Fine impunità israeliana

L’impunità israeliana sta per terminare

Maureen Clare Murphy

19 luglio 2020 – The Electronic Intifada

 

Il tempo dell’impunità di Israele si sta riducendo man mano che il Tribunale Penale Internazionale si avvicina all’apertura di un’indagine completa sui crimini di guerra in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Un’offensiva diplomatica israeliana e le sanzioni da parte degli Stati Uniti non hanno ancora piegato la corte.

La sentenza della camera preliminare in merito alla giurisdizione della corte sulla Palestina è attesa in tempi brevi (la Corte Penale Internazionale si è appena aggiornata per le vacanze estive e si riunirà nuovamente a metà agosto), e il governo israeliano non prevede che i giudici decideranno a suo favore.

Il quotidiano di Tel Aviv Haaretz ha riferito questa settimana che Israele sta compilando “una lista segreta di funzionari militari e dell’intelligence che potrebbero essere soggetti ad arresti all’estero” nel caso in cui  un’indagine della CPI dovesse proseguire .

Il giornale afferma che a quanto si dice, l’elenco “ora comprende tra 200 e 300 funzionari”.

Il documento, ha aggiunto Haaretz, rimane segreto perchè la CPI “probabilmente considererebbe un elenco di nomi come un’ammissione ufficiale israeliana del coinvolgimento di questi funzionari nei casi sotto inchiesta”.

Tra i probabili sospetti, ministri di alto livello e gerarchie militari che hanno supervisionato e portato avanti l’offensiva israeliana del 2014 contro la Striscia di Gaza. Tra i potenziali sospetti di alto rango citati da Haaretz ci sono Benjamin Netanyahu e l’ex capo dell’esercito Benny Gantz, che guidano congiuntamente il governo di coalizione israeliano.

La lista potrebbe comprendere anche funzionari di livello inferiore coinvolti nella costruzione di colonie in Cisgiordania.

Ma il numero di persone responsabili di crimini di guerra perseguibili penalmente aumenta ad ogni esecuzione in strada di un palestinese da parte della polizia e dei militari israeliani.

Disarmato e indifeso”

Decine di organizzazioni per i diritti umani hanno dichiarato questa settimana alle Nazioni Unite  che i responsabili dell’esecuzione extragiudiziale del 26enne Ahmad Erakat ad un checkpoint il mese scorso devono essere chiamati a risponderne.

Israele ha sostenuto che Erakat sia andato intenzionalmente a sbattere contro il checkpoint con la sua auto, causando lievi ferite a una soldatessa. Il video dell’incidente mostra che i soldati hanno sparato a Erakat quando è uscito dal suo veicolo con le mani in alto.

Le organizzazioni per i diritti umani affermano nel loro appello che, quando è stato ucciso, Erakat  stava sbrigando delle commissioni poco prima del matrimonio di sua sorella. La sposa “stava già indossando il suo abito per il matrimonio quando ha saputo che suo fratello era stato ucciso”.

Erakat avrebbe dovuto sposarsi a settembre dopo che il suo matrimonio, previsto a maggio, era stato posticipato a causa della pandemia.

Le associazioni per i diritti umani affermano che Erekat, “palesemente disarmato e indifeso”, è stato lasciato morire dissanguato per circa 90 minuti, durante  i quali le forze di occupazione gli hanno negato le cure mediche.

I soldati israeliani presenti non hanno fornito ad Erakat nessun intervento di pronto soccorso. Dieci minuti dopo la sparatoria, un’ambulanza israeliana è arrivata al posto di blocco. Quei medici hanno curato solo la soldatessa leggermente ferita senza fornire aiuto a Erakat.

“Avendo curato un soldato israeliano ferito ma lasciando (Erakat) senza assistenza medica nonostante fosse gravemente ferito, la condotta di Israele equivale a una illegale discriminazione razziale”, aggiungono le organizzazioni a favore dei diritti umani.

I soldati israeliani hanno impedito ai paramedici palestinesi di avvicinarsi ad Erakat.

Le organizzazioni per i diritti umani affermano che negare le cure ai palestinesi feriti dalle forze israeliane “deve essere inteso come parte integrante di una diffusa e sistematica politica israeliana nei confronti dei palestinesi consistente nello sparare per uccidere”.

L’intento di questa politica, aggiungono le associazioni, “è quello di mantenere il regime israeliano di sistematica oppressione razziale e dominio sul popolo palestinese”.

Solo nel corso del 2019 l’esercito israeliano non ha prestato le cure ai palestinesi feriti in almeno 114 occasioni .

“La negazione di un’assistenza medica il prima possibile” proseguono nell’appello urgente le organizzazioni, equivale a “violazioni dei diritti alla salute e alla vita.”

“Clima di paura”

Israele sta trattenendo il corpo di Erakat come parte di una politica che consiste nel negare i resti dei palestinesi uccisi in quelli che sostiene siano stati attacchi a soldati e civili.

Dall’inizio dell’attuazione di tale politica, nel 2015, Israele ha ritardato la restituzione dei corpi di oltre 250 palestinesi uccisi dai propri soldati.

Continua a trattenere 63 di questi corpi in modo che possano essere usati come oggetto di contrattazione nei futuri scambi di prigionieri.

Questa pratica, approvata dalla corte suprema israeliana, è una forma di punizione collettiva che, affermano le organizzazioni per i diritti umani, “equivale a tortura e maltrattamenti nei confronti delle famiglie delle vittime”.

L’appello precisa che le pratiche israeliane di punizione collettiva “intendono creare un clima di paura, repressione e intimidazione” e “indebolire la capacità del popolo palestinese di opporsi efficacemente al regime”.

L’uccisione intenzionale di Ahmad Erakat è una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra, affermano le organizzazioni per i diritti umani. Gli Stati firmatari, incluso Israele, sono obbligati a portare le persone sospettate di aver commesso tali violazioni dinanzi ai loro tribunali.

Tuttavia, aggiungono le associazioni, le procedure investigative interne da parte dell’esercito israeliano “hanno più volte dimostrato di non essere minimamente all’altezza degli standard internazionali per garantire indagini efficaci, oneste e credibili”.

Data la mancanza di accesso alla giustizia nei tribunali israeliani, le organizzazioni affermano che “le reali responsabilità riguardo le vittime palestinesi possono essere accertate solo attraverso la giustizia penale internazionale e i tribunali con giurisdizione internazionale.”

“La (Corte Penale Internazionale) a questo proposito rappresenta per i palestinesi un tribunale di ultima istanza”, aggiungono. Le organizzazioni esortano gli esperti delle Nazioni Unite per i diritti umani “a chiedere alla CPI di deliberare, senza indugio, a favore del riconoscimento della giurisdizione territoriale della corte” in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Fino a quando non sarà garantita la giustizia, ci saranno nuove famiglie palestinesi in lutto per un figlio o una figlia, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno.

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il coronavirus accentua la crisi politica in Israele

La crisi dovuta al coronavirus accentua lo scontro tra Netanyahu e Gantz

 

La crisi dovuta al coronavirus e le gravi difficoltà economiche non hanno fatto che approfondire la distanza tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo alleato di coalizione, il primo ministro che lo dovrebbe sostituire e attuale ministro della Difesa Benny Gantz.

Mazal Mualem

16 luglio 2020 – Al Monitor

 

Il capo di Blu e Bianco, Benny Gantz, che è il primo ministro di riserva e il ministro della Difesa, sperava che la serie di interviste che ha rilasciato dalla casa in cui è in quarantena a Rosh HaAyin alle tre principali stazioni televisive del Paese il 15 luglio avrebbe mitigato, almeno parzialmente, le sue carenze nel campo delle pubbliche relazioni.

Le interviste sono state registrate e si pensava che sarebbero state messe in onda in prima serata, con l’obiettivo di suscitare attenzione. Gantz è arrivato preparato, con una pagina di messaggi al pubblico e due importanti notizie: una riguardo alla possibilità che Israele, alla luce dell’incremento giornaliero della diffusione del virus del COVID-19, rinnovi una chiusura totale del Paese; la seconda in merito all’insistenza di Gantz per un bilancio biennale, a differenza del primo ministro Benjamin Netanyahu, che vorrebbe un bilancio annuale. Quest’ultima differenza di opinione potrebbe persino portare, in uno scenario improbabile, alle elezioni.

Ma mentre Gantz si stava preparando a queste importanti interviste, Netanyahu e il ministro delle Finanze Israel Katz erano impegnati a dare gli ultimi ritocchi a un altro turbinoso piano economico da presentare durante una conferenza stampa. Quel giorno Netanyahu intendeva occupare l’attenzione dell’opinione pubblica, proprio mentre Gantz si stava preparando a fare altrettanto.

Negli ultimi giorni Netanyahu ha dovuto occuparsi di una crescente ondata di proteste e manifestazioni; aveva bisogno di una “soluzione” immediata per calmare le masse. La notte precedente, il 14 luglio, davanti alla casa di Netanyahu su via Balfour a Gerusalemme si era svolta una turbolenta manifestazione, terminata con decine di arresti e una sensazione di perdita di controllo. Alla stregua della decisione del presidente USA Donald Trump di distribuire soldi alla popolazione all’inizio della crisi di coronavirus, Netanyahu ha deciso un’immediata elargizione di fondi a tutti i cittadini del Paese.

Gantz è stato aggiornato da Netanyahu e da Katz riguardo alla loro intenzione di distribuire 6 miliardi di shekel (circa 1 miliardo e mezzo di euro) solo poche ore prima della conferenza stampa del 15 luglio.

Benché Gantz si fregi del titolo di primo ministro in alternanza, Netanyahu e la sua gente non lo hanno consultato né hanno preso in considerazione l’opposizione di principio di Gantz a distribuire denaro senza fare differenze tra chi ha realmente bisogno di aiuto e chi invece no. L’approccio di Gantz è quello consigliato dai più alti livelli del ministero delle Finanze, guidato dal governatore della Banca di Israele.

Netanyahu ha semplicemente annunciato la sua decisione al primo ministro che lo dovrebbe sostituire. È vero, il primo ministro ha suggerito che lo stesso Gantz partecipasse alla conferenza stampa, ma persino Gantz ha capito che ciò gli avrebbe provocato più danni che benefici, e si è rifiutato di essere presente.

Il risultato finale è stato che le interviste a Gantz sono state oscurate dalla grande discussione provocata dalla conferenza stampa in diretta, con centinaia di migliaia di cittadini incollati agli schermi televisivi. Ancora una volta Netanyahu ha preso il controllo dell’agenda pubblica e, dopo una serie di lunghe settimane di “ibernazione da COVID-19”, è tornato in prima linea. Come prevedibile, la proposta di Netanyahu e Katz è stata attaccata da ogni parte e deve ancora essere approvata dal governo.

Ma ha ottenuto il suo scopo: nelle strade si parla meno delle manifestazioni e, se Gantz si dovesse opporre all’iniziativa, Netanyahu apparirà ancora come la figura che cerca di assistere e aiutare la popolazione.

L’avvenimento qui descritto è un’ulteriore manifestazione della grave crisi di fiducia tra Netanyahu e Gantz, due persone che hanno promesso ai cittadini di risolvere la crisi del coronavirus. Ma non hanno avuto successo nel creare un meccanismo per lavorare insieme in armonia e collaborazione per risolvere una delle maggiori crisi vissute dallo Stato di Israele da sempre.

Quasi ogni cosa diventa argomento di discussioni e tensioni tra le due parti: il bilancio, la “guerra” di Netanyahu contro il sistema giudiziario, opposte visioni del mondo. A ciò si aggiungono “ego ipertrofici” e l’enorme numero di ministeri di ambo le parti che stanno lottando per ottenere “rilevanza” – a spese gli uni degli altri.

Gantz è certo che Netanyahu stia preparando il terreno per elezioni anticipate e non abbia intenzione di lasciare libero il posto di primo ministro tra un anno e mezzo, come stabilito nell’accordo di unità tra i partiti Likud e Blu e Bianco. Nel caso specifico non si tratta di paranoia, ma di una possibilità concreta. Netanyahu, da parte sua, detesta in ogni momento questo governo. Si è abituato a comandare con il pugno di ferro, praticamente da solo, senza una vera opposizione all’interno del governo. Ma ora, mentre gestisce la crisi e si scontra con degli ostacoli, deve prendere in considerazione le opinioni dei ministri di Blu e Bianco. Il 14 luglio ha cercato di richiudere le piscine e le palestre del Paese, ed è stato bloccato dai ministri; la questione è arrivata alla commissione COVID-19 della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], che ha annullato la sua decisione. Le piscine e le palestre non sono state chiuse, provocando la sensazione tra la popolazione che il modo in cui il Pase è governato non funzioni.

“Netanyahu si sente come Gulliver nella terra di Lilliput. Nelle riunioni del governo ogni sorta di giovane ministro di Blu e Bianco gli fa la predica. Ne soffre e, secondo me, rimpiange di non aver convocato le elezioni quando era avanti nei sondaggi,” afferma ad Al-Monitor un ministro del Likud che vuole rimanere anonimo.

La sera del 14 luglio, sullo sfondo della pessima pubblicità riguardante la vastissima diffusione del coronavirus, un importante membro del Likud ha duramente criticato Gantz, e le sue parole sono state citate dai media. Il membro del Likud ha detto che il primo ministro è furioso con Gantz e il suo partito perché bloccano le iniziative necessarie a impedire la diffusione dell’infezione, e che Blu e Bianco lo fa per ragioni politiche. “Gantz e Blu e Bianco devono smetterla immediatamente con i giochetti politici riguardo al COVID-19; questo comportamento mette in pericolo le vite dei cittadini israeliani. Da quando il governo di unità ha stabilito che ogni decisione debba essere presa in accordo tra il Likud e Blu e Bianco, loro (Blu e Bianco) silurano ogni risoluzione non in linea con le loro valutazioni populiste,” ha affermato il referente, che ricopre un ruolo importante, gettando così benzina sul fuoco.

Gantz non ha nessun dubbio sul fatto che le parole del politico del Likud siano arrivate direttamente dall’ufficio di Netanyahu, ed ha reagito. Poco dopo un politico di Blu e Bianco ha accusato Netanyahu di cercare di dare la colpa a Gantz della sua fallimentare gestione della crisi del COVID-19, e che il primo ministro non consente a Gantz, in quanto ministro della Difesa, di condurre lui la lotta contro il COVID-19. “Questo non è tempo per la politica e scontri (interni), solo per battaglie per risanare l’economia, il sistema sanitario e la società… Ci sono quelli che affrontano questi problemi, e quelli che sfuggono alle proprie responsabilità a questo riguardo,” ha detto alla stampa, citato come fonte anonima, il politico di Blu e Bianco.

Fino a stamattina sono stati fatti tentativi da entrambe le parti di spegnere le fiamme del conflitto interno. Sono stati intervistati ministri di Blu e Bianco, compreso il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi, che si è limitato a critiche moderate contro la munificenza di Netanyahu nei confronti della Nazione. È quello che succede quando due parti opposte sono imprigionate in un governo da incubo sull’orlo di una gravissima crisi e non hanno nessuna via di fuga.

Ma i segnali indicano un altro imminente scontro politico, che si prevede scoppierà molto presto. La prossima settimana Netanyahu deve far approvare dal governo il suo programma di distribuzione del denaro.

 

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 

 




Alexandra Ocasio-Cortez, Tlaib, Jayapal, McCollum minacciano di condizionare l’aiuto USA a Israele a causa dell’annessione

Michael Arria

29 giugno 2020 – Mondoweiss

Una lettera indirizzata al Segretario di Stato Mike Pompeo cita un Relatore Speciale delle Nazioni Unite che ha detto che l’annessione “cristallizzerebbe un’apartheid del XXI secolo, lasciandosi alle spalle la scomparsa del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi”.

Jewish Insider [sito informativo con un’ottica ebraica, ndtr.] riferisce che quattro deputate del Congresso stanno attualmente facendo circolare una lettera tra i membri della Camera che prenderebbe di mira l’aiuto militare a Israele se il Paese procedesse con il previsto piano di annettere parti della Cisgiordania.

La lettera, indirizzata al Segretario di Stato Mike Pompeo, è promossa dalle deputate Alexandra Ocasio-Cortez (Deputata –New York), Pramila Jayapal (Dep.-Washington), Betty McCollum (Dep. -Minnesota) e Rashida Tlaib (Dep.-Michigan). In essa si specifica che il piano israeliano viola il diritto internazionale e si cita il Relatore Speciale dell’ONU sul conflitto, che ha affermato che l’annessione “cristallizzerebbe un’apartheid del XXI secolo, lasciandosi alle spalle la scomparsa del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi.”

Alla fine della lettera le deputate dichiarano che si impegneranno affinché i finanziamenti militari ad Israele vengano condizionati se il Paese procedesse con i suoi piani: “Se il governo israeliano procedesse con la prevista annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr.] con l’avallo di questa amministrazione, noi lavoreremo per fare in modo che [l’annessione] non venga riconosciuta e per imporre condizioni sui 3,8 miliardi di dollari del finanziamento militare USA ad Israele, includendo clausole relative ai diritti umani e il blocco dei fondi per forniture all’estero di armamenti israeliani pari o superiori all’ammontare della spesa annua israeliana per finanziare le colonie, come anche le politiche e le prassi che le appoggiano e le consentono.”

Benché la lettera non sia stata ancora pubblicata ufficialmente, l’AIPAC (la principale organizzazione lobbistica filoisraeliana americana, ndtr.) ha già inviato un tweet di condanna.

Il gruppo di esperti sul Medio Oriente dell’amministrazione Trump si è riunito la settimana scorsa e ha detto di essere in procinto di fare un annuncio riguardo all’annessione, ma non ha ancora preso una decisione ufficiale. Ieri Barak Ravid di Axios [sito web americano di informazioni, ndtr.] ha riferito che il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si sta rivolgendo ai gruppi evangelici negli USA perché lo appoggino nel fare pressione sull’amministrazione Trump in merito alla questione. “Dirigenti israeliani dicono che Netanyahu pensa che a quattro mesi dalle elezioni USA il presidente Trump sia politicamente debole e che potrebbe perdere contro il probabile candidato democratico alla presidenza Joe Biden”, ha scritto Ravid. “Pensa che, per avere una possibilità di vincere, Trump abbia bisogno che la base degli evangelici vada a votare.

Michael Arria è il corrispondente di Mondoweiss per gli USA. I suoi lavori sono comparsi su ‘In These Times’, ‘The Appeal’, ‘Truthout’. É autore di ‘Medium Blue: The politics of MSNBC’

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

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Senza il via libera USA, Netanyahu rinvia l’annessione ma non rinuncia

Michele Giorgio

1 luglio 2020, Nena News  da Il Manifesto

Oggi avrebbe dovuto essere il giorno previsto dal governo israeliano per l’avvio della cosiddetta estensione di sovranità al 30% della Cisgiordania. Ma in assenza dell’ok definitivo da Washington, scrive la stampa locale, il premier congela il piano. Previste per oggi manifestazioni di protesta nei Territori Occupati, mentre cresce la contrarietà al piano dei democratici statunitensi

Non sarà il primo luglio la data di inizio dell’annessione unilaterale a Israele del 30% della Cisgiordania, ma nei Territori occupati si svolgeranno ugualmente le previste manifestazioni di protesta del «Giorno della rabbia» palestinese.

«Stiamo lavorando (all’annessione) e continueremo a lavorarci nei prossimi giorni», ha detto ieri il premier israeliano Netanyahu dopo aver incontrato l’ambasciatore Usa Friedman e l’inviato speciale americano Berkowitz. Oggi perciò non accadrà nulla. E sarà così per il resto della settimana, scriveva ieri il Jerusalem Post citando fonti americane.

In più di una occasione Netanyahu aveva indicato il primo giorno di luglio come quello dell’avvio dell’iter legislativo per «l’estensione della sovranità israeliana» su larghe porzioni di Cisgiordania, territorio palestinese che Israele ha occupato nel 1967 al termine della Guerra dei sei giorni. Ora frena ma non rinuncia. Non lo preoccupano più di tanto le critiche dell’Onu e gli ammonimenti dell’Ue. E neppure le esitazioni del suo principale partner di governo Gantz.

Gli occorre però il via libera definitivo degli Usa all’annessione che con ogni probabilità sarà limitata nella sua prima fase – quindi senza la Valle del Giordano – e completata nei prossimi mesi, prima delle presidenziali Usa di novembre quando il suo alleato Trump rischierà di lasciare la Casa Bianca al suo rivale democratico Biden. Il premier israeliano vede crescere nel Partito democratico il dissenso verso le politiche di Israele.

Ieri anche il senatore democratico Sanders, il rappresentante più noto e autorevole della corrente socialista nel suo partito, ha aggiunto il suo nome a una lettera, «Apartheid», contro il piano di Israele di annettere parti della Cisgiordania. Fatta circolare dalla deputata Alexandria Ocasio-Cortez, la lettera chiede di bloccare gli aiuti militari statunitensi a Israele se Netanyahu attuerà il piano di annessione che, si legge, creerebbe una realtà di apartheid in Cisgiordania.

Il testo di Ocasio-Cortez è diverso per contenuto e tono da una lettera anti-annessione più moderata diffusa all’inizio di giugno e firmata da oltre 190 deputati democratici della Camera dei rappresentanti, tra i quali persino storici alleati di Israele come Ted Deutch e Steny Hoyer. L’iniziativa non pare destinata a raccogliere un alto numero di firme. Tuttavia, assieme alla lettera diffusa all’inizio del mese scorso, conferma che tra i democratici il dibattito su Israele e palestinesi è più vivo che mai e si sta intensificando. E Joe Biden, pur rappresentando l’establishment tradizionale del partito, non potrà non tenerne conto.




Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ammonisce Israele a rinunciare ai piani di annessione

23 giu 2020 – Al Jazeera

L’alto rappresentante dell’ONU afferma che una simile mossa sarebbe “devastante” per le speranze di nuovi colloqui e sull’eventuale soluzione dei due Stati.

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha invitato Israele ad abbandonare il piano di annessione di parti della Cisgiordania occupata, affermando che tale mossa sarebbe una “grave violazione del diritto internazionale”.

L’alto rappresentante dell’ONU ha formulato queste affermazioni martedì nel corso di una relazione al Consiglio di sicurezza, un giorno prima che la commissione, composta da 15 membri, si riunisse per l’incontro semestrale sul conflitto israelo-palestinese.

Il governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che il processo di annessione potrebbe avere inizio dal 1° luglio.

Nel documento, Guterres ha affermato che un’annessione israeliana sarebbe “devastante” per le speranze di nuovi negoziati e sull’eventuale soluzione dei due stati.

“Ciò sarebbe disastroso per palestinesi, israeliani e per la regione”, ha detto, aggiungendo che il piano è una minaccia contro “i tentativi di far progredire la pace nella regione”.

Le affermazioni di Guterres sono giunte il giorno dopo la protesta di migliaia di palestinesi a Gerico contro il piano israeliano, con una manifestazione alla quale hanno partecipato anche decine di diplomatici stranieri.

La scorsa settimana la leadership palestinese ha proposto un piano che mira a creare uno “Stato palestinese sovrano, indipendente e smilitarizzato”, con Gerusalemme est come capitale. Lascia inoltre la porta aperta a modifiche dei confini tra lo Stato proposto e Israele, così come a scambi di territori di uguale “dimensione, volume e valore – alla pari”.

La proposta palestinese è arrivata in risposta al controverso piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump che ha dato il via libera a Israele sull’annessione di ampie zone della Cisgiordania occupata, comprese le colonie considerate illegali ai sensi del diritto internazionale, e della Valle del Giordano.

Presentato alla fine di gennaio, il piano di Trump propone l’istituzione, sul restante mosaico di parti frammentate dei territori palestinesi, di uno Stato palestinese smilitarizzato, con l’esclusione di Gerusalemme est occupata. Il piano è stato respinto nella sua interezza dai palestinesi.

La riunione del Consiglio di sicurezza, che si terrà in videoconferenza, sarà l’ultima grande riunione internazionale sulla questione prima della scadenza del 1 luglio.

“Qualsiasi decisione sulla sovranità sarà presa solo dal governo israeliano”, ha detto martedì nel corso di una dichiarazione l’inviato israeliano alle Nazioni Unite Danny Danon.

I diplomatici si aspettano che mercoledì la stragrande maggioranza dei membri delle Nazioni Unite si opponga nuovamente al piano israeliano.

“Dobbiamo inviare un messaggio chiaro”, ha detto un inviato all’agenzia di stampa AFP [l’agenzia di stampa France Presse, ndtr.], aggiungendo che “non è sufficiente” limitarsi a condannare la politica israeliana, e ha prospettato la possibilità di portare il caso dinanzi alla Corte internazionale di giustizia.

Per decenni Israele ha goduto del sostegno bipartisan [sia dei democratici che dei repubblicani, ndtr.] degli Stati Uniti che gli ha permesso di ignorare le critiche internazionali e le numerose risoluzioni delle Nazioni Unite sulla sua occupazione dei territori palestinesi.

Quando Trump alla fine del 2017 ha cambiato la politica degli Stati Uniti riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele, 14 dei 15 membri del Consiglio di sicurezza hanno adottato una risoluzione di condanna dell’iniziativa, ma gli Stati Uniti hanno posto il veto.

Una risoluzione simile è stata quindi presentata all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (UNGA), dove nessuna nazione ha il potere di veto: è stata approvata con 128 voti a favore, 9 contrari e 35 astensioni.

I diplomatici, tuttavia, sembrerebbero escludere la possibilità che per la prevista annessione Israele possa subire sanzioni, quali quelle imposte da alcuni Paesi dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia.

“Qualsiasi annessione avrebbe conseguenze piuttosto gravi per la soluzione dei due Stati contenuta nel processo di pace”, ha detto un altro ambasciatore in forma anonima all’AFP.

Ma l’inviato ha affermato che non è un'”operazione semplice” mettere a confronto la Cisgiordania con la Crimea.

All’inizio di questo mese, centinaia di docenti e studiosi di diritto internazionale hanno firmato una lettera aperta che condanna il piano israeliano di annessione dei territori della Cisgiordania, definendolo una “flagrante violazione delle regole fondamentali del diritto internazionale e costituirebbe anche una grave minaccia alla stabilità internazionale in una regione instabile”.

Kevin Jon Heller, docente di diritto internazionale, ha dichiarato ad Al Jazeera che l’annessione prevista da Israele è “una chiara e sostanziale violazione del diritto internazionale, che vieta l’annessione dei territori presi con la forza”.

“L’annessione da parte di Israele delle alture del Golan e di Gerusalemme,” ha affermato Heller, “e il contemporaneo silenzio internazionale e arabo, l’hanno incoraggiato a intraprendere ulteriori azioni in quella direzione, come sta ora pianificando”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Il macabro piano di Israele culmina nell’annessione”

Richard Falk

24 giugno 2020 Nena News

Grazie a Trump, scrive l’ex relatore speciale delle Nazioni Unite, il governo israeliano insiste sui Territori palestinesi occupati: «Sono una necessità per la nostra sicurezza». Nessuno pensa ai diritti dei palestinesi, nessuno ha intenzione di ascoltarli. È una geopolitica da gangster nella giungla globale in aperta violazione della Carta dell’Onu.

Viviamo in tempi strani. In giro per il mondo le vite sono devastate dal Covid-19 oppure da crisi sociali, economiche e politiche. In momenti così, non sorprende che emergano il peggio e il meglio dell’umanità. Eppure la geopolitica da gangster nelle sue varie manifestazioni sembra spingersi ancora oltre.

Si pensi all’inasprimento delle sanzioni statunitensi nel bel mezzo della crisi sanitaria che colpisce società già gravemente provate e popolazioni sofferenti in Iran, Venezuela, Siria e Cuba.

Un’altra pagina nera è la danza macabra di Israele intorno alla plateale illegalità dell’annessione che il premier Benjamin Netanyahu ha promesso di avviare da luglio, grazie all’assenso del rivale e alleato di governo Benny Gantz. Israele è pronta ad annettere i territori senza nemmeno cercare di giustificare la violazione del diritto internazionale, secondo il quale uno Stato sovrano non può annettere un territorio estero occupato militarmente.

QUESTA MOSSA unilaterale di Israele per riclassificare il territorio che «occupa» nella West Bank e per incorporarlo stabilmente nell’autorità sovrana israeliana viola completamente il diritto internazionale umanitario della Quarta convenzione di Ginevra. Quella che perfino al tempo della Lega delle Nazioni era sempre stata una «norma sacra», nell’era della geopolitica post-coloniale da gangster diventa disprezzo patente per i popoli e i loro diritti.

LA MOSSA annessionista è così estrema che anche alcuni pesi massimi di Israele, fra i quali gli ex capi del Mossad e dello Shin Bet, e ufficiali in pensione delle Israel Defence Forces, lanciano l’allarme. Alcuni militanti sionisti sono contrari all’annessione in questo momento perché svelerebbe l’illusione della democrazia israeliana, e perché montano i timori che assorbire i palestinesi della West Bank minaccerebbe a tempo debito l’egemonia etnica ebraica. Naturalmente, nessuno di questi «ripensamenti» contesta l’annessione perché viola il diritto internazionale, scavalca e mina l’autorità dell’Onu e ignora i diritti inalienabili dei palestinesi. Le preoccupazioni riguardano gli impatti negativi per il paese, in termini di sicurezza a livello interno e regionale israeliana, e di status internazionale.

I critici nell’establishment della sicurezza nazionale temono di disturbare i vicini arabi e di alienarsi ulteriormente l’opinione pubblica internazionale, soprattutto in Europa; in una certa misura si dicono preoccupati anche della reazione dei «sionisti liberal», con il conseguente indebolimento dei legami di solidarietà con Israele da parte della diaspora ebraica che vive negli Stati uniti e in Europa.

ANCHE LA PARTE pro-annessione evoca la sicurezza, specialmente rispetto alla Valle del Giordano e agli insediamenti, ma in misura molto minore. Gli annessionisti fanno riferimento alla Giudea e alla Samaria di cui parla la Bibbia (il nome noto internazionalmente è West Bank). Il diritto verrebbe rafforzato dal riferimento alle profonde tradizioni culturali ebraiche nonché a secoli di connessioni storiche fra una piccola e stabile presenza ebraica in Palestina e questo territorio considerato sacro custode del popolo ebraico.

IN OGNI CASO, tanto gli israeliani critici sull’annessione quanto i favorevoli non sentono alcun bisogno di confrontarsi con i diritti e le istanze dei palestinesi. Come è sempre avvenuto lungo tutta la narrazione sionista, le aspirazioni e le rivendicazioni del popolo palestinese e la sua stessa esistenza non fanno parte dell’immaginario sionista: salvo quando si frappongono ostacoli o si crea una minaccia demografica alla regola della maggioranza ebraica. Se si considera l’evoluzione della principale corrente del sionismo, l’obiettivo di lungo periodo di emarginare i palestinesi in un unico Stato ebraico dominante che comprenda tutta la «terra promessa» di Israele non è mai stato abbandonato.

In questo senso il piano di partizione messo a punto dalle Nazioni unite, benché accettato nel 1947 dalla dirigenza sionista come soluzione del momento, è da interpretarsi piuttosto come una pietra miliare per il recupero della maggiore quantità possibile di terra promessa. Nel corso degli ultimi cent’anni, dal punto di vista israeliano l’utopia è diventata una realtà, mentre da quello palestinese è diventata una distopia.

IL MODO IN CUI Israele e Stati uniti affrontano questo preludio all’annessione sconcerta quanto la conseguente «scomparsa» dei palestinesi. Israele ha già privilegiato l’annessione nell’accordo di coalizione Gantz-Netanyahu, che prevede di presentare una proposta alla Knesset (Parlamento) a partire dal 1 luglio. L’unica precondizione accettata con l’accordo alla base del governo Gantz-Netanyahu fa coincidere l’annessione con le allocazioni territoriali incorporate nelle famose proposte unilaterali Trump-Kushher «Dalla pace alla prosperità».

COME PREVEDIBILE, gli Stati uniti di Trump non creano frizioni, né suggeriscono a Netanyahu di offrire una parvenza di giustificazione legale o di esplicitare gli effetti negativi dell’annessione sulle prospettive del processo di pace israelo-palestinese. Finora, il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dato luce verde all’annessione della West Bank ancora prima che Israele formalizzasse il proprio piano, dichiarando provocatoriamente che sono gli israeliani a dover decidere in materia: come se né i palestinesi né la legge internazionale avessero la minima importanza. Ecco un’altra indicazione del fatto che le relazioni israelo-statunitensi sono all’insegna di una geopolitica da gangster.

Ma forse, i segnali di possibili ripercussioni indurranno Washington a chiedere a Netanyahu di posticipare l’annessione o ridimensionarne la portata. E, anche se questa geopolitica sembra esaurire le residue speranze palestinesi di un compromesso politico e di una diplomazia basata su un genuino impegno di equità ed eguaglianza, voci di resistenza e solidarietà si levano contro quest’ultimo oltraggio. Nena News




La pandemia da coronavirus e il fallimento della strategia di disimpegno dell’ANP

Ihab Maharmeh

16 giugno 2020 – Al Jazeera

È tempo che l’Autorità Nazionale Palestinese adotti una strategia radicalmente nuova

Lo scorso anno, quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito il suo impegno ad annettere parti della Cisgiordania occupata e l’amministrazione USA ha insistito sull’unilaterale “accordo del secolo”, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) si è arrabattata per mettere insieme una nuova strategia politica.

Nell’aprile 2019 il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh, nominato da poco, ha annunciato che il governo avrebbe proceduto con un “disimpegno economico” dall’occupazione. Durante l’estate alcuni politici palestinesi hanno continuato a parlare di questa nuova strategia e in settembre l’ANP finalmente ha preso l’iniziativa, dichiarando che avrebbe posto fine alle importazioni dirette di bovini da Israele.

Nei mesi successivi i tentativi del governo dell’ANP di mettere in atto questa strategia ha dato come risultato una piccola guerra commerciale con Israele, terminata repentinamente in marzo quando le autorità palestinesi hanno dovuto affrontare la prospettiva di una grave epidemia del nuovo coronavirus.

La pandemia è subito diventata la prova decisiva della nuova strategia, sgretolatasi quando l’ANP si è cimentata nel controllo della diffusione della malattia e nella gestione dell’economia palestinese già in difficoltà. Dato che le ultime dichiarazioni del presidente palestinese Mahmoud Abbas riguardo alla fine degli accordi e del coordinamento per la sicurezza con Israele dimostrano ancora una volta di essere una vuota minaccia, è tempo che la dirigenza palestinese cambi radicalmente la sua strategia.

La “strategia del disimpegno”

Per anni l’idea di un “disimpegno economico” da Israele è circolata nei circoli politici palestinesi. Nel passato ci sono stati anche tentativi di imporre vari boicottaggi sui prodotti israeliani che non hanno avuto alcun successo.

Quando gli USA hanno spostato la loro ambasciata a Gerusalemme, riconoscendo le rivendicazioni israeliane sulla città, e inquietanti particolari dell’“accordo del secolo” dell’amministrazione Trump sono stati resi noti, è ricomparsa l’idea di un disimpegno palestinese.

Quando nell’aprile 2019 è entrato in carica, Shtayyeh ne ha fatto una priorità del suo nuovo governo. Il primo ministro palestinese ha parlato di rafforzare l’indipendenza economica palestinese promuovendo la produzione locale, le esportazioni e le importazioni dirette dall’estero e incoraggiando i palestinesi che lavorano in Israele a cercare piuttosto lavoro nei territori palestinesi.

Ha anche affermato che il suo governo avrebbe perseguito una strategia di “sviluppo a grappolo”, stimolando alcuni settori economici nelle diverse regioni: agricoltura a Jenin, industria a Nablus, turismo a Betlemme e fornitura di servizi medici nella Gerusalemme est occupata.

La strategia si basava sul fatto che l’ANP continuasse a ricevere gli introiti fiscali che, secondo il protocollo di Parigi del 1994, vengono raccolti per suo conto dalle autorità israeliane. Tuttavia negli ultimi 25 anni Israele ha regolarmente trattenuto parte delle risorse fiscali del governo palestinese con vari pretesti, compreso, più di recente, che l’ANP sta pagando sussidi alle famiglie di prigionieri politici palestinesi che gli israeliani considerano “terroristi”.

Trattenere questi fondi è solo una delle molte tattiche coercitive a disposizione del governo israeliano per contrastare qualunque politica palestinese ritenga minacci i suoi interessi economico-politici. E quello che è successo dopo il bando palestinese sull’importazione di bestiame l’ha illustrato alla perfezione.

Nel gennaio 2020 il governo israeliano ha emanato un bando sull’importazione di prodotti agricoli palestinesi. All’inizio di febbraio l’ANP ha vietato l’importazione di alcuni prodotti israeliani, a cui gli israeliani hanno risposto impedendo a quelli palestinesi di attraversare il territorio israeliano per l’esportazione in Giordania.

Due settimane dopo, quando si è profilata un’epidemia di COVID-19 che minacciava la già disastrata economia palestinese, l’ANP ha ceduto ed ha tolto il bando sui prodotti israeliani. La dirigenza palestinese ha affermato di aver raggiunto un accordo con gli israeliani per l’importazione di bestiame direttamente dal mercato internazionale attraverso Israele.

L’annuncio è stato fatto solo un giorno prima che Israele dichiarasse ufficialmente di aver registrato il primo caso di COVID-19. La diffusione del virus nei territori palestinesi occupati era solo questione di tempo. Il 5 marzo l’ANP ha annunciato il suo primo test positivo al COVID-19 ed ha decretato lo stato d’emergenza di un mese.

La pandemia di coronavirus non ha solo accelerato la fine dei tentativi palestinesi di mettere in pratica il “disimpegno economico”, ma ha anche dimostrato proprio quanto impotente sia l’ANP nel prendere una qualunque decisione importante riguardo al popolo palestinese, persino quando si tratti di salute pubblica.

Il fallimento dell’ANP nel combattere il COVID-19

Dall’inizio di marzo l’ANP ha cercato di mettere in atto una serie di misure per arginare la diffusione del nuovo coronavirus. Fin da subito è risultato chiaro che il contagio si sarebbe esteso da Israele ai lavoratori palestinesi che lavorano nelle città israeliane e nelle colonie illegali. Ciò è stato confermato in seguito dalle statistiche: in aprile il 79% dei casi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza era dovuto a lavoratori in Israele o a loro familiari.

Così, il 17 marzo Shtayyeh ha annunciato che gli spostamenti tra il territorio israeliano e quello palestinese sarebbero stati interrotti e che, se volevano continuare a lavorare, i lavoratori avrebbero avuto tre giorni per trovarsi una sistemazione in territorio israeliano.

Dopo una settimana, e dopo che molti lavoratori malati sono stati maltrattati dalle autorità israeliane, Shtayyeh ha chiesto ai palestinesi di lasciare il proprio lavoro in Israele e di rimanere a casa, in quanto correvano il serio rischio di contrarre il virus. Ciò ha minacciato l’economia israeliana, soprattutto nel settore dell’edilizia, per cui il governo israeliano ha agito rapidamente ed ha iniziato a concedere permessi ai palestinesi perché rimanessero in territorio israeliano.

L’ANP voleva che le autorità israeliane iniziassero a fare controlli medici sui lavoratori palestinesi, ma gli è stato rifiutato. Quindi il movimento dei palestinesi dentro e fuori Israele è continuato, vanificando gli sforzi del governo palestinese di frenare la diffusione del virus.

L’ANP ha anche cercato di combattere la diffusione del virus nelle aree B e C della Cisgiordania occupata, che sono sotto diretto controllo della sicurezza israeliana. Shtayyeh ha chiesto alle comunità locali di formare commissioni d’emergenza e di impegnarsi nell’erogazione di servizi sanitari e di sicurezza in quelle zone.

Ma le forze di occupazione israeliane hanno sistematicamente minato questi tentativi. Hanno attaccato le barriere palestinesi predisposte dalle comunità locali agli ingressi dei loro villaggi per controllare il passaggio dei lavoratori palestinesi di ritorno a casa da Israele.

Le autorità di occupazione hanno anche sabotato i tentativi di funzionari palestinesi che cercavano di mettere in atto misure preventive nelle cittadine e nei quartieri palestinesi all’interno dei confini amministrativi della Gerusalemme est occupata.

Il 3 aprile le autorità di occupazione hanno arrestato il ministro degli Affari di Gerusalemme, Fadi al-Hadami, per attività “illegali”. Due giorni dopo hanno arrestato anche Adnan Ghaith, il governatore di Gerusalemme dell’ANP. Entrambi erano impegnati nella lotta contro l’epidemia.

Inoltre Israele ha negato al governo palestinese il permesso di operare a Gerusalemme e di testare i palestinesi al virus.

É tempo di una nuova strategia

Il 19 maggio, in risposta al piano israeliano per annettere parti della Cisgiordania in luglio e al tacito consenso degli USA a questo proposito, Abbas ha dichiarato “nullo” ogni accordo con Israele e gli USA. Ciò è avvenuto circa un anno dopo che aveva annunciato la sospensione di ogni accordo con Israele.

Il presidente ha affermato che quest’ultima dichiarazione mette fine alla cooperazione per la sicurezza con le forze israeliane e trasferisce ogni responsabilità per i territori palestinesi occupati al governo israeliano. Ma l’annuncio era scarso di dettagli e finora non sembra aver dato come risultato alcun mutamento significativo nei rapporti con Israele.

Di fatto alcuni politici palestinesi hanno inviato messaggi per rassicurare Israele che i servizi di sicurezza palestinesi continueranno il proprio lavoro nel bloccare ogni forma di resistenza contro Israele in Cisgiordania. Sembra che questa sarà l’ennesima delle decine di dichiarazioni dell’ANP sull’interruzione del coordinamento per la sicurezza con Israele che non hanno comportato nessuna seria azione.

É davvero incomprensibile perché l’ANP continui ad insistere nell’utilizzare lo stesso strumentario di misure inefficaci che, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, non ha bloccato la costante colonizzazione israeliana della terra palestinese né lo sfruttamento delle risorse palestinesi. Con l’imminente annessione di fino al 30% della Cisgiordania in luglio, è ormai il momento per l’ANP di abbandonare questi triti tatticismi.

La dirigenza palestinese deve smettere di parlare di uno Stato palestinese sui confini del 1967 e ammettere che la Palestina storica è governata da un sistema di apartheid. Ciò aprirebbe la strada all’estensione della resistenza contro il colonialismo e l’oppressione israeliani per tutti i palestinesi all’interno e fuori dalla Palestina.

Nella Palestina storica definire Israele una potenza che pratica l’apartheid consentirebbe a tutti i palestinesi (quelli che vivono in Cisgiordania, a Gaza e nelle terre occupate nel 1948) di intraprendere una resistenza decentralizzata contro l’apartheid utilizzando ogni possibile strategia e strumento. Anche la dirigenza palestinese ne farebbe parte.

Fuori dalla Palestina riconoscere l’apartheid aiuterebbe i palestinesi della diaspora a convincere la comunità internazionale ad accettare la lotta dei palestinesi in quanto lotta contro l’apartheid e il razzismo.

In questo modo i palestinesi passeranno dal sogno irraggiungibile dei due Stati alla realtà della resistenza contro l’apartheid e ciò aiuterà ad attirare il supporto di chiunque nel mondo creda nella giustizia, nell’uguaglianza e nella libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ihab Maharmeh è un ricercatore presso il Centro Arabo per la Ricerca e gli Studi Politici.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Docenti di studi ebraici: “Rifiutiamo l’apartheid, l’annessione e l’occupazione”

Oren Ziv

16 giugno 2020 – +972

Oltre 500 docenti di studi ebraici firmano una petizione contro i piani di annessione di Israele che, affermano, consolideranno la “situazione di apartheid” nei territori occupati.

Oltre 500 docenti di studi ebraici di tutto il mondo hanno firmato una petizione contro i piani del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di annettere una buona parte della Cisgiordania occupata.

Secondo la petizione, che è stata pubblicata in inglese, ebraico e arabo, “la prosecuzione del l’occupazione e l’intenzione dichiarata dell’attuale governo israeliano di annettere parti della Cisgiordania, determineranno formalmente (de jure) la creazione di condizioni di apartheid in Israele e Palestina “.

“In questo momento storico di svolta, ancora incerto e pericoloso”, afferma la petizione, “rifiutiamo l’annessione e l’apartheid, il razzismo e l’odio, l’occupazione e la discriminazione. Ci impegniamo per una cultura aperta di studio, cooperazione e critica sulla questione israelo-palestinese. “

Non è chiaro quanto della Cisgiordania occupata, se non di tutta, Netanyahu annuncerà formalmente l’annessione. Il primo ministro ha ripetutamente dichiarato la sua intenzione di annettere almeno il 30 % del territorio a partire dal 1 ° luglio.

Tra i firmatari vi sono importanti accademici del settore degli studi ebraici negli Stati Uniti, tra cui il rabbino Chaim Seidler-Feller dell’UCLA [Università della California di Los Angeles, ndtr.], il professore di Yale Samuel Moyn e Chana Kronfeld dell’UC Berkeley.

La petizione afferma inoltre che il governo israeliano ha chiarito che i palestinesi della Cisgiordania che sarà annessa a Israele non riceveranno la cittadinanza e che “i risultati più probabili … saranno un’ulteriore disparità di distribuzione delle risorse territoriali e idriche a vantaggio delle illegali colonie israeliane, una più estesa violenza di stato e [l’esistenza di] enclavi palestinesi parcellizzate sotto il completo controllo israeliano.”

In tali circostanze, prosegue la petizione, l’annessione “consoliderà un sistema antidemocratico giuridico separato e diseguale e una discriminazione sistematica contro la popolazione palestinese”, che secondo i firmatari equivarrà a una “situazione di apartheid”. Un tale passo, avvertono, porterà a un “inevitabile picco di antisemitismo e islamofobia, con una polarizzazione tra comunità minoritarie”.

Secondo Mira Sucharov, docente associata di Scienze politiche alla Carleton University di Ottawa, in Canada, i passi di Israele verso l’annessione segnalano una “ulteriore pericolosa tendenza verso l’ apartheid totale. I diritti territoriali e umani dei palestinesi sono a rischio. La democrazia in Israele sta subendo un ulteriore degrado.”

“L’annessione è la prosecuzione di processi di lungo periodo, ma rappresenta comunque una svolta molto pericolosa”, afferma il prof. Nitzan Lebovic della Lehigh University in Pennsylvania, uno degli accademici autori la petizione. “Siamo rimasti sorpresi dalla risposta immediata di molti firmatari”, afferma. “Non ci sono state obiezioni sulla parola ‘apartheid’. Questa è stata una risposta alla svolta a destra di Israele negli ultimi anni”.

“La questione non è solo la dichiarazione di annessione di Netanyahu, ma ciò che sta succedendo dal 1948, e in particolare dal 1967, con l’annessione di 64 km2 intorno a Gerusalemme insieme a decine di migliaia di palestinesi. L’annessione creerà due regimi politici e civili – uno per gli ebrei e uno per gli arabi. In termini di diritto internazionale, questo è stato definito come una prosecuzione del concetto di apartheid “.

Secondo Lebovic, l’annessione contribuirà a un incremento dell’antisemitismo, nonché dell’islamofobia e del razzismo contro altri gruppi minoritari. “L’annessione è vista come un passo unilaterale da parte dello Stato di Israele, ma avrà implicazioni per ogni ebreo nel mondo. Come docenti universitari, siamo ripetutamente chiamati a spiegare le azioni di Israele. L’annessione ci metterà in una posizione in cui non saremo in grado di spiegare perché Israele abbia deciso di istituzionalizzare il suo attacco al diritto internazionale. La comunità ebraica si trova nella posizione di dover dichiarare [di essere] un’identità distinta da Israele. Israele deve decidere se questo sarebbe un risultato desiderabile “.

Nel frattempo, 240 giuristi di tutto il mondo, incluso Israele, hanno firmato una petizione diversa contro l’annessione, affermando che costituirebbe una “flagrante violazione delle regole fondamentali del diritto internazionale e determinerebbe anche una grave minaccia alla stabilità internazionale in una regione instabile “.

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia Activestills [collettivo di fotografi impegnato nel sostegno dei diritti dei popoli oppressi con particolare riguardo ai palestinesi, ndtr.] e redattore dello staff di Local Call [versione in lingua ebraica di +972 , ndtr.]. Dal 2003 ha documentato una serie di questioni sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità di attivisti e alle loro lotte. I suoi reportage si sono concentrati sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, sulle case popolari e altre questioni socio-economiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e sulla battaglia a favore della libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




I punti in comune tra Minneapolis e Gerusalemme sono maggiori di quanto sembri

Jonathan Cook

11 giugno 2020 – Middle East Eye

In un mondo in cui le risorse sono in esaurimento e le economie in contrazione gli Stati si preparano a future rivolte da parte delle classi inferiori in aumento

È difficile ignorare i sorprendenti parallelismi tra le recenti scene di brutalità della polizia nelle città degli Stati Uniti e decenni di violenza da parte delle forze di sicurezza israeliane contro i palestinesi.

Alla fine del mese scorso un video diventato virale di un agente di polizia di Minneapolis, Derek Chauvin, che uccide un uomo di colore, George Floyd, premendo con un ginocchio sul suo collo per quasi nove minuti, ha scatenato due settimane di proteste di massa in tutti gli Stati Uniti e altrove.

Le immagini sono l’ultima inquietante testimonianza visiva di una formazione culturale della polizia degli Stati Uniti per cui essa sembra trattare gli afro americani come un nemico – e rinnova il ricordo di come troppo raramente venga punito il comportamento criminale dei poliziotti.

Il linciaggio di Floyd da parte di Chauvin mentre altri tre agenti osservavano o partecipavano ricorda scene inquietanti e familiari nei territori occupati. I video di soldati israeliani, polizia e coloni armati che picchiano, sparano e esercitano abusi su uomini, donne e bambini palestinesi sono stati a lungo un punto fermo dei social media.

La disumanizzazione che ha permesso l’omicidio di Floyd è stata regolarmente messa in evidenza nei territori palestinesi occupati. All’inizio del 2018 i cecchini israeliani hanno iniziato a utilizzare i palestinesi, compresi minorenni, infermieri, giornalisti e disabili come poco più che bersagli dei poligoni di tiro durante le proteste settimanali presso la barriera perimetrale che circonda Gaza tenendoveli rinchiusi.

Diffusa impunità

E proprio come negli Stati Uniti, l’uso della violenza da parte della polizia e dei soldati israeliani contro i palestinesi raramente porta a procedimenti giudiziari, per non parlare di condanne.

Pochi giorni dopo l’omicidio di Floyd, un uomo palestinese affetto da autismo, Iyad Hallaq, che secondo la sua famiglia aveva un’età mentale di sei anni, è stato colpito con sette colpi dalla polizia a Gerusalemme. Nessuno degli agenti è stato arrestato.

Di fronte all’imbarazzante attenzione internazionale in seguito all’omicidio di Floyd, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rilasciato una dichiarazione inconsueta nei casi di uccisione di un palestinese da parte dei servizi di sicurezza. Ha definito l’omicidio di Hallaq “una tragedia” e ha promesso un’indagine.

I due omicidi, a distanza di pochi giorni, hanno rivelato il motivo per cui gli slogan “Black Lives Matter” e “Palestinian Lives Matter” siano intimamente legati, sia nelle proteste che nei post sui social media.

Ci sono differenze tra i due casi, ovviamente. Oggi i neri americani hanno la cittadinanza, la maggior parte di loro può votare (se riescono a raggiungere un seggio elettorale), le leggi non sono più esplicitamente razziste e hanno accesso agli stessi tribunali – se non sempre alla stessa giustizia – della popolazione bianca.

Non è questa la situazione per la maggior parte dei palestinesi sotto il dominio israeliano. Vivono sotto l’occupazione di un esercito straniero, ordinanze militari arbitrarie governano le loro vite e hanno un accesso molto limitato a qualsiasi tipo di concreto ricorso per adire a vie legali.

E c’è un’altra ovvia differenza. L’omicidio di Floyd ha scosso molti americani bianchi tanto da indurli a partecipare alle proteste. L’omicidio di Hallaq, al contrario, è stato ignorato dalla stragrande maggioranza degli israeliani e apparentemente accettato ancora una volta come prezzo da pagare per il mantenimento dell’occupazione.

Trattati come un nemico

Tuttavia, vale la pena mettere in evidenza i confronti tra le culture razziste delle due polizie. Entrambe scaturiscono da una visione del mondo costruita da società colonialiste, fondate sull’ espropriazione, la segregazione e lo sfruttamento.

Israele vede ancora in gran parte i palestinesi come un nemico che deve essere espulso o costretto a sottomettersi. Nel contempo i neri americani convivono coll’eredità di una cultura bianca razzista che fino a non molto tempo fa giustificava la schiavitù e l’apartheid.

Da tempo palestinesi e afroamericani sono stati depredati della loro dignità; troppo spesso le loro vite sono considerate di scarso valore.

Purtroppo la maggior parte degli ebrei israeliani nega ostinatamente l’ideologia razzista che sta alla base delle loro principali istituzioni, compresi i servizi di sicurezza. In pochi protestano in solidarietà con i palestinesi e quelli che lo fanno sono ampiamente visti dal resto dell’opinione pubblica israeliana come traditori.

Molti americani bianchi, d’altra parte, sono rimasti scioccati nel vedere quanto velocemente le forze di polizia statunitensi, di fronte a proteste diffuse, hanno fatto ricorso a metodi violenti di controllo della folla di un genere fin troppo familiare ai palestinesi.

Tali metodi comprendono la dichiarazione di coprifuoco e la chiusura di zone delle principali città; il dispiegamento di squadre di cecchini contro i civili; l’uso di squadre antisommossa con indosso uniformi o passamontagna senza contrassegno; arresti e aggressioni fisiche di giornalisti chiaramente identificabili; l’uso indiscriminato di gas lacrimogeni e proiettili di acciaio rivestiti di gomma per ferire i manifestanti e terrorizzarli per le strade.

E non finisce qui.

Il presidente Donald Trump ha descritto i manifestanti come “terroristi”, facendo eco al modo in cui gli israeliani definiscono tutte le proteste palestinesi, e ha minacciato di inviare l’esercito americano, il che riproporrebbe con ancora maggiore precisione la situazione affrontata dai palestinesi.

Come i palestinesi, la comunità nera degli Stati Uniti – e ora i manifestanti – hanno registrato esempi degli abusi sui loro telefoni e pubblicato i video sui social media per evidenziare le menzogne delle dichiarazioni della polizia e dei resoconti dei media su ciò che è accaduto.

Testato su palestinesi

Nessuno di questi parallelismi dovrebbe sorprenderci. Per anni le forze di polizia statunitensi, insieme a molte altre in tutto il mondo, hanno fatto la fila alla porta di Israele per imparare dalla sua esperienza decennale nella repressione della resistenza palestinese.

In un mondo caratterizzato dall’esaurimento delle risorse e dalla contrazione a lungo termine dell’economia globale, Israele ha capitalizzato la necessità tra gli Stati occidentali di prepararsi a future rivolte interne da parte di classi inferiori in aumento.

Potendo fare tranquillamente esperimenti nei territori palestinesi occupati, Israele è stato a lungo in grado di sviluppare e testare sul campo sui palestinesi oppressi nuovi metodi di sorveglianza e subordinazione. Essendo le più cospicue classi inferiori degli Stati Uniti, le comunità nere urbane hanno sempre avuto molte più probabilità di trovarsi in prima linea quando le forze di polizia statunitensi hanno adottato nelle loro pratiche un approccio più militarizzato.

Alla fine questi cambiamenti si sono manifestati in modo evidente durante le proteste scoppiate a Ferguson, nel Missouri, nel 2014 dopo che un uomo di colore, Michael Brown, è stato ucciso dalla polizia. Vestita in tenuta antisommossa e sostenuta da camionette blindate, la polizia locale sembrava entrare in una zona di guerra piuttosto che trovarsi lì per “servire e proteggere” [motto di molte polizie locali negli USA, ndtr.].

Addestrati in Israele

È stato allora che le organizzazioni per i diritti umani e altri hanno iniziato a mettere in evidenza in che misura le forze di polizia statunitensi venivano influenzate dai metodi israeliani per assoggettare i palestinesi. Molte forze erano state addestrate in Israele o coinvolte in programmi di scambio.

Soprattutto la famigerata polizia di frontiera paramilitare israeliana [il MAGAV, che non segue la regolare struttura di comando della polizia militare ma risponde direttamente all’agenzia per la sicurezza israeliana, ndtr.] è diventata un modello per altri Paesi. È stata la polizia di frontiera a sparare a morte su Hallaq a Gerusalemme poco dopo che Floyd è stato ucciso a Minneapolis.

La polizia di frontiera svolge la duplice funzione di una forza di polizia e di un esercito, operando contro i palestinesi nei territori occupati e all’interno di Israele, dove esiste una folta minoranza palestinese con diritti di cittadinanza molto ridotti. 

La premessa istituzionale della polizia di frontiera è che tutti i palestinesi, compresi quelli che sono formalmente cittadini israeliani, dovrebbero essere trattati come nemici. È il nucleo della cultura razzista della polizia israeliana, identificata 17 anni fa dal Rapporto Or [frutto del lavoro di una commissione istituita dal governo israeliano nel 2000 durante la seconda Intifada, ndtr.], l’unica analisi seria del Paese riguardo le sue forze di polizia.

La polizia di frontiera sembra sempre più il modello che le forze di polizia statunitensi stanno emulando in città con le vaste comunità di neri.

Molte decine di agenti di polizia di Minneapolis sono stati addestrati da esperti israeliani in tecniche di “antiterrorismo” e di “contenimento” durante un seminario a Chicago nel 2012.

Il soffocamento da parte di Derek Chauvin, con l’utilizzo del ginocchio per fare pressione sul collo di Floyd, è una procedura di “immobilizzazione” molto nota ai palestinesi. In modo inquietante, quando ha ucciso Floyd Chauvin stava addestrando due agenti alle prime armi trasmettendo le competenze istituzionali del dipartimento alla nuova generazione di agenti.

Monopolio della violenza

Queste somiglianze avrebbero dovuto essere previste. Gli Stati inevitabilmente prendono in prestito e imparano gli uni dagli altri sulle questioni più importanti per loro, come reprimere il dissenso interno. Il compito di uno Stato è garantirsi il mantenimento del monopolio della violenza all’interno del proprio territorio.

È la ragione per cui diversi anni fa nel suo libro War Against the People [Guerra contro il popolo, Edizioni Epoké, 2017, ndtr.] lo studioso israeliano Jeff Halper ammoniva che Israele è stato fondamentale nello sviluppo di quella che egli chiamava l’industria della “pacificazione globale”. I solidi muri tra i militari e la polizia si erano sgretolati, creando quelli che lui definiva “poliziotti guerrieri”.

Il pericolo, secondo Halper, è che a lungo termine, man mano che la polizia diventerà più militarizzata, è probabile che verremo tutti trattati come i palestinesi. Ecco perché è necessario mettere in evidenza un ulteriore legame tra la strategia degli Stati Uniti nei confronti della comunità nera e quella di Israele nei confronti dei palestinesi.

I due Paesi non stanno solo condividendo tattiche e metodi di polizia contro le proteste una volta scoppiate. Hanno anche sviluppato congiuntamente strategie a lungo termine nella speranza di smantellare la capacità delle comunità nere e palestinesi sotto la loro oppressione di organizzarsi in modo efficace e sviluppare la solidarietà con altri gruppi.

Perdita di direzione storica

Se un insegnamento è chiaro, è quello che l’oppressione può essere meglio contrastata attraverso la resistenza organizzata da un movimento di massa con richieste chiare e una visione coerente di un futuro migliore.

In passato dipendeva da leader carismatici con un’ideologia pienamente sviluppata e ben articolata in grado di ispirare e mobilitare i sostenitori. Si basava anche su reti di solidarietà tra gruppi oppressi di tutto il mondo che condividevano la loro conoscenza ed esperienza.

Una volta i palestinesi erano guidati da figure che avevano il sostegno e il rispetto nazionali, da Yasser Arafat a George Habash e allo sceicco Ahmed Yassin. La lotta che essi conducevano era in grado di galvanizzare i sostenitori di tutto il mondo.

Questi leader non erano necessariamente uniti. Ci furono discussioni sul fatto che il colonialismo di insediamento israeliano sarebbe stato minacciato meglio attraverso la lotta secolare o la forza religiosa, trovando alleati all’interno della Nazione degli oppressori o sconfiggendola usando i suoi metodi violenti.

Questi dibattiti e disaccordi hanno formato ampi strati della comunità palestinese, hanno chiarito la posta in gioco per loro e fornito il senso di una direzione e uno scopo nella storia. E questi leader sono diventati punti di riferimento per la solidarietà internazionale e la passione rivoluzionaria.

Ciò è scomparso da tempo. Israele ha perseguito una politica implacabile di incarcerazioni e assassinii di leader palestinesi. Nel caso di Arafat, è stato confinato dai carri armati israeliani in un complesso a Ramallah prima di essere avvelenato a morte in circostanze fortemente sospette. Da allora, la società palestinese si è trovata orfana, alla deriva, divisa e disorganizzata.

Anche la solidarietà internazionale è stata ampiamente messa a tacere. I popoli degli Stati arabi, già impegnati nelle proprie lotte, appaiono sempre più stanchi della causa palestinese, scissa e apparentemente senza speranza. E, come segnale del nostro tempo, la solidarietà occidentale oggi si impegna principalmente in un movimento di boicottaggio che ha dovuto condurre la sua lotta sul campo di battaglia dei consumi e delle finanze, più favorevole al nemico.

Dallo scontro alla consolazione rassegnata

La comunità afroamericana negli Stati Uniti ha subito processi paralleli, anche se è più difficile accusare i servizi di sicurezza statunitensi in modo così diretto per la perdita, decenni fa, di una leadership nazionale nera. Martin Luther King, Malcolm X e il movimento Black Panther furono perseguitati dai servizi di sicurezza statunitensi. Sono stati incarcerati o abbattuti da assassini, nonostante i loro approcci molto diversi alla lotta per i diritti civili.

Oggi nessuno va in giro a fare discorsi illuminanti e a mobilitare larghi strati di popolazione, americani bianchi o neri, per agire sul palcoscenico nazionale.

Privata di una forte leadership nazionale, a volte la comunità nera organizzata è sembrata essersi ritirata nello spazio più sicuro ma più limitato delle chiese, almeno fino alle ultime proteste. Una politica della consolazione rassegnata sembrava aver sostituito la politica dello scontro.

L’identità al centro

Questi cambiamenti non possono essere attribuiti unicamente alla perdita di leader nazionali. Negli ultimi decenni anche il contesto politico globale è stato trasformato. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica 30 anni fa gli Stati Uniti non solo sono diventati l’unica superpotenza al mondo, ma hanno schiacciato lo spazio fisico e ideologico in cui potrebbe prosperare l’opposizione politica.

L’analisi di classe e le ideologie rivoluzionarie – una politica di giustizia – sono state deviate dai loro percorsi e poste sempre più ai margini del mondo accademico.

Invece gli attivisti politici occidentali sono stati incoraggiati a dedicare le loro energie non all’antimperialismo e alla lotta di classe, ma ad una molto più angusta politica identitaria. L’attivismo politico è diventato una competizione tra gruppi sociali per attirare attenzione e privilegi.

Come per l’attivismo solidaristico palestinese, la politica dell’identità negli Stati Uniti ha condotto le sue battaglie sul terreno di una società ossessionata dal consumo. Gli hashtag e le segnalazioni virtuali sui social media sono spesso apparsi come sostitutivi della protesta sociale e dell’attivismo.

Un momento di transizione

La domanda posta dalle attuali proteste statunitensi è se questo tipo di politica timida, individualista e mirata ad acquisire vantaggi non stia iniziando a sembrare inadeguata. I manifestanti statunitensi sono ancora in gran parte privi di leader, la loro lotta rischia di essere atomizzata, le loro richieste sottaciute e in gran parte confuse – è più chiaro ciò che i manifestanti non vogliono rispetto a ciò che vogliono.

Ciò riflette un attuale stato d’animo per cui le sfide che tutti noi affrontiamo, dalla crisi economica permanente e dalla nuova minaccia di pandemie all’incombente catastrofe climatica, sembrano troppo grandi, troppo gravi per dar loro un significato. Sembra che siamo intrappolati in un momento di transizione, destinato [a precorrere] una nuova era, buona o cattiva, che non possiamo ancora definire chiaramente.

Ad agosto, ci si aspetta che milioni di persone si dirigano a Washington in una marcia che ricordi quella guidata da Martin Luther King nel 1963. Il pesante fardello di questo momento storico dovrebbe essere portato sulle anziane spalle del reverendo Al Sharpton [religioso, attivista e politico statunitense, ndtr.].

Quel simbolismo può essere appropriato. Sono trascorsi più di 50 anni da quando gli Stati occidentali sono stati per l’ultima volta coinvolti dal fervore rivoluzionario. Ma la fame di cambiamento, che raggiunse il suo apice nel 1968, per la fine dell’imperialismo, della guerra infinita e della dilagante disuguaglianza, non è mai stata saziata.

Le comunità oppresse in tutto il mondo hanno ancora fame di un mondo più giusto. In Palestina e altrove, coloro che soffrono per la brutalità, la miseria, lo sfruttamento e l’indignazione hanno ancora bisogno di un paladino. Guardano a Minneapolis e alla lotta che ne è scaturita come ad un seme di speranza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica

Jonathan Cook

Jonathan Cook, giornalista britannico che opera a Nazareth dal 2001, è autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del premio speciale Martha Gellhorn per il giornalismo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Come l’Europa potrebbe ripensare i suoi rapporti economici con Israele

Robert Swift e Ben Fisher

10 giugno 2020 – +972

Israele ha ignorato le critiche dell’UE sull’annessione della Cisgiordania usufruendo nel contempo dei finanziamenti per la ricerca scientifica e la tecnologia. Se i rapporti non cambieranno non bloccherà i suoi progetti.

Se c’erano speranze che la visita di mercoledì a Gerusalemme di Hieko Maas, ministro degli Esteri tedesco, avrebbe contribuito a dissuadere Israele dai suoi progetti di annettere formalmente vaste zone della Cisgiordania occupata, esse sono presto svanite.

Incontrandosi con politici israeliani, Maas ha manifestato la “seria e sincera preoccupazione” della Germania riguardo alla minaccia rappresentata dall’annessione alla soluzione dei due Stati, avvertendo che alcuni Stati stanno facendo pressione per imporre sanzioni contro Israele o per riconoscere la Palestina come Stato. Tuttavia Maas ha sottolineato che la Germania non discuterà un “prezzo da pagare” per la politica israeliana, ma sta semplicemente cercando un dialogo sull’argomento.

Nonostante i suoi avvertimenti, le osservazioni di Maas hanno in grande misura riconfermato la tradizionale prudenza, per cui è improbabile che l’Unione Europea – un fondamentale attore politico ed economico nel conflitto israelo-palestinese e di cui la Germania è un potente Stato membro – agisca in modo significativo per impedire l’annessione. A dispetto dei soliti discorsi contro questa mossa, la politica estera dell’UE è caratterizzata dai disaccordi interni su come procedere, immobilizzata dalla necessità di ottenere il consenso unanime tra i suoi 27 Stati membri.

Due fonti diplomatiche dell’UE hanno detto a +972 che tuttavia questa “prudenza” potrebbe sottovalutare una significativa opzione politica che l’UE potrebbe utilizzare per tradurre il suo enorme potere economico in influenza politica. L’unico problema è che l’UE sceglie di non farlo.

Perché il gigante europeo parli sulla scena mondiale lo deve fare con una voce univoca: un solo parere contrario di uno dei suoi Stati membri è sufficiente per impedire prese di posizione o azioni in politica estera. Questa clausola è stata un ostacolo fondamentale allo sviluppo di una efficace politica dell’UE su Israele/Palestina. Mentre una parte dei membri dell’UE ha cercato di spostare il blocco su una posizione critica nei confronti delle pratiche del governo israeliano, un’altra ha costantemente spinto nella direzione opposta.

Gli alleati che il primo ministro Benjamin Netanyahu si è procurato nel gruppo di Visegrad – cioè Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia – si sono rifiutati di criticare pubblicamente Israele, che vedono come un’anima gemella. Ciò non significa che siano d’accordo con il concetto secondo cui gli Stati possono annettersi un territorio ottenuto con la guerra. Dopotutto solo tre decenni fa erano tutti dominati da Mosca come parte dell’Unione Sovietica. Il precedente dell’Ue con la Crimea, che la Russia ha annesso nel 2014 (a cui l’UE ha risposto con sanzioni contro Mosca) li preoccupa.

Quindi la principale divergenza all’interno dell’UE è meno sulla posizione contro l’annessione che su come meglio impedirla.

Una fonte diplomatica, che ha chiesto di rimanere anonima in quanto non ha il permesso di parlare pubblicamente dell’argomento, ha detto a +972 che il disaccordo riguarda più la tattica che la sostanza, in particolare se Israele reagirebbe meglio a una condanna pubblica o a una sollecitazione in privato.

Il diplomatico ha spiegato che un campo insiste che Israele ha esplicitato le sue intenzioni annessioniste e gli dovrebbe essere immediatamente impedito di perseguirle; l’altro campo sostiene che è ancora troppo presto per agire.

Entrambi i diplomatici che hanno parlato con +972 dicono che non sono solo le solite voci critiche – Francia, Svezia, Spagna, Irlanda e Lussemburgo – che stanno sostenendo il “campo della deterrenza”, bensì oltre metà degli Stati membri dell’UE. Ma, nonostante qualche mormorio nella stampa israeliana e gli ultimi avvertimenti di Maas, sanzioni economiche non sembrano molto probabili, in quanto i Paesi membri sono praticamente certi che su questa misura non si possa trovare l’unanimità.

Il nuovo Horizon

Ciò non significa che l’UE non abbia opzioni per dissuadere Israele dall’annessione. “Horizon 2020” è un fondo settennale di 80 miliardi di euro dell’UE che fornisce sostegno finanziario alla ricerca, allo sviluppo tecnologico e all’innovazione. Il progetto termina quest’anno e nel 2021 dovrebbe essere sostituito con un nuovo programma di sette anni, “Horizon Europe”.

Benché praticamente ogni Paese al di fuori dell’UE possa presentare domanda di finanziamento per il programma Horizon, Israele insieme a Norvegia, Turchia, Albania e ad altri Paesi confinanti con l’UE, è definito “Paese associato”. Questo status, che Israele ha ottenuto nel 1996 come primo Paese non europeo a riuscirci, significa che gli è garantito l’accesso ai finanziamenti alla pari degli Stati membri dell’UE.

Per quanto riguarda il conflitto, la questione è se nel prossimo programma Israele, nel caso in cui proceda con l’annessione della Cisgiordania, godrà dello stesso status privilegiato di adesso.

Nili Shalev, direttrice generale della Direzione per la Ricerca e lo Sviluppo Israele-UE presso l’Autorità Israeliana per l’Innovazione [ente governativo che finanzia progetti di sviluppo e innovazione tecnologica, ndtr.] spiega che, mentre Israele paga per far parte del programma – 1.3 miliardi di euro saranno pagati all’UE entro la fine di Horizon 2000, una somma in base ai PIL rispettivamente di Israele e dell’UE –, ha ottenuto finanziariamente più di quanto ha sborsato. Per esempio, secondo Shalev, dal 2014 al 2018 Israele ha investito [in Horizon] 788 milioni di euro e ne ha ricevuti 940.

Shalev afferma che, tra i vari vantaggi, Israele beneficia di Horizon attraverso elargizioni accademiche europee che sono più consistenti di quelle che il governo fornisce a livello nazionale; il programma contribuisce anche a ridurre i tempi di commercializzazione (il tempo tra la produzione e la vendita) per le imprese private.

Al contempo, prosegue, l’UE trae vantaggio dalla collaborazione perché i progetti israeliani spesso affrontano priorità europee come l’innovazione ambientale, le cure mediche e la sicurezza informatica e in rete – progetti che contribuiscono a creare lavoro anche in Europa, aggiunge.

Ricordando che durante la precedente edizione di Horizon Israele ha dovuto affrontare la questione dei finanziamenti utilizzati fuori dai confini di Israele prima del 1967 [quindi nei territori occupati di Golan, Cisgiordania e Gaza, ndtr.], Shalev spera che le attuali differenze politiche non impediscano di continuare la collaborazione: “La scienza è un’innovazione per tutti. Porta conoscenza a tutta la popolazione del mondo, non ha confini,” afferma.

Molti palestinesi non sarebbero affatto d’accordo con questa affermazione. In un articolo del 2018 Yara Hawari, esperta di politica del gruppo di studio palestinese Al-Shabaka, ha evidenziato che molti dei progetti tecnologici finanziati da Horizon sono stati utilizzati anche per continuare l’occupazione israeliana. Per esempio, la clausola del “doppio uso” nelle linee guida di Horizon per i finanziamenti consente effettivamente alle imprese israeliane di “avere accesso a finanziamenti UE per un progetto ‘civile’ e in seguito svilupparlo per il settore militare,” mentre alcuni dei beneficiari dei finanziamenti si trovano nella Gerusalemme est occupata, oltre la Linea Verde [confine precedente al 1967, ndtr.].

I finanziamenti che Israele riceve da Horizon dovrebbero essere limitati a istituzioni accademiche e a imprese private che operano all’interno dei confini del Paese prima del 1967 – le frontiere riconosciute ufficialmente dall’UE. Se Israele continuerà o meno a mantenere il suo status di “associato” nel prossimo programma Horizon, secondo i due diplomatici rimarranno in vigore le disposizioni dell’UE su dove i fondi possono essere spesi.

Anche se l’Ue non prenderà misure attive contro l’annessione, molti elettori israeliani probabilmente vorranno una spiegazione dai loro politici sul perché il governo sta cooperando con un programma che rifiuta di riconoscere parti della Cisgiordania come “territorio sovrano di Israele”, dice la seconda fonte diplomatica: “Dopo l’annessione – si son chiesti – come potranno accettare che l’Università Ebraica e quella di Tel Aviv collaborino con l’Europa, ma che l’università di Ariel (in Cisgiordania) non possa farlo?”.

Da parte sua Shalev spera e crede che i dissensi sui confini non impediranno di continuare la collaborazione scientifica. Il rifiuto dell’UE di riconoscere le rivendicazioni di Israele su territori in Cisgiordania – compresa l’annessione formale di Gerusalemme est e delle Alture del Golan siriane nel 1980-81 – negli ultimi 25 anni non ha impedito alle due parti di collaborare; perché dovrebbe succedere in futuro?

Privilegiare la tecnologia sui diritti umani

Dato che Israele ha ignorato il punto di vista europeo sui confini, destinando nel contempo i finanziamenti dell’UE alle imprese israeliane, attualmente ha pochi incentivi a modificare la sua linea di condotta nei territori occupati. Pertanto, secondo chi critica questa situazione, l’UE non può continuare ad attribuire ad Israele una posizione privilegiata se è così preoccupata per la sua illegale espansione territoriale.

Innanzitutto la commissione UE potrebbe sospendere l’inclusione di Israele nel nuovo programma di Horizon del prossimo anno. Ciò includerebbe la fine dello status di Israele come “associato”, in modo che debba competere per i finanziamenti alla pari con la maggior parte dei Paesi di tutto il mondo. Come ha notato Shalev, è raro che Stati non associati ricevano fondi del programma e i dati di Horizon mostrano che meno del 2% dei suoi finanziamenti vanno a Paesi “terzi”.

In futuro non si tratterà solo di quello che verrà bloccato in termini di rapporti (UE-Israele), ma quali futuri accordi l’UE e Israele saranno in grado di avviare a causa dell’annessione,” afferma Hugh Lovatt, esperto di politica del programma su Medio Oriente e Nord Africa presso l’ European Council on Foreign Relations [gruppo di lavoro a livello europeo sulla politica estera, ndtr.].

Notando che Israele non ha ancora firmato il programma per le innovazioni del prossimo anno e che l’annessione potrebbe essere un punto critico, Lovatt afferma che la mancanza di unanimità all’interno della UE è un’arma a doppio taglio: rende difficile sospendere l’accordo, ma rende anche complicato ratificarne di nuovi.

Ciononostante è improbabile che l’UE prenda una posizione ostile nei confronti di Israele, almeno in parte a causa della volontà dell’Europa di avere accesso a “un’economia tecnologicamente molto avanzata, con molte ricerche in corso,” dice la prima fonte diplomatica.

Secondo i critici questo calcolo non fa ben sperare per il conflitto. I palestinesi hanno a lungo accusato il fatto che le credenziali tecnologiche di Israele accechino la comunità internazionale riguardo alle violazioni dei diritti umani che avvengono sotto l’occupazione militare, quello che molti hanno descritto come “ripulitura grazie alla tecnologia”.

La seconda fonte diplomatica smentisce questa affermazione, insistendo sul fatto che, mentre l’UE è desiderosa di collaborare con Israele, è un’esagerazione dire che ciò dipende dalle innovazioni israeliane. “L’affermazione secondo cui Israele è talmente avanzato tecnologicamente da poterne trarre vantaggi politici può funzionare con alcuni Paesi del Terzo Mondo, ma non con l’Europa.”

Eppure è probabile che l’Europa accolga ancora Israele nel prossimo programma Horizon, continuando a protestare contro l’annessione. Nel migliore dei casi questa contraddizione invierà segnali contraddittori; nel peggiore, rafforzerà le critiche secondo cui l’Europa sta privilegiando la tecnologia sui diritti umani dei palestinesi. La prima fonte diplomatica ammette quest’ultima preoccupazione, benché affermi che è troppo presto per fare questa affermazione.

Benché il governo israeliano abbia previsto il 1 luglio come data in cui presenterà [in parlamento] l’annessione, non è chiaro se il governo procederà come promesso. Si moltiplicano le ipotesi secondo cui Netanyahu potrebbe rinunciare all’iniziativa, consentendo all’UE almeno tre settimane per farsi sentire prima della data prevista. Se il futuro della collaborazione scientifica e tecnologica dovesse essere preso in considerazione, i timori degli europei riguardo all’annessione probabilmente sarebbero presi più seriamente.

Un portavoce dei programmi Horizon presso la Commissione europea ha rivolto domande riguardo a Israele al rappresentante dell’ufficio Affari Esteri e Sicurezza della Commissione, che a sua volta ha girato le richieste all’ufficio di Horizon. Nessuno ha fornito un commento per questo articolo.

Robert Swift è un giornalista freelance e scrittore scozzese che vive a Gerusalemme. Il suo lavoro riguarda la tecnologia, la politica mediorientale e questioni belliche e relative alla sicurezza.

Ben Fisher è un giornalista freelance di Seattle. Ha lavorato per il Jerusalem Post e il suo disco folk di 17 brani su Israele-Palestina “Does the Land Remember Me?” [la terra si ricorda di me?] è stato pubblicato nel 2018.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)