, secondo il quale uno Stato sovrano non può annettere un territorio estero occupato militarmente.

QUESTA MOSSA unilaterale di Israele per riclassificare il territorio che «occupa» nella West Bank e per incorporarlo stabilmente nell’autorità sovrana israeliana viola completamente il diritto internazionale umanitario della Quarta convenzione di Ginevra. Quella che perfino al tempo della Lega delle Nazioni era sempre stata una «norma sacra», nell’era della geopolitica post-coloniale da gangster diventa disprezzo patente per i popoli e i loro diritti.

LA MOSSA annessionista è così estrema che anche alcuni pesi massimi di Israele, fra i quali gli ex capi del Mossad e dello Shin Bet, e ufficiali in pensione delle Israel Defence Forces, lanciano l’allarme. Alcuni militanti sionisti sono contrari all’annessione in questo momento perché svelerebbe l’illusione della democrazia israeliana, e perché montano i timori che assorbire i palestinesi della West Bank minaccerebbe a tempo debito l’egemonia etnica ebraica. Naturalmente, nessuno di questi «ripensamenti» contesta l’annessione perché viola il diritto internazionale, scavalca e mina l’autorità dell’Onu e ignora i diritti inalienabili dei palestinesi. Le preoccupazioni riguardano gli impatti negativi per il paese, in termini di sicurezza a livello interno e regionale israeliana, e di status internazionale.

I critici nell’establishment della sicurezza nazionale temono di disturbare i vicini arabi e di alienarsi ulteriormente l’opinione pubblica internazionale, soprattutto in Europa; in una certa misura si dicono preoccupati anche della reazione dei «sionisti liberal», con il conseguente indebolimento dei legami di solidarietà con Israele da parte della diaspora ebraica che vive negli Stati uniti e in Europa.

ANCHE LA PARTE pro-annessione evoca la sicurezza, specialmente rispetto alla Valle del Giordano e agli insediamenti, ma in misura molto minore. Gli annessionisti fanno riferimento alla Giudea e alla Samaria di cui parla la Bibbia (il nome noto internazionalmente è West Bank). Il diritto verrebbe rafforzato dal riferimento alle profonde tradizioni culturali ebraiche nonché a secoli di connessioni storiche fra una piccola e stabile presenza ebraica in Palestina e questo territorio considerato sacro custode del popolo ebraico.

IN OGNI CASO, tanto gli israeliani critici sull’annessione quanto i favorevoli non sentono alcun bisogno di confrontarsi con i diritti e le istanze dei palestinesi. Come è sempre avvenuto lungo tutta la narrazione sionista, le aspirazioni e le rivendicazioni del popolo palestinese e la sua stessa esistenza non fanno parte dell’immaginario sionista: salvo quando si frappongono ostacoli o si crea una minaccia demografica alla regola della maggioranza ebraica. Se si considera l’evoluzione della principale corrente del sionismo, l’obiettivo di lungo periodo di emarginare i palestinesi in un unico Stato ebraico dominante che comprenda tutta la «terra promessa» di Israele non è mai stato abbandonato.

In questo senso il piano di partizione messo a punto dalle Nazioni unite, benché accettato nel 1947 dalla dirigenza sionista come soluzione del momento, è da interpretarsi piuttosto come una pietra miliare per il recupero della maggiore quantità possibile di terra promessa. Nel corso degli ultimi cent’anni, dal punto di vista israeliano l’utopia è diventata una realtà, mentre da quello palestinese è diventata una distopia.

IL MODO IN CUI Israele e Stati uniti affrontano questo preludio all’annessione sconcerta quanto la conseguente «scomparsa» dei palestinesi. Israele ha già privilegiato l’annessione nell’accordo di coalizione Gantz-Netanyahu, che prevede di presentare una proposta alla Knesset (Parlamento) a partire dal 1 luglio. L’unica precondizione accettata con l’accordo alla base del governo Gantz-Netanyahu fa coincidere l’annessione con le allocazioni territoriali incorporate nelle famose proposte unilaterali Trump-Kushher «Dalla pace alla prosperità».

COME PREVEDIBILE, gli Stati uniti di Trump non creano frizioni, né suggeriscono a Netanyahu di offrire una parvenza di giustificazione legale o di esplicitare gli effetti negativi dell’annessione sulle prospettive del processo di pace israelo-palestinese. Finora, il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dato luce verde all’annessione della West Bank ancora prima che Israele formalizzasse il proprio piano, dichiarando provocatoriamente che sono gli israeliani a dover decidere in materia: come se né i palestinesi né la legge internazionale avessero la minima importanza. Ecco un’altra indicazione del fatto che le relazioni israelo-statunitensi sono all’insegna di una geopolitica da gangster.

Ma forse, i segnali di possibili ripercussioni indurranno Washington a chiedere a Netanyahu di posticipare l’annessione o ridimensionarne la portata. E, anche se questa geopolitica sembra esaurire le residue speranze palestinesi di un compromesso politico e di una diplomazia basata su un genuino impegno di equità ed eguaglianza, voci di resistenza e solidarietà si levano contro quest’ultimo oltraggio. Nena News