Thomas Friedman si sbaglia di nuovo – questa volta sull’accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele

James North

14 agosto 2020 – MondoWeiss

Thomas Friedman [commentatore e autore politico americano, tre volte vincitore del Premio Pulitzer ed editorialista settimanale del New York Times, ndtr.] sbaglia sempre sul Medio Oriente, e ha di nuovo sbagliato. Il suo articolo sul New York Times di sabato, “Un terremoto geopolitico ha appena colpito il Medio Oriente”, interpreta male l’accordo Israele-Emirati Arabi Uniti – e mostra ancora una volta come Friedman abbia avuto paura di prendere posizione sulla prevista annessione da parte di Israele del 30 % della Cisgiordania palestinese.

Friedman l’ha presa al contrario. L’accordo, che si limita a ratificare la cooperazione già esistente tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele, non è un “terremoto” – ma, almeno per ora, ha ridotto le occasioni di disordini in Palestina ed evitato un’enorme crisi del sostegno statunitense a Israele, in particolare all’interno della comunità ebraica. Lo stesso Friedman riconosce che:Se Israele avesse annesso parte della Cisgiordania, avrebbe diviso ogni sinagoga e comunità ebraica in America in annessionisti intransigenti contro anti-annessionisti progressisti.

Oggi riconosce che l’annessione costituirebbe “un disastro incombente” per “la comunità ebraica americana”.

Fermiamoci un attimo e consideriamo il patetico primato di Friedman nelle ultime settimane. È il giornalista di affari esteri più influente al mondo, venerato specialmente in molte delle case ebraiche statunitensi. Si è fatto un nome coprendo dal 1980 il Medio Oriente. Ma non ha pubblicato una sola parola contro l’annessione di Israele fino a ieri, quando gli Emirati Arabi Uniti e Donald Trump lo hanno spiazzato. Friedman è un codardo intellettuale. Si è comportato esattamente come l’organizzazione di punta della lobby israeliana americana, l’AIPAC, che allo stesso modo non ha dichiarato alcun allarme per l’annessione, ma è subito intervenuta nel sostenere l’accordo Emirati Arabi Uniti-Israele.

Larticolo di Friedman include ulteriori prove della sua negligenza giornalistica. Dopo aver sottolineato che la proposta di annessione è “un piano molto pro-Israele” – punto di vista su cui aveva sinora mantenuto il silenzio – ha aggiunto: “(Mi chiedo se l’ambasciatore di Trump in Israele, David Friedman, un estremista pro-colonie, abbia incoraggiato Bibi [Netanyahu] a pensare che avrebbe potuto farla franca.)”

Friedman “si chiede”? Il punto centrale dell’essere un giornalista influente è poter raggiungere al telefono chiunque si voglia. Ieri non ha avuto problemi ad ottenere immediatamente una risposta di prima mano da Itamar Rabinovich, ex ambasciatore israeliano, e da Ari Shavit, lo scrittore.

Non ha Friedman sicuramente qualche fonte in Israele che avrebbe potuto fornire dettagli eloquenti sull’ “estremismo pro-colonie” dell’ambasciatore statunitense Friedman? Il quotidiano israeliano Haaretz copre Friedman continuamente.

Thomas Friedman ha commesso in passato errori peggiori sul Medio Oriente. Ha appoggiato con entusiasmo l’invasione dell’Iraq del 2003 e, a differenza di molti appassionati sostenitori dellepoca non ha mai ammesso di essersi sbagliato o detto di essere dispiaciuto. “Lo rifarei”, ha detto. Ha parlato enfaticamente del sovrano de facto dell’Arabia Saudita, il principe ereditario Mohammed, e ha fatto un po’ marcia indietro solo dopo che il principe ereditario ha ordinato il terribile omicidio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi.

Ma ci sono segnali incoraggianti del fatto che l’influenza di Friedman stia progressivamente diminuendo. I commenti dei lettori all’editoriale di oggi, ad esempio, sono fortemente critici. La migliore risposta a Friedman da un lettore, “Russell in Oakland”, andava direttamente al punto: Insomma Israele ha annunciato il suo piano per commettere un crimine, l’annessione dei territori della Cisgiordania, e poi accetta di firmare la “pace” con un paese con cui, per quanto ne so, non era in guerra in cambio di non commettere quel crimine. Per ora.

La tragedia è che Friedman continua ad occupare spazi giornalistici che potrebbero essere occupati da qualcuno intelligente che non ha paura di scrivere quello che pensa.

(traduzione dall’ inglese di Luciana Galliano)




“Simpatizzanti di sinistra per Bibi”? Smascherata una manipolazione propagandistica a favore di Netanyahu

Itamar Benzaquen e The Seventh Eye

12 agosto 2020+972 Magazine

Secondo una serie di post su Facebook, il primo ministro israeliano starebbe conquistando tra i sostenitori della sinistra – salvo il fatto che nessuna delle persone in questione esiste.

Sharon Epstein era una persona di sinistra. Credeva nella pace e nella restituzione dei territori occupati ai palestinesi. Ma poi sono iniziate le proteste anti-Netanyahu e qualcosa è cambiato. Stufa delle presunte istigazioni all’odio contro il primo ministro, Sharon Epstein è diventata, secondo le sue stesse parole, una “bibi-ist”, una sostenitrice di Benjamin Netanyahu.

Epstein, la cui immagine sul profilo Facebook mostra una giovane donna con i capelli castani e gli occhi azzurri, ha condiviso il suo passaggio da sostenitrice della sinistra a sostenitrice di Netanyahu su una pagina Facebook chiamata “Zionist Spring” [primavera sionista, ndtr.] Solo che nella vicenda manca un dettaglio fondamentale: Sharon Epstein non esiste. È, invece, un personaggio immaginario creato come parte di una campagna politica.

Ci sono diverse Sharon Epstein in Israele, ma nessuna di loro è la “Sharon Epstein” che ha condiviso su Facebook una storia di trasformazione politica. L’immagine del profilo utilizzata è stata generata da un software per computer utilizzando una tecnologia nota come “sintesi di immagini umane”, che elabora le foto di persone reali per creare un’immagine composita di qualcuno che non esiste, ma che è ingannevolmente realistica.

Questa tecnica, che aiuta i produttori di fake news ad aggiungere credibilità alle loro storie, è diventata sempre più popolare negli ultimi anni e fa parte del mondo della produzione high-tech i cui prodotti sono noti come “deepfakes” [lett. manipolazioni profonde, ndtr.]. Recentemente, si è scoperto che una serie di storie diffuse dai media di destra, presentate come scritte da esperti geopolitici che dissertavano su argomenti che andavano dall’influenza nefasta dell’Iran sulla regione alla forza di Dubai, era opera di questi personaggi fittizi – abbinate alle immagini, false, dei [loro] profili.

La pagina Facebook “Zionist Spring” ha adottato un approccio più elementare: invece di creare una nuova immagine per “Sharon Epstein”, gli amministratori della pagina hanno semplicemente utilizzato la prima foto che appare alla voce di Wikipedia sulla composizione di immagini umane, che viene fornita come esempio della tecnologia. La descrizione della foto afferma che proviene da un sito web chiamato “Questa persona non esiste“.

Tra le crescenti manifestazioni anti-Netanyahu a Gerusalemme e il calo delle preferenze elettorali per il primo ministro, sono apparse su “Zionist Spring” ulteriori false confessioni come quella di “David Smolansky” – un’altra persona inventata, a giudicare dal nome (“smolan” in ebraico significa “di sinistra”). Come “Sharon Epstein” anche “David Smolansky” si è identificato come un simpatizzante di sinistra fino a quando il suo sgomento per le presunte istigazioni contro Netanyahu lo avrebbe trasformato in un sostenitore del primo ministro. Anche la sua immagine sul profilo è stata creata dal sito web responsabile dell’immagine di “Sharon Epstein”. Evidentemente, tuttavia, la tecnologia in questo caso non ha funzionato come previsto: la punta di un terzo orecchio è visibile sul lato della testa di “David”.

Una terza storia falsa su “Zionist Spring” proviene da “Dana Overlander”. Come nei post precedenti, la testimonianza di “Dana” è caratterizzata da un senso di disillusione e dal tentativo di suscitare sentimenti di rimorso e dubbio tra i manifestanti di sinistra.

“Sono delusa dalla mia area [politica]”, scrive “Dana”. “Ho dimostrato per tutta la vita a favore della pace e ho sempre votato per la sinistra, dal Labour-Meretz a Yesh Atid. [i primi due, partiti israeliani di centro-sinistra, il terzo di centro, ndtr.] Sono sempre andata alle manifestazioni a sostegno della pace, della tolleranza e dell’uguaglianza … Abbiamo oltrepassato il limite con le recenti proteste, che stanno principalmente danneggiando noi, la sinistra … Mi mancano i leader della sinistra israeliana del passato, cosa ci rimane oltre all’odio?”

La testimonianza di “Dana” è stata condivisa su Facebook più di 3000 volte. L’immagine sul profilo che la accompagna, che presenta alcune somiglianze con quella di “Sharon Epstein”, non compare da nessun’altra parte su Internet. Né, attraverso una ricerca completa su Twitter, Facebook, Instagram e i database visibili online, viene fuori una donna israeliana con il nome “Dana Overlander”.

Zionist Spring” è una pagina di propaganda che ha condiviso in modo aggressivo i post di Netanyahu su Facebook insieme a quelli di propagandisti che hanno fatto parte ufficialmente delle campagne elettorali del Likud, noti sostenitori di Netanyahu, e di Yair Netanyahu, figlio del primo ministro. È quindi chiaro il motivo per cui i gestori delle pagine hanno ignorato i commenti sui post pubblicati da presunti simpatizzanti di sinistra pentiti, [commenti] che hanno sottolineato che le persone in questione in realtà non esistono.

Una delle false testimonianze è stata condivisa da una fan page non ufficiale del canale di notizie israeliano di estrema destra Channel 20, i cui responsabili e follower hanno attribuito poca importanza al fatto che i post fossero fittizi. “Viene condiviso online. Perché dovrebbe essere importante la sua origine?” ha scritto un commentatore. In un commento separato, uno degli amministratori della fan page di Channel 20 ha scritto: “Prima di caricare questo post, inoltre, non sono riuscito a trovare un profilo con questo nome. Non cambia il fatto che [la testimonianza] ha ragione e che la sinistra sionista in Israele è scomparsa ed è persino più esigua dell’estrema sinistra. Un numero significativo di persone di sinistra ha detto la stessa cosa, quindi anche se questa persona è falsa, ciò che è stato scritto è azzeccato “.

Non è chiaro chi ci sia dietro a “Sharon Epstein”, “David Smolansky” e “Dana Overlander”, né alla pagina Facebook di “Zionist Spring“. Il presunto amministratore della pagina, che si chiama Uri Tzvi, non ha risposto a una richiesta di commento.

Notizie false

A poche ore dalla pubblicazione di questa storia sul Seventh Eye [Settimo Occhio, rivista israeliana indipendente, ndtr.], l’8 agosto, la pagina Facebook di “Zionist Spring” è scomparsa da Facebook, insieme al profilo di Tzvi. Non è ancora noto se la pagina sia stata cancellata dal suo gestore o rimossa da Facebook.

Tuttavia le iniziative di manipolazione sui social media non sono un fenomeno isolato nella politica israeliana. Pochi giorni fa, l’esperto di media Yossi Dorfman ha denunciato come falsi alcuni profili di “sinistra” su Facebook – poi rimossi dal sito – che postavano presunte istigazioni contro Netanyahu, intese a ritrarre chi protesta contro di lui come violento.

Dorfman ha anche rivelato che un profilo a nome di “Dana Ron”, che Netanyahu ha accusato di aver pubblicato l’invito ad ucciderlo, era falso. Anche quel profilo è stato rimosso da Facebook. Un’indagine della polizia sulla provenienza del post ha rivelato che l’account era gestito dall’ estero, anche se non è stato ancora accertato da chi.

Questa ondata di post falsi sui social media deriva da precedenti post di propaganda fittizi a sostegno di Netanyahu. Due mesi fa si è diffusa sui social media una serie di finte testimonianze da parte di presunti sostenitori di Netanyahu, accompagnate da foto di celebrità americane.

Ad aprile, Yair Netanyahu e l’attivista di estrema destra e leader di Otzma Yehudit [partito israeliano di estrema destra, ndtr.] Itamar Ben-Gvir hanno entrambi condiviso una foto di fedeli musulmani sui tetti degli edifici – presumibilmente in Israele – per tentare di istigare contro i palestinesi. In realtà la fotografia è stata scattata a Dubai. In precedenza, Yair Netanyahu aveva condiviso una foto di presunte rivolte violente a Giaffa, che era stata scattata diversi anni prima a Wadi Ara [regione del distretto di Haifa popolata prevalentemente da arabo israeliani, ndtr.]. E l’anno scorso, durante la seconda delle tre recenti elezioni israeliane, nel tentativo di esortare la destra ad andare a votare, ha pubblicato una foto che mostrava in apparenza una fila di elettori palestinesi in attesa di esprimere il loro voto – un’immagine che in realtà si riferiva ad elettori in Turchia.

Una versione di questo articolo è stata originariamente pubblicata in due puntate su The Seventh Eye.

Itamar Benzaquen è un reporter di The Seventh Eye.

The Seventh Eye è tra i media israeliani l’unico cane da guardia indipendente. Fondato nel 1996, oggi pubblica quotidianamente rassegne mediatiche, articoli, editoriali e rapporti investigativi volti a denunciare pratiche giornalistiche inaccettabili, interessi stranieri nei media israeliani, censura e autocensura, discriminazione e razzismo. I giornalisti del sito seguono e documentano i progressi nel mondo dei media israeliani, dalla rinascita dei sindacati dei giornalisti alla denuncia di contenuti “pubblicitari” nascosti, il tutto con l’obiettivo di incoraggiare un giornalismo indipendente, equo e imparziale.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Una pugnalata alle spalle”: i palestinesi denunciano l’accordo di normalizzazione tra gli Emirati e Israele

MEE e agenzie

venerdì 14 agosto 2020 – Middle East Eye

I palestinesi e i loro sostenitori hanno condannato duramente l’accordo concluso da Abu Dhabi con Israele, che ha peraltro annunciato per bocca del suo primo ministro Benjamin Netanyahu che l’annullamento del progetto di annessione che si pensava fosse previsto nel patto non è garantito

Questo giovedì in un comunicato l’Autorità Nazionale Palestinese ha denunciato l’accordo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti (EAU) con il sostegno degli Stati Uniti, definendolo un “tradimento di Gerusalemme, di Al-Aqsa e della causa palestinese” ed esigendone il ritiro.

Questo accordo, che dovrà essere firmato tra tre settimane a Washington, farebbe di Abu Dhabi la terza capitale araba a seguire questa via dalla creazione di Israele.

La direzione (palestinese) afferma che né gli EAU né nessun’altra controparte hanno il diritto di parlare in nome del popolo palestinese, né consente a chicchessia di intervenire negli affari palestinesi riguardanti i loro legittimi diritti sulla loro patria.”

L’Autorità Nazionale Palestinese ha richiamato il suo ambasciatore ad Abu Dhabi e chiesto una “riunione d’urgenza” della Lega Araba e dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OCI) per denunciare il progetto.

La normalizzazione delle relazioni tra Israele e le potenze del Golfo come Bahrein, Arabia Saudita ed Emirati è uno degli aspetti del piano dell’amministrazione Trump per il Medio Oriente, accolto dagli israeliani ma duramente criticato dai palestinesi.

Questo piano prevede anche l’annessione da parte di Israele della Valle del Giordano e di centinaia di colonie ebraiche in Cisgiordania, giudicate illegali dal diritto internazionale. Giovedì sera il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto di aver “rinviato” questo progetto, senza tuttavia “avervi rinunciato”.

La dirigenza palestinese “rifiuta questo scambio tra la sospensione dell’annessione illegale e la normalizzazione con gli EAU che avviene a spese dei palestinesi,” continua il comunicato, che definisce l’accordo tra Israele e gli Emirati “un’aggressione contro i palestinesi.”

Hanan Ashrawi, una dei maggiori esponenti dell’Autorità Nazionale Palestinese che governa la Cisgiordania, ha dichiarato che in questo modo Israele è stato ricompensato per le sue azioni illegali dal 1967 nei territori palestinesi.

Gli EAU hanno rivelato alla luce del sole i loro rapporti segreti e la normalizzazione con Israele. Vi preghiamo, non fateci dei favori. Non siamo la foglia di fico di nessuno!” ha twittato.

Possiate voi non provare mai la sofferenza di vedersi rubare il proprio paese; possiate voi non provare mai il dolore di vivere prigionieri sotto occupazione; possiate voi non assistere mai alla demolizione della vostra casa o all’uccisione dei vostri cari. Possiate voi non essere mai venduti dai vostri ‘amici’,” ha aggiunto.

Awni Almashni, un responsabile del movimento Fatah del presidente palestinese Mahmoud Abbas, e attivista della città di Betlemme, in Cisgiordania, ha dichiarato a Middle East Eye che la pace nella regione non potrà essere ottenuta che risolvendo i problemi che i palestinesi devono affrontare.

Gli accordi che Israele cerca di concludere con i Paesi musulmani ed arabi sono un mezzo per eludere ed evitare la questione palestinese, ma qualunque piano di pace con un Paese arabo non è che un’illusione e non risolverà il problema principale tra Israele e la Palestina,” ha avvertito.

In passato Israele ha cercato di costruire la pace con certi Paesi arabi, ma noi sappiamo che non ha raggiunto nessun tipo di pace nella regione.”

L’attivista nota che l’annessione è stata congelata molto prima dell’annuncio di giovedì, grazie al popolo palestinese e al rifiuto categorico da parte della comunità internazionale.

Secondo lui legare l’annessione all’intesa tra gli EAU e Israele “è un tentativo di presentare l’accordo con Israele come un successo, cosa che non è affatto.”

Hamas, il movimento palestinese che governa la Striscia di Gaza assediata da Israele, ha definito “pericoloso” l’accordo tra Israele e gli Emirati.

L’accordo tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti è uno sviluppo pericoloso nel segno della normalizzazione e un colpo a tradimento contro i sacrifici del popolo palestinese,” ha dichiarato.

Per i comitati di resistenza popolare della Striscia di Gaza l’accordo “rivela l’ampiezza della cospirazione contro (il) popolo e (la) causa (palestinesi).”

Lo consideriamo una pugnalata alle spalle perfida e velenosa contro la nazione e la sua storia,” ha aggiunto l’organizzazione.

Anche la Jihad islamica, un altro gruppo della resistenza che opera da Gaza, ha condannato il patto: “Chiunque non sostenga la Palestina con una pallottola dovrebbe vergognarsi,” ha dichiarato.

Da parte sua l’Alleanza Nazionale Democratica, nota anche con il nome di partito Balad [gruppo politico arabo-israeliano, ndtr.], ha dichiarato che la decisione “incoraggia Israele a continuare con le attuali politiche (…) che privano i palestinesi dei loro legittimi diritti storici. Gli EAU si sono ufficialmente uniti a Israele contro la Palestina e si sono collocati nel campo dei nemici del popolo palestinese.”

Una “sciocchezza strategica di Abu Dhabi e di Tel Aviv”

Anche vari Paesi della regione hanno condannato l’accordo.

Questo venerdì la Turchia ha così accusato gli Emirati Arabi Uniti di “tradire la causa palestinese” accettando di firmarlo.

Gli Emirati Arabi Uniti cercano di presentarlo come una sorta di sacrificio per la Palestina, mentre tradiscono la causa palestinese per i propri meschini interessi,” ha reagito in un comunicato il ministero degli Esteri turco.

La storia e la coscienza dei popoli della regione non dimenticheranno questa ipocrisia e non la perdoneranno mai,” ha aggiunto.

Ardente difensore della causa palestinese, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan critica regolarmente i Paesi arabi che accusa di non adottare un atteggiamento sufficientemente fermo di fronte a Israele.

La vivace reazione di Ankara arriva anche nel momento in cui le relazioni tra la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti, due rivali regionali, sono tese. I due Paesi si scontrano in particolare in Libia, dove sostengono campi opposti.

Anche l’Iran ha condannato duramente l’accordo, descritto come una “sciocchezza strategica di Abu Dhabi e di Tel Aviv, che rafforzerà senza dubbio l’asse della resistenza nella regione. Il popolo oppresso di Palestina e tutte le Nazioni libere del mondo non perdoneranno mai la normalizzazione dei rapporti con l’occupante e il regime criminale di Israele, così come la complicità con i crimini del regime,” ha dichiarato in un comunicato il ministero iraniano.

La Giordania, che nel 1994 ha firmato un trattato di pace con Israele, diventando il secondo Paese arabo dopo l’Egitto a farlo, non ha né accolto favorevolmente né condannato l’accordo, ritenendo che il suo futuro dipenderà dalle prossime iniziative di Israele e in particolare dal fatto che possa spingere Israele ad accettare uno Stato palestinese sulla terra che ha occupato dopo la guerra arabo-israeliana del 1967.

Se Israele l’ha considerato come un incitamento a mettere fine all’occupazione (…) ciò porterà la regione verso una pace giusta,” ha dichiarato il ministro degli Affari Esteri Ayman Safadi in un comunicato ai mezzi di informazione statali.

Annullamento o semplice rinvio dell’annessione?

Secondo Abu Dhabi, in cambio di questo accordo Israele ha accettato di “mettere fine alla realizzazione dell’annessione dei territori palestinesi.”

Durante una telefonata tra il presidente Trump e il primo ministro Netanyahu si è trovato un accordo per mettere fine a una qualunque ulteriore annessione,” ha affermato il principe ereditario di Abu Dhabi, lo sceicco Mohammed ben Zayed al-Nahyane sul suo account twitter.

Ma il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non lo ha confermato, parlando di un semplice “rinvio”.

L’annessione di parti di questo territorio palestinese occupato è “rinviata”, ma Israele non vi ha “rinunciato”, ha affermato Netanyahu. “Ho portato la pace, realizzerò l’annessione,” ha persino proclamato.

La formulazione è stata scelta con cura dalle diverse parti. ‘Pausa temporanea’, non è definitivamente scartata,” ha sostenuto da parte sua l’ambasciatore americano in Israele David Friedman.

Ciononostante l’accordo è stato ben accolto da gran parte della comunità internazionale.

Così la Francia ha giudicato che “la decisione presa in questo contesto dalle autorità israeliane di sospendere l’annessione dei territori palestinesi (è) una tappa positiva, che (dovrebbe) diventare una misura definitiva,” secondo il capo della diplomazia francese, Jean-Yves Le Drian.

Per le Nazioni Unite questo accordo potrebbe creare “un’occasione per i dirigenti israeliani e palestinesi di riprendere negoziati concreti, che portino a una soluzione dei due Stati in base alle risoluzioni dell’ONU a questo riguardo,” ha dichiarato il segretario generale dell’organizzazione, António Guterres.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Il coronavirus tradisce Netanyahu

Akiva Eldar

8 agosto 2020 – Al Jazeera

La cattiva gestione del ritorno della pandemia e la sua proposta di elezioni anticipate potrebbero far cadere il primo ministro israeliano.

Non molto tempo fa ho scritto un commento per Al Jazeera in inglese, suggerendo che il primo ministro Benjamin Netanyahu “passerà alla storia come il primo leader che deve il suo incarico a un virus”.

Ad aprile, infatti, è stata la paura pubblica della pandemia che ha indotto il leader dell’alleanza Blu e Bianco Benny Gantz a violare la sua promessa elettorale agli elettori di non formare una coalizione .

Il primo ministro in carica, usando il gergo militare, aveva detto che tutti “dovevano tenere su la barella” per esortare i suoi rivali politici a unire le forze con lui per sconfiggere il comune nemico virale. Aveva presentato delle opzioni alternative – o un cosiddetto “governo di unità” che mettesse insieme politicamente la destra e il centrosinistra, o quarte elezioni politiche, che sarebbero state una scelta palesemente antipatriottica e in pratica sovversiva.

Gantz ha seguito il suo invito e probabilmente se ne sta già pentendo. Oggi sembra sempre più che Netanyahu non solo non sia in grado di gestire le conseguenze politiche ed economiche della pandemia, ma sia anche disposto a gettare il Paese in subbuglio per salvarsi dalla prigione.

Mentre Israele sta affrontando una seconda ondata di COVID-19, gli ospedali si stanno riempiendo, la disoccupazione e i fallimenti stanno aumentando e un buco di bilancio sta minacciando la posizione finanziaria di Israele a livello mondiale, Netanyahu sta spingendo per nuove elezioni, nonostante solo pochi mesi fa demonizzasse tale prospettiva.

A luglio, notizie sui media israeliani hanno rivelato che il primo ministro sta cercando di sciogliere la coalizione e provocare elezioni anticipate nel tentativo di riprendere il controllo del ministero della Giustizia e assicurarsi di non essere costretto a lasciare il suo incarico per affrontare il processo.

In effetti, Netanyahu sta trascinando gli israeliani alle urne per la quarta volta in meno di 18 mesi all’inizio di quello che si prevede sarà un cupo inverno. Ma questa volta ciò potrebbe portare alla sua fine politica.

Il 2 agosto Miki Zohar, membro di coalizione della Knesset, ha paragonato il rapporto tra il Likud di Netanyahu e Blu e Bianco di Gantz a una coppia che “vuole divorziare e sta per mettere la firma da un momento all’altro”. Lo sfacciato legislatore, che è uno dei più stretti confidenti di Netanyahu, ha aggiunto che “non importa quello che faremo, tra noi e Blu e Bianco sta per andare a monte”.

Netanyahu non ha alcuna garanzia di ottenere la custodia della maggior parte dei figli, in particolare dei molti indecisi e disoccupati che sono così stufi di tutta la faccenda che potrebbero quindi abbandonare la loro affiliazione politica. Un sondaggio di aprile ha dato alla gestione della crisi sanitaria da parte di Netanyahu un indice di gradimento del 68%, mentre sull’ Israely Voice Index [rubrica periodica di statistica, ndtr.] di luglio condotto dall’Israel Democracy Institute [centro indipendente di ricerca e azione dedicato al rafforzamento delle basi della democrazia israeliana, ndtr.] solo il 25% degli intervistati ha approvato la sua perfomance nell’affrontare la crisi, e solo il 30% degli stessi il modo in cui lui gestisce il governo.

Nella primavera del 2020 il coronavirus ha sorriso a Netanyahu, dipingendolo come un eroe nazionale che ha messo a tacere l’epidemia, un leader unico, insostituibile, degno di gloria e, ovviamente, di clemenza. Quando a giugno l’epidemia ha risollevato la testa e Israele si è distinto tra gli Stati più pericolosi del mondo le vanterie di Netanyahu secondo cui Israele stava facendo “meglio della maggior parte dei Paesi” sono diventate una commedia da cabaret trito e ritrito.

Netanyahu, che inizialmente aveva imposto misure rigorose per arginare la diffusione del COVID-19, alla fine di maggio sotto forti pressioni pubbliche e politiche, ha deciso di allentare le restrizioni. Ha ignorato gli esperti che davano i consigli al suo Consiglio di sicurezza nazionale, il quale ha insistito sull’adozione di un modello corretto per alleggerire il blocco, cosa che avrebbe potuto ridurre significativamente la diffusione della malattia.

In una lettera del 27 giugno a Netanyahu e al ministro della Salute Yuli Edelstein, lo staff ha scritto che il Paese “ha perso il controllo della pandemia” e ha avvertito che in assenza di misure immediate per fermare le infezioni, Israele avrebbe potuto ritrovarsi sotto un altro blocco.

Insieme al disprezzo per i consigli degli esperti sanitari, Netanyahu ha mostrato insensibilità per la difficile situazione economica dei molti israeliani duramente colpiti dalla pandemia, tra cui circa un milione di disoccupati e decine di migliaia di piccoli imprenditori. Il sostegno finanziario del governo a chi ne ha bisogno è stato troppo scarso e troppo lento.

Nonostante la crescente rabbia dell’opinione pubblica, alla fine di giugno Netanyahu ha chiesto alla Knesset di approvare rimborsi fiscali retroattivi per le spese della sua villa privata a Cesarea. Alla fine ha espresso rammarico per la tempistica, ma non per la richiesta in sé, che la Knesset ha esaudito.

Il suo successivo errore di giudizio, che potrebbe costargli l’incarico, è stato quello di essersela presa con coloro che manifestavano fuori dalla sua residenza ufficiale a Gerusalemme contro la corruzione del governo, fianco a fianco artisti, studenti, attivisti sociali e molti altri che ritengono che il governo li abbia abbandonati al loro destino.

Netanyahu ha dipinto i manifestanti come “anarchici” e “di sinistra”, intenzionati a rovesciare “un forte leader di destra”.

Contrariamente alle sue affermazioni, le decine di migliaia di manifestanti a Gerusalemme e altrove nel Paese non sono certo anarchici finanziati da organizzazioni di estrema sinistra. Tra i manifestanti che ho incontrato c’erano elettori del Likud, israeliani religiosi e ultraortodossi e persino sostenitori della famiglia Netanyahu.

Il 31 luglio, Channel 12 [canale televisivo israeliano privato, ndtr.] ha trasmesso un monologo dell’ architetto di interni Moshik Galamin, che in precedenza era stato protagonista nelle clip della campagna elettorale di Netanyahu. “Sono preoccupato per il mio futuro e per quello dei miei amici lavoratori autonomi, quelli di cui a voi lassù non frega niente”, ha affermato in prima serata la celebrità di Tel Aviv. “Questo non è sicuramente un problema di destra o di sinistra e io non sono assolutamente un anarchico. Ovviamente sai che non sono contro di te. Sono semplicemente Moshik Galamin, un lavoratore autonomo, un cittadino preoccupato che vive in questo Paese, che vuole che tu tenga conto anche di me.”

Israeli Voice Index di luglio rivela che la maggior parte degli israeliani non vuole elezioni in questo momento, né per l’impasse del bilancio tra Netanyahu e Gantz né per qualsiasi altra ragione.

Netanyahu sta già puntando il dito contro Gantz, che insiste sul fatto che Netanyahu onori il suo accordo di coalizione con Blu e Bianco e presenti un bilancio pubblico per i prossimi due anni piuttosto che per un anno su cui ora insiste, per ciò che rimane del 2020.

Il prossimo futuro non è di buon auspicio per Netanyahu, e non solo per il rifiuto del virus di soddisfare i suoi interessi personali. A novembre, potrebbe non solo perdere le elezioni, ma anche il suo benefattore della Casa Bianca e trovarsi a dover fare i conti con le maggioranze democratiche in entrambe le camere del Congresso degli Stati Uniti. A partire dal 21 gennaio, la sua agenda sarà piena di comparizioni in tribunale per difendersi dalle accuse di corruzione e inevitabilmente contro richieste secondo cui è inadatto a rimanere in carica.

Il virus che ha portato Netanyahu al comando ora sembra far presagire la sua fine politica.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Akiva Eldar è un analista politico israeliano.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele, che ha distrutto il Libano, si atteggia a suo salvatore

Tamara Nassar  

6 agosto 2020 – Electronic Intifada

Anche nel pieno della catastrofe, l’ipocrisia di Israele non conosce limiti.

Martedì un’enorme esplosione ha scosso Beirut, uccidendo almeno 135 persone, ferendone più di 5.000 e costringendo centinaia di migliaia a sfollare.

È probabile che il bilancio delle vittime salga, con i soccorritori che perlustrano la devastata capitale libanese.

L’esplosione ha lasciato poco di intatto: i cittadini stanno pubblicando foto e video di case distrutte, auto danneggiate ed edifici crollati in tutta la città.

Si indaga ancora sulla causa dell’esplosione. I funzionari libanesi la imputano alle 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio depositato da sei anni nei magazzini del porto senza misure di sicurezza.

Ora Israele sta sfruttando la tragedia per cancellare i propri crimini contro il Libano, distogliere l’attenzione dall’occupazione militare e ripulire la propria immagine – una strategia di propaganda chiamata bluewashing.

Il bluewashing

Attraverso i suoi canali diplomatici, Israele ha annunciato che offrirà aiuti umanitari al Libano.

“Questo è il momento di trascendere il conflitto”, ha twittato l’account ufficiale dell’esercito israeliano.

Mercoledì sera il municipio di Tel Aviv si è persino illuminato e issava la bandiera libanese.

L’incredibile ipocrisia non è passata inosservata fra gli utenti di Twitter, che hanno pubblicato foto famose scattate durante l’invasione israeliana del 2006. Le immagini mostrano bambini israeliani che scrivono messaggi sulle granate di artiglieria prima che l’esercito le spari sul Libano.

Un utente del social media ha scritto: “I vostri cesti regalo avranno la stessa firma dei missili?”.

L’offerta di aiuti “umanitari” proviene dallo stesso paese che ha ucciso e ferito decine di migliaia di civili palestinesi e libanesi e minaccia regolarmente di distruggere le infrastrutture civili del Libano, come ha già ripetutamente fatto.

Durante l’invasione del 2006, Israele ha scaricato sul Paese più di un milione di munizioni a grappolo.

“Abbiamo fatto una cosa folle e mostruosa, abbiamo sganciato bombe a grappolo su intere città “, ha detto ad Haaretz, quotidiano di Tel Aviv, un ufficiale dell’esercito israeliano.

Nel corso di quella guerra, Israele sganciò qualcosa come 7.000 bombe e missili e inoltre bombardò l’intero Libano con artiglieria terrestre e navale.

Più di 1.100 persone furono uccise e circa 4.400 ferite, di cui la stragrande maggioranza civili.

Un’indagine di Human Rights Watch ha totalmente smentito le affermazioni di Israele secondo cui l’orribile bilancio fosse il risultato di “danni collaterali” perché i combattenti di Hezbollah si sarebbero nascosti tra i civili o li avrebbero usati come “scudi umani”.

Human Rights Watch ha concluso che Israele ha indiscriminatamente preso di mira le aree civili – una strategia nota col nome di “Dottrina Dahiya”, dal nome del sobborgo meridionale di Beirut che Israele ha deliberatamente raso al suolo.

E i leader israeliani spesso minacciano di farlo di nuovo.

Ad esempio, nel 2018 Yisrael Katz, importante membro del governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha minacciato di bombardare il Libano fino a ridurlo all’ “età della pietra” e “all’epoca degli uomini delle caverne”.

E solo pochi giorni fa, dopo aver affermato che i combattenti di Hezbollah avevano tentato di attaccare l’esercito israeliano oltre la frontiera, Netanyahu ha fatto allusione alla guerra del 2006.

Il 27 luglio il leader israeliano ha dichiarato che nel 2006 il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah “ha commesso un grosso errore nel mettere alla prova la determinazione di Israele a difendersi, e lo Stato libanese ha pagato un prezzo pesante per questo”.

“Gli suggerisco di non ripetere l’errore”, ha soggiunto Netanyahu – minaccia appena velata di ripetere la stessa distruzione di massa.

Netanyahu ha ribadito le sue minacce poche ore prima dell’esplosione a Beirut.

Diffondere voci

Secondo quanto viene riportato, per la massima resa in termini di propaganda Israele insisterebbe nel mantenere il marchio ebraico su tutte le spedizioni di aiuti che potrebbe inviare in Libano, sebbene il Libano quasi certamente li rifiuterà.

Nel frattempo, Israele si è affrettato a diffondere voci infondate per accusare Hezbollah dell’esplosione.

“Dopo la tragedia di Beirut, Israele ha ufficialmente offerto assistenza umanitaria al Libano”, ha twittato 4IL [Defending Israel Online, sito “che combatte le bugie e l’ipocrisia della campagna BDS”, ndtr.], un organo di propaganda del Ministero degli Affari Strategici di Israele.

“Questo nonostante le prove che l’esplosione sia scoppiata in un magazzino di munizioni di Hezbollah”, aggiunge il resoconto.

Nessuna prova del genere è mai emersa.

 

L’ONU piazza Israele

 

Israele vìola regolarmente lo spazio aereo e la sovranità libanese, facendo volare aerei senza pilota e jet da combattimento sul sud del paese e persino sulla capitale.

Invece di condannare tali violazioni e chiedere giustizia per le vittime dei crimini di guerra israeliani in Libano, Nickolay Mladenov, l’inviato di pace delle Nazioni Unite per il Medio Oriente, ha lodato Israele per la sua offerta d’aiuto.

Mladenov è sembrato usare cinicamente la tragedia come opportunità per portare avanti un’agenda politica di normalizzazione dei legami regionali con Israele.

L’account Twitter della propaganda in lingua araba di Israele ha continuato a lanciare spudorate affermazioni di “solidarietà” con il popolo libanese; tuttavia, non tutti erano compresi.

Moshe Feiglin, ex vice presidente del parlamento israeliano, ha celebrato l’esplosione a Beirut come un “grandioso spettacolo pirotecnico ” e una “celebrazione meravigliosa” in coincidenza con la data designata dagli ebrei per la festa dell’amore [festività minore israeliana simile al giorno di S. Valentino, ndtr.].

È lo stesso Feiglin che durante l’attacco israeliano a Gaza nel 2014 propose un piano per “concentrare” i palestinesi nei campi di confine e “sterminare” chiunque resistesse, distruggendo tutte le abitazioni e le infrastrutture civili.

Ma la maggior parte dei politici israeliani ha evidentemente ricevuto un promemoria che questo genere di dichiarazioni non è l’immagine che Israele vuole inviare.

Anche se Israele illumina il municipio di Tel Aviv in una cinica dimostrazione di sostegno, pochi libanesi dimenticheranno che quasi 14 anni fa Israele stava illuminando i cieli del Libano con missili e bombe.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Netanyahu incita alla violenza definendo i manifestanti un chiaro e tangibile pericolo

Lily Galili da Tel Aviv, Israel

30 luglio 2020 – Middle East Eye

Nel 1995 il primo ministro provocò l’odio che portò all’assassinio di Rabin, Questa volta sta facendo in modo che gli eventi producano direttamente l’odio contro i manifestanti

Nell’aria c’è violenza, un senso di pericolo. Di fatto c’è violenza anche sul campo. Settimana dopo settimana, in manifestazioni eccezionalmente persistenti e burrascose, c’è una costante violenza. Si teme un altro tipo di violenza, che uccide non solo la democrazia, ma può davvero uccidere anche le persone.

Lo stesso primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu pone le basi per questo tipo di violenza.

Giorno dopo giorno, provoca i manifestanti e li offende. Essi sono “anarchici”, tramano un “golpe” contro di lui e contro il governo di destra. Non si fa neppure scrupoli riguardo all’argomento antisemita degli “ebrei che diffondono malattie”.

Nella versione dello Stato ebraico di Netanayhu, i dimostranti pisciano nei cortili e quindi diffondono malattie infettive. Ciò è quanto ha detto riguardo alle proteste di massa davanti alla sua residenza a Gerusalemme.

In precedenza il suo figlio alter ego, Yair, ha twittato la foto di un manifestante che urinava davanti alla residenza del primo ministro. L’unico problema è che la fotografia era stata scattata negli Stati Uniti, un esempio di una lunga lista di notizie false intenzionalmente diffuse per gettare benzina sul fuoco.

Giorno dopo giorno Netanyahu solleva la questione di un pericolo chiaro e tangibile per lui e per la sua famiglia. Egli ne scrive continuamente nei suoi molto attivi interventi sulle reti sociali e agisce su questo mobilitando misure di protezione senza precedenti fornitigli dai servizi di sicurezza israeliani.

La sua residenza ufficiale a Gerusalemme e la villa privata della sua famiglia a Cesarea, entrambi luoghi in cui si svolgono manifestazioni di massa, sembrano più che altro fortezze.

Questa è in effetti una reazione molto inusuale per gli standard israeliani. In precedenza molti ex-primi ministri e importanti politici sono stati vittime di incitamenti all’aggressione e di esplicite minacce: per citarne solo qualcuno, i primi ministri Ariel Sharon, Menachem Begin e Yitzhak Rabin, che venne effettivamente ucciso da un giovane ebreo di estrema destra.

Tutti minimizzarono le minacce, forse per orgoglio e machismo fuori luogo.

Netanayhu, tuttavia, ingigantisce ed esagera a dismisura il “pericolo incombente”. Politici del Likud sono impegnati a sollevare in ogni occasione l’argomento del “pericolo per la vita del primo ministro”.

Non siamo spaventati dalle critiche, ma piuttosto della violenza contro il primo ministro e la sua famiglia,” ha detto durante un’intervista radiofonica Amir Ohana, ministro della Sicurezza Pubblica.

Ma quando gli è stato chiesto se la vita di Netanyahu sia realmente in pericolo, il generale di divisione in congedo Amiram Levin, ex-comandante in capo di un’unità militare d’élite ed ex- vice capo del Mossad, ha subito ribattuto: “Assolutamente no!”

È tutta una sua invenzione per delegittimare la protesta contro di lui,” ha detto a Middle East Eye. Però Levin ha dato brutte notizie: “Nelle prossime settimane uno o due manifestanti contro Netanyahu verranno uccisi da un proiettile, una granata o una qualunque altra arma. È solo una questione di tempo, un tempo piuttosto breve.”

L’avvertimento di Levin è arrivato quando un piccolo numero di dimostranti ha subito accoltellamenti, lanci di pietre e percosse da un gruppo violento di sostenitori di destra di Netanyahu, decisi a proteggere il loro uomo.

La sua fosca previsione è profondamente radicata nella storia delle proteste in Israele: la pallottola, o la granata, è sempre lanciata dalla destra contro la sinistra. Non ci sono precedenti di un proiettile sparato in direzione contraria.

È ancora più temibile ora, quando un super propagatore di incitamenti all’odio come Netanayhu sta giocando un ruolo da protagonista in questo pericoloso processo. È quello che fece 25 anni fa, partecipando attivamente all’istigazione che terminò con l’assassinio di Rabin.

Fortunatamente per lui, non c’è un Netanayhu che inciti contro Bibi [diminutivo dello stesso Netanayhu, ndtr.].

Un’atmosfera analoga

Amiram Goldblum, da moltissimi anni attivista per la pace ed ex-capo del movimento Peace Now [Pace Subito, movimento israeliano per la fine dell’occupazione e la pace con i palestinesi, ndtr.], ha ricordato che in precedenza importanti dirigenti e primi ministri hanno chiaramente evitato questo comportamento.

Al contrario di oggi, ai tempi della nostra protesta dell’‘83, l’incitamento venne dalla base del Likud, mai dallo stesso Begin,” dice, in riferimento ad una serie di manifestazioni di massa contro la prima guerra del Libano.

In modo più specifico, si riferisce alla manifestazione del 10 febbraio 1983 a Gerusalemme, dove uno dei dimostranti, Emil Grunzweig, venne ucciso da una granata lanciata contro il raduno per la pace da Yonah Avrushmi. L’assassino era l’esatto prototipo degli autoproclamati mercenari di destra, imbevuti di odio, che agiscono oggi contro le proteste.

Goldblum stava marciando accanto a Grunzweig quando esplose la granata. “L’atmosfera è molto simile a quella di decenni fa,” dice Goldblum a MEE.

Di fatto si tratta di un’altra fase della guerra civile iniziata con l’assassinio di Rabin e ora l’odio è molto più tangibile. Non ho paura, ma sicuramente quando partecipo alle manifestazioni cerco di fare attenzione. Li posso riconoscere da lontano e alcuni di loro mi possono riconoscere.”

Il parallelo finisce qui. Le proteste del 1983 erano concentrate su un problema: la guerra in Libano. Il corteo del 1995 era in appoggio alla democrazia e agli accordi di Oslo. Le dimostrazioni del 2020 sono invece uno scoppio di rabbia, frustrazione e sconforto avvertiti da almeno tre generazioni, che sono disperate per quello che è diventato il loro Paese e per quello che il loro Paese ha fatto a loro.

Proprio come un terremoto mette in luce tutto quello che è nascosto sotto le rovine, la pandemia da coronavirus ha scoperto tutta la decadenza sottostante. Un primo ministro imputato per corruzione c’era già, come l’erosione sistematica della democrazia.

Entrambi avevano già spinto gli israeliani in piazza con rabbia, ma solo in pochi.

C’è voluto un terribile virus perché molti israeliani si rendessero conto che il sistema non era solo corrotto, ma anche totalmente inefficiente, cinico e slegato dalla vita quotidiana dei cittadini di cui dovrebbe essere al servizio.

Di fatto questa è una delle pochissime occasioni in cui lo scoppio della rabbia che ha occupato le strade praticamente ogni giorno può essere fatto risalire a una serie di avvenimenti.

In primo luogo ci sono state le foto di Netanyahu che festeggiava la tradizionale cena del Seder della Pasqua ebraica con il suo figlio adulto, mentre a milioni di israeliani sottoposti al blocco totale veniva ordinato di passare in totale solitudine la serata [da passare] in famiglia. Soli, tristi e senza lavoro.

Poi c’è stata la riunione della commissione finanze del parlamento per discutere (ed approvare) la richiesta del primo ministro di retrodatare i rimborsi fiscali sulle spese nella sua villa privata a Cesarea. Durante la discussione il parlamentare del Likud [il partito di Netanyahu, ndtr.] Miki Zohar ha sostenuto che le tasse avrebbero lasciato Netanyahu “finanziariamente in ginocchio”. Netanyahu è multimilionario.

Questo dibattito tragicomico ha avuto luogo alla fine di giugno, all’inizio della seconda ondata della pandemia da coronavirus, con un milione di israeliani disoccupati e ormai migliaia alla fame. Ciò ha fatto colpo sugli israeliani perplessi, persino ardenti sostenitori di Netanyahu.

Poi c’è stata la farsa dei “finestrini aperti”. Il governo che doveva occuparsi del contagio ha elaborato una soluzione per il trasporto pubblico ed ha escogitato una soluzione veramente sensata: alla maggior parte delle linee degli autobus sarebbe stato consentito di riprendere a circolare con i finestrini aperti, per evitare la diffusione del virus.

Ha senso? Per niente. Da circa un decennio gli autobus in Israele non hanno finestrini che si aprono. Ma i parlamentari da oltre dieci anni non sono saliti su un autobus, quindi, come potevano saperlo?

Cos’altro non sanno della vita delle persone di cui si devono occupare? Di fatto, molto di più. Pochi giorni dopo il governo ha deciso di chiudere tutti i ristoranti a cui avevano consentito di riaprire solo qualche giorno prima. Ristoratori obbedienti e sul lastrico hanno buttato via tutti i prodotti che avevano comprato e annullato tutte le prenotazioni, solo per venire a sapere poche ore dopo che di fatto i ristoranti potevano rimanere aperti. Da allora la maggior parte di loro non ha più seguito le decisioni del parlamento.

Nel pieno della seconda ondata e dell’inizio delle dimostrazioni di massa, Netanyahu ha convocato un’altra conferenza stampa e ha orgogliosamente promesso un corona bonus universale per ogni cittadino, che secondo lui sarebbe arrivato sui conti bancari in pochi giorni. Ciò il 15 luglio. Non ci sono ancora soldi in banca.

Offesi, disillusi, arrabbiati

Potrebbe sembrare una volgare litania di piccoli problemi nel bel mezzo di una pandemia mondiale. Non lo è. È il vero scontro tra gli israeliani, i loro dirigenti e il regime. Hanno imparato che il sistema sanitario non funziona: c’è una carenza di letti e di personale sanitario negli ospedali.

Hanno appreso che il sistema di welfare non funziona: nel bel mezzo della crisi sanitaria ed economica, quando i più deboli avevano bisogno di aiuto e di sostegno, gli operatori sociali sottopagati hanno fatto un lungo sciopero. Ci sono volute settimane prima che il governo prestasse attenzione e raggiungesse un accordo con loro.

Soprattutto, gli israeliani vedono i loro politici autoreferenziali, slegati dalla vita quotidiana dei loro elettori, come se vivessero su un altro pianeta.

È stato allora che sono scesi in piazza. Grandi folle con un’energia e una resilienza senza precedenti. Offesi, disillusi e arrabbiati, profondamente preoccupati per il loro futuro.

La forza e la debolezza di questa protesta è nella sua diversità. Alcuni protestano contro la corruzione di Netanyahu e vogliono che se ne vada. Dato che egli si è vantato di tutto quello che ha funzionato nei primi mesi della pandemia, è a lui che va data la colpa quando le cose vanno male. Altri sono scesi in piazza per salvare la democrazia israeliana; altri ancora sono terrorizzati per il loro futuro economico. Tutte queste persone hanno perso fiducia nella classe politica del Paese.

Molti non sono neppure sicuri che gli ultimi “incidenti per la sicurezza con Hezbollah” sul confine settentrionale non siano altro che un evento mediatico per distrarre l’attenzione. Ogni tanto compare tra la folla persino un manifestante contro l’annessione.

La buona notizia è la riapparizione della giovane generazione nelle manifestazioni di massa. Per anni israeliani di mezz’età o anche anziani si sono costantemente guardati intorno alla ricerca della giovane generazione che guidasse la protesta. Oggi le organizzazioni studentesche hanno annunciato che si uniranno alle manifestazioni.

Si sentono abbandonati. Finalmente sono lì, gli unici che possano determinare il cambiamento indispensabile.

Nel frattempo la minaccia di una quarta tornata elettorale minaccia gli israeliani. Netanyahu non sta governando il Paese. Nelle ultime settimane sta facendo una campagna elettorale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




E’ trapelato un elenco di obbiettivi israeliani: Tel Aviv teme il peggio nell’indagine della CPI sui crimini di guerra

Ramzy Baroud

29 luglio 2020 – Palestine Chronicle

Quando nel dicembre scorso la Procuratrice della Corte Penale Internazionale (CPI), Fatou Bensouda, ha confermato che la Corte dispone di ampie prove per condurre un’indagine sui crimini di guerra nella Palestina occupata, il governo israeliano ha reagito con la consueta retorica, accusando la comunità internazionale di pregiudizio e sostenendo il “diritto di Israele a difendersi.”

Al di là dei luoghi comuni e del classico discorso israeliano, il governo di Israele sapeva fin troppo bene che un’indagine della CPI sui crimini di guerra in Palestina potrebbe costare molto caro. Un’indagine, di per sé, rappresenta in certo modo un atto d’ accusa. Se individui israeliani venissero imputati di crimini di guerra, questa sarebbe un’altra storia, in quanto si porrebbe un obbligo giuridico per gli Stati membri della CPI di arrestare i criminali e consegnarli alla Corte.

Israele si è mantenuto pubblicamente imperturbabile, anche dopo che lo scorso aprile Bensouda ha dettagliato la sua decisione di dicembre in un rapporto legale di 60 pagine, intitolato: “Situazione nello Stato di Palestina: risposta della Procura alle osservazioni degli ‘Amici Curiae’, dei rappresentanti legali delle vittime e degli Stati.”

Nel rapporto la CPI affronta molte delle questioni, dubbi e relazioni presentate o emerse nei quattro mesi seguiti alla sua precedente decisione. Paesi quali la Germania e l’Austria, tra gli altri, hanno utilizzato la propria posizione di ‘Amici Curiae’ – ‘amici della Corte’ – per mettere in discussione la giurisdizione della CPI e lo status della Palestina come Paese.

Bensouda ha sostenuto che “la procuratrice è convinta che vi sia una ragionevole base per avviare un’indagine sulla situazione in Palestina in base all’articolo 53 (1) dello Statuto di Roma e che l’ambito della giurisdizione territoriale della Corte comprenda la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, e Gaza (“Territori Palestinesi Occupati”).”

Tuttavia Bensouda non ha previsto scadenze definitive per l’indagine; ha invece richiesto che la Camera Preliminare della CPI “confermi l’ambito della giurisdizione territoriale della Corte in Palestina”, un passaggio ulteriore di cui non c’era bisogno, dato che lo Stato di Palestina, firmatario dello Statuto di Roma, è quello che concretamente ha presentato il caso direttamente all’ufficio della procuratrice.

Il rapporto di aprile in particolare è stato una sveglia per Tel Aviv. Tra la decisione iniziale di dicembre e la pubblicazione del suddetto rapporto, Israele ha esercitato pressioni su vari fronti, garantendosi l’aiuto di membri della CPI e arruolando il suo principale benefattore, Washington – che non è membro della CPI – perché intimidisse la Corte per farle revocare la sua decisione.

Il 15 maggio il Segretario di Stato USA, Mike Pompeo, ha diffidato la CPI dal proseguire l’indagine, prendendo di mira in particolare Bensouda per la sua decisione di ritenere responsabili i criminali di guerra in Palestina.

L’11 giugno gli USA hanno colpito con sanzioni senza precedenti la CPI e il presidente Donald Trump ha emesso un “ordine esecutivo” che autorizza il congelamento dei beni e un divieto di viaggio nei confronti di funzionari della CPI e delle loro famiglie. Inoltre l’ordine consente di punire altri individui o enti che assistano la CPI nella sua indagine.

La decisione di Washington di procedere con misure punitive proprio contro la Corte, che è stata creata con l’unico scopo di rendere responsabili i criminali di guerra, è sia oltraggiosa che odiosa. Inoltre mette in luce l’ipocrisia dell’America – il Paese che sostiene di difendere i diritti umani sta cercando di impedire l’attribuzione della responsabilità legale a coloro che hanno violato i diritti umani.

Dopo aver fallito nel bloccare le procedure legali della CPI relative all’indagine sui crimini di guerra, Israele ha iniziato a prepararsi al peggio. Il 15 luglio il quotidiano israeliano Haaretz ha riferito di una ‘lista segreta’ stilata dal governo israeliano. Essa include “da 200 a 300 importanti personalità pubbliche”, che spaziano da politici a funzionari dell’esercito e dei servizi segreti passibili di arresto all’estero se la CPI avviasse ufficialmente l’indagine sui crimini di guerra.

I nomi iniziano dal vertice della piramide politica israeliana, tra cui il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ed il suo attuale partner di coalizione, Benny Gantz.

Il numero stesso dei dirigenti israeliani presenti sulla lista è indicativo dell’obbiettivo dell’indagine della CPI e, in qualche modo, è un’autoaccusa, in quanto include ex Ministri israeliani della Difesa – Moshe Ya’alon, Avigdor Lieberman e Naftali Bennett; capi ed ex capi di stato maggiore dell’esercito – Aviv Kochavi, Benny Gantz e Gadi Eisenkot, e del servizio di sicurezza interno, lo Shin Bet – Nadav Argaman e Yoram Cohen.

Autorevoli organizzazioni internazionali dei diritti umani hanno già ripetutamente accusato tutti questi individui di gravi violazioni dei diritti umani nel corso delle letali guerre di Israele nella Striscia di Gaza sotto assedio, a partire dalla cosiddetta ‘Operazione Piombo Fuso’ del 2008-2009.

Ma l’elenco è molto più lungo e riguarda “persone in posizioni molto inferiori, compresi ufficiali dell’esercito di grado inferiore e forse anche dirigenti coinvolti nel rilascio di vari tipi di permessi per colonie e loro avamposti.”

Israele così si rende pienamente conto del fatto che la comunità internazionale sostiene ancora che la costruzione di colonie illegali nella Palestina occupata, la pulizia etnica dei palestinesi ed il trasferimento di cittadini israeliani in territori occupati sono tutte iniziative inammissibili in base al diritto internazionale e costituiscono crimini di guerra. Netanyahu deve essere deluso nel sapere che tutte le concessioni fatte da Washington a Israele sotto la presidenza Trump non sono riuscite a modificare in alcun modo la posizione della comunità internazionale e l’applicabilità del diritto internazionale.

Inoltre non sarebbe esagerato sostenere che il rinvio da parte di Tel Aviv del suo piano di annettere illegalmente circa un terzo della Cisgiordania sia direttamente collegato all’indagine della CPI, in quanto l’annessione avrebbe completamente annullato gli sforzi degli amici di Israele tesi ad impedire che l’indagine venga anche solo iniziata.

Mentre il mondo intero, soprattutto i palestinesi, gli arabi ed i loro alleati, attendono ancora con ansia la decisione finale della Camera Preliminare, Israele continuerà la sua campagna, palese e occulta, per intimidire la CPI ed ogni altra istituzione che intenda far luce sui suoi crimini di guerra e processare i criminali di guerra israeliani.

Anche Washington continuerà a cercare di rassicurare Netanyahu, Gantz e gli altri “200 o 300” dirigenti israeliani che non compariranno mai di fronte alla Corte.

Tuttavia il fatto che esista una “lista segreta” è un segnale che Tel Aviv comprende che ora le cose sono cambiate e che il diritto internazionale, che ha abbandonato i palestinesi per oltre 70 anni, potrebbe, per una volta, rendere almeno un minimo di giustizia.

Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo saggio è “Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane” (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), Istanbul Zaim University (IZU).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Perché i cittadini palestinesi si tengono fuori dalle proteste contro Netanyahu?

Yaser Abu Areesha

24 luglio 2020 – +972

Gli ebrei israeliani si stanno rendendo conto solo adesso dell’abbandono e del razzismo che hanno a lungo caratterizzato la nostra situazione.

Martedì scorso ho viaggiato fino a Gerusalemme con un amico per l’ultima di una serie di manifestazioni contro il primo ministro Benjamin Netanyahu, il governo e il sistema economico. Insieme a migliaia di dimostranti che rappresentavano un’ampia gamma di obiettivi, abbiamo camminato dalla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] alla residenza del primo ministro in via Balfour. Nonostante tutti i diversi gruppi presenti, tra i manifestanti non ho individuato nessun cittadino palestinese oltre a me, il giornalista della radiotelevisione pubblica Suleiman Maswadeh e il capo della Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani, ndtr.] Ayman Odeh.

In un mondo diverso ci saremmo aspettati di vedere una maggiore partecipazione di palestinesi in Israele a una protesta contro la fallimentare risposta del governo alla crisi del coronavirus. Dopotutto la nostra società ha subito un forte impatto dall’epidemia. Secondo i dati resi noti dal Servizio per l’Impiego israeliano, i cittadini palestinesi sono stati duramente colpiti dalle conseguenze economiche della pandemia, ed hanno costituito il 20% dell’approssimativamente 1 milione di cittadini che hanno fatto domanda di disoccupazione in marzo e aprile.

Quindi perché una lotta contro l’ingiustizia istituzionale, portata avanti da una coalizione di gruppi, non attira quelli che sono storicamente stati danneggiati da quelle stesse istituzioni? La risposta risiede nella lotta per la sopravvivenza della comunità palestinese in quanto è una minoranza nazionale marginalizzata e discriminata.

I palestinesi in Israele sono in una situazione diversa rispetto alle persone che partecipano alle attuali proteste. Dalla nostra prospettiva questa è una lotta per un cambiamento che non ci include e per cui quindi noi abbiamo scarso interesse. Di conseguenza, benché noi abbiamo un evidente interesse a spodestare Netanyahu, il nostro entusiasmo e la nostra speranza per quello che ne seguirebbe sono molto scarsi – e ci risulta indifferente chi guiderà il prossimo governo.

La storia ci ha insegnato che nessuno vuole realmente i cittadini palestinesi al tavolo di governo. La raccomandazione totalmente inutile della Lista Unita a favore di Benny Gantz, il capo del partito Blu e Bianco, perché formasse una coalizione di governo al posto di Netanyahu dimostra che il nostro status nella società israeliana non è ancora cambiato e che non facciamo parte del gioco politico.

C’è una qualche possibilità che le cose possano essere diverse? Odeh, della Lista Unita, ha diffuso immagini della protesta di martedì ed ha invitato i cittadini palestinesi a partecipare. Ma dubito che possa fare la differenza – il cambiamento avverrà solo quando saranno modificate le regole del gioco, e quando il resto dell’opinione pubblica degli ebrei israeliani riconoscerà che la società palestinese ha le proprie sofferenze e necessità. La mobilitazione deve essere basata sulla comprensione e sulla buona volontà.

Siamo una popolazione ferita. Nel corso di molti decenni, fin dalla fondazione dello Stato, le politiche governative hanno frammentato dall’interno la nostra collettività. Stiamo andando verso la catastrofe a causa dell’abbandono, del razzismo e delle discriminazioni che hanno caratterizzato la nostra situazione ben prima che la popolazione ebraica si rendesse conto che il sistema stava ingannando tutti e giocando con il futuro di tutti noi.

Tre palestinesi sono stati colpiti a morte nell’arco di 12 ore tra sabato e domenica: uno a Kufr Qasim, uno a Kufr Ibtin e uno a Tira. Anche altre due persone sono state uccise da colpi di arma da fuoco martedì. La violenza armata è diventata molto frequente.

L’uso di armi sta aumentando senza alcun controllo intorno a noi, senza che se ne veda la fine. Il sistema politico, che da molto tempo ci ha abbandonati, non sta facendo abbastanza per opporsi a questa devastante violenza e per migliorare le infrastrutture, l’economia e l’educazione nella comunità palestinese. Sentiamo spesso di spettacolari operazioni poliziesche per cercare armi e droga, ma queste notizie sono inevitabilmente seguite da un altro assassinio, da un’altra sparatoria e da ulteriore violenza, soprattutto contro le donne.

Abbiamo bisogno di un ascolto attento e di un impegno collettivo che affrontino i problemi sia a breve che a lungo termine. Abbiamo bisogno di un pensiero condiviso che prospetti un futuro per le prossime generazioni. Ma sappiamo già che nessuno nel sistema sta dando la priorità alla popolazione palestinese, non da ultimo a causa della pandemia. Chi ha il tempo per parlare di uguaglianza civile e di diritti umani?

Eppure la popolazione ebraica ha un evidente interesse nello sviluppo della comunità palestinese. I cittadini di Umm al-Fahem devono avere gli stessi diritti e le stesse opportunità dei cittadini di Herzliya [ricca città israeliana abitata quasi esclusivamente da ebrei, ndtr.]. La produttività e la prosperità dipendono dalla diversità, non dalla discriminazione.

Se i manifestanti di oggi stanno veramente pensando in prospettiva futura, allora uno sforzo congiunto è possibile. Ogni cambiamento deve andare oltre chi governa il Paese e mettere al centro le persone, costruendo un sistema che non escluda i cittadini palestinesi.

E chissà, forse le proteste di via Balfour potrebbero essere l’inizio di qualcosa di nuovo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Proteste contro Netanyahu: si sta preparando una rivoluzione?

Orly Noy

20 luglio 2020 – Middle East Eye

Le recenti manifestazioni in Israele mostrano il potenziale sostanziale della sinistra ebraica per imporre un cambiamento radicale

Le vaste proteste di piazza della scorsa settimana di fronte al complesso residenziale del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a Gerusalemme sono iniziate quasi come una festa: percussioni all’aperto, gente che ballava nelle strade attorno a piazza Paris – una specie di Hyde Park, dove oratori si sono spontaneamente alternati su un palco improvvisato per fare i loro discorsi.

Parecchie ore dopo, prima della conclusione definitiva, verso l’una, l’assembramento è degenerato in duri scontri tra i manifestanti e la polizia, con il blocco per un lungo periodo di tempo sia di una importante arteria che della metropolitana leggera di Gerusalemme. La polizia a cavallo ha caricato la folla, mentre altri usavano cannoni ad acqua per cercare di disperdere i dimostranti, decine dei quali sono stati arrestati.

La strenua resistenza dei manifestanti e la loro volontà di scontrarsi con la polizia hanno sorpreso molti. Alcuni commentatori hanno suggerito che in realtà ci siano state due diverse dimostrazioni: una protesta “perbene” contro la corruzione, seguita da disordini da parte di radicali, anarchici di sinistra che si sarebbero “impadroniti” della protesta originaria. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Sì, la prima parte della protesta è stata più calma e più “rispettabile”, ma solo un cieco e sordo potrebbe non aver individuato l’intensità della rabbia presente fin dall’inizio in quella piazza di fronte alla residenza di Netanyahu.

In quanto veterana manifestante di sinistra a Gerusalemme, non riesco a ricordare di aver mai visto in città un profilo tanto diverso di dimostranti: giovani e anziani, laici e religiosi, persino ultra-ortodossi. In un periodo in cui il timore del coronavirus fa sì che la gente ci pensi due volte prima di partecipare a riunioni di massa, questa ha attirato persone anziane con deambulatore e altri di gruppi molto radicali, tutti riuniti insieme.

I giovani che in seguito si sono scontrati con la polizia non erano separati dai manifestanti anziani che si sono riuniti lì all’inizio, ma erano piuttosto il loro servizio d’ordine.

Non c’erano palestinesi alla manifestazione, tranne un giovane che è salito sul palco ed ha parlato di apartheid e occupazione ed è stato molto applaudito dalla folla. Il giorno dopo, quando ho parlato con un’amica palestinese a questo proposito, mi ha detto: “Non è la nostra protesta.”

E naturalmente ha ragione: noi, l’opinione pubblica ebraica, siamo responsabili per aver introiettato le dimensioni dell’ingiustizia dell’attuale sistema; spetta a noi lavorare per sostituirlo con un sistema che offra uguale giustizia per tutti. La principale domanda oggi è se l’attuale movimento di protesta cerchi solo dei cambiamenti di facciata o se abbia un potenziale più radicale. Io penso di sì.

Corruzione di Stato

L’ultima manifestazione a Gerusalemme è avvenuta nove anni dopo le proteste sociali di massa del 2011. Quell’estate orde di giovani piazzarono tende lungo corso Rothschild nel centro di Tel Aviv per protestare contro la situazione, soprattutto l’alto costo della vita e i prezzi inaccessibili delle abitazioni. La delusione seguita a quell’ondata di proteste può facilmente suscitare dubbi sulle prospettive di quella attuale, ma ci sono fondamentali differenze.

Cosa più importante, a differenza delle proteste del 2011, che vennero a ragione viste come manifestazioni di giovani privilegiati di Tel Aviv che faticavano ad arrivare a fine mese nella città con gli affitti più elevati del Paese, dove era impossibile comprare anche uno yoghurt al cioccolato a un prezzo decente, l’attuale rivolta è significativamente più vasta in termini sia della sua base che del suo messaggio.

Non riguarda il prezzo del nostro yoghurt gelato preferito. Riguarda la corruzione nelle, e delle, regole generali. Non riguarda più neppure solo Netanyahu. Sì, la richiesta delle sue dimissioni è ancora centrale, ma ora Benny Gantz, il generale che era stato visto come l’alternativa più onesta a Netanayhu, si è unito al governo arrogante e corrotto di quest’ultimo.

Evidentemente ora più israeliani comprendono che il problema non è Netanyahu in sé, ma qualcosa di più profondo e marcio. Nell’emergere di questa consapevolezza c’è, credo, un grande potenziale di radicalizzazione.

Un’altra significativa differenza è che le proteste del 2011, come molte altre in Israele, evitarono accuratamente ogni etichettatura politica, cioè come qualcosa di sinistra, mentre i dirigenti dell’attuale movimento non sono caduti nella trappola della delegittimazione, riproposta dalla destra.

Niente scuse

Dopo i duri scontri con la polizia e i numerosi arresti di martedì, i mezzi di comunicazione e i politici di destra hanno cercato di definire la protesta come disordini di sinistra, anarchici. Come prova, notano tra le altre cose che alcuni degli arrestati quella notte erano rappresentati dalla nota avvocatessa per i diritti umani Leah Tsemel, che spesso difende i diritti dei palestinesi in Israele.

Gli organizzatori della protesta, evitando saggiamente di lasciarsi intrappolare in questo modo, non si sono scusati. Tra gli oratori invitati all’ultima manifestazione c’era Ofer Cassif, un ben noto membro ebraico della Lista Unita, a maggioranza araba, il quale ha parlato sul palco dei rapporti tra la corruzione politica e la corruzione morale dell’occupazione. Non solo il pubblico di Cassif non è rimasto scioccato, ma lo ha applaudito entusiasticamente.

Martedì a piazza Paris ho visto cartelli che chiedevano giustizia per Iyad al-Hallaq [palestinese affetto da autismo, ndtr.], ucciso da poco nella Gerusalemme est occupata, e la gente che li esponeva sembrava una componente assolutamente naturale di quest’ultima manifestazione.

C’è qualcos’altro che vale la pena di notare: con un’iniziativa astuta, invece di chiedere scusa, gli organizzatori dell’ultima dimostrazione sono riusciti a sfruttare la violenza poliziesca contro di loro per portare più persone alla protesta. I gruppi di giovani arrestati includevano più di qualche ben noto attivista di sinistra.

È da notare in modo particolare che sono stati fermati dalla polizia non durante una manifestazione contro l’occupazione a Bilin [villaggio della Cisgiordania occupata noto per le proteste settimanali, ndtr.], ma durante una protesta contro la corruzione nel cuore di Gerusalemme ovest. Il movimento di protesta contro la corruzione ha beneficiato della notevole esperienza nello scontro con le autorità. Ha portato il suo programma di sinistra su un palco davanti a una folla diversa in via Balfour, dove le loro prospettive di essere ascoltati sarebbero state altrimenti molto ridotte. Anche questo ha un notevole potenziale.

Massimo vantaggio

È vero che, rispetto alle manifestazioni dei palestinesi da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e i Territori occupati, ndtr.], la risposta della polizia contro i dimostranti di via Balfour è stata molto moderata. Il punto è che noi eravamo manifestanti ebrei in un Paese fondato sulla supremazia ebraica.

Alcuni poliziotti a cavallo si sono lanciati in mezzo alla folla, una tattica minacciosa che indubbiamente ha provocato timore, ma non ci hanno sparato né proiettili veri né ricoperti di gomma. Ci hanno sparato contro con cannoni ad acqua, ma era solo acqua, non il disgustoso liquido cosiddetto “puzzola” che usano contro i palestinesi. E la maggior parte degli arrestati è stata rilasciata dopo poche ore.

Senza dubbio una manifestazione palestinese sarebbe finita in modo ben diverso. Ma vedere questa dimostrazione solo e nient’altro che come un ennesimo esempio dei privilegi degli ebrei vorrebbe dire non vedere il potenziale di radicalità dell’attuale momento. Esso è sicuramente presente. La domanda in gioco riguardo a questa protesta è molto semplice: se il nostro obiettivo politico è cacciare Netanyahu per le accuse di corruzione oppure no. La risposta è sì. Non solo perché una società che si rivolta contro la corruzione è una società più sana, ma anche perché praticamente ogni cambiamento per cui si batte la sinistra ebraica inizia dalla rimozione di Netanyahu dal potere.

Il modo in cui Netanyahu ha rafforzato il suo dominio come primo ministro, l’identificazione che ha creato tra se stesso e lo Stato e i suoi continui tentativi di incitare diversi settori della popolazione uno contro l’altro sono cose molto pericolose, e rendono la sua cacciata un compito necessario per ottenere un qualunque cambiamento. Ora è arrivato un momento interessante, in cui il regime stesso sta trasformando in dissidenti politici quelli che sono considerati il “sale della terra”, gli ebrei privilegiati e sionisti convinti.

La questione più impellente ora è se noi, la sinistra ebraica, saremo abbastanza saggi da approfittare al massimo di questo potenziale, spingendo in avanti verso il cambiamento più sostanziale che stiamo cercando di determinare.

Le opinioni espresso in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Orly Noy è una giornalista e attivista politica che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La crisi dovuta al coronavirus accentua lo scontro tra Netanyahu e Gantz

Mazal Mualem

16 luglio 2020 – Al Monitor

La crisi dovuta al coronavirus e le gravi difficoltà economiche non hanno fatto che approfondire la distanza tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo alleato di coalizione, il primo ministro che lo dovrebbe sostituire e attuale ministro della Difesa Benny Gantz.

Il capo di Blu e Bianco, Benny Gantz, che è il primo ministro di riserva e il ministro della Difesa, sperava che la serie di interviste che ha rilasciato dalla casa in cui è in quarantena a Rosh HaAyin alle tre principali stazioni televisive del Paese il 15 luglio avrebbe mitigato, almeno parzialmente, le sue carenze nel campo delle pubbliche relazioni.

Le interviste sono state registrate e si pensava che sarebbero state messe in onda in prima serata, con l’obiettivo di suscitare attenzione. Gantz è arrivato preparato, con una pagina di messaggi al pubblico e due importanti notizie: una riguardo alla possibilità che Israele, alla luce dell’incremento giornaliero della diffusione del virus del COVID-19, rinnovi una chiusura totale del Paese; la seconda in merito all’insistenza di Gantz per un bilancio biennale, a differenza del primo ministro Benjamin Netanyahu, che vorrebbe un bilancio annuale. Quest’ultima differenza di opinione potrebbe persino portare, in uno scenario improbabile, alle elezioni.

Ma mentre Gantz si stava preparando a queste importanti interviste, Netanyahu e il ministro delle Finanze Israel Katz erano impegnati a dare gli ultimi ritocchi a un altro turbinoso piano economico da presentare durante una conferenza stampa. Quel giorno Netanyahu intendeva occupare l’attenzione dell’opinione pubblica, proprio mentre Gantz si stava preparando a fare altrettanto.

Negli ultimi giorni Netanyahu ha dovuto occuparsi di una crescente ondata di proteste e manifestazioni; aveva bisogno di una “soluzione” immediata per calmare le masse. La notte precedente, il 14 luglio, davanti alla casa di Netanyahu su via Balfour a Gerusalemme si era svolta una turbolenta manifestazione, terminata con decine di arresti e una sensazione di perdita di controllo. Alla stregua della decisione del presidente USA Donald Trump di distribuire soldi alla popolazione all’inizio della crisi di coronavirus, Netanyahu ha deciso un’immediata elargizione di fondi a tutti i cittadini del Paese.

Gantz è stato aggiornato da Netanyahu e da Katz riguardo alla loro intenzione di distribuire 6 miliardi di shekel (circa 1 miliardo e mezzo di euro) solo poche ore prima della conferenza stampa del 15 luglio.

Benché Gantz si fregi del titolo di primo ministro in alternanza, Netanyahu e la sua gente non lo hanno consultato né hanno preso in considerazione l’opposizione di principio di Gantz a distribuire denaro senza fare differenze tra chi ha realmente bisogno di aiuto e chi invece no. L’approccio di Gantz è quello consigliato dai più alti livelli del ministero delle Finanze, guidato dal governatore della Banca di Israele.

Netanyahu ha semplicemente annunciato la sua decisione al primo ministro che lo dovrebbe sostituire. È vero, il primo ministro ha suggerito che lo stesso Gantz partecipasse alla conferenza stampa, ma persino Gantz ha capito che ciò gli avrebbe provocato più danni che benefici, e si è rifiutato di essere presente.

Il risultato finale è stato che le interviste a Gantz sono state oscurate dalla grande discussione provocata dalla conferenza stampa in diretta, con centinaia di migliaia di cittadini incollati agli schermi televisivi. Ancora una volta Netanyahu ha preso il controllo dell’agenda pubblica e, dopo una serie di lunghe settimane di “ibernazione da COVID-19”, è tornato in prima linea. Come prevedibile, la proposta di Netanyahu e Katz è stata attaccata da ogni parte e deve ancora essere approvata dal governo.

Ma ha ottenuto il suo scopo: nelle strade si parla meno delle manifestazioni e, se Gantz si dovesse opporre all’iniziativa, Netanyahu apparirà ancora come la figura che cerca di assistere e aiutare la popolazione.

L’avvenimento qui descritto è un’ulteriore manifestazione della grave crisi di fiducia tra Netanyahu e Gantz, due persone che hanno promesso ai cittadini di risolvere la crisi del coronavirus. Ma non hanno avuto successo nel creare un meccanismo per lavorare insieme in armonia e collaborazione per risolvere una delle maggiori crisi vissute dallo Stato di Israele da sempre.

Quasi ogni cosa diventa argomento di discussioni e tensioni tra le due parti: il bilancio, la “guerra” di Netanyahu contro il sistema giudiziario, opposte visioni del mondo. A ciò si aggiungono “ego ipertrofici” e l’enorme numero di ministeri di ambo le parti che stanno lottando per ottenere “rilevanza” – a spese gli uni degli altri.

Gantz è certo che Netanyahu stia preparando il terreno per elezioni anticipate e non abbia intenzione di lasciare libero il posto di primo ministro tra un anno e mezzo, come stabilito nell’accordo di unità tra i partiti Likud e Blu e Bianco. Nel caso specifico non si tratta di paranoia, ma di una possibilità concreta. Netanyahu, da parte sua, detesta in ogni momento questo governo. Si è abituato a comandare con il pugno di ferro, praticamente da solo, senza una vera opposizione all’interno del governo. Ma ora, mentre gestisce la crisi e si scontra con degli ostacoli, deve prendere in considerazione le opinioni dei ministri di Blu e Bianco. Il 14 luglio ha cercato di richiudere le piscine e le palestre del Paese, ed è stato bloccato dai ministri; la questione è arrivata alla commissione COVID-19 della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], che ha annullato la sua decisione. Le piscine e le palestre non sono state chiuse, provocando la sensazione tra la popolazione che il modo in cui il Paese è governato non funzioni.

Netanyahu si sente come Gulliver nella terra di Lilliput. Nelle riunioni del governo ogni sorta di giovane ministro di Blu e Bianco gli fa la predica. Ne soffre e, secondo me, rimpiange di non aver convocato le elezioni quando era avanti nei sondaggi,” afferma ad Al-Monitor un ministro del Likud che vuole rimanere anonimo.

La sera del 14 luglio, sullo sfondo della pessima pubblicità riguardante la vastissima diffusione del coronavirus, un importante membro del Likud ha duramente criticato Gantz, e le sue parole sono state citate dai media. Il membro del Likud ha detto che il primo ministro è furioso con Gantz e il suo partito perché bloccano le iniziative necessarie a impedire la diffusione dell’infezione, e che Blu e Bianco lo fa per ragioni politiche. “Gantz e Blu e Bianco devono smetterla immediatamente con i giochetti politici riguardo al COVID-19; questo comportamento mette in pericolo le vite dei cittadini israeliani. Da quando il governo di unità ha stabilito che ogni decisione debba essere presa in accordo tra il Likud e Blu e Bianco, loro (Blu e Bianco) silurano ogni risoluzione non in linea con le loro valutazioni populiste,” ha affermato il referente, che ricopre un ruolo importante, gettando così benzina sul fuoco.

Gantz non ha nessun dubbio sul fatto che le parole del politico del Likud siano arrivate direttamente dall’ufficio di Netanyahu, ed ha reagito. Poco dopo un politico di Blu e Bianco ha accusato Netanyahu di cercare di dare la colpa a Gantz della sua fallimentare gestione della crisi del COVID-19, e che il primo ministro non consente a Gantz, in quanto ministro della Difesa, di condurre lui la lotta contro il COVID-19. “Questo non è tempo per la politica e scontri (interni), solo per battaglie per risanare l’economia, il sistema sanitario e la società… Ci sono quelli che affrontano questi problemi, e quelli che sfuggono alle proprie responsabilità a questo riguardo,” ha detto alla stampa, citato come fonte anonima, il politico di Blu e Bianco.

Fino a stamattina sono stati fatti tentativi da entrambe le parti di spegnere le fiamme del conflitto interno. Sono stati intervistati ministri di Blu e Bianco, compreso il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi, che si è limitato a critiche moderate contro la munificenza di Netanyahu nei confronti della Nazione. È quello che succede quando due parti opposte sono imprigionate in un governo da incubo sull’orlo di una gravissima crisi e non hanno nessuna via di fuga.

Ma i segnali indicano un altro imminente scontro politico, che si prevede scoppierà molto presto. La prossima settimana Netanyahu deve far approvare dal governo il suo programma di distribuzione del denaro.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)