Gli israeliani Netanyahu e Gantz “vicini ad un accordo” per porre fine allo stallo politico

14 aprile 2020 – Al Jazeera

I due rivali informano di progressi nei colloqui dopo che il presidente ha esteso di altre 48 ore il termine ultimo di Benny Gantz per formare un governo

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo principale rivale, Benny Gantz, hanno affermato di aver raggiunto “significativi progressi” nella formazione di un governo d’emergenza per affrontare la crisi del coronavirus e porre fine allo stallo politico senza precedenti del Paese.

Il mandato di 28 giorni a Gantz per mettere insieme una coalizione di governo dopo le inconcludenti elezioni dello scorso mese avrebbe dovuto terminare alla mezzanotte di martedì [14 aprile], ma il presidente Reuven Rivlin, che sta supervisionando i colloqui per la coalizione, li ha estesi di due giorni.

Secondo il suo ufficio, Rivlin lo ha fatto “nella consapevolezza che si è molto vicini a raggiungere un accordo.”

Gantz e Netanyahu si sono incontrati durante la notte in un ultimo disperato tentativo di ricomporre le loro divergenze. Poi hanno fatto una dichiarazione congiunta affermando di aver fatto “significativi progressi”. Entrambi hanno stabilito di incontrarsi di nuovo con le rispettive equipe di negoziatori più tardi martedì mattina.

Dalle elezioni del 2 marzo, le terze di Israele in meno di un anno, sono state ripetutamente fatte dichiarazioni riguardo al progresso nei colloqui per una coalizione, ma un accordo è rimasto irraggiungibile. Il blocco ha prospettato la possibilità di una quarta tornata elettorale, complicando ogni piano di rilancio economico una volta che l’epidemia di coronavirus si riduca di intensità.

Nella corsa verso la fine del mandato, Gantz ha sollecitato Netanyahu a siglare un accordo o a rischiare di trascinare il Paese verso elezioni non augurabili in un momento di crisi nazionale.

“Netanyahu, questo è il momento della verità. O un governo nazionale d’emergenza o, dio non voglia, quarte elezioni costose ed inutili durante una crisi. La storia non perdonerà nessuno di noi se fuggiamo dalle nostre responsabilità,” ha detto in un discorso diffuso a livello nazionale dalla televisione.

Poi Netanyahu ha invitato Gantz nella sua residenza ufficiale per colloqui che sono andati oltre la mezzanotte di ieri. Mentre le elezioni dello scorso mese sono finite senza un chiaro vincitore, Gantz è stato appoggiato da una ridottissima maggioranza di parlamentari, portando Rivlin a dargli l’incarico di formare un governo.

Con la sua maggioranza parlamentare, Gantz ha iniziato a portare avanti una legge che avrebbe escluso Netanyahu, imputato di corruzione, dalla possibilità di essere nominato primo ministro in futuro.

In carica dal 2009, Netanyahu è il capo del governo più a lungo in carica nella storia di Israele e il primo ad essere imputato durante il suo mandato. Nega le imputazioni per corruzione, frode e abuso di potere presentate contro di lui in gennaio.

Durante tre durissime campagne elettorali Gantz ha affermato che non avrebbe mai fatto parte di un governo guidato da Netanyahu finché questi avesse dovuto affrontare accuse di corruzione. Ma Gantz ha affermato che la gravità della crisi di coronavirus lo ha convinto a cambiare la sua posizione – una decisione che ha attirato pesanti critiche da parte dei suoi sostenitori e provocato lo sgretolamento della sua alleanza, “Blu e Bianco”.

Se fallissero i negoziati prolungati, la Knesset, o parlamento israeliano, avrà tre settimane per scegliere un candidato a primo ministro tra le sue file. Se fallisse anche questo, ci dovranno essere le elezioni. Ciò significherebbe una lunga crisi politica in un momento in cui il Paese sta affrontando l’epidemia di coronavirus.

Israele ha registrato più di 11.500 casi e almeno 116 morti dovuti alla malattia, che ha paralizzato l’economia e portato la disoccupazione a un livello record.

Lunedì, per contrastare la diffusione del coronavirus, Netanyahu ha disposto un bando sugli spostamenti tra le città per gli ultimi giorni delle feste pasquali di questa settimana.

Le restrizioni già in vigore hanno confinato la maggior parte degli israeliani nelle loro case per settimane, obbligando molte attività economiche a chiudere e portando il tasso di disoccupazione a oltre il 25%.

Netanyahu ha affermato che il suo governo potrebbe formulare una “strategia d’uscita” entro questo fine settimana, ma ha avvertito che le limitazioni all’economia e all’educazione saranno ridotte gradualmente e che non ci sarà un ritorno totale alla normalità prima che venga scoperto un vaccino contro il coronavirus.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Hamas rifiuta le condizioni israeliane per gli aiuti a Gaza contro il coronavirus

Adnan Abu Amer

10 aprile 2020 Middle East Monitor

Nei giorni scorsi, Hamas e Israele hanno avuto un evidente scontro sulla fornitura di assistenza medica alla Striscia di Gaza per contrastare il coronavirus, poiché come condizione dell’assistenza medica Israele ha posto il ritorno dei suoi soldati catturati nella guerra del 2014. I media israeliani hanno chiesto a Hamas di liberare i soldati in cambio degli aiuti per combattere il coronavirus.

Da parte sua, Hamas ha annunciato tramite il suo leader a Gaza, Yahya Al-Sinwar, che otterrà quanto serve alle necessità umanitarie con la forza, minacciando che “sei milioni di israeliani potrebbero smettere di respirare” se Israele non sarà disposto a rifornire la Striscia di Gaza dei respiratori necessari ai pazienti con coronavirus.

Al-Sinwar ha lasciato anche intendere che Hamas potrebbe fare una concessione in merito all’accordo di scambio se sarà permesso l’ingresso di forniture per migliorare le condizioni di vita e l’assistenza medica a Gaza nonché il rilascio dei prigionieri palestinesi anziani, malati, minori e donne. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha risposto incaricando Yaron Bloom, coordinatore israeliano dei prigionieri di guerra e prigionieri israeliani MIA [missing in action, dispersi durante una azione, ndtr], di avviare i colloqui necessari per riprendere il negoziato di scambio di prigionieri con Hamas.

Questo tira e molla significa che sarà possibile un incremento di violenza tra Hamas e Israele, perché le fazioni palestinesi cercheranno di fare pressione su Israele affinché conceda l’ingresso di forniture mediche e assistenza sanitaria a Gaza per combattere il coronavirus. Alcuni giorni fa sono stati lanciati dei missili da Gaza contro Israele e questo solleva degli interrogativi, se entrambe le parti si indirizzeranno ad un’escalation militare o se raggiungeranno un accordo di scambio. Assisteremo a uno scontro militare non voluto durante questa disastrosa situazione sanitaria a Gaza e in Israele, o alla fine avranno luogo negoziati per raggiungere un nuovo accordo di scambio di prigionieri tra le parti?

Alcuni giorni fa l’esercito israeliano ha annunciato di aver bombardato le postazioni di Hamas nella Striscia di Gaza, in risposta a un missile sparato contro gli insediamenti intorno a Gaza. Migliaia di israeliani si sono precipitati nei rifugi, anche se era la prima aggressione dall’inizio dell’emergenza coronavirus a febbraio, con palestinesi e israeliani chiusi nelle loro case per fermarne la diffusione.

Nessuna delle fazioni palestinesi ha rivendicato il lancio di missili, ma il bombardamento israeliano delle postazioni di Hamas è per via del controllo di Hamas su Gaza. Le fazioni palestinesi hanno affermato che Israele stesse approfittando della preoccupazione del mondo nella lotta al coronavirus per intensificare il blocco su Gaza.

L’atmosfera nella Striscia di Gaza segnala che la crisi sanitaria, dopo l’individuazione di numerosi casi di coronavirus, potrebbe spingere Hamas a fare pressione su Israele perché allenti il blocco su Gaza. Alcuni gruppi israeliani hanno profilato un cupo scenario simile al Giorno del Giudizio, con Gaza che esplode in faccia a Israele un diffuso contagio di coronavirus.

Hamas ha ripetutamente affermato che sotto il blocco israeliano Gaza vive in condizioni catastrofiche e che solo Israele è responsabile del suo prolungamento. Hamas è in contatto con dei mediatori per costringere Israele a revocare il blocco su Gaza, alla luce della pandemia di coronavirus che aggrava la situazione – segnalando che il lungo blocco di Gaza non favorisce il mantenimento della calma nei sistemi di vigilanza. Hamas non ha esplicitamente ammesso la sua responsabilità nel lancio di missili contro Israele, ma non ha negato, ammantando la questione di mistero e ambiguità.

La Commissione di Monitoraggio del governo guidato da Hamas nella Striscia di Gaza ha dichiarato che le autorità governative di Gaza hanno bisogno di supporto dall’interno e dall’esterno per affrontare il virus. Ha annunciato la distribuzione di un milione di dollari in fondi di emergenza urgenti a 10.000 famiglie a basso reddito colpite dai provvedimenti, e l’assunzione di 300 nuovi membri del personale per il Ministero della Sanità di Gaza. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha discusso con alcuni partiti palestinesi, regionali e internazionali, gli effetti della diffusione del coronavirus in Palestina.

La posizione palestinese ammette che Hamas e Israele non hanno interesse a un’escalation militare sotto il coronavirus, e il lancio del missile da Gaza potrebbe far parte del caos nella sicurezza creato dai militanti armati che Hamas sta cercando di controllare. Inoltre, Israele teme la diffusione del virus a Gaza per paura che la comunità internazionale lo ritenga responsabile di Gaza; potrebbe quindi concedere alcune agevolazioni, come consentire l’ingresso di attrezzature sanitarie e forniture mediche di prevenzione, nonché mobilitarsi per un sostegno finanziario alla paralisi economica di Gaza a seguito allo scoppio della pandemia.

Le principali richieste di Gaza per affrontare il coronavirus sono forniture mediche: respiratori, kit per testare il virus, provviste alimentari e aiuti per gli abitanti di Gaza che soffrono i provvedimenti presi per combattere la pandemia.

Vale la pena notare che Gaza è in grado di gestire solo 100-150 casi di coronavirus, perché il suo sistema sanitario è fragile e non può prendere in carico grandi numeri. Ha uno scarso numero di ventilatori e letti per terapia intensiva, nonché una carenza di farmaci del 39%.

Anche se la recente escalation a Gaza potrebbe non essere collegata a una specifica organizzazione palestinese, potrebbe essere un messaggio che segnala che Israele ha la responsabilità di affrontare esaustivamente la situazione sanitaria a Gaza, dove ci sarebbe una grande catastrofe se il coronavirus si diffondesse tra la gente. Chiunque abbia lanciato i missili, sembra aver chiesto a Israele di revocare il blocco su Gaza. Israele è interessato a soddisfare il bisogno di salute e di vita di Gaza, perché se la pandemia si diffonde tra i palestinesi, li spingerà a lanciare e far scoppiare decine, se non centinaia, di missili. Potrebbero anche affollarsi al confine Israele-Gaza per salvarsi dalla pandemia.

Con il mantenimento delle prescrizioni per affrontare il coronavirus a Gaza, le autorità governative di Gaza affiliate ad Hamas stanno, tra le altre misure, sottoponendo i viaggiatori che ritornano a Gaza attraverso il valico di Rafah con l’Egitto e il valico di Beit Hanoun con Israele ad una quarantena obbligatoria di 21 giorni. Hanno anche chiuso tutte le moschee, università, scuole, mercati, sale per matrimoni e ristoranti fino a nuovo avviso. Stanno anche studiando la possibilità di imporre un coprifuoco completo, oltre a chiedere ai palestinesi di rimanere sempre in casa.

Tutte queste misure hanno contribuito alla crescente sofferenza di gruppi vulnerabili come autisti, impiegati di sale per matrimoni, ristoranti e bar. Forse la sovvenzione mensile del Qatar di 100 dollari distribuita a 100.000 famiglie bisognose a Gaza riduce relativamente l’effetto dell’assedio israeliano e allevia il deterioramento della situazione economica di Gaza; la sovvenzione del Qatar faceva parte degli accordi umanitari concordati tra Hamas e Israele nell’ottobre 2018.

In questi giorni, il Qatar ha annunciato che avrebbe fornito 150 milioni di dollari in sostegno finanziario alla Striscia di Gaza per un periodo di sei mesi, per alleviare le sofferenze dei palestinesi e per aiutare a combattere il coronavirus, senza chiarire la natura della distribuzione della sovvenzione né i beneficiari.

Nel frattempo, il Ministero dello Sviluppo Sociale di Gaza ha fornito tutti i pasti a coloro che sono stati messi in quarantena nei centri sanitari, per un totale di 6.000 pasti al giorno. Il Ministero fornisce anche le risorse necessarie ai soggetti in quarantena, come frigoriferi, elettrodomestici e utensili per la casa. Il Ministero ha anche registrato il numero di famiglie colpite dallo stato di emergenza imposto dal coronavirus; queste famiglie saranno raggiunte e aiutate.

Tutto ciò conferma peraltro che le condizioni sanitarie ed economiche a Gaza sono disastrose, le necessità fondamentali dei palestinesi non sono coperte e ciò che le agenzie internazionali e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) forniscono è solo una piccola parte del necessario. Le agenzie governative di Gaza forniscono cibo e bevande a 1.600 palestinesi in centri di quarantena; queste agenzie soffrono da tempo di un grave deficit economico, che richiede un’urgente iniezione di finanze.

Il lancio di un missile da Gaza verso Israele potrebbe essere il messaggio palestinese a Israele che le condizioni a Gaza non sono accettabili e che qualsiasi tentativo israeliano di esimersi dal provvedere alle richieste umanitarie e sanitarie di Gaza potrebbe significare che nel prossimo futuro i missili aumenteranno. Tuttavia, è improbabile che si arrivi ad uno scontro a pieno titolo tra Hamas e Israele, piuttosto ad un processo di progressiva intensità, per diversi giorni, se il virus si diffondesse tragicamente a Gaza.

Middle East Monitor ha appreso da fonti palestinesi che Hamas ha inviato un messaggio a Israele attraverso dei mediatori regionali e internazionali: “Hamas considera Israele direttamente responsabile del deterioramento delle condizioni di vita e salute a Gaza e non rimarrà inerte di fronte alla diffusione del coronavirus, perché Hamas crede che Israele sia tenuto a agire per impedire il collasso del sistema sanitario, con aiuti diretti o attraverso l’ANP o le agenzie internazionali “.

Hamas non ha rivendicato il lancio di missili contro Israele e potrebbe non essere nel suo interesse impegnarsi in un esteso confronto militare. Tuttavia, l’attuale peggioramento delle condizioni nella Striscia di Gaza, l’aumento dei casi di coronavirus, la mancanza di attrezzature mediche sufficienti per esaminare i pazienti e la mancanza di supporto finanziario necessario per aiutare coloro che non possono lavorare in quanto costretti a rimanere a casa, possono intensificare l’effetto a catena. Hamas potrebbe decidere un incremento di violenza contro Israele per costringerlo a fornire le scorte insufficienti a Gaza. Hamas pensa che Israele corrisponderà alle sue richieste, per essere libero di affrontare la diffusione su larga scala del coronavirus tra gli israeliani.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




I cittadini palestinesi di Israele: il perfetto capro espiatorio del coronavirus

Lana Tatour

8 aprile 2020 Middle East Eye

Mentre Netanyahu prosegue con le invettive razziste contro i cittadini arabi, le forze di sicurezza israeliane stanno scatenando la violenza sulle comunità palestinesi

In un recente incontro sul Covid-19 con una delegazione di medici cittadini palestinesi di Israele, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato: “Sfortunatamente nel settore arabo le disposizioni non vengono rispettate rigorosamente … Chiedo la cooperazione di tutti i cittadini arabi di Israele. Vi chiedo, per il vostro bene e per il bene del nostro futuro condiviso, per favore seguite gli ordini, [altrimenti] molte persone moriranno e queste morti potrebbero essere prevenute con il vostro aiuto.”

Chiaramente il controllo della diffusione del coronavirus dipende dall’impegno delle persone a realizzare l’autoisolamento, ma non è quello che intendeva Netanyahu. Piuttosto, nell’insinuare che le morti sarebbero una “vostra” responsabilità, stava reiterando le sue invettive razziste contro i cittadini palestinesi.

Dipinti come una minaccia

I cittadini palestinesi costituiscono il perfetto capro espiatorio a cui addossare la colpa per la diffusione del Covid-19 in Israele. I cittadini palestinesi di Israele vengono descritti come una minaccia per la salute e per la vita dei cittadini ebrei, prosecuzione del discorso di lunga data che li ritrae come una quinta colonna e cittadini illegittimi.

Con un discorso che ripropone il classico copione antisemita europeo dell’ “ebreo diffusore di malattie”, Netanyahu sta preparando il terreno per incolpare i palestinesi della diffusione del coronavirus nel caso fallissero i tentativi di contenimento. Sta facendo ciò che sa fare meglio: lanciare invettive contro i cittadini palestinesi onde evitare il controllo sulla propria gestione della crisi e spostare l’attenzione dalle accuse penali in sospeso nei suoi confronti.

Se esiste un settore in cui i palestinesi all’interno dei confini del ’48 [cittadini palestinesi israeliani, ndtr.] hanno una rappresentanza relativamente elevata, è il settore sanitario (anche se, all’interno di questo sistema, devono ancora affrontare discriminazioni e razzismo). Il 17% dei medici israeliani sono cittadini palestinesi. Ci sono anche molte infermiere, farmacisti, tecnici e operatori sanitari palestinesi in prima linea nella battaglia contro il coronavirus.

Mentre mettono a rischio la loro vita per proteggere tutte le vite, senza discriminazioni, le loro stesse comunità e famiglie affrontano l’abbandono da parte dello Stato israeliano.

A dimostrazione di quanto le vite ebraiche siano favorite rispetto a quelle palestinesi, benché i palestinesi rappresentino un quinto della popolazione è stato loro assegnato solo il 5% dei test per il Covid-19. Fino alla scorsa domenica, sono stati effettuati solo 6.479 test tra i palestinesi entro i confini del ’48, una cifra approssimativamente equivalente alla media dei test giornalieri per gli ebrei.

Misure preventive

Ad oggi circa 193 cittadini palestinesi in Israele sono risultati positivi, meno del 2 % dei malati. Queste cifre basse, tuttavia, sono tutt’altro che promettenti. Secondo le stime dell’esperta di salute pubblica Nihaya Daoud nelle comunità palestinesi ci sono probabilmente migliaia di malati e portatori. Senza un’adeguata somministrazione di test è probabile che i numeri aumentino rapidamente.

Mentre lo Stato ha promosso misure di prevenzione a favore della popolazione ebraica, non ha compiuto analoghi sforzi nei confronti della sua componente palestinese. Il materiale informativo non è stato tradotto in arabo per settimane e non sono stati fatti investimenti per rafforzare le infrastrutture sanitarie nelle città e nei villaggi palestinesi.

I cittadini palestinesi, come altre comunità autoctone e oggetto di razzismo, sono strutturalmente svantaggiati quando si tratta di salute e di accesso ai servizi sanitari. In concomitanza con una pandemia mortale, i risultati possono essere devastanti.

La distanza media delle località palestinesi dagli ospedali più vicini è quasi doppia rispetto a quella delle città ebraiche nelle stesse aree, e la qualità dei servizi medici nelle località palestinesi è scarsa. I cittadini palestinesi soffrono anche di alti tassi di patologie croniche come diabete, ipertensione e patologie cardiache, che pongono molti di loro tra le categorie ad alto rischio.

Per i beduini palestinesi del Naqab, la minaccia del coronavirus è ancora maggiore. Un 150.000 beduini vivono in circa 40 villaggi ritenuti illegali dallo Stato. Pertanto, a questi villaggi viene negato l’accesso all’acqua, ai servizi di raccolta dei rifiuti e ai servizi sanitari.

Nonostante i ripetuti appelli delle organizzazioni beduine della società civile, lo Stato ha rifiutato l’adozione di misure adeguate, come test e costruzione di strutture per l’autoisolamento o l’accesso a cliniche e ospedali. Ha continuato invece nel suo massiccio impegno di demolizione delle case beduine.

Logica sbagliata

Sono cresciute le critiche verso la negligenza israeliana nei confronti dei cittadini palestinesi, ulteriore testimonianza delle politiche discriminatorie di Israele.

La risposta di Israele alla pandemia da Covid-19 rivela il suo deliberato disprezzo per le vite dei palestinesi, basato su una gerarchia razziale tra ebrei e palestinesi. Sono importanti solo le vite ebraiche, mentre quelle palestinesi sono usa e getta.

In tempi di pandemia, questa logica è, ovviamente, sbagliata. Se la pandemia colpisce i palestinesi entro i confini del ’48 minaccia inevitabilmente anche i cittadini ebrei. Una conclusione logica sarebbe quella di dedicare sufficiente attenzione, budget, personale e attrezzature sanitarie alle aree palestinesi, poiché le nostre vite dipendono letteralmente l’una dall’altra – ma a quanto pare, il desiderio di vedere i palestinesi scomparire è più forte di qualsiasi calcolo razionale.

Inoltre una diffusione del coronavirus tra i cittadini palestinesi potrebbe offrire a Israele l’opportunità di rafforzare il proprio controllo ed isolarli ulteriormente, sia politicamente che fisicamente.

Abbiamo assistito ad un’evoluzione di questa dinamica nei giorni scorsi a Giaffa, dove la polizia israeliana ha provocato e attaccato violentemente gli abitanti palestinesi per presunta violazione delle direttive sul blocco. Quando i palestinesi hanno protestato, la polizia israeliana ha risposto con una violenza eccessiva, compreso l’uso delle granate stordenti.

Questo potrebbe essere solo l’inizio. Se la pandemia colpisse città e villaggi palestinesi, l’argomento della protezione della salute pubblica potrebbe essere usato come giustificazione per un’ulteriore militarizzazione contro i cittadini palestinesi.

Associando il coronavirus ai cittadini palestinesi, come ha iniziato a fare Netanyahu, è probabile che vengano loro imposte misure come coprifuoco, barriere, controlli a tappeto nei villaggi e un regime di permessi. Tali misure di emergenza potrebbero diventare la nuova normalità, rendendo la popolazione più controllata ed emarginata di Israele ancora più soggetta, punita e controllata.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Lana Tatour è borsista con post-dottorato Ibrahim Abu-Lughod presso il Center for Palestine Studies della Columbia University.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




In Israele Netanyahu e Gantz si mettono d’accordo su un piano per annettere parti della Cisgiordania

Redazione di MEE

6 aprile 2020 – Middle East Eye

Secondo Haaretz, i due leader israeliani potrebbero presentare quest’estate un piano per il governo

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo rivale politico Benny Gantz hanno raggiunto un accordo per annettere parti della Cisgiordania, spianando la strada a un governo di unità dopo mesi di stallo e tre tornate elettorali inconcludenti.

Secondo Haaretz, lunedì, dopo un incontro, i leader israeliani si sono accordati su un piano per iniziare quest’estate un processo formale e reclamare alcune zone dei territori palestinesi occupati come parte di Israele.

Se Washington sarà d’accordo, il progetto verrà presentato al governo, riferisce il quotidiano israeliano. Dopo l’approvazione del gabinetto, il piano richiederà l’approvazione della Knesset, il parlamento israeliano. 

Gli Stati Uniti hanno già espresso la propria disponibilità all’annessione di insediamenti israeliani e della Valle del Giordano in Cisgiordania. 

Accordo del secolo’

A gennaio, il presidente Donald Trump aveva svelato il cosiddetto “accordo del secolo” per risolvere il conflitto, con cui si permetterebbe a Israele di annettere vaste zone della Cisgiordania in cambio del riconoscimento di uno Stato palestinese frammentato, senza controllo delle proprie frontiere o dello spazio aereo.

La maggioranza dei palestinesi ha respinto la proposta.

Sia Netanyahu, che guida il Likud, di destra, che Gantz, il capo del blocco di centro Blu e Bianco, si sono impegnati ad annettere parti della Cisgiordania.

Facendo seguito a tre elezioni che non hanno prodotto un chiaro vincitore, Gantz e Netanyahu sono impegnati in colloqui per formare un governo di unità dopo l’ultima tornata elettorale del 3 marzo.

Dopo segnali iniziali che un accordo avrebbe posto termine all’impasse, Blu e Bianco di Gantz ha dichiarato che i colloqui si erano bloccati sulle nomine dei magistrati.

“Dopo aver raggiunto un accordo su tutti i punti, il Likud ha chiesto di riaprire la questione della Commissione di selezione dei magistrati ” ha detto il partito in una dichiarazione.

“In seguito a ciò i negoziati si sono interrotti: non permetteremo alcun cambiamento nel ruolo della Commissione di selezione della magistratura o un danno per la alla democrazia.” 

Illegale

Gli esperti di diritto internazionale dicono che annettere i territori palestinesi sarebbe illegale.

Israele ha formalmente annesso Gerusalemme Est nel 1980 e le Alture del Golan siriane un anno dopo. Ma la comunità internazionale, compresa Washington, non ha riconosciuto il possesso di Israele di queste zone. Tuttavia alla fine del 2017 Trump ha dichiarato Gerusalemme capitale di Israele e l’anno scorso ha riconosciuto la sovranità di Israele sulle Alture del Golan. 

All’inizio di quest’anno, dopo che Trump ha annunciato il piano per porre fine al conflitto, l’avvocato dei diritti umani Jonathan Kuttab ha detto a MEE che il divieto di acquisire territori con la forza è un principio fondamentale del diritto internazionale.

Dalla Seconda Guerra Mondiale ci sono stati tre tentativi di annessione: l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990; l’annessione russa della Crimea a danni dell’Ucraina nel 2014 e l’acquisizione di Israele dei territori arabi a partire dal 1967.

“Per 70 anni, l’intero ordine internazionale è stato costruito sul principio che non ci si può impossessare della terra altrui con la forza e annetterla” ha detto Kuttab.

“Fino a quando è arrivato Israele e ha detto: ‘Noi possiamo farlo’. Nessuno era d’accordo con loro fino a quando è arrivato Trump.”

Ha aggiunto che il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan da

parte di Washington stabilisce un “pericoloso” precedente che non ha incontrato l’opposizione della maggioranza dei Paesi arabi.

“Secondo la legge internazionale è chiaro come il sole che l’annessione è illegale. Non si tratta di una questione che si presti a interpretazioni.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perfino in una pandemia Israele non tratta i suoi sottoposti come uguali

Hagai el Ad, direttore B’Tselem

30 marzo 2020 +972 Magazine

2 aprile 2020 Cultura è Libertà

Un paese guidato da un primo ministro etnocentrico e razzista alle prese con una minaccia universale che colpisce tutte le persone sotto il suo controllo.

In un discorso alla nazione di metà marzo, il Primo Ministro di Israele Benjamin Netanyahu ha cercato goffamente di rivolgersi a tutte le persone che vivono sotto l’effettivo controllo del Governo – compito difficile dato che l’idea stessa va contro le sue convinzioni fondamentali.

In difficoltà nel trovare le parole giuste per rivolgersi al suo pubblico, Netanyahu se ne è uscito così: “Possiamo farlo insieme. Tutti i cittadini, tutti i residenti, chiunque mi stia ascoltando ora, seguano queste linee guida e raggiungeremo il nostro obiettivo. “

Se tutte le persone che vivono nel territorio sotto il controllo di Israele fossero considerate uguali, Netanyahu non avrebbe dovuto dividerle in tre categorie per parlare direttamente con loro. Eppure è esattamente così che funziona il regime israeliano; non è né umanistico né universalistico e si basa sulla attribuzione di diritti e libertà diversi a persone diverse in base alla loro classificazione.

Traduciamo. L’enfasi di Netanyahu su “tutti i cittadini” era, a quanto pare, un raro tentativo di riconoscere non solo i cittadini ebrei, ma anche quelli palestinesi di Israele. Riferendosi a “tutti i residenti“, il primo ministro ha incluso oltre 300.000 non cittadini palestinesi che vivono nell’annessa Gerusalemme est. Il suo vago appello a “chiunque mi stia ascoltando ora” ha lasciato intendere che i soggetti palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza potrebbero essere entrati a forza nella coscienza del primo ministro.

Sono tutti tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo: cittadini, residenti e soggetti. Tutto sommato, 14 milioni di persone che non condividono gli stessi diritti.

Normalmente Netanyahu non conta né i residenti né i soggetti. Omette allegramente circa cinque milioni di persone – tutte palestinesi – il cui ruolo nel sistema è obbedire ai diktat israeliani. Di solito cerca anche di trascurare i cittadini palestinesi di Israele, che costituiscono oltre un quinto della cittadinanza del paese e che ha definito “sostenitori del terrorismo”. Ciò significa che il primo ministro conta abitualmente solo la metà delle persone che vivono sotto le regole del suo governo, tutti cittadini ebrei.

Eppure questi sono tempi insoliti. Il rischio per la salute costituito dal coronavirus non obbedisce ai decreti israeliani. In effetti, mina gli stessi pilastri del regime israeliano, perché non distingue tra diverse classi di persone. Un primo ministro con una visione del mondo particolaristica, etnocentrica e razzista si trova di fronte a una minaccia universale.

Netanyahu sicuramente comprende il pericolo che questo virus rappresenta. Si rende conto che dopo aver spostato centinaia di migliaia di cittadini ebrei in circa 250 insediamenti in Cisgiordania – dove vivono in mezzo a 3 milioni di soggetti palestinesi – questa lotta non può essere vinta senza un approccio universalistico. Se sceglie di non prendere in considerazione tutti i milioni di persone che condividono questa terra, il virus si diffonderà e sconfiggerà tutti.

Netanyahu deve anche sicuramente sapere che nella Striscia di Gaza bloccata, ci sono condizioni mature per un’orribile diffusione della pandemia. Israele ha dimostrato il suo potere di tagliare Gaza dal resto del mondo attraverso i suoi 13 anni di assedio. Ciò potrebbe aver allontanato Gaza dal mondo in difficoltà; ma all’interno di una delle strisce di terra più densamente popolate della terra, quanto realistico è il distanziamento sociale come mezzo per combattere una pandemia?

Nel nord Italia, un sistema sanitario occidentale è crollato e il bilancio delle vittime ha raggiunto il 10 percento di tutte le persone infette. A Gaza, il sistema sanitario era crollato molto prima del primo paziente COVID-19 a seguito della politica israeliana. Se metà della popolazione rinchiusa a Gaza fosse contagiata, un tasso di mortalità del 10% significherebbe la morte di 100.000 persone.

Ovviamente, la retorica razzista e la visione del mondo del primo ministro si estendono oltre i suoi discorsi. Anche adesso, Netanyahu continua a incitare contro i cittadini palestinesi di Israele e minare la legittimità della loro rappresentanza politica. Circa 140.000 residenti palestinesi che vivono in quartieri oltre la barriera di separazione a Gerusalemme si svegliano ogni giorno con la paura di essere tagliati fuori dalla loro città e dal sistema sanitario che dovrebbe prendersi cura di loro e delle loro famiglie.

Nel frattempo, i soldati israeliani continuano a opprimere i palestinesi in Cisgiordania, alcuni ora indossando equipaggiamento medico protettivo. Al checkpoint di Maccabim, gli agenti di polizia hanno lasciato un lavoratore palestinese che mostrava sospetti sintomi del coronavirus sul ciglio della strada. La violenza dei coloni aumenta, senza sosta.

Questo è ciò che Netanyahu avrebbe dovuto dire a chiunque stesse ascoltando il suo discorso: che “un virus che non distingue tra nessuno, felice o triste, ebreo o non ebreo” (come ha detto) è per definizione un pericolo universale. Che questo tipo di minaccia va fronteggiata da una politica universalista che “non distingue tra nessuno”. Che sradicherà la divisione tra cittadini, residenti e soggetti. Che tutti sono esseri umani che hanno bisogno di essere protetti. Che difendere tutti noi è sua responsabilità.
Netanyahu, ovviamente, non dirà nulla del genere. Non può dirlo perché è un razzista. Il razzismo corrompe sempre l’anima, ma molte volte il prezzo può essere pagato anche con vite umane. Questo è uno di quei momenti.

Hagai El-Ad è il direttore esecutivo di B’Tselem: il Centro informazioni israeliano per i diritti umani nei territori occupati.

traduzione Alessandra Mecozzi




Celebrare la Giornata della Terra nella Palestina del blocco

Yara Hawari

30 marzo 2020 Al Jazeera

Israele sta approfittando della crisi COVID-19 per impadronirsi di più terra palestinese, ma i palestinesi resisteranno

Quarantaquattro anni fa ad oggi, la polizia israeliana uccise sei cittadini palestinesi israeliani mentre protestavano contro l’espropriazione da parte del governo israeliano di migliaia di acri di terra palestinese in Galilea. Da allora, il 30 marzo è riconosciuto come La Giornata della Terra ed è una data importante nel calendario politico palestinese.

Quest’anno i palestinesi celebreranno la Giornata della Terra a casa, nel pieno della pandemia di COVID-19 che ha messo gran parte delle popolazioni del mondo in isolamento e coprifuoco. Essere confinati in casa e in villaggi e città non è un’esperienza nuova per i palestinesi, forse è per questo che in così tanti gestiscono la cosa senza problemi.

In effetti, i palestinesi in Cisgiordania sono confinati in quel che rimane di bantustan collegati tra loro solo da strade controllate dal regime israeliano, mentre i loro fratelli e sorelle a Gaza vivono in una prigione a cielo aperto ritenuta “invivibile” dalle Nazioni Unite. La maggior parte dei palestinesi che vivono al di là della “Linea verde” hanno la cittadinanza israeliana ma vivono in ghetti urbani e rurali.

Inoltre i palestinesi sono separati dai loro fratelli e sorelle arabi, poiché a molti di loro è impedito di viaggiare nel mondo arabo sia perché i loro documenti non consentono di farlo (nel caso di palestinesi con cittadinanza israeliana) sia perché sono soggetti a divieti di viaggio.

Come parte della risposta al COVID-19, il regime israeliano ha imposto ulteriori misure che limitano i movimenti ai palestinesi. La città di Betlemme è stata messa in sicurezza, e i varchi verso Gaza e la Cisgiordania sono stati chiusi. Ai lavoratori palestinesi che lavorano in Israele è anche stato detto di restare per un periodo di tempo indefinito in sistemazioni scadenti e poco igieniche o di rinunciare al lavoro e rimanere in Cisgiordania.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha imposto un coprifuoco e istituito checkpoint tra villaggi e città per limitare il movimento delle persone. Le aziende sono state chiuse, ad eccezione di supermercati e farmacie.

Nel frattempo, Israele continua le sue pratiche di rimozione dei palestinesi dalla loro terra, sfruttando persino l’isolamento dovuto alla pandemia per farlo. A Gerusalemme, dove c’è uno sforzo concertato per ebraicizzare i quartieri e ridurre il numero di abitanti palestinesi, le demolizioni di case palestinesi continuano nonostante l’epidemia. Per giustificare la loro demolizione, il regime israeliano afferma che quegli edifici sono illegali, ma ai palestinesi vengono costantemente negati i permessi di costruzione.

Le demolizioni sono usate anche come metodo di punizione collettiva per le famiglie dei prigionieri politici palestinesi, in particolare in Cisgiordania. Nel mezzo dell’attuale pandemia, questa continua e crudele pratica rende assurdi gli appelli delle autorità israeliane a “rimanere a casa”.

Allo stesso modo, la costruzione di insediamenti illegali in Cisgiordania non si è fermata e si teme che in queste circostanze l’annessione de jure di molte aree sarà anche più veloce, specialmente visto che Benjamin Netanyahu è di nuovo nella posizione di guidare il prossimo governo.

Già la scorsa settimana ci sono stati tre episodi in cui gli insediamenti israeliani illegali hanno raso al suolo il territorio palestinese e c’è stato un aumento generale degli attacchi contro le proprietà palestinesi.

All’inizio di questo mese, i palestinesi del villaggio di Beita vicino a Nablus hanno organizzato un sit-in per cercare di proteggere la loro terra dai furti dei coloni. Le forze di sicurezza israeliane sono arrivate al gran completo per difendere i coloni e nel corso degli eventi hanno sparato alla testa il quindicenne Mohammed Hammayel, uccidendolo all’istante.

Molti abitanti della Palestina storica sono preoccupati che Israele userà l’epidemia COVID-19 come scusa per mantenere le nuove misure restrittive anche quando la pandemia sarà finita e anche che impedirà ai palestinesi di opporsi al furto di terra. In un momento in cui il mondo si concentra esclusivamente sulla pandemia e il regime israeliano ha il pieno sostegno dell’amministrazione americana per fare ciò che vuole, un aggressivo espansionismo israeliano sembra inevitabile.

Eppure, nel corso dei decenni, i palestinesi hanno mostrato una forza, un coraggio e un sumud (determinazione) incredibili di fronte a grandi avversità. Se l’espansionismo di insediamento dei coloni israeliani non si ferma, non cessa nemmeno la perseveranza palestinese. Come scrisse il poeta palestinese Tawfiq Ziyad:

A Lidda, a Ramla, in Galilea,

resteremo

come un muro sul vostro petto,

e nelle vostre gole

come un frammento di vetro,

una spina di cactus,

e nei vostri occhi

una tempesta di sabbia.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è borsista esperta di politica palestinese per Al-Shabaka, rete politica palestinese.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un noto chirurgo britannico afferma che alcuni feriti nelle manifestazioni del 2018 a Gaza non sono ancora stati curati

Peter Oborne e Jan-Peter Westad

30 marzo 2020 – Middle East Eye

Terence English parla con MEE del coronavirus, del disinteresse di Israele e dei fallimenti della politica britannica a Gaza

Terence English è un celebre chirurgo britannico. Nel 1979 ha eseguito il primo trapianto di cuore riuscito nel Regno Unito.

Ha ricoperto la carica di presidente del Royal College of Surgeons e della British Medical Association, nonché di rettore del St Catharine’s College di Cambridge. Nel 1991 ha avuto un riconoscimento per i suoi successi chirurgici con la nomina a cavaliere.

Così, quando si è ritirato 20 anni fa con molte onorificenze avrebbe avuto tutto il diritto di riposarsi e di dedicarsi al giardinaggio nella sua casa di Oxford. Invece Terence English è andato a Gaza.

Dapprima si è dedicato alla creazione di programmi di formazione dei medici palestinesi negli interventi di primo soccorso. Quindi lui e suoi colleghi chirurghi hanno contribuito alla realizzazione di vari progetti sanitari e alla formazione dei medici locali.

Uno dei progetti più importanti ha aiutato centinaia di persone bisognose di complessi interventi di ricostruzione degli arti.

Molti di questi pazienti erano adolescenti e giovani colpiti alle gambe dalle forze di sicurezza israeliane mentre prendevano parte alle proteste della Grande Marcia del Ritorno nei pressi della barriera perimetrale che circonda i due milioni di abitanti di Gaza.

Nel corso dei mesi di proteste settimanali almeno 190 persone sono state uccise da colpi d’arma da fuoco, di cui almeno 68 il 14 maggio 2018, quando a Gaza migliaia di persone hanno protestato contro l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme.

Nel secondo anniversario dell’inizio di quelle proteste, e con la situazione a Gaza più disperata che mai e complicata dalla diffusione della pandemia da coronavirus, English, ora 87enne, ha deciso per la prima volta di parlare.

Il chirurgo britannico ha una buona rete di contatti, tanto da aver avuto negli ultimi anni la possibilità di esprimere in privato le sue preoccupazioni con importanti ministri del governo britannico. Eppure, dice, i suoi sforzi non hanno dato alcun risultato.

“Gaza ora si trova in una grave crisi umanitaria”, dice English al Middle East Eye.

Le marce a Gaza sono iniziate il 30 marzo 2018, quando Ahmed Abu Artema, un giornalista palestinese, ha invitato i rifugiati palestinesi a radunarsi pacificamente vicino alla recinzione per chiedere il diritto di tornare nelle terre da cui furono costretti a fuggire o furono espulsi durante gli eventi che portarono alla creazione di Israele nel 1948.

La risposta israeliana è stata violenta. “Quando sono iniziate le proteste presso la recinzione c’è stato un numero enorme di feriti”, ricorda English.

“Adolescenti e giovani hanno avuto il ginocchio trapassato dai colpi dei cecchini israeliani dall’altra parte della barriera, che hanno utilizzato proiettili ad alta velocità”.

Egli descrive le orribili ferite caratterizzate da ossa e tessuti maciullati. Altri sono stati uccisi.

Israele ha sostenuto che stesse proteggendo la recinzione da manifestanti e attivisti violenti. English dice che le persone che ha curato erano manifestanti arrabbiati ma pacifici.

“Si immaginava – afferma – che le manifestazioni si svolgessero in tutta la Cisgiordania e a Gaza in segno di protesta per il diritto al ritorno, un bisogno particolarmente forte a Gaza”.

“Ora un numero enorme di palestinesi sono stati resi disabili”.

Per coloro che vengono operati con successo, possono essere necessari fino a sei mesi prima che possano camminare di nuovo, e c’è una lunga lista di attesa.

Ma molti non sono così fortunati. “Ci sono stati altri casi in cui l’unico modo per evitare mesi di sofferenza è stato eseguire un’amputazione”, dice English.

È difficile sapere con precisione quanti abbiano ancora bisogno di un intervento chirurgico, ma si stima che 500 di queste complesse operazioni siano state eseguite, con altre 700 persone ancora in attesa di cure.

Questo è comunque un risultato straordinario, date le condizioni dei servizi sanitari a Gaza.

Dice English: “Il primo problema è il blocco, che rende difficile garantire le risorse mediche necessarie. L’altro problema è che il conflitto ha distrutto gran parte delle infrastrutture. I generatori ospedalieri non sono affidabili, gran parte dell’acqua non è potabile e le scorte sanitarie sono scarse.”

English ricorda di aver chiesto alcuni anni fa al dottor Yousef Abu Reesh, viceministro della sanità di Gaza, quali fossero le gravi carenze da superare nella fornitura di assistenza sanitaria. Reesh rise e rispose: “Tutto!”

Il blocco israeliano di Gaza è in atto da quando Hamas ha assunto il controllo nel 2007, dopo aver vinto le elezioni legislative e poi estromesso dall’enclave costiera [l’organizzazione] Fatah del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, a seguito di violenti scontri tra le fazioni rivali.

Ora English ritiene che la minaccia del coronavirus, con una serie di casi già segnalati sul territorio, renda ancora più urgente la necessità di revocare il blocco.

“Densamente popolato in una stretta striscia di terra e con un servizio sanitario già sottoposto a uno sforzo enorme, si teme che il virus sarebbe impossibile da controllare e avrebbe effetti catastrofici”, afferma.

La gente di Gaza è molto più vulnerabile. Vivono in condizioni di sovraffollamento e non hanno nessuna possibilità di auto-isolarsi in modo efficace.”

English ritiene che il governo britannico abbia l’obbligo di fare di più per i palestinesi, a causa della sua storica responsabilità per la Dichiarazione Balfour del 1917, in cui si impegnò a sostenere la creazione di un focolare ebraico in Palestina.

“L’ultima frase della Dichiarazione Balfour chiarisce che fornire un focolare nazionale agli ebrei in Palestina non dovrebbe ‘pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina’. Questo chiaramente non è quello che è successo.

“Sono rattristato del fatto che la Gran Bretagna non abbia fatto di più per onorare le proprie responsabilità nei confronti dei palestinesi”.

Il suo messaggio è chiaro: “Dobbiamo fare pressione sui nostri parlamentari affinché sostengano il popolo di Gaza. La Gran Bretagna deve assumersi le sue responsabilità”.

Un modo in cui English crede che il governo britannico possa offrire un aiuto è quello di discutere con Hamas, con l’obiettivo finale di ricostruire una leadership unita in grado di rappresentare tutti i palestinesi in negoziati sostenuti a livello internazionale con Israele.

“È nell’interesse di entrambi i popoli e nel nostro interrompere il ciclo di conflitti e sofferenze a cui abbiamo assistito negli ultimi 50 anni”, sostiene il chirurgo.

Una tale mossa richiederebbe un coraggio diplomatico e politico, dal momento che dal 2001 nel Regno Unito l’ala militare di Hamas è considerata un’organizzazione terroristica messa al bando.

Il governo britannico descrive la sua politica nei confronti della Palestina l’istituzione di “una pace giusta tra uno Stato palestinese democratico stabile e Israele, sulla base sui confini del 1967, che ponga fine all’occupazione di comune accordo”.

Ma English teme che una tale politica rischi di essere superata dagli eventi, in quanto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, incoraggiato dal sostegno del presidente degli Stati Uniti Donald Trump e con macchinazioni politiche interne che sembrano destinate a tenerlo in carica, minaccia di indebolire ulteriormente le prospettive di un accordo futuro sensato, lasciando ancora una volta i palestinesi nella sofferenza.

“I servizi sanitari dipendono inevitabilmente dalla politica”, dice English.

“Con Trump in carica, Netanyahu crede di poter fare né più né meno ciò che vuole e con lui al potere potrebbe mirare ad annettere ciò che resta della Cisgiordania.”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Choc, tradimento e paura: perché Gantz ha ucciso il suo partito per unirsi a Netanyahu

Lily Galili – TEL AVIV, Israele

venerdì 27 marzo 2020 – Middle East Eye

Giovane e con patologie sottese, “Blu e Bianco” fa parte del bilancio delle vittime del coronavirus

Se avete avuto difficoltà ad abituarvi all’idea di sentir dire “Benny Gantz, primo ministro israeliano”, rilassatevi. Ora potete ritornare tranquillamente a quello che conoscete già da 11 anni.

Bisogna ringraziare lo stesso Gantz di avervi reso più facile la situazione. Gli avvenimenti hanno preso una strana piega quando il capo del partito “Blu e Bianco” – incaricato di formare un governo e di togliere di mezzo Netanyahu – giovedì ha deciso di unirsi al suo grande rivale in un governo d’unità nazionale e di assumere il ruolo di ministro della Difesa sotto i suoi ordini.

Nell’attesa vi potete abituare a una carica temporanea – “Benny Gantz, presidente della Knesset” – un incarico che Gantz ormai occuperà finché i due politici non avranno concluso l’accordo tra loro non ancora firmato.

Si prevede che esso si baserà sulla rotazione e sulla parità: se mantiene la parola – cosa che fa di rado – Netanyahu darà le dimissioni a settembre [2021] e farà posto a Gantz come primo ministro.

Quello che ciò significa veramente è che Netanyahu, imputato di corruzione, rimarrà al suo posto e nel contempo sarà processato. È il vero accordo tra Gantz, descritto da Netanyahu come un ” cazzone” e un “pazzo” durante l’ultima campagna elettorale, e Netanyhau, definito da Gantz un “dittatore corrotto” e l'”Erdogan israeliano”, un termine realmente dispregiativo nel nostro vocabolario politico.

Vittima del virus

La politica israeliana ha una lunga storia di colpi di scena e di iniziative sorprendenti. Ma quest’ultimo sviluppo della situazione li supera tutti e la crisi del coronavirus in Israele è il pretesto perfetto.

“È quello di cui ha bisogno il Paese, e Israele passa al primo posto,” ripete Gantz in risposta, come se fosse un fatto clinicamente accertato che il virus abbia una conclamata paura dei governi d’unità nazionale.

Nei fatti è il partito che Gantz ha creato appena un anno e mezzo fa che sembra una vittima del coronavirus, giovane ma con gravi patologie sottese.

E’ deceduto giovedì pomeriggio, quando le altre due fazioni di Blu e Bianco – “Yesh Atid” [partito di centro destra, ndtr.] diretto da Yair Lapid e “Telem” [partito di destra, ndtr.], guidato da Moshe Yaalon, entrambi ministri di precedenti governi di Netanyahu e che lo conoscono meglio – hanno rifiutato di unirsi al nuovo governo che gli imponeva Gantz.

Come si sa, “Blu e Bianco” si è sciolto in un’ora. Lapid e Yaalon si terranno il nome e Gantz è di ritorno al suo partito originario, “Hosen L’Yisrael” [“Resilienza di Israele”, partito di centro destra, ndtr.] che ha 17 seggi alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.]. Lapid sarà il capo dell’opposizione contro l’uomo politico che fino a giovedì era il suo alleato più vicino.

Giovedì sera, durante una conferenza stampa, Lapid non ha usato mezzi termini: “Gantz ha rubato i voti della gente che l’ha votato quando ha giurato di non stare in un governo di Netanyahu, ha ceduto a Bibi senza battersi.” Ed ha ragione.

Il deputato Ahmed Tibi, della “Lista Unita” [coalizione di tutti i partiti arabo-israeliani, ndtr.], che conta 15 deputati che hanno sostenuto Gantz come primo ministro, non ha tardato a coniare un nuovo termine. A colloquio con Middle East Eye qualche ora dopo la svolta drammatica degli avvenimenti, ha utilizzato la parola “gantzismo” per descrivere il comportamento del capo del partito.

“Lo abbiamo sostenuto per portare un cambiamento dopo anni di incitamento all’odio contro gli arabi da parte di Bibi. Solo il gantzismo può dimostrare che il blocco dei 59 [deputati] di Bibi è più grande di quello di 61 che Gantz ha costruito con il nostro sostegno,” assicura. “La pandemia di coronavirus è già sufficientemente grave. Utilizzare il coronavirus a fini politici è ancor peggio.”

In effetti sembra che Gantz abbia utilizzato il voto e il sostegno arabi come merce di scambio nel gioco politico. Ma i suoi elettori ebrei provano più o meno la stessa sensazione. Le parole “tradimento” e “traditore” sono le più popolari sulle reti sociali per descrivere l’abuso della loro fiducia da parte di Gantz.

Ministeri per il potere

Tuttavia, a dire la verità, non tutti gli israeliani provano la stessa cosa, neppure tutti quelli che hanno votato per lui. Per cominciare, “Blu e Bianco” era una strana creazione di sinistra-centro-destra.

La maggior parte dei suoi elettori di centro-destra ha approvato la sua decisione, perché è stata presa “per il bene di Israele”. I sostenitori dell’estrema destra non ne sono così contenti. Tutti i progetti d’annessione della Cisgiordania occupata – a cui “Blu e Bianco” in maggioranza si opponeva quando c’è stato l’annuncio dell'”accordo del secolo” di Trump – saranno rimandati.

In compenso gli elettori del Likud sono felici, perché potranno tenersi il loro caro primo ministro Netanyahu. I deputati e ministri che fanno parte del Likud sono meno entusiasti. Perderanno alcuni ministeri importanti già proposti a Gantz.

La principale perdita per Netanyahu non è il ministero degli Affari Esteri, che ormai sarà offerto a Gabi Ashkenazi, alleato di Gantz e promotore di questo governo d’unità. Finché Trump copre le spalle a Netanyahu, chi si preoccupa del resto dell’universo? No, per Netanyahu la prova dell’importanza di questo accordo di unità nazionale è il fatto che abbia abbandonato i due ministeri che gli erano più cari, cioè quelli della Giustizia e della Comunicazione.

Netanyahu è ossessionato dalla copertura mediatica di cui è oggetto e un ministro della Giustizia obbediente sarebbe sicuramente un vantaggio durante il suo processo. Rimanere in carica e comparire davanti al tribunale come primo ministro, come dovrebbe fare in maggio, avrebbero reso un ministro compiacente ancora più prezioso.

Allora perché, Gantz?

Ecco quello che spiega la vicenda dal lato di Netanyahu. Ma perché anche Gantz ha improvvisamente fatto quello che avrebbe potuto fare due turni di elezioni e sei miliardi di shekel (1,5 miliardi di euro) prima? Esistono numerose risposte a questa domanda, e quella vera è probabilmente una combinazione di tutte queste.

Una delle ragioni, non ancora espressa, è che non ha mai veramente voluto assumersi delle responsabilità di fronte alla gigantesca crisi del coronavirus e a quella finanziaria, gravissima, che ne seguirà. Gli manca la fiducia per farlo.

Una spiegazione più pratica risiede nei recenti sondaggi commissionati dal partito. Erano negativi. Il partito “Blu e Bianco” ha perso consenso, al contrario del Likud. Un quarto turno elettorale non era una possibilità, non solo a causa del coronavirus che imperversa, ma anche per timore dei risultati.

Secondo addetti ai lavori del defunto partito “Blu e Bianco”, contrariamente ad altri sondaggi, quelli che avevano visto mostravano che i loro elettori erano assolutamente contrari a un governo di minoranza sostenuto dalla “Lista Unita”.

Netanyahu è stato il primo a rendersi conto di questo stato d’animo. Quando alla “Lista Unita” è stata proposta la commissione parlamentare sulla protezione sociale, egli ha ritwittato un messaggio oltraggioso in cui sosteneva che i “sostenitori del terrorismo” sarebbero stati ormai responsabili delle famiglie in lutto, un messaggio che ha colto lo spirito di gran parte della società israeliana.

C’è una grande differenza tra le risposte che i progressisti danno ai sondaggisti riguardo al loro appoggio a favore della “Lista Unita” e l’idea di accettarla veramente. Sfortunatamente non è ancora il momento in Israele, una società che è sempre razzista, ed era piuttosto ingenuo vedere le cose in modo diverso riguardo a Gantz, un ex-capo di stato maggiore dell’esercito che ha lanciato la sua campagna politica pubblicando il numero dei palestinesi di cui ha provocato la morte a Gaza durante l’operazione “Margine Protettivo”.

Non è altrettanto razzista di Netanyahu, ma sarebbe sempre un passo troppo lungo per lui. Giunto il momento, non lo ha potuto fare. Così come il suo collaboratore, un altro ex-capo di stato maggiore dell’esercito, Gabi Ashkenazi. Quindi hanno preso la via più popolare.

Cosa succederà nel 2021?

La maggioranza degli israeliani in realtà è favorevole a un governo di unità. Stanchi di tre tornate elettorali in un anno, stremati dalla brutalità delle campagne e dall’asprezza dei responsabili politici e ormai terrorizzati dal coronavirus, preferiscono la tranquillità.

La democrazia può essere messa in pausa. Il membro della Knesset Yuli Edelstein, l’ex-presidente del parlamento che ha sfidato una decisione della Corte Suprema come nessuno aveva mai fatto in precedenza, può riprendere senza pericolo le sue alte funzioni. I manifestanti che sono scesi in strada nonostante il pericolo del coronavirus possono riporre le loro bandiere nere.

Tuttavia, se il governo di unità nazionale venisse un giorno reso ufficiale, rimane la domanda che tutti si pongono: Netanyahu darà veramente le dimissioni nel settembre 2021? Interpellato da MEE all’indomani del melodramma di giovedì scorso, Tzachi Hanegbi, ministro della Cooperazione regionale e membro del Likud [il partito di destra di Netanyahu, ndtr.] si è dimostrato ottimista.

“Diversamente da quello che riflette la sua immagine politica, quella di un uomo che evita le decisioni difficili e i conflitti, Gantz ha dato prova di leadership e di responsabilità accettando l’appello all’unità di Netanyahu,” ha affermato Hanegbi. “Nonostante il prezzo che ha dovuto pagare di tasca sua, l’alleanza Gantz-Netanyahu può essere fonte di fiducia e di cooperazione armonica per i prossimi tre anni.”

Il generale in pensione Amram Mitzna, che una volta dirigeva il partito Laburista e conosce bene Netanyahu, si è dimostrato molto meno entusiasta.

Interpellato da MEE ha affermato di provare un “senso di tradimento e di choc” in seguito agli avvenimenti.

“Ci sono delle circostanze attenuanti per Gantz, che non ha realmente alternative per formare un governo. Tuttavia stento a credere che Netanyahu rispetterà l’accordo concluso con Gantz. Spero solo che sarà molto impegnato dal suo processo.”

Ci saranno ulteriori sviluppi.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




La Lista Araba Unita questa volta c’è cascata e ha sbagliato a sostenere Benny Gantz?

Dahlia Scheindlin

27 marzo 2020 – +972

Basato sulla collaborazione tra arabi ed ebrei, l’impatto della Lista Unita sulla società israeliana risiede ben al di là di come sembra il prossimo governo.

In presenza di un disastro sanitario globale e di una crisi costituzionale in Israele, Benny Ganz, il leader di Blu e Bianco, ha infranto giovedì l’impegno preso con gli elettori da un anno a questa parte accettando di entrare in un “governo di emergenza nazionale” guidato da Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele da molto, molto tempo.

I dettagli del governo non sono ancora definitivi, ma la decisione ha scosso Israele come un terremoto. Ha generato il caos politico fra i sostenitori di Gantz e diviso il suo partito a metà.

La fazione di Gantz, Resilienza per Israele, si unirà a un governo guidato dal Likud insieme al blocco dei partiti fedeli a Netanyahu, Shas, Yemina e Giudaismo Unito nella Torah. Le due fazioni rimanenti di Blu e Bianco, Yesh Atid [C’è un futuro, di centro-destra, ndtr.] di Yair Lapid e Telem [Movimento per il Rinnovamento Nazionale, di destra, ndtr.], fondato da Moshe “Bogie” Ya’alon prima delle elezioni dell’aprile 2019, si uniranno all’opposizione. Blu e Bianco perciò è la prima vittima del nuovo governo e ha cessato di esistere.

Secondo alcuni la seconda vittima è la Lista Unita, un amalgama di partiti a maggioranza arabo-palestinese. Ayman Odeh, il leader del partito, infrangendo una tradizione decennale, aveva indicato per due volte Gantz come presidente del futuro governo, con il risultato che Gantz ha riconsegnato Israele nelle mani di Netanyahu. La Lista Unita è stata presa in giro?

È una domanda legittima. Odeh aveva raccomandato Gantz la prima volta dopo le elezioni di settembre nel 2019 e i loro due partiti avevano persino avuto dei colloqui pre-coalizione. Ma Gantz non era riuscito a formare un governo e Odeh aveva finito per diffidare delle sue motivazioni. A gennaio, Odeh aveva detto ad Haaretz che Gantz probabilmente l’aveva usato per contribuire a estromettere Netanyahu, ma che avrebbe poi comunque finito con il formare un governo di unità con il Likud. Odeh si era sentito trattato “come un’amante.”

Eppure dopo le elezioni di marzo, le terze nell’arco di un anno, i partiti di opposizione avevano ottenuto la maggioranza dei voti e finalmente un vero cambiamento sembrava a portata di mano. Nonostante le profonde divisioni interne sulla questione, incluse le minacce pre-elettorali di ritirare tale appoggio, i leader della Lista Unita avevano deciso di dare un’altra possibilità a Blu e Bianco. La Lista Unita si era persino schierata con il suo nemico storico, l’ultra-nazionalista Avigdor Liberman, per unirsi e sostenere Gantz.

A marzo la Lista Unita aveva conquistato 15 seggi, il risultato migliore mai ottenuto. Questa volta persino Balad, una fazione che aveva negato il suo sostegno dopo le elezioni di settembre, si è unita agli sforzi per cacciare Netanyahu. Questi erano passi rivoluzionari per i leader arabi in Israele che, per molto tempo, avevano manifestato la propria ambivalenza circa il sostegno al potere esecutivo israeliano, date le politiche nei confronti dei cittadini palestinesi e nell’ambito più generale della continua occupazione di Israele in aggiunta ai maggiori conflitti arabo-israeliani del passato.

Il miglior risultato possibile per la Lista Unita e tutti i partiti di opposizione sarebbe stato se Gantz avesse formato un governo di minoranza per porre fine al regno di Netanyahu. Non era mai esistita alcuna possibilità che Blu e Bianco invitasse la Lista Unita a diventare partner in una coalizione, dato che in Israele nessun partito arabo indipendente era mai entrato in un’alleanza di governo. Ma la Lista Unita avrebbe potuto appoggiare un voto di fiducia per il governo di minoranza senza farne parte. La società israeliana avrebbe visto i cittadini arabo-palestinesi giocare un ruolo chiave nel tanto atteso passaggio di potere. Lo scenario sarebbe stato rivoluzionario.

Gantz ha distrutto quelle speranze, ma la Lista Unita non ha commesso un errore.

La Lista Unita non può misurare il proprio successo o fallimento basandosi sulla composizione del prossimo governo. Il suo significato risiede nel percorso storico di più ampio respiro della società israeliana.

In Israele le coalizioni hanno una storia di breve periodo di intrighi politici e governi dalla vita corta. Il Blu e Bianco, come la maggior parte dei partiti di centro in Israele, era destinato a scomparire dopo alcune tornate elettorali. Accettando l’incarico di ministro in un governo Netanyahu Gantz non è solo venuto meno a una promessa di coalizione, ma ha rotto con la ragione d’essere del partito. Da qui il suo scioglimento immediato.

La Lista Unita segue tutt’altra via. I cittadini palestinesi in Israele stanno facendo un viaggio e le azioni del partito hanno innescato la tappa successiva: un impegno politico rinnovato è il carburante per il futuro. Quando nel 2015 è stata fondata, la Lista Unita aveva galvanizzato la partecipazione dell’elettorato arabo, dopo quasi 15 anni di affluenza alle urne significativamente più bassa di quella dei cittadini ebrei. I cittadini arabo-palestinesi si erano stancati di partiti piccoli e privi di potere e, nonostante gli attacchi sempre più razzisti da parte dei governi nazionalisti di estrema destra, si erano sentiti sollevati dalla formazione di questa alleanza politica.

Già allora, gli elettori entusiasti avevano fatto aumentare l’affluenza, portando la lista unita a 13 seggi, mentre nelle precedenti votazioni i partiti, separatamente, ne avevano ottenuti 10. Nelle elezioni dell’aprile 2019 i diverbi politici li hanno divisi, l’affluenza alle urne è crollata, per poi risalire a settembre, quando i partiti arabo-palestinesi in Israele si sono riuniti, portando la partecipazione araba al 65%, il livello più alto dal 1999.

In seguito, sotto la leadership di Odeh, il partito si è prefissato una meta. La sua visione è basata sull’idea di una partnership ebraico-araba, su una solidarietà sociale in generale e sul rifiuto di politiche razziste e nazionaliste. I partiti arabi delle generazioni precedenti erano più interessati ad affermare l’identità e i diritti arabo-palestinesi, rendendoli partiti “di nicchia ”. Ma l’idea di una maggiore uguaglianza e collaborazione fra cittadini ha chiaramente intercettato le opinioni dei cittadini arabo-palestinesi.

Secondo un sondaggio condotto nell’aprile 2019 da Local Call [sito di notizie e analisi israeliano in ebraico, ndtr.], i cittadini palestinesi erano a favore, con percentuali molto alte, di parternariati civici fra ebrei e arabi e l’87% degli arabi che hanno risposto credeva che un partito arabo avrebbe dovuto unirsi immediatamente alla coalizione governativa. Le azioni della Lista Unita, contribuendo allo sforzo comune per cacciare i governi di estrema destra, sono fortemente in sintonia con i sentimenti integrazionisti di questi cittadini. Secondo l’Israel Democracy Institute [istituto di ricerche israeliano indipendente, ndtr.], a marzo l’87% degli elettori arabi ha votato per la Lista Unita, invece che per altri partiti, un altro record storico.

Inoltre, l’influenza della Lista Unita va ben oltre la popolazione arabo-palestinese, e il suo impatto sui partiti ebraici e sionisti tradizionali in Israele è stato molto forte, forse irreversibile. Un anno fa sarebbe stato impossibile immaginare che Moshe “Bogie” Ya’alon, l’ex ministro della Difesa di estrema destra sotto Netanyahu, sarebbe stato una delle due figure di Blu e Bianco più impegnate a evitare un governo di unità con Netanyahu, il che significa automaticamente che preferisce insediare un governo di minoranza con i voti della Lista Unita. Un sondaggio che ho condotto per il gruppo della società civile “The Democratic Voice” ha rilevato che anche una maggioranza, non meno dell’81% dei sostenitori di Blu e Bianco, sosteneva questa possibilità.

I cittadini ebrei non possono più ignorare la Lista Unita, o i cittadini arabo-palestinesi in generale, come fattore che contribuisce a far parte del potere esecutivo in Israele. Cominceranno a rendere normale l’idea che un partito arabo si unisca a un simile governo, cosa che io ho sostenuto, sarebbe dovuta succedere anni fa.

Alcuni ebrei israeliani vedono già in modo diverso il futuro politico: secondo la maggioranza delle analisi i voti ebrei per la Lista Unita sono raddoppiati rispetto alle tornate precedenti. Aneddoticamente, molti di questi ebrei mi hanno detto che non avevano mai votato prima per un partito arabo-ebraico o palestinese. Per loro la Lista Unita non era più settoriale, ma rappresentava la solidarietà e la collaborazione che loro desiderano per Israele in futuro.

Negli ultimi anni la sinistra ebraica in Israele ha sempre di più rivolto la propria attenzione a coltivare la collaborazione civile e politica fra ebrei e arabi in Israele. Sono nati nuovi movimenti ebraici-arabi. Meron Rapoport [scrittore e giornalista israeliano indipendente, ndtr.] ne ha analizzato le ragioni in profondità. Forse questi tentativi stanno riempiendo un vuoto lasciato dal defunto processo di pace con i palestinesi. Forse sono arrivati alla conclusione che la collaborazione fra ebrei e arabi potrebbe far anche avanzare uguaglianza e autodeterminazione per i palestinesi sotto occupazione.

La visione della Lista Unita e le decisioni politiche sono valide per entrambi. Il partito sta tracciando una nuova via, che i cittadini ebrei e palestinesi potrebbero, un giorno, percorrere insieme.

Dahlia Scheindlin è un’analista di fama internazionale degli orientamenti dell’opinione pubblica e una consulente strategica, specializzata in cause progressiste, in campagne politiche e sociali in oltre una dozzina di Paesi, incluse democrazie nuove/in transizione e nella ricerca su pace/conflitto in Israele, con esperienze nell’Europa orientale e nei Balcani. Lavora per un grande numero di organizzazioni locali e internazionali che si occupano dei temi del conflitto israelo-palestinese, di diritti umani, processi di pace, democrazia, identità religiosa e problemi sociali interni. Ha conseguito un dottorato di ricerca in scienze politiche alla TAU, l’università di Tel Aviv, e co-presenta il podcast The Tel Aviv Review.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’epidemia di coronavirus al tempo dell’apartheid

Osama Tanous

24 Marzo 2020 – Al Jazeera

Mentre il mondo invoca solidarietà, i palestinesi non se ne aspettano alcuna dai loro occupanti

Mentre il numero di infezioni e decessi per COVID-19 si moltiplica di giorno in giorno, ci sono sempre più appelli in tutto il mondo affinché le persone dimostrino solidarietà e e si prendano cura gli uni degli altri. Ma per il governo israeliano non esiste solidarietà.

Appena sono state rilevate le prime infezioni da coronavirus, le autorità israeliane hanno dimostrato di non avere alcuna intenzione di alleggerire l’apartheid e far sì che i palestinesi siano in grado di affrontare l’epidemia in condizioni più umane.

La repressione è continuata, con le forze di occupazione israeliane che hanno usato l’epidemia come scusa per aumentare la presenza della polizia, che continua a fare irruzioni in alcune comunità come il quartiere Issawiya a Gerusalemme est, a demolire case come nel villaggio di Kafr Qasim, e a distruggere i raccolti delle comunità beduine nel deserto del Naqab.

Nonostante quattro prigionieri palestinesi risultino positivi al COVID-19, il governo israeliano ha finora rifiutato di accogliere gli appelli e liberare i 5.000 palestinesi (inclusi 180 minori) che attualmente detiene nelle carceri. Non c’è segno nemmeno che possa essere prima o poi revocato il blocco della Striscia di Gaza, che ha decimato i servizi pubblici.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sta anche cercando di escludere il partito Lista Unita, per lo più palestinese, dalla formazione del governo di unità nazionale di contrasto all’epidemia, definendo i suoi membri “sostenitori del terrore”.

E intanto le autorità israeliane si sono affrettate a descrivere i palestinesi come portatori del virus, minaccia per la salute pubblica.

All’inizio di marzo, quando il Ministero della Sanità palestinese ha annunciato la conferma dei primi sette casi di coronavirus (causa della malattia COVID-19) nel territorio palestinese occupato, il Ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett ha rapidamente chiuso la città di Betlemme, dove si registravano tutti i casi.

Ovviamente la preoccupazione non era per la salute e la sicurezza dei palestinesi in città, ma piuttosto la paura che infettassero gli israeliani. Il vicino insediamento di Efrat – dove erano state confermate altre infezioni, ovviamente – non era stato al momento bloccato.

Poco dopo, il Ministero della Sanità ha rilasciato una dichiarazione in cui consigliava agli israeliani di non entrare nei territori palestinesi occupati.

La scorsa settimana, Netanyahu ha chiesto alla “popolazione di lingua araba” di seguire le istruzioni del Ministero della Sanità, sostenendo che esiste un problema di disobbedienza fra i palestinesi. Nessuna preoccupazione è stata espressa in merito ad alcuni membri della popolazione ebraica di Israele, che si è recisamente rifiutata di chiudere scuole e attività religiose.

Questo atteggiamento nei confronti dei palestinesi non è certo nuovo. Gli scritti dei primi coloni sionisti europei sono pieni di pregiudizi razzisti sull’igiene e sulle condizioni di vita degli arabi; la minaccia di malattie provenienti dalla popolazione palestinese è stata una iniziale giustificazione dell’apartheid.

Oltre alla secolare repressione e discriminazione, durante l’epidemia di COVID-19 i palestinesi dovranno affrontare un’altra conseguenza dell’occupazione e dell’apartheid: un sistema sanitario distrutto.

Le origini del malfunzionamento risalgono all’era del mandato, quando gli inglesi scoraggiarono la nascita di un settore sanitario gestito dai palestinesi. La popolazione palestinese (principalmente nelle zone urbane) era servita dai numerosi ospedali istituiti dai colonialisti britannici Nel frattempo, i coloni ebrei furono autorizzati a istituire un proprio sistema sanitario, finanziato generosamente dall’estero e gestito autonomamente rispetto al mandato.

Durante la Seconda Guerra Mondiale alcuni missionari se ne andarono e chiusero le loro cliniche e, dopo il 1948, gli inglesi si ritirarono, lasciando dietro di sé un’infrastruttura sanitaria mal funzionante. Nel 1949, l’Egitto annetteva Gaza e l’anno successivo la Giordania fece lo stesso con la Cisgiordania. Nel corso dei successivi 17 anni, Il Cairo e Amman hanno provveduto alla popolazione palestinese che viveva sotto il loro dominio, ma in realtà non hanno mai istituito un sistema sanitario efficiente.

L’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro per i Rifugiati Palestinesi in Medio Oriente, ha dovuto aumentare i propri servizi, fornendo assistenza sanitaria di base, mentre i palestinesi hanno iniziato a costruire una rete di strutture sanitarie filantropiche.

Dopo la guerra del 1967 e l’occupazione israeliana della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, Israele in quanto potenza occupante è divenuto legalmente responsabile dell’assistenza sanitaria dei palestinesi, ma non sorprende che non abbia fatto nulla per incoraggiare lo sviluppo di un forte settore sanitario. Per chiarire: nel 1975, il budget stanziato per l’assistenza sanitaria in Cisgiordania era inferiore a quello annuale di un ospedale israeliano.

Nel 1994 è stata creata l’Autorità Nazionale Palestinese, che ha assunto la responsabilità dei servizi. Inutile dire che l’eterna occupazione e il fatto che il bilancio dell’Autorità dipenda da donatori stranieri e dai capricci del governo israeliano, nonché dalla corruzione dei funzionari dell’ANP, non ha permesso al settore sanitario palestinese di migliorare.

Come risultato, se doveste entrare oggi in un ospedale palestinese in Cisgiordania, rimarreste colpiti dal sovraffollamento dei pazienti, dalla carenza di materiali, dalle attrezzature inadeguate e da infrastrutture e condizioni igieniche scadenti. I medici che ci lavorano hanno ripetutamente protestato contro le misere condizioni di lavoro nei loro ospedali, recentemente nel febbraio di quest’anno, ma senza esito.

Con solo 1,23 posti letto ogni 1.000 persone, 2.550 medici che ci lavorano, meno di 20 specialisti in terapia intensiva e meno di 120 ventilatori in tutti gli ospedali pubblici, la Cisgiordania occupata si trova di fronte al disastro della sanità pubblica se le autorità non contengono la diffusione di COVID-19.

La situazione in Cisgiordania può sembrare desolante, ma quella nella Striscia di Gaza è semplicemente catastrofica. Le Nazioni Unite hanno annunciato che la Striscia sarebbe stata invivibile nel 2020. Siamo nel 2020 e gli abitanti della Striscia di Gaza – oltre alle disumane condizioni di vita – stanno ora affrontando anche l’epidemia di COVID-19, dopo che il 21 marzo sono stati confermati i primi casi.

Il blocco di Gaza imposto da Israele, Egitto e ANP ha portato il sistema sanitario sull’orlo del collasso, aggravato da ripetuti attacchi che hanno distrutto le strutture sanitarie e dal lento processo di ricostruzione che ha fatto seguito alle ripetute offensive militari su larga scala dell’esercito israeliano.

La popolazione di Gaza sta già affrontando condizioni terribili: la disoccupazione è al 44 % (61 % per i giovani); l’80 % della popolazione dipende da una qualche forma di assistenza straniera; il 97 % dell’acqua non è potabile; e il 10 % dei bambini ha un arresto nella crescita dovuto alla malnutrizione.

Le prestazioni sanitarie sono in costante calo. Secondo la ONG Assistenza Sanitaria per i Palestinesi, dal 2000 “c’è stato un calo del numero di letti ospedalieri (da 1,8 a 1,58), di medici (da 1,68 a 1,42) e infermieri (da 2,09 a 1,98) ogni 1.000 persone, con conseguente sovraffollamento e riduzione della qualità dei servizi”. Il divieto di Israele all’importazione di tecnologia per il possibile “duplice uso” ha limitato l’acquisto di attrezzature quali scanner a raggi X e radioscopi sanitari.

Le continue interruzioni di corrente minacciano la vita di migliaia di pazienti affidati alle attrezzature mediche, compresi i bambini nelle incubatrici. Gli ospedali mancano di circa il 40% delle medicine essenziali, e ci sono quantità insufficienti di materiale sanitario di base come siringhe e garze. La decisione nel 2018 dell’amministrazione Trump di interrompere i finanziamenti statunitensi all’UNRWA ha diminuito le capacità dell’ente di fornire assistenza sanitaria e permettere ai medici di eseguire interventi chirurgici complessi a Gaza.

I limiti del sistema sanitario di Gaza sono stati messi a dura prova nel 2018 durante la Grande Marcia del Ritorno, quando i soldati israeliani hanno sparato in modo indiscriminato sui palestinesi disarmati che protestavano vicino alla recinzione che separa la Striscia dal territorio israeliano. In quei giorni gli ospedali sono stati sopraffatti da feriti e morti e per mesi hanno lottato per fornire cure adeguate alle migliaia di persone ferite da proiettili veri, molte delle quali sono rimaste disabili a vita.

La Striscia di Gaza è una delle aree più densamente popolate del mondo, e soffre anche di gravi problemi alle infrastrutture idriche e igieniche. È chiaro che fermare la diffusione di COVID-19 sarà quasi impossibile. È anche chiaro che la popolazione, già logorata dalla malnutrizione, da un alto tasso di disabilità (a causa di tutti gli attacchi israeliani) e dal disagio psicologico dovuto alla guerra e alle difficoltà sarà molto più vulnerabile al virus: molti moriranno e il sistema sanitario probabilmente crollerà.

Quindi, ora che la Cisgiordania e Gaza affrontano potenziali catastrofi sanitarie nel mezzo di un’epidemia di COVID-19, la domanda è: che cosa farà Israele? Darà accesso al suo sistema sanitario ai palestinesi?

Un recente video diventato virale sui social media palestinesi può darci la risposta. Si vede un bracciante palestinese lottare per non soffocare sul ciglio di una strada ad un checkpoint israeliano vicino al villaggio di Beit Sira. Il suo datore di lavoro israeliano aveva allertato la polizia israeliana dopo averlo visto gravemente malato e sospettando che avesse il virus. É stato preso e scaricato al checkpoint.

Decenni di dominio coloniale, occupazione militare e ripetuti assalti letali hanno insegnato ai palestinesi a non aspettarsi alcuna “solidarietà” dal governo israeliano dell’apartheid. In questo, come nelle crisi precedenti, riusciranno a superarla con la loro proverbiale sumud (perseveranza).

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Osama Tanous è un pediatra di Haifa [in Israele, ndtr.] e sta conseguendo un master in Sanità Pubblica

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)