Guerra contro pace: Israele ha deciso ed altrettanto dovremmo fare noi

Ramzy Baroud

17 aprile 2019, Ma’an News

Quindi, cosa abbiamo imparato dalle elezioni politiche israeliane del 9 aprile?

Parecchie cose.

Per iniziare, non facciamoci prendere in giro da una definizione come il “testa a testa” tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyhau e il suo principale rivale, Benny Gantz.

Sì, gli israeliani si dividono su qualche questione specifica della loro composizione sociale ed economica. Ma sono anche risolutamente uniti riguardo al problema che più ci dovrebbe preoccupare: la continua sottomissione del popolo palestinese.

Infatti, “testa a testa” o meno, Israele ha votato per rafforzare l’apartheid, appoggiare la continua annessione della Cisgiordania occupata e proseguire con l’assedio di Gaza.

All’indomani delle elezioni Netanyahu è risultato persino più forte: il suo partito, il Likud, le ha vinte con 36 seggi, seguito da Kahol Lavan (Blu e Bianco) di Gantz con 35 seggi.

Gantz, la stella nascente della politica israeliana, durante tutta la campagna è stato etichettato come un politico di centro, una definizione che ha lanciato un’ancora di salvezza alla “sinistra” israeliana – di cui comunque non è rimasto molto – sconfitta.

Questa definizione ha contribuito a sostenere l’effimera illusione che ci sia un’alternativa israeliana al campo estremista di destra di Netanyahu.

Ma non c’è mai stato nessun indizio che suggerisca che Gantz sarebbe stato meglio al punto di porre fine all’occupazione israeliana, di smantellare il regime di apartheid e di allontanarsi dal discorso prevalentemente razzista del Paese.

In effetti, è vero il contrario.

Gantz ha ripetutamente criticato Netanyahu perché sarebbe stato troppo moderato con Gaza, promettendo di far piovere ancora più morte e distruzione su una zona che, secondo le Nazioni Unite, entro il 2020 diventerà inabitabile.

Nel corso della competizione elettorale, dalla campagna di Gantz è stata diffusa una serie di video, definiti “Solo i forti sopravvivono”. Nei filmati Gantz è stato dipinto come il salvatore della Nazione, che, quando era capo di stato maggiore dell’esercito, tra il 2011 e il 2015 ha ucciso molti palestinesi.

Gantz è particolarmente orgoglioso di essere stato in parte responsabile di aver bombardato Gaza “fino ad averla riportata all’età della pietra”.

A quanto pare ai centristi israeliani e a ciò che rimane della sinistra importa poco che nella guerra israeliana del 2014 contro Gaza, denominata operazione “Margine Protettivo”, siano stati uccisi oltre 2.200 palestinesi e oltre 11.000 siano rimasti feriti. In quella guerra estremamente tragica più di 500 minori palestinesi sono stati uccisi e sono state distrutte molte delle già precarie infrastrutture di Gaza.

Ma d’altra parte, perché votare per Gantz quando Netanyahu e la sua alleanza di estrema destra stanno portando a termine il lavoro?

Purtroppo la futura coalizione di Netanyahu probabilmente sarà ancora più estremista di quella precedente.

Oltretutto, grazie alle nuove possibili alleanze, Netanyahu molto probabilmente si libererà degli alleati più imbarazzanti, del calibro dell’l’ex-ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman.

Un cambiamento significativo nella probabile ridefinizione della destra israeliana è l’assenza di figure dominanti che, oltre a Lieberman, includono anche l’ex-ministro dell’Educazione Naftali Bennett e l’ex-ministra della Giustizia Ayelet Shaked.

Tutto il protagonismo di Bennett e Shaked, che recentemente hanno fondato un nuovo partito chiamato “La Nuova Destra”, non ha neppure raccolto i voti sufficienti per raggiungere la soglia richiesta per vincere almeno un seggio nel parlamento israeliano, la Knesset. Ci voleva il 3,25% dei voti, ma hanno ottenuto solo il 3,22%. Entrambi sono rimasti esclusi.

La sconfitta della coppia infame è decisamente rivelatrice: i simboli dell’estrema destra israeliana non soddisfano più le aspettative dell’elettorato estremista israeliano.

Adesso si è spalancato il sipario ai partiti ultra-ortodossi, lo “Shas”, che ora ha otto seggi, e “United Torah Judaism”, con sette seggi, per contribuire a definire la nuova normalità in Israele.

La sinistra israeliana – se mai ha meritato questo nome – ha ricevuto il colpo definitivo: il partito Laburista, una volta predominante, ha vinto solo sei seggi.

D’altra parte i partiti arabi che hanno partecipato alle elezioni del 2015 sotto l’insegna unitaria della “Lista di coalizione”, si sono ancora una volta frammentati, raggiungendo in totale solo 10 seggi.

La perdita di tre seggi rispetto alle precedenti elezioni può essere in parte attribuita a programmi di fazione o personali. Ma ciò difficilmente spiega in modo esaustivo la massiccia caduta della partecipazione araba al voto nelle elezioni: il 48% rispetto al 68% nel 2015.

Questo record di bassa partecipazione si spiega solo con la legge razzista dello Stato-Nazione, che il 19 luglio 2018 è stata approvata dalla Knesset dominata dalla destra. La nuova legge fondamentale ha dichiarato Israele “lo Stato-Nazione del popolo ebraico” ovunque, relegando i diritti, la storia, la cultura e la lingua del popolo palestinese, mettendo invece in rilievo tutto quello che è ebraico, rendendo l’autodeterminazione nello Stato un diritto esclusivo solo degli ebrei.

È probabile che questa tendenza continui, in quanto le istituzioni politiche israeliane non offrono più neppure un margine simbolico di vera democrazie e di corretta rappresentanza.

Ma forse la lezione più importante che si può trarre all’indomani di queste elezioni è che nell’Israele di oggi l’occupazione militare e l’apartheid sono state interiorizzate e normalizzate come realtà indiscusse, che non meritano neppure un dibattito nazionale. Soprattutto questo dovrebbe ottenere la nostra immediata attenzione.

Durante la campagna elettorale, nessun partito importante ha parlato di pace, tanto meno ha proposto una visione complessiva per raggiungerla. Nessun politico importante ha chiesto lo smantellamento delle colonie ebraiche illegali, edificate su terra palestinese in violazione delle leggi internazionali.

Cosa ancor più importante e significativa, nessuno ha parlato della soluzione dei due Stati.

Per quanto riguarda gli israeliani, la soluzione dei due Stati è morta. Mentre ciò è vero anche per molti palestinesi, l’alternativa israeliana non è certo la coesistenza in uno Stato democratico e secolare. L’alternativa israeliana è l’apartheid.

Netanyahu e il suo futuro governo di coalizione di estremisti che la pensano allo stesso modo sono ora inequivocabilmente in possesso di un mandato popolare per rispettare tutte le loro promesse elettorali, compresa l’annessione della Cisgiordania.

Oltretutto, con una coalizione di destra imbaldanzita e legittimata, probabilmente la prossima estate assisteremo anche ad un notevole aumento della violenza contro Gaza.

Prendendo in considerazione tutto questo, dobbiamo comprendere che le politiche illegali di Israele in Palestina non possono essere e non saranno contrastate all’interno della società israeliana.

La sfida e la fine dell’occupazione israeliana e lo smantellamento dell’apartheid possono avvenire solo attraverso la resistenza palestinese all’interno e la pressione esterna che è centrata sulla strategia del Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).

Spetta ora alla comunità internazionale rompere questo circolo vizioso israeliano ed appoggiare il popolo palestinese nella sua lotta continua contro l’occupazione, il razzismo e l’apartheid israeliani.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, UCSB.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Trump e annessione israeliana del Golan

Il via libera di Trump sul Golan prepara l’annessione della Cisgiordania da parte di Israele

Mondoweiss

Jonathan Cook – 26 marzo 2019

 

Quando lo scorso anno il presidente Donald Trump ha spostato l’ambasciata USA a Gerusalemme occupata, sabotando di fatto ogni speranza di costituzione di uno Stato palestinese sostenibile, ha stracciato le regole internazionali.

La scorsa settimana ne ha calpestato le pagine spiegazzate che rimanevano. Naturalmente lo ha fatto su Twitter.

In riferimento a una grande parte del territorio che Israele ha tolto alla Siria nel 1967, Trump ha scritto: “Dopo 52 anni è ora che gli Stati Uniti riconoscano in pieno la sovranità di Israele sulle Alture del Golan, che sono di fondamentale importanza strategica e riguardo alla sicurezza per lo Stato di Israele e per la stabilità regionale.”

Israele espulse 130.000 siriani dalla Alture del Golan nel 1967, con il pretesto della Guerra dei Sei Giorni, e poi 14 anni dopo annesse il territorio in violazione delle leggi internazionali. Una piccola popolazione di drusi siriani è l’unica sopravvissuta da quell’operazione di pulizia etnica.

Replicando le sue azioni illegali nei territori palestinesi occupati, subito Israele spostò coloni e attività economiche ebraici nel Golan.

Finora nessun Paese aveva riconosciuto l’appropriazione del bottino da parte di Israele. Nel 1981 gli Stati membri dell’ONU, compresi gli USA, dichiararono i tentativi di Israele di cambiare lo status del Golan “nulli e privi di valore”.

Ma negli ultimi mesi il presidente israeliano Benjamin Netanyahu ha iniziato a intensificare i tentativi di rompere questo consenso di lunga data ed è riuscito ad avere dalla sua parte l’unica superpotenza mondiale.

Si è dato da fare quando Bashar Al Assad – aiutato dalla Russia – ha iniziato a recuperare in modo decisivo le perdite territoriali che il governo siriano aveva patito durante gli otto anni di guerra del Paese.

La lotta ha coinvolto una serie di altri Paesi. Lo stesso Israele ha utilizzato il Golan come base da cui lanciare operazioni sotto copertura per aiutare gli oppositori di Assad, compresi i combattenti dello Stato Islamico, nella Siria meridionale. L’Iran e le milizie libanesi di Hezbollah, nel contempo, hanno cercato di limitare lo spazio di manovra di Israele a favore del leader siriano.

Netanyahu ha giustificato pubblicamente con la presenza dell’Iran nelle vicinanze la necessità per Israele di prendere possesso permanente del Golan, definendolo una zona cuscinetto vitale contro i tentativi iraniani di “utilizzare la Siria come base per distruggere Israele.”

Prima di questo, quando Assad stava perdendo terreno a favore dei suoi nemici, il leader israeliano ne aveva fatto una questione diversa. Allora aveva sostenuto che la Siria stava andando in pezzi e che il suo presidente non sarebbe mai stato in grado di reclamare il Golan.

L’attuale ragione [addotta da] Netanyahu non è più convincente della precedente. La Russia e le Nazioni Unite sono già molto avanti nel ridefinire una zona smilitarizzata sul lato siriano della linea di separazione dei contendenti. Ciò garantirebbe che l’Iran non possa schierarsi vicino alle Alture del Golan.

Lunedì notte, durante un incontro tra Netanyahu e Trump a Washington, il presidente ha convertito il suo tweet in un decreto esecutivo.

Il tempismo è significativo. È un altro goffo tentativo da parte di Trump di immischiarsi nelle elezioni israeliane, previste per il 9 aprile. Fornirà a Netanyahu una notevole spinta nel momento in cui lotta contro incriminazioni per corruzione e una effettiva minaccia da parte del partito rivale, “Blu e Bianco” [coalizione di centro, ndt.], guidata da ex-generali dell’esercito.

Netanyahu ha controllato a stento la sua esultanza dopo il tweet di Trump, e lo avrebbe chiamato per dirgli: “Tu hai fatto la storia!”

Ma, in verità, non si è trattato di un capriccio. Israele e Washington sono andati in questa direzione da parecchio.

In Israele, c’è un appoggio condiviso tra tutti i partiti al fatto che Israele si impossessi del Golan.

Michael Oren, ex ambasciatore israeliano negli USA e consigliere di Netanyahu, lo scorso anno ha formalmente lanciato un piano per quadruplicare in un decennio le dimensioni della popolazione di coloni nel Golan, portandola a 100.000 persone.

Lo scorso mese il Dipartimento di Stato USA ha offerto il proprio palese visto di approvazione quando ha incluso per la prima volta le Alture del Golan nella sezione “Israele” del suo rapporto annuale sui diritti umani.

Questo mese il senatore repubblicano Lindsey Graham ha fatto una vera e propria visita pubblica nel Golan su un elicottero militare israeliano, insieme a Netanyahu e a David Friedman, l’ambasciatore di Trump in Israele. Graham ha detto che lui e il suo amico senatore Ted Cruz avrebbero fatto pressione perché il presidente USA cambiasse lo status del territorio.

Nel contempo Trump non ha fatto segreto del suo disprezzo nei confronti delle leggi internazionali. Questo mese i suoi funzionari hanno vietato l’ingresso negli USA a personale della Corte Penale Internazionale, con sede all’Aia, che sta facendo un’inchiesta su crimini di guerra USA in Afghanistan.

La CPI si è inimicato sia Washington che Israele nei suoi iniziali, e scarsi, tentativi di obbligare entrambi a rispondere delle loro azioni.

Qualunque siano le piroette di Netanyahu riguardo alla necessità di scongiurare una minaccia iraniana, Israele ha altre, e più concrete, ragioni per tenersi stretto il Golan.

Il territorio è ricco di sorgenti d’acqua e fornisce ad Israele il controllo decisivo sul Mare di Galilea, un grande lago di acqua dolce che è di fondamentale importanza in una regione che deve affrontare una sempre maggiore carenza d’acqua.

I 1.200 km2 di terra rubata sono stati sfruttati in modo aggressivo, dai fiorenti vigneti e meleti all’industria turistica che, in inverno, include le pendici coperte di neve del monte Hermon.

Come ha notato “Who Profits”, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, in un rapporto dello scorso mese, imprese israeliane e statunitensi stanno anche installando impianti di energia eolica per vendere elettricità.

E Israele ha collaborato in silenzio con il gigante USA dell’energia “Genie” per sfruttare le potenzialmente grandi riserve di petrolio sotto il Golan. Il consigliere e genero di Trump Jared Kushner ha investimenti di famiglia in “Genie”. Ma estrarre il petrolio sarà difficile finché Israele non potrà sostenere in modo plausibile di avere sovranità sul territorio.

Per decenni gli USA hanno regolarmente cercato di obbligare Israele a iniziare colloqui di pace pubblici e riservati con la Siria.   Solo tre anni fa Barack Obama ha appoggiato una condanna del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a Netanyahu per aver affermato che Israele non avrebbe mai restituito il Golan.

Ora Trump ha dato il via libera a Israele perché se ne impossessi per sempre.

Ma, qualunque cosa egli dica, la decisione non porterà sicurezza ad Israele, o stabilità regionale. Di fatto rende insensato l’“accordo del secolo” di Trump, un piano di pace regionale a lungo rimandato per porre fine al conflitto israelo-palestinese che, secondo indiscrezioni, dovrebbe essere svelato poco dopo le elezioni israeliane.

Al contrario, il riconoscimento da parte degli USA si dimostrerà una manna per la destra israeliana, che chiede a gran voce l’annessione di vaste zone della Cisgiordania e piantare di conseguenza l’ultimo chiodo sulla bara della soluzione dei due Stati.

La destra israeliana può ora plausibilmente sostenere: “Se Trump ha accettato il fatto che ci siamo impossessati illegalmente del Golan, perché non [accetterebbe] anche il nostro furto della Cisgiordania?”

Una versione di questo articolo è comparsa per la prima volta su “The National”, Abu Dhabi.

 

Su Jonathan Cook

 

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il giornalismo. Tra i suoi libri: “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [“Israele e il crollo della civiltà: Iraq, Iran ed il piano per rifare il Medio Oriente”] (Pluto Press), e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [“Palestina scomparsa: esperimenti israeliani in disperazione umana”] (Zed Books).

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Attachi israeliani contro Gaza

Israele lancia attacchi contro Gaza, mettendo a rischio il ‘cessate il fuoco’

Fonti ufficiali israeliane hanno messo in discussione le affermazioni dei dirigenti di Hamas secondo cui è stato raggiunto un cessate il fuoco per porre fine alle violenze di questa settimana

 

Middle East Eye

 

Della Redazione di MEE

26 Marzo 2019

 

Israele ha colpito alcuni obiettivi nella Striscia di Gaza assediata, rompendo potenzialmente il cessate il fuoco che secondo Hamas sarebbe stato negoziato tra Egitto e Israele.

Secondo Haaretz, che ha citato un portavoce dell’esercito israeliano, Israele ha attaccato un complesso di edifici e un deposito di armi di Hamas nel distretto di Khan Younis.

Martedì sera l’esercito israeliano ha affermato che un razzo da Gaza ha colpito la regione israeliana di Ashkelon senza causare vittime o danni.

Martedì notte gli attacchi di Israele sono avvenuti un giorno dopo che un razzo da Gaza ha colpito una casa a nord di Tel Aviv.

Contrariamente alle affermazioni di Hamas, i mezzi di informazione israeliani Haaretz e Ynet martedì hanno informato che non è stato raggiunto un cessate il fuoco per porre fine al riacutizzarsi della violenza nella Striscia di Gaza durante questa settimana.

Durante la giornata di lunedì l’esercito israeliano ha bombardato alcuni obiettivi a Gaza, compresi l’ufficio del dirigente di Hamas Ismail Haniyeh e la casa di una famiglia palestinese nel centro di Gaza City.

La violenza è iniziata dopo che un razzo lanciato dal territorio palestinese assediato ha colpito una città nel centro di Israele, ferendo sette persone.

Israele ha subito accusato Hamas di essere dietro l’attacco, ma il gruppo palestinese ha negato ogni responsabilità.

Lunedì una fonte non identificata a Gaza ha detto all’AFP [agenzia di stampa francese, ndt.] che il razzo potrebbe essere stato lanciato inavvertitamente a causa del “cattivo tempo”.

Mentre montavano i timori di una guerra totale israeliana, il portavoce di Hamas Fawzi Barhoum lunedì sera ha detto che era stato raggiunto un cessate il fuoco.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza sette palestinesi sono rimasti feriti durante la notte da attacchi aerei israeliani.

Secondo Haaretz martedì pomeriggio un razzo lanciato da Gaza è caduto in una zona disabitata in Israele, facendo scattare le sirene di allerta. Il razzo non ha causato nessun danno né feriti, afferma il giornale israeliano.

Un funzionario anonimo di Gaza ha detto alla Reuter [agenzia di stampa britannica, ndt.] che l’attacco con i razzi di martedì è stata un’azione individuale, non approvata da Hamas o da qualunque altro gruppo armato nel territorio palestinese.

 

“Faremo quello che è necessario”

Invece fonti ufficiali israeliane hanno chiesto una dura risposta contro Hamas.

Parlando martedì all’annuale conferenza del gruppo lobbystico filo-israeliano AIPAC in un video filmato da Israele, Netanyahu ha detto che è stata usata una “grande forza” per rispondere ad Hamas.

“Nelle ultime 24 ore (l’esercito israeliano) ha distrutto importanti installazioni terroristiche di Hamas a un livello mai più visto dalla fine dell’operazione militare a Gaza di quattro anni fa [operazione “Margine protettivo”, ndt.] … E vi posso dire che siamo pronti a fare molto di più,” ha detto il primo ministro israeliano.

“Faremo quanto necessario per difendere il nostro popolo e il nostro Stato.”

Le sue dichiarazioni arrivano a due sole settimane dalle elezioni israeliane, in cui [Netanyahu] deve affrontare un’importante sfida con l’ex-generale dell’esercito israeliano Benny Gantz.

Il ministro dell’Educazione israeliano di estrema destra, Naftali Bennett, un alleato di Netanyahu, ha invitato l’esercito del Paese a utilizzare la forza bruta per “neutralizzare” Hamas, mettendo in guardia contro il fatto di prendere una posizione debole contro il gruppo palestinese.

Secondo Haaretz martedì egli ha detto: “Se tu fuggi dal terrorismo, il terrorismo ti inseguirà.”

 

(Traduzione di Amedeo Rossi)

 




Cessate il fuoco a Gaza annunciato da Hamas

Hamas dice che è stato raggiunto un cessate il fuoco dopo attacchi aerei sulla Striscia di Gaza

Un portavoce di Hamas afferma che l’Egitto ha contribuito a mediare un cessate il fuoco tra Israele e le fazioni armate palestinesi a Gaza

 

Middle East Eye

MEE e agenzie – 25 marzo 2019

 

Un portavoce di Hamas ha affermato che, dopo che l’esercito israeliano ha compiuto una serie di attacchi aerei contro la Striscia di Gaza assediata, è stato raggiungo un cessate il fuoco con Israele.

Come informano i media locali, in una breve dichiarazione [rilasciata] lunedì sera, il portavoce di Hamas Fawzi Barhom ha detto che l’Egitto ha contribuito a mediare un cessate il fuoco tra Israele e le fazioni armate palestinesi a Gaza.

Al momento Hamas non ha fornito alcun ulteriore dettaglio sull’accordo.

Il cessate il fuoco, di cui hanno riferito per primi i mezzi di informazione di Hamas, è giunto dopo che le forze israeliane hanno lanciato una serie di attacchi contro quelli che ha descritto come “obiettivi del terrorismo di Hamas” nella Striscia di Gaza.

Gli attacchi aerei sono stati lanciati alcune ore dopo che un missile sparato dal territorio palestinese assediato ha colpito una cittadina nel centro di Israele.

L’aumento della violenza ha suscitato timori che potesse essere imminente una campagna di bombardamenti israeliani su vasta scala.

Citando un anonimo funzionario di Hamas, la Reuter [agenzia di notizie britannica, ndt.] ha informato che la tregua è entrata in vigore alle 22 ora locale.

“Grazie alla mediazione dell’Egitto è stato raggiunto un accordo su un cessate il fuoco tra le fazioni palestinesi e Israele,” ha detto il funzionario alle agenzie di stampa.

La Reuter ha affermato che al momento Israele non ha commentato le informazioni sul cessate il fuoco.

Nel primo pomeriggio di lunedì la Reuter ha informato che un attacco aereo israeliano aveva preso di mira l’ufficio del leader di Hamas Ismail Haniyeh a Gaza.

Era improbabile che Haniyeh vi si trovasse, in quanto normalmente Hamas evacua i propri edifici quando si aspetta attacchi israeliani, afferma l’agenzia di stampa. Un portavoce militare israeliano ha rifiutato di commentare l’informazione.

Il movimento Hamas ha negato l’accusa dell’esercito israeliano di aver effettuato lunedì mattina un attacco con il razzo che ha ferito sette persone nella cittadina israeliana di Meshmeret.

Funzionari della sicurezza palestinese e i mezzi di comunicazione di Hamas hanno affermato che gli attacchi aerei israeliani hanno colpito una postazione navale di Hamas a ovest di Gaza City e anche un grande campo di addestramento nella parte settentrionale di Gaza.

È probabile che entrambe le postazioni siano state evacuate, in quanto Hamas ha avuto ore di preavviso che stavano per cominciare attacchi israeliani. Testimoni hanno detto che tre missili hanno colpito l’obiettivo a nord.

Mohamad Ghazali, un capofamiglia palestinese di Gaza City, che si trova nella parte centrale della Striscia, ha affermato che un soldato israeliano lo ha chiamato per telefono dicendogli che lui e la sua famiglia avevano solo qualche minuto per evacuare la loro casa.

“Hanno affermato che nessuno doveva rimanere nella zona. Abbiamo risposto: ‘Abbiamo bambini piccoli, dove li dovrei portare?’” ha detto Ghazali a MEE.

Ghazali racconta che la sua famiglia se n’è andata senza nient’altro che i vestiti che avevano addosso e che qualche momento dopo una serie di missili ha colpito la loro casa.

Ha aggiunto di non capire perché la casa sia stata presa di mira, in quanto non ci sono gruppi armati nel quartiere.

In un comunicato prima del presunto attacco al suo ufficio Haniyeh ha affermato che “l’attuale situazione palestinese sta subendo un attacco su vasta scala a tutti i livelli: a Gerusalemme, in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e all’interno delle carceri israeliane.”

Ha sostenuto che i palestinesi “non si arrenderanno all’occupazione israeliana”, promettendo che “se l’occupante israeliano attraverserà la linea rossa, la resistenza palestinese risponderà di conseguenza.”

Ciò è stato ripetuto da Ziyad al-Nakhleh, segretario generale della Jihad islamica, un gruppo armato che opera a Gaza, che ha affermato che “risponderà duramente a ogni aggressione israeliana contro Gaza.”

Yahya Sinwar, il capo di Hamas, che governa l’enclave costiera assediata, ha annullato un evento pubblico previsto per lunedì pomeriggio, e funzionari di Hamas hanno parlato di “sviluppi”.

Nel contempo lunedì mattina, parlando a Washington, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che Israele “farà tutto il necessario per difendere il suo popolo. Israele non tollererà attacchi con razzi sul suo territorio.”

Anche il presidente USA Donald Trump ha detto che Israele “ha il diritto di difendersi.”

 

Razzi colpiscono a nord di Tel Aviv

Di prima mattina una casa è stata completamente distrutta e almeno un’altra e alcune automobili sono state gravemente danneggiate dopo che razzi sono caduti sulla comunità agricola israeliana di Mishmeret, a circa 20 km a nord-est di Tel Aviv.

L’attacco è avvenuto qualche minuto dopo che l’esercito israeliano aveva attivato le sirene di allarme aereo nella zona e detto che un razzo era stato lanciato dalla Striscia di Gaza.

L’esercito israeliano ha affermato che il razzo era stato sparato da una postazione di Hamas nei pressi di Rafah, a sud di Gaza.

Ma lunedì non era ancora chiaro da dove sia partito il razzo.

“Nessuno dei movimenti di resistenza, compreso Hamas, ha interesse a sparare razzi dalla Striscia di Gaza verso il nemico,” ha detto all’AFP [agenzia di stampa francese, ndt.] un anonimo ufficiale, evocando la possibilità che sia stato il “cattivo tempo”.

Almeno in una precedente occasione in cui Hamas e altri gruppi di miliziani hanno negato di aver lanciato razzi su Israele, essi hanno ipotizzato che un temporale avesse attivato il lancio di un razzo.

Non è tuttora chiaro se l’ufficiale intervistato dall’AFP lunedì alludesse a una simile eventualità.

Il quotidiano israeliano Haaretz ha informato che comunque lunedì mattina il portavoce dell’esercito israeliano Ronen Manelis ha detto che due brigate si stavano dirigendo a sud verso Gaza e che l’esercito stava mobilitando migliaia di riservisti, compresi quelli dell’aviazione.

L’ospedale dove sono in cura le vittime ha affermato che sette israeliani, tra cui un neonato, un bambino di tre anni, una ragazzina di 12 e una donna sessantenne, sono rimasti leggermente feriti da bruciature e schegge. Sei di loro sono membri della stessa famiglia.

L’attacco di lunedì mattina è giunto in un momento di tensioni in aumento in seguito all’ anniversario delle proteste della Grande Marcia del Ritorno a Gaza del fine settimana e mentre Netanyahu si trova in visita a Washington nell’ambito della campagna in corso per un quinto mandato nelle elezioni del 9 aprile in Israele.

Netanyahu ha detto che in seguito all’attacco avrebbe interrotto il suo viaggio negli Stati Uniti, dove era previsto che parlasse alla conferenza dell’associazione lobbystica filo-israeliana AIPAC.

“Alla luce degli avvenimenti riguardanti la sicurezza ho deciso di interrompere la mia visita negli USA,” ha detto Netanyahu, definendo l’attacco un crimine efferato che porterà a una forte risposta israeliana.

Tuttavia, prima di tornare ha incontrato Trump alla Casa Bianca, dove la coppia ha tenuto una conferenza stampa per annunciare che Trump ha firmato un ordine esecutivo che riconosce la “sovranità” israeliana sulle Alture del Golan siriane.

Analisti statunitensi hanno affermato che l’annuncio potrebbe servire a rafforzare le prospettive di Netanyahu nelle elezioni del mese prossimo.

Il principale rivale di Netanyahu nelle imminenti elezioni, l’ex-generale Benny Gantz, che era anche lui a Washingron per partecipare lunedì alla conferenza dell’AIPAC, dopo l’attacco con il razzo ha accusato Netanyahu di aver “mandato in bancarotta la sicurezza nazionale.”

 

Evacuazioni in tutta Gaza

In seguito all’attacco con un razzo a Mishmeret, la marina israeliana ha impedito ai pescatori palestinesi di salpare dalle spiagge di Gaza.

[Gli israeliani] hanno anche chiuso sia il valico di Karam Abu Salem che di Beit Hanoun, che sono utilizzati per il trasporto rispettivamente di beni e persone.

L’esercito israeliano ha inoltre dichiarato numerose aree nel sud di Israele zone militari chiuse, mentre il Comune di Tel Aviv ha aperto al pubblico alcuni rifugi antiaerei.

Nel contempo lunedì edifici governativi, scuole, prigioni, stazioni di polizia e della sicurezza palestinesi a Gaza sono stati evacuati in previsione di potenziali bombardamenti israeliani.

Il quartier generale della televisione Al-Aqsa è stato chiuso per timore che anch’esso potesse essere preso di mira dagli aerei da guerra israeliani.

Fonti hanno anche detto a Middle East Eye che alcune ong con sede a Gaza hanno evacuato il loro personale internazionale.

Durante l’offensiva israeliana contro Gaza nel dicembre 2008 i primi obiettivi di Israele sono stati i commissariati di polizia.

Il ministero della Salute di Gaza ha emanato un’allerta ai cittadini perché lunedì “dimostrino la massima attenzione e cautela”, aggiungendo che gli ospedali – già gravati dall’assedio e dall’alto numero di feriti in un anno di proteste – sono in stato di allerta.

 

Imminenti elezioni

Mishmeret si trova a più di 80 km dalla Striscia di Gaza ed è raro che un lancio di razzi dall’enclave palestinese possa raggiungere quella distanza.

Tel Aviv, la capitale economica di Israele, e le comunità della sua periferia sono finite l’ultima volta sotto simili attacchi durante la guerra del 2014 con Hamas.

Il 14 marzo sono stati lanciati alcuni razzi verso Tel Aviv ma non hanno provocato né vittime né danni, afferma Israele.

Israele accusa Hamas del lancio di questi razzi, benché al momento un ufficiale anonimo della sicurezza di Gaza affermi che il lancio, che ha mancato ogni area edificata, era stato fatto partire per sbaglio.

Israele considera Hamas, il partito che governa di fatto a Gaza, responsabile di ogni lancio di razzi che arriva dal piccolo territorio palestinese, benché nella zona operino anche altre fazioni armate.

Israele sottopone la Striscia di Gaza ad un blocco durissimo, che per chi lo critica rappresenta una punizione collettiva dei due milioni di abitanti dell’enclave impoverita.

Anche l’Egitto mantiene un continuo assedio, limitando i movimenti di entrata ed uscita da Gaza sul suo confine.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Altra guerra preelettorale

Non ce n’era proprio bisogno: un’altra guerra pre-elettorale contro Gaza

Ci vogliono leader capaci di parlare della fine dell’assedio, della fine dell’occupazione, di eguaglianza, di libertà e di sicurezza come unica soluzione sia per gli israeliani che per i palestinesi

+972

Di Haggai Matar e Oren Ziv – 25 marzo 2019

Il razzo lanciato da Gaza che lunedì mattina ha distrutto una casa e ferito sette persone nel centro di Israele ha colto di sorpresa gli israeliani. Da un lato è perfettamente comprensibile; non siamo abituati allo scoppio di razzi nella zona di Tel Aviv, e certamente non a razzi che abbiano un  effetto così devastante. Un attacco  contro civili, contro una famiglia che sta dormendo, è una cosa terrificante.

D’altro lato, l’attacco può sorprendere solo se lo si isola da tutte le vicende che non trovano spazio nell’informazione: i manifestanti disarmati uccisi alla barriera tra Israele e Gaza quasi ogni settimana (solo di recente un ragazzino di 14 anni è stato ucciso dai cecchini israeliani), diversi incidenti mortali in Cisgiordania nelle scorse settimane, e attacchi ed altre azioni intraprese contro prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Quando parliamo delle aggressioni palestinesi, difficilmente qualcuno cita il fatto che dall’inizio dell’anno le forze israeliane hanno ucciso 30 palestinesi a Gaza e in Cisgiordania.

Il lancio del razzo è una sorpresa solo se ci permettiamo di dimenticare il più ampio contesto della realtà quotidiana dell’occupazione – dagli arresti di bambini palestinesi nelle loro aule scolastiche agli attacchi dei coloni ai contadini palestinesi – o l’assedio di Gaza, che ha lasciato i suoi abitanti impoveriti e senza speranze.

Ovviamente  nulla di tutto ciò giustifica gli attacchi a civili israeliani, ma dovrebbe ricordarci che è Israele che attacca i civili palestinesi tutti i giorni. Non possiamo perdere di vista quel contesto quando parliamo di ciò che potrebbe succedere la prossima volta.

In risposta al lancio del razzo di lunedì mattina il primo ministro Netanyahu ha detto che Israele “risponderà con la forza”. (Nel momento in cui scriviamo quegli attacchi sono iniziati). Il vice ministro della Difesa Eli Ben Dahan, che ha visitato la casa distrutta nel moshav [comunità agricola cooperativa, ndt.] di Mishmarot, ha illustrato le tre opzioni del governo israeliano: continuare a colpire i “depositi vuoti” a Gaza, rioccupare la Striscia, o ripristinare il programma israeliano di omicidi mirati.

Il ministro dell’Educazione Naftali Bennett [del partito di estrema destra dei coloni “Casa Ebraica”, ndt.] ha detto che Hamas deve essere “sottomesso”, mentre il rivale di Netanyahu, Benny Gantz, i cui spot elettorali fanno vanto dell’aver ricacciato Gaza all’età della pietra, ha incolpato dell’attacco Netanyahu, per non aver colpito più duramente Hamas e Gaza. Politici di estrema destra hanno chiesto che Gaza venga “spianata”.

Alcuni abitanti di Mishmarot, tuttavia, hanno un approccio differente. Yoni Wolf, la cui famiglia vive nella casa distrutta dal razzo, lunedì mattina ha detto ai giornalisti che Israele deve “riconquistare non solo la propria capacità di deterrenza, ma anche il buonsenso.” Un altro abitante della città ha detto che uno dei suoi ex dipendenti, un palestinese di Gaza, lo ha chiamato per chiedergli come stava: “Non tutti ci odiano”, ha detto.

Il pericolo è che adesso, in seguito all’attacco a Mishmarot, alla luce delle imminenti elezioni e nel tentativo di mantenere la propria immagine di “mister sicurezza”, Netanyahu possa essere trascinato nel più letale e devastante ciclo di violenze cui abbiamo assistito dall’ultima guerra contro Gaza nel 2014.

Ma c’è un’altra strada. Possiamo fermare il massacro. Non dobbiamo scatenare un’altra guerra pre-elettorale. Possiamo smettere di lanciare vuoti slogan sulla distruzione del regime di Hamas. Sono bugie, sono sempre state bugie. Ciò di cui abbiamo bisogno è un leader che parli di negoziati, di porre termine all’assedio e all’occupazione, di eguaglianza, libertà e sicurezza come unica soluzione sia per gli israeliani che per i palestinesi.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su Local Call [sito web israeliano legato a +972].

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Alture del Golan: Trump e Netanyahu

Alture del Golan: Trump intende ‘puntellare’ Netanyahu prima del voto in Israele

Alcuni analisti affermano che la dichiarazione ‘si fa beffe delle leggi internazionali’ per aiutare Netanyahu nelle imminenti elezioni israeliane

Middle East Eye

 

Di Ali Harb da Washington – 21 marzo 2019

 

Secondo alcuni analisti l’annuncio di Donald Trump che Washington riconoscerà la sovranità israeliana sulle Alture del Golan siriane occupate è un tentativo di rilanciare le possibilità di rielezione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Le affermazioni del presidente USA, fatte su twitter giovedì pomeriggio, arrivano a soli 19 giorni dalle elezioni israeliane.

E con esse Trump ha chiarito di voler “puntellare” Netanyhau, che vi si sta avvicinando indebolito, dice a MEE Khalil Jahshan, direttore esecutivo dell’“Arab Center Washington DC” [Centro Arabo di Washington].

“Il messaggio alla gente là, soprattutto nella regione, e al resto del mondo [è]: se hai la potenza militare e l’appoggio degli USA, vai avanti e occupa con la forza la terra di un altro popolo,” dice Jahshan a MEE.

Jahshan aggiunge che l’affermazione del presidente USA serve come distrazione per i rispettivi , sia di Trump che di Netanyahu, problemi giudiziari in patria.

Il leader israeliano sta affrontando una serie di inchieste per corruzione e un’imminente incriminazione da parte del procuratore generale del Paese, mentre politici USA stanno anticipando la pubblicazione del rapporto del procuratore speciale Robert Mueller sulla possibile collusione tra la squadra della campagna elettorale di Trump e la Russia.

Jahshan afferma che, in mezzo a scandali che possono minacciare la sua presidenza, Trump sta anche cercando di riaffermare il proprio impegno a favore di Israele prima dell’annuale conferenza dell’AIPAC [principale associazione della lobby filo-israeliana negli USA, ndt.] all’inizio della prossima settimana.

In effetti il presidente USA ha recentemente invitato gli ebrei americani ad abbandonare il partito Democratico, sottolineando le proprie leali politiche filo-israeliane, compresi lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme e il ritiro dall’accordo nucleare con l’Iran.

Jahshan sostiene che la dichiarazione sul Golan coincide anche con l’imminente visita di Netanyahu a Washington, dove il primo ministro israeliano incontrerà Trump e la prossima settimana parteciperà alla conferenza dell’AIPAC come principale oratore.

 

“Presidente razzista”

Nihad Awad, direttore esecutivo del “Council on American Islamic Relations” [Comitato per le Relazioni Islamico-Americane] (CAIR), ha definito il tweet di Trump sul Golan un chiaro tentativo di intervenire nella politica israeliana e di dare un aiuto a Netanyahu.

“Trump sta intervenendo nelle elezioni di un Paese straniero a favore di un politico che si è schierato con i razzisti e che in Israele ha fatto approvare leggi segregazioniste sullo Stato-Nazione,” dice Awad del primo ministro israeliano.

Lo scorso anno Israele ha approvato la controversa legge sullo Stato-Nazione, che afferma che il Paese è “unicamente del popolo ebraico”. Chi l’ha criticata ha condannato la legge come razzista, affermando che sancisce la discriminazione contro la minoranza palestinese di Israele per legge.

Netanyahu l’ha citata la scorsa settimana per affermare che Israele è solo per gli ebrei, “non uno Stato per tutti i suoi cittadini”.

Awad mette in relazione le politiche interne di Trump contro immigranti e musulmani e la politica estera di Netanyahu.

“Ora è visto come un simbolo dei nazionalisti e dei suprematisti bianchi in America e nel resto del mondo,” afferma Awad. “Cosa ci possiamo aspettare da un presidente razzista se non che vomiti politiche razziste e posizioni contrarie a persone di colore, a minoranze e a un popolo sotto occupazione?”

Awad dice a MEE che, nonostante le sue affermazioni, il presidente USA non ha l’autorità morale né legale di concedere la sovranità israeliana su terra siriana: “Non spetta a lui legittimare l’occupazione di una terra straniera da parte dello Stato di Israele.”

 

Netanyahu loda l’iniziativa

Israele ha occupato le Alture del Golan siriane nella guerra del 1967 e le ha annesse nel 1981. Ora vi si trovano 34 colonie che ospitano decine di migliaia di israeliani.

Ariel Gold, co-direttrice del gruppo femminista contro la Guerra CODEPINK, dice che Trump sta rafforzando la sua alleanza con dirigenti di destra in tutto il mondo, compresi Netanyahu e il brasiliano Jair Bolsonaro.

La dichiarazione sul Golan isola ulteriormente gli USA dal consenso globale – l’annessione del Golan da parte di Israele non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale – mentre riduce le prospettive di una pace in Medio Oriente.

“Ciò – come lo spostamento dell’ambasciata – fa sì che Israele sappia che il suo governo ha il sostegno degli USA, e così, con l’appoggio della superpotenza mondiale, non deve prendere troppo in considerazione quello che aiuterebbe a fare la pace,” dice Gold a MEE.

È esattamente quello che lo stesso Netanyahu ha detto giovedì, quando ha lodato la dichiarazione di Trump che riconosce il possesso israeliano delle Alture del Golan.

“Il messaggio che il presidente Trump ha dato al mondo è che l’America sta con Israele,” ha detto in un comunicato.

“Siamo profondamente grati per l’appoggio USA. Siamo profondamente grati dell’incredibile e incomparabile appoggio alla nostra sicurezza e al nostro diritto di difenderci.”

 

“Beffa alle leggi internationali”

L’annuncio di Trump ha suscitato timori che il riconoscimento da parte degli USA della sovranità israeliana sul Golan possa portare all’annessione da parte di Israele di parti della Cisgiordania palestinese occupata, se non di tutto il territorio, con l’appoggio degli USA.

Omar Baddar, vice direttore dell’“Arab American Institute” [Istituto Arabo Americano] dice che Trump sta mettendo ai margini il ruolo degli USA nel mondo non tenendo conto delle leggi internazionali e promettendo “totale appoggio all’illegittima acquisizione del territorio con la forza da parte di Israele.”

Sia Trump che Netanyahu hanno sottolineato che il possesso israeliano sul Golan deve continuare in modo indefinito per garantire la sicurezza del Paese, citando in particolare la guerra civile siriana in corso e la presenza di truppe iraniane nei pressi del suo territorio.

Baddar rifiuta questo ragionamento.

“Ciò che è più insultante per l’intelligenza di chiunque riguardo all’annuncio di Trump è che viene definito come un tentativo di migliorare la ‘sicurezza’ e la ‘stabilità regionale’, quando la verità è che l’occupazione è forse il maggior contributo all’instabilità e alla violenza,” ha scritto in un’email a MEE.

Certo, il tweet di giovedì è l’ultimo esempio della dimostrazione del disprezzo che Trump dimostra nei confronti delle norme e delle istituzioni internazionali per favorire Israele.

Dopo che la sua amministrazione ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele contro le obiezioni di alcuni degli alleati più vicini a Washington, ha anche lasciato la Commissione ONU per i Diritti Umani per protesta contro le sue critiche alle politiche di Israele.

Washington ha anche tagliato l’aiuto umanitario ai palestinesi.

Ma Trump non si preoccupa delle risoluzioni dell’ONU e dei trattati internazionali che governano le dispute territoriali, dice Jahshan, dell’“Arab Center”.

Ciò è risultato evidente giovedì, dice Jahshan, in quanto la dichiarazione del presidente “si è fatta beffe delle leggi internazionali.”

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Elezioni in Israele, bombe su Gaza

Patrizia Cecconi

15 marzo 2019 , Pressenza

Tutto è cominciato nella tarda serata di ieri, 14 marzo, quando due razzi del tipo Fajar sono stati lanciati su Tel Aviv. Uno dei due è stato intercettato e neutralizzato dall’iron dome e l’altro è caduto in zona disabitata senza creare danni né a persone né a cose.

I razzi Fajar hanno una gittata capace di raggiungere il centro di Israele, sono in possesso del partito della Jihad Islamica a cui sarebbero forniti dall’Iran. Infatti la prima dichiarazione israeliana ha tirato in mezzo proprio l’Iran che, come tutti sanno, è la bestia nera di Netanyahu. Per la prima volta Israele non ha accusato Hamas del lancio, bensì la Jihad proprio in quanto questa sarebbe foraggiata dal paese islamico che il premier israeliano sogna di distruggere e non ne fa mistero. Così, grazie ai due razzi Fajar, Israele ha potuto accusare al tempo stesso due nemici assoluti: l’Iran e l’islam, ottenendo i consensi che sa di ottenere quando gioca sulla confusione tra islamici e islamisti mettendo nello stesso cesto l’Isis e i suoi avversari musulmani, cosa che fa abitualmente riferendosi ad Hamas il quale, in realtà, è il vero baluardo contro l’Isis. Ma la storia dei razzi fajar questa volta ha del giallo, visto che il partito della Jihad, per voce del suo rappresentante Dawod Shihab, ha categoricamente smentito ogni implicazione ed altrettanto ha fatto il partito al governo, lasciando trapelare nell’aria l’idea che possa essersi trattato di “missili elettorali”.

Per esperienza pluriennale, ogni analista politico sa che tutte le azioni contro Israele partite da Gaza vengono rivendicate con orgoglio e come esempio di resistenza attiva, per cui suona veramente strano che quest’azione non abbia rivendicazioni dall’interno della Striscia. Dopo i recenti episodi di infiltrazioni straniere, non stupisce l’ipotesi che questo lancio possa essere stato pilotato a distanza, una distanza che qualcuno legge come servizi speciali israeliani e qualcuno come mano palestinese profondamente avversa sia alla riconciliazione che al partito al governo nella Striscia.

Al momento ogni opinione ha una sua possibilità di accoglimento, ma nessuna di queste si fonda su basi documentate. Ciò che invece è sotto gli occhi di qualunque lettore minimamente attento, è l’uso elettorale pro-Netanyahu che i due Fajar stanno giocando. A poche settimane dalle elezioni , con cause pendenti per frode e corruzione e con avversari politici che dirigono il loro consenso elettorale sul dichiarato impegno genocidario verso i palestinesi, cosa può essere più indicato – per la risalita nel gradimento elettorale del premier uscente – di una punizione collettiva all’incubo-Gaza, anticipando i vari Gantz, o Bennet, o Lieberman nell’uso dell’aviazione di guerra?

Per quanto Israele ci abbia abituati ad agire in totale libero arbitrio e quindi a uccidere quasi quotidianamente, arrestare adulti e bambini, rubare terra e, non ultimo, bombardare senza doverne mai rispondere, l’ultimo rapporto Onu deve aver influenzato il primo ministro il quale, secondo la comprovata ratio del lupo e dell’agnello, ha avuto bisogno del casus belli per trovare il consenso mondiale alla sua azione, riconquistando, attraverso la punizione collettiva contro Gaza, l’elettorato israeliano.

Interessante notare la correlazione suggerita da diversi media più o meno filo-israeliani, tra le manifestazioni dei gazawi contro il carovita, represse dalla polizia governativa, e il lancio dei razzi su Tel Aviv, come fossero non semplici concomitanze ma frutto di una stessa strategia. Ma se così fosse, la strategia mirerebbe ad accrescere il dissenso verso il governo e a far considerare la “punizione collettiva” come indotta dal partito che governa la Striscia. Ovvero mirerebbe all’abbattimento dall’interno, grazie ad una serie di azioni combinate, della componente che governa Gaza. Chi beneficerebbe di questo, oltre a Israele? E, prima di tutto, ha basi reali per essere presa in considerazione una tale ipotesi o è pura fanta-politica basata su connessioni non troppo dissimili da quelle create da statistici fantasiosi capaci di correlare l’aumento delle vendite di lavatrici in Scozia con l’aumento delle nascite in California?

Per evitare di essere trascinati nella spirale del caos, che impedisce di vedere i fatti nella loro concretezza contestuale, partiamo dalla situazione reale ponendo, metaforicamente, su una superficie piana l’avvicendarsi degli eventi. Da una parte Israele, con le prossime elezioni e gli elementi considerati vincenti dai vari candidati. Dall’altra parte Gaza, come parte della Palestina che rivendica la fine dell’assedio e il rispetto di una Risoluzione Onu, la 194 che Israele calpesta da sempre e che riguarda tutti i palestinesi. Per quanto riguarda le elezioni in Israele, basta una rapida occhiata a quanto successo in tutte le tornate elettorali per capire che il consenso va a chi mostra maggior truculenza, possibilmente genocidaria, verso i palestinesi. Netanyahu è sempre stato uomo di parola, ha rispettato le sue promesse elettorali con espropriazioni di terre palestinesi, incremento degli insediamenti ebraici su terreno palestinese, politiche di arresti e di demolizione di case palestinesi e solenne promessa che con lui al potere non ci sarebbe mai stato uno Stato palestinese. Ciò nonostante, nel democratico Stato ebraico c’è chi promette di più. C’è chi, ignaro dei fondamentali tanto della politica che dell’economia, promette che col suo eventuale governo si arriverebbe alla “soluzione finale” della Striscia di Gaza, senza l’uso di camere a gas, perché quelle appartengono a un passato che non tutti gli ebrei accetterebbero, ma con l’uso di armi moderne già sperimentate nei terribili massacri – ovviamente impuniti – di “piombo fuso” e “margine protettivo”. Questi dichiarati fascisti ebrei ignorano quanto Gaza possa servire economicamente e politicamente a Israele o, forse, non lo ignorano ma contano sull’ignoranza e l’odio viscerale dei loro potenziali elettori.

In questa gara in cui “vinca il migliore” si trasforma in “vinca chi offre maggiori garanzie antipalestinesi” anche il falco Netanyahu sembra poco affidabile ed ecco quindi la necessità di dar prova del suo coraggio da leone nel bombardare in poche ore – ovviamente dall’alto, sapendo che Gaza non ha né aviazione, né unità di contraerea – ben 100 strutture dette, ad usum delphini, postazioni di Hamas, vale a dire uffici pubblici, caserme, palestre, posti di guardia e così via.
Come iniziare un bombardamento così possente, durato un’intera notte? Forse senza il rapporto ONU non ci sarebbe neanche stato bisogno dei missili, comunque i due missili sono stati lanciati, seppur senza danni, e tutto rientra perfettamente nel quadro della risposta del povero Israele aggredito dal terrorismo palestinese. Bugia che ormai non dovrebbe più reggere ma che viene alimentata dai media trasmettitori della narrazione israeliana ormai senza più neanche bisogno di istruzioni. Se qualche operatore dell’informazione stesse qui ora, in Gaza city, scrivendo mentre i droni volano bassi e il loro insopportabile ronzio avverte, da oltre 12 ore, i gazawi che l’occupante guarda dall’alto e può decidere in ogni momento un bombardamento addizionale, forse scriverebbero altro che non la narrazione israeliana, sebbene in salse diversamente colorite come si addice alla forma democratica che accantona la sostanza. Questo tormento di “zannana” cioè dei droni, come vengono chiamati qui per il loro ronzio insopportabile, viene ripreso e rimandato sui canali televisivi israeliani in modo che i telespettatori sappiano che Netanyahu sa come tenere a bada la popolazione assediata di Gaza e in tal modo le pesanti accuse di frodi e corruzioni passino per peccati veniali.

Dall’altra parte della nostra metaforica superficie piana abbiamo una popolazione di circa 2 milioni di abitanti di cui un’alta percentuale è stremata dal disagio economico crescente e dalla mancanza di prospettive; abbiamo al governo un partito che molti anni fa vinse legalmente le elezioni grazie anche al suo impegno a migliorare strutture sanitarie e sociali in genere che ora, però, non riesce più a offrire. Un governo oggettivamente intollerante e bigotto, ma anche ostacolato ed emarginato dal mondo in omaggio a Israele e, secondariamente, all’Anp. Abbiamo un lavorio subdolo portato avanti, anche in buona fede, da molti occidentali che indirettamente fanno cantare nelle menti dei gazawi le sirene del consumismo e, insieme, la frustrazione di non poterle raggiungere. Abbiamo una larga fetta di popolazione che non vuole neanche sentire la parola “politica” ormai considerata solo come clientelismo e rovina, che però sta perdendo il suo antico orgoglio, distruggendolo con continue richieste di elemosine a quell’Occidente che immagina tenutario di ricchezze infinite e dal quale, anche psicologicamente, finisce per dipendere. Ma abbiamo anche energie, minoritarie come numero, ma fortissime come volontà, che sono il vero incubo di Israele. Sono quelle che respingono con dignità e orgoglio il “deal of century” di Trump e il paternalismo del Qatar che pensava di tacitare la popolazione gazawa a beneficio di Israele offrendo denaro e caramelle. E’ questa minoranza che rappresenta la vera resistenza di Gaza, è questa minoranza l’incubo di Israele. Il cuore pulsante, attualmente, ce l’ha nell’organizzazione della Grande marcia del ritorno, anche se Hamas ormai cerca ti tenerne il controllo. L’innovazione politica ce l’ha la costruzione di “Alleanza democratica”, la nuova formazione che raggruppa tutti i partiti di sinistra unendo l’aspetto politico e quello sociale e ponendosi come terzo polo tra Fatah e Hamas. E’ con questa che Israele dovrà fare i conti anche se dovesse arrivare, grazie alla mediazione dell’Egitto, a un accordo con Hamas.

Proprio mentre la delegazione egiziana ieri sera era in riunione con Hamas per stabilire gli eventuali passi per una tregua di lunga durata sono partiti i “missili elettorali” che Gaza NON rivendica. E proprio l’immediato avviso dell’IDF alla delegazione egiziana di lasciare immediatamente la Striscia è stato il campanello d’allarme che ha permesso di svuotare le cosiddette “postazioni di Hamas” ed evitare martiri, nonostante i massicci bombardamenti.
Data la situazione particolarmente drammatica, la Grande Marcia oggi è stata eccezionalmente sospesa. Che sia un bene o un male lo diranno gli eventi. Al momento sappiamo che il governo di Gaza non vuole un’escalation militare. Sappiamo che la resistenza gazawa questa notte ha risposto ai pesanti bombardamenti israeliani lanciando una ventina di missili e sparando colpi di mortaio. Sappiamo che la stampa mainstream ha posto umana attenzione verso gli israeliani spaventati dai razzi i quali correvano nei rifugi – che loro fortunatamente hanno – e che 5 di loro sono stati soccorsi da personale paramedico per ansia da stress. Sappiamo che una donna di Rafah ha subito l’amputazione di una mano e che ci sono diversi altri feriti. Per quanto riguarda lo stress, questo per i palestinesi non è preso in considerazione. Sappiamo inoltre che se non fosse Israele, ma un altro paese ad agire così, non avremmo remore a definirlo Stato canaglia. Sappiamo anche che i droni che fanno impazzire per il loro ronzio sono l’occhio di Israele su Gaza, ma ciò che non sappiamo ancora è chi e perché ha lanciato quei due missili che hanno permesso a Netanyahu di mostrare agli israeliani la faccia che a loro piace di più. Altra cosa che non sappiamo ancora è se Israele è sazio o se stanotte ci sarà un’altra nottata “elettorale”




Il New York Times lascia che sia Israele a fare il suo “controllo dei fatti”

Michael F. Brown

7 marzo 2019, Electronic Intifada

Il New York Times mi ha detto che è assolutamente disposto ad accettare la parola del governo israeliano sui fatti.

Avevo avvertito il giornale dell’informazione secondo cui l’editorialista Bret Stephens ha travisato i fatti nella sua implicita replica all’incisivo articolo di opinione di Michelle Alexander che chiedeva di rompere il silenzio sulla Palestina.

Stephens aveva scritto: “In questo secolo circa 1.300 civili israeliani sono stati uccisi durante attacchi terroristici palestinesi: questo in proporzione corrisponde a circa 16 volte l’11 settembre negli Stati Uniti.”

Ciò è falso.

Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem, che raccoglie statistiche scrupolose, dal 29 settembre 2000 alla fine di gennaio di quest’anno sono stati uccisi 823 civili israeliani, insieme a 433 “persone delle forze di sicurezza israeliane”.

Nello stesso periodo circa 10.000 palestinesi sono stati uccisi da Israele – il corrispettivo di decine di 11 settembre, per utilizzare il metro di valutazione di Stephens – anche se per lui a quanto pare le vittime palestinesi non hanno nessuna importanza.

Invece di correggere o verificare con decisione l’informazione errata presentata dal suo editorialista antipalestinese, il caporedattore degli articoli di opinione James Dao mi ha scritto che Stephens aveva avuto la sua “informazione dal governo israeliano, e a me va bene così.”

A me invece non va per niente bene. Trasmettere all’opinione pubblica un’informazione falsa del governo israeliano come se fosse vera è propaganda, non giornalismo o un commento legittimo.

Stephens è autorizzato ad avere le proprie opinioni, ma non i propri dati di fatto. Né lo è il governo israeliano. La parola del governo israeliano – e di Bret Stephens – dovrebbe essere messa a confronto con i dati reali.

In questo caso, non solo ci ha mentito, ma ha affermato che tutti i combattenti palestinesi sono terroristi e tutti gli israeliani – anche i soldati armati dell’occupazione – sono civili.

Il giornale, che giustamente è pronto a contraddire le menzogne del presidente Donald Trump, in questo caso sta prendendo un atteggiamento molto diverso verso le menzogne del primo ministro Benjamin Netanyahu.

Notevole peggioramento

Ciò è pericoloso. E riduce la credibilità di un giornale che ho a lungo sollecitato perché facesse di meglio.

Non aver fatto una rettifica rappresenta un notevole peggioramento da quando, quasi 14 anni fa, parlai al public editor [giornalista incaricato di verificare la correttezza degli articoli pubblicati dal suo quotidiano, ndt.] del New York Times, Daniel Okrent.

Ci sono meno opportunità ora di quante ce ne fossero allora, in quanto il quotidiano non ha più un garante a cui i lettori possano rivolgersi.

Non lo posso sapere con certezza, ma penso che Okrent sarebbe sconcertato dal fatto che il “controllo dei fatti” sia stato appaltato al governo israeliano.

Stephens è di parte. E gioca a favore del razzismo contro i palestinesi. La sua credibilità è stata intaccata – o lo avrebbe dovuto essere – quando ha scritto di un “feticismo del sangue dei palestinesi.” Questo è un estremismo vile e lampante contro il popolo palestinese.

Sorprendentemente ha fatto un’affermazione altrettanto generale nel suo recente articolo domenicale quando ha reagito contro i progressisti che sono sempre più preoccupati per le politiche discriminatorie di Israele: “Tutto ciò è profondamente inquietante per una comunità ebraica che ha in genere visto il partito Democratico come il proprio referente politico.”

Questa è una generalizzazione antisemita da parte di Stephens, né tutti nella comunità ebraica la pensano come sostiene Stephens. Gli ebrei americani non sono monolitici quando si tratta dei tentativi di garantire i diritti e la libertà dei palestinesi.

Molti ebrei si oppongono all’occupazione israeliana e ad altri crimini, e sono profondamente sconvolti dai continui attacchi da parte di membri della lobby israeliana contro donne di colore che parlano a favore dei diritti dei palestinesi.

Oltretutto molti ebrei rifiutano l’ideologia ufficiale di Israele, il sionismo, in quanto colonialismo di insediamento e apartheid. Oltre ai dubbi sollevati da “Jewish Voice for Peace” [“Voce Ebraica per la Pace”, organizzazione di ebrei USA contraria all’occupazione dei territori palestinesi, ndt.] riguardo al sionismo, gruppi ebraici antisionisti includono Neturei Karta [gruppo di ebrei religiosi contrari al sionismo e all’esistenza di Israele, ndt.] e Satmar Hasidim, la principale setta hassidica [corrente religiosa ebraica con tendenze mistiche e messianiche, ndt.] negli Stati Uniti.

Lettere invece di un fatto accertato

Invece di pubblicare una rettifica, Dao mi ha suggerito di mandare piuttosto una lettera. Ma quella era stata la mia reazione prima ancora di rivolgermi a lui.

La lettera non era stata pubblicata. Né avrebbe sortito un risultato del tutto accettabile. Una rettifica da parte del giornale ha un peso molto maggiore rispetto all’opinione di chi avesse scritto una lettera.

Più di un decennio fa il New York Times Magazine [supplemento domenicale del NYT, ndt.] ebbe un approccio simile e insistette che scrivessi una lettera su un errore riguardante la posizione della barriera israeliana e il fatto che in molti punti non separa Israele dalla Cisgiordania occupata ma la Cisgiordania dalla Cisgiordania [perché non segue il percorso del confine tra Israele e Giordania precedente alla guerra del ’67, ma passa per lo più nei territori palestinesi occupati, ndt.].

Invece il supplemento pubblicò una rettifica piuttosto insignificante riguardo all’articolo, rilevando che una didascalia “aveva sbagliato ad identificare un mezzo meccanico su una strada nei pressi della struttura. Si trattava di un veicolo militare israeliano e non di un carrarmato.”

Questa “rettifica” affermava persino che l’articolo a cui faceva riferimento riguardava la “discussa barriera costruita per separare Israele dalla Cisgiordania.” In altre parole, la “rettifica” conteneva un errore peggiore di quello che avrebbe dovuto correggere.

Come segnalato, il giornale da allora ha fatto lo stesso errore e non lo ha corretto nonostante numerose sollecitazioni.

Nel marzo 2017 il giornalista Russell Goldman ha scritto: “L’inafferrabile artista di strada Banksy ha decorato gli interni dell’hotel “Walled Off” [Recintato], un albergo di nove stanze nella città cisgiordana di Betlemme le cui finestre danno sulla barriera che separa il territorio da Israele.”

Ancora una volta il New York Times avrebbe dovuto descrivere una barriera che in larga misura separa i palestinesi tra loro e dalle loro terre all’interno della Cisgiordania occupata.

La posizione della barriera e il fatto che molti israeliani uccisi non erano civili ma forze militari di occupazione sono dati informativi che possono essere facilmente verificabili.

Il fatto che il New York Times rifiuti di correggere Stephens, confidando in modo incondizionato nelle affermazioni di fonti ufficiali israeliane, indica che a Stephens è stato dato troppo spazio per proporre la propaganda legata ad Israele.

Non credo che Dao nutra lo stesso animo antipalestinese di Stephens – e venerdì persino Stephens ha criticato gli “attacchi demagogici contro gli arabi israeliani” da parte di Netanyahu, benché non si sia potuto spingere fino a chiamarli cittadini palestinesi di Israele o manifestare un minimo di preoccupazione per l’occupazione e per i crimini di guerra di Netanyahu a Gaza e in Cisgiordania.

Ma critiche relativamente moderate nei confronti di Netanyahu non possono mitigare grossolani errori riguardo ai fatti, insinuazioni razziste e indulgenza nei confronti delle violazioni dei diritti umani da parte di Israele, come Stephens ha fatto nella sua carriera. Con questi precedenti, Dao non dovrebbe privilegiare la parola di Stephens – e del governo israeliano – rispetto a quella di una credibile organizzazione per i diritti umani.

Il New York Times dovrebbe pubblicare una rettifica alla fine del prossimo articolo di Stephens, chiarendo che il governo israeliano ha fornito un’informazione errata e che chi controlla i fatti non ha cercato altre fonti di informazione più attendibili.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché Netanyahu ha insistito davvero per un cessate il fuoco a Gaza

Meron Rapoport

Mercoledì 14 novembre 2018,Middle East Eye

Per la prosecuzione della sua strisciante ma sicura politica di annessione, il primo ministro israeliano ha bisogno di tranquillità, non di guerra.

Arrendevole di fronte al terrorismo” e “vigliacco” – questi sono stati i termini usati da Avigdor Lieberman per descrivere il comportamento del governo israeliano e del primo ministro Benjamin Netanyahu e per giustificare le sue dimissioni da ministro della Difesa.

Si potrebbe ragionevolmente supporre che le dimissioni di Lieberman riguardino principalmente considerazioni politiche. Con le elezioni che si avvicinano vuole essere visto come uno che non si arrende ad Hamas. Lieberman, uno sperimentato animale politico, capisce che identificare Netanyahu come un codardo può essere sfruttato per i propri fini.

Non è l’unico. Martedì a Sderot [città del sul di Israele colpita dal lancio di razzi da Gaza, ndtr.] centinaia di manifestanti si sono riuniti all’entrata in città, bruciando pneumatici e gridando: “Bibi vattene.” Sembrava che avessero preso per buono il ritratto di Netanyahu come un leader vigliacco. Al contempo, il ministro dell’Educazione Naftali Bennett ha sottolineato che la decisione del governo di accettare il cessate il fuoco a Gaza non è stata di suo gradimento.

Non è una novità. Fin dall’attacco del 2014 contro Gaza [l’operazione “Margine Protettivo”, ndtr.] Bennett ha cercato di presentare Netanyahu come un primo ministro indeciso che non ha il coraggio di “fare la cosa giusta”, cioé distruggere Hamas.

Un “uomo di pace”?

Ma non è stato solo a destra che Netanyahu è stato dipinto come un leader debole. Yair Lapid di Yesh Atid [partito di centro, ndtr.], Avi Gabbay del partito Laburista e altri hanno fatto a gara per criticare la “mancanza di coraggio” di Netanyahu di fronte ad Hamas. “Netanyahu è fallimentare e ha ceduto ad Hamas sotto attacco,” ha detto l’ex primo inistro Ehud Barak [del partito Laburista, ndtr.] in risposta alla decisione del cessate il fuoco.

Più o meno ogni 5 minuti qualcuno ha postato su Facebook il video in cui Netanyahu, come capo dell’opposizione nel 2009, prometteva di “distruggere il regime di Hamas”, presentando questa clip come ulteriore prova della distanza tra le sue dichiarazioni bellicose e il suo carattere indeciso e vigliacco.

In un recente articolo su “Haaretz” [giornale israeliano di centro-sinistra, ndtr.] l’editorialista Gideon Levy ha messo in evidenza il lato positivo di Netanyahu, descrivendolo come un “uomo di pace”. E’ stato scritto pochi giorni prima dell’inizio dell’attuale serie di violenze, ma immagino che la rapida approvazione del cessate il fuoco con Hamas non faccia che rafforzare i suoi argomenti principali.

Levy ci ricorda, e a ragione, che durante i suoi 12 anni in carica – compreso il suo primo periodo come primo ministro dal 1996 al 1999 – Netanyahu ha iniziato solo una guerra, rispetto alle due che Olmert fece in modo di scatenare in tre anni come primo ministro. Netanyahu, nota Levy, è stato “uno dei primi ministri più pacifisti che abbiamo mai avuto.”

Tuttavia sia alla critica riguardo alla vigliaccheria di Netanyahu che agli elogi per la sua moderazione sfugge il punto principale del suo comportamento. Netanyahu è un ideologo – un ideologo della “Terra di Israele”. Dal momento in cui per la prima volta assunse l’incarico di primo ministro nel 1996, e sicuramente dal suo ritorno al potere nel 2009, è stato molto deciso nell’evitare la formazione di uno Stato palestinese indipendente tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

Politica di annessione

Netanyahu la vede come una missione storica, tramandatagli da suo padre, che a sua volta l’ha ricevuta dal defunto leader sionista Zeev Jabotinsky. Nella Terra di Israele la sovranità ebraica è l’unica possibile, con l’esclusione di qualunque altra. Evitare una sovranità straniera nella Terra di Israele è fondamentale per l’esistenza del popolo ebraico e, indirettamente, della civiltà occidentale. La legge dello “Stato-Nazione” è una manifestazione di questo processo ideologico.

Ma Netanyahu non è un fanatico. Capisce la realtà. Comprende che la comunità internazionale non accetterebbe l’annullamento degli accordi di Oslo insieme allo smantellamento dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e all’annessione della Cisgiordania da parte di Israele. Persino sotto Donald Trump, che ha fatto più di qualunque altro precedente presidente USA per incoraggiare questo progetto, il riconoscimento internazionale di un processo che porti alla distruzione della sovranità palestinese è praticamente impossibile.

Quindi quello che Netanyahu deve fare è guadagnare tempo – da una parte, per iniziare un processo politico che crei un congelamento, e dall’altra per continuare l’impresa di colonizzazione e la creazione di fatti sul terreno in Cisgiordania e a Gerusalemme est, sperando che nei prossimi 10, 20 o 30 anni non ci saranno altre opzioni che uno Stato di Israele con il potere esclusivo sulla storica Terra di Israele.

Per continuare questa strisciante ma certa annessione, Netanyahu ha bisogno di tranquillità. L’annessione totale fa rumore, per cui vi si oppone, anche al costo di attacchi velenosi da parte di Bennett e di dirigenti all’interno dello stesso Likud. Una guerra fa rumore, per cui lavora per ridurre il conflitto, anche se ciò significa che un sergente della riserva come Lieberman lo dipinga come un vigliacco.

La divisione tra Hamas e Fatah

L’atteggiamento di Netanyahu verso Hamas dev’essere visto in questo contesto. Netanyahu si è quasi sempre tenuto lontano da una guerra totale di annichilimento contro il potere di Hamas a Gaza – ma non perchè sia timoroso della prospettiva della violenza o di una esibizione di potenza. Al contrario – dal suo punto di vista, una esibizione di potenza è più importante dei principi.

Le altre Nazioni rispettano fino ad un certo punto i principi, ma rispettano molto di più la potenza,” ha detto solo pochi giorni fa durante un incontro della sua fazione nel Likud. Ma Netanyahu non vuole rumore. Soldati che muoiono a Gaza fanno rumore; migliaia di civili palestinesi morti fanno rumore; l’occupazione della Striscia di Gaza è un terremoto che porterebbe l’attenzione di tutto il mondo sulla situazione dei palestinesi, sull’occupazione, sul fatto che i negoziati sono congelati. Questa è l’ultima cosa che Netanyahu vuole.

Ma c’e un’altra questione in ballo, qualcosa di più profondo. Netanyahu ha “ereditato” la divisione tra Hamas e Fatah, tra la Cisgiordania e Gaza, quando ha ripreso il lavoro di primo ministro nel 2009. Dal suo punto di vista, questa divisione è una fondamentale risorsa politica.

Dall’inizio degli anni ’90 Israele ha aspirato a tagliare fuori Gaza dalla Cisgiordania rifiutando permessi di uscita e imponendo il blocco, e poi con il suo assedio alla Striscia di Gaza. L’idea era che finchè le due parti del corpo politico palestinese sono separate tra loro, le possibilità dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e dei palestinesi in generale di chiedere uno Stato si riducono.

Il fatto che oggi ci siano due governi separati che operano a Gaza e in Cisgiordania è una miniera d’oro politica per chiunque desideri far fallire un qualunque processo che possa portare ad uno Stato palestinese indipendente. E Netanyahu, come abbiamo visto, è esattamente quell’uomo.

La “ricostruzione” di Gaza

Quindi dal punto di vista di Netanyahu conservare il potere di Hamas a Gaza è un vantaggio strategico di prim’ordine. Secondo lui qualunque processo che possa probabilmente portare alla fondazione di uno Stato palestinese indipendente a Gaza, separato dalla Cisgiordnaia, è una benedizione. Se Gaza diventa il suo “emirato”, come piace chiamarlo alla gente di destra, questo sarebbe un colpo mortale alle pretese di Mahmoud Abbas, o di qualunque suo potenziale successore, di rappresentare il popolo palestinese nei negoziati per porre fine all’occupazione e fondare uno Stato indipendente.

Questo concetto spiega l’improvvisa preoccupazione di Netanyahu per la “ricostruzione” di Gaza – e sottolinea anche la ragione per cui ha accettato l’ingresso, davanti alle telecamere, di valigie piene di 15 milioni di dollari dal Qatar, destinati unicamente a pagare i dipendenti di Hamas a Gaza.

Spiega anche perché Netanyahu ha evitato un’occupazione di Gaza. Se un simile passo militare dovesse in qualche modo accadere senza costare le vite di centinaia di israeliani e di migliaia o forse decine di migliaia di palestinesi – e senza diventare una catastrofe mediatica a livello internazionale – Israele alla fine si troverebbe a dover consegnare Gaza ad Abbas e all’ANP, rafforzando così la loro presenza nel mondo. E’ esattamente quello che Netanyahu sta cercando di evitare.

Ciò non significa che Hamas sia una creazione di Netanyahu o di Israele, come gente di Fatah afferma in ogni conversazione privata, e ogni tanto anche in pubblico. Hamas è una spina nel fianco di Israele. Nell’ultimo periodo di violenze Hamas ha di nuovo dimostrato di poter tranquillamente paralizzare la vita quotidiana in vaste aeree di Israele. L’impressione che ha dato è che le sue capacità militari siano solo migliorate e che in futuro sarà ancora più pericolosa – forse non come Hezbollah, ma non lontana dal suo livello.

Il dilemma di Netanyahu

Tuttavia Netanyahu si trova in una posizione difficile. Da una parte, per tutte le ragioni succitate, è molto importante per lui mantenere Hamas al potere a Gaza. Dall’altra, finchè Hamas governa a Gaza, Netanyahu non è in grado di trasmettere una sensazione di sicurezza a centinaia di migliaia di israeliani nel sud del Paese. E inoltre, poichè si oppone per principio a qualunque negoziato con i palestinesi, Netanyahu non ha un percorso verso un accordo a lungo termine che tranquillizzi la situazione. Non ha altra possibilità che essere d’accordo a farla finita con Hamas.

Hamas capisce bene il dilemma di Netanyahu. La fazione palestinese sa che Netanyahu sa che non cercherà di eliminarla. Quindi nelle attuali circostanze Hamas può lanciare centinaia di razzi contro Israele, sapendo che alla fine Netanyahu accetterà un cessate il fuoco appena Hamas, attraverso la mediazione egiziana, glielo offre. Nell’ultima fase di violenze Hamas ha sfruttato questo circolo vizioso per raggiungere una chiara vittoria politica, e così facendo ha messo in luce la debolezza di Netanyahu.

Netanyahu deve essere cosciente di questo circolo vizioso, ma, data quella che egli vede come la sua missione storica di evitare la formazione di uno Stato palestinese indipendente, è pronto a pagare il prezzo politico per quello che l’opinione pubblica potrebbe vedere come mancanza di coraggio e codardia. Il prezzo politico questa volta è stato particolarmente alto.

E’ ragionevole supporre che le dimissioni di Lieberman spingeranno a nuove elezioni e alla fine del quarto governo Netanyahu, che, fino a non molto tempo fa, sembrava così stabile. Sarebbe sicuramente ironico se fosse Hamas, che Netanyahu ha lavorato così duramente per tenere in vita e per difendere dalle minacce di Abbas, che in conclusione porterà alla fine del regno di Netanyahu.

  • Meron Rapoport  è un giornalista e scrittore israeliano, vincitore del “Premio internazionale Napoli per il Giornalismo” per un’inchiesta sul furto di ulivi a danno di proprietari palestinesi. E’ stato capo della redazione notizie di Haaretz ed ora è un giornalista indipendente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




In violazione dei diritti umani, Netanyahu sostiene la pena di morte per i palestinesi

Ramzy Baroud

14 novembre 2018, Palestine Chronicle

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, appartenente alla destra, sta intensificando la sua guerra al popolo palestinese, anche se per ragioni quasi interamente legate alla politica israeliana. Ha appena dato il via libera a una legge che renderebbe più facile per le corti israeliane emettere condanne a morte contro i palestinesi accusati di compiere atti “terroristici”.

La decisione di Netanyahu è stata presa il 4 novembre, ma la disputa sul tema è in corso da qualche tempo.

Il disegno di legge sulla pena di morte è stato il grido di battaglia del partito “Israel Beiteinu” (“Israele casa nostra”, ndtr.), guidato dal politico israeliano ultranazionalista Avigdor Lieberman, attuale ministro della Difesa, durante la sua campagna elettorale del 2015.[Lieberman si è dimesso per contrasti con Netanyahu sulla tregua con Hamas, accettata di fatto dal primo ministro. Ndt]

Ma quando Lieberman ha tentato di far passare il disegno di legge alla Knesset israeliana (il parlamento) subito dopo la formazione dell’attuale governo di coalizione nel luglio 2015, il progetto è stato clamorosamente sconfitto con 94 voti contro 6, e Netanyahu stesso a opporsi.

Da allora è stato battuto più volte. Tuttavia, l’umore politico in Israele si è spostato tanto da obbligare Netanyahu ad accogliere le richieste dei politici più aggressivi, i falchi nel suo governo.

Quando la coalizione di Netanyahu si è fatta più audace e instabile, il primo ministro israeliano si è unito al coro. È tempo di “cancellare il sorriso dalla faccia dei terroristi”, ha detto nel luglio 2017, mentre visitava l’insediamento ebraico illegale di Halamish, a seguito dell’uccisione di tre coloni. All’epoca, chiese la pena di morte per i “casi gravi”.

Alla fine, la posizione di Netanyahu sul problema si è evoluta fino a diventare una copia carbone di quella di Lieberman. Quest’ultimo aveva fatto della “pena di morte” una delle principali precondizioni per unirsi alla coalizione di Netanyahu.

Lo scorso gennaio, la proposta di legge di “Israel Beiteinu” è stata approvata durante la lettura preliminare alla Knesset. Mesi dopo, il 4 novembre, la legge è stata approvata dai legislatori israeliani in prima lettura con il sostegno di Netanyahu stesso.

Lieberman ha vinto.

Questo riflette la realtà delle correnti in lotta nella politica israeliana, con il primo ministro israeliano, da lungo tempo in carica, sempre più attaccato, con accuse provenienti sia dall’interno della sua coalizione che da fuori, di essere troppo debole nella gestione della resistenza a Gaza.

C’è anche il cerchio che si stringe nelle indagini della polizia sulla corruzione di Netanyahu, della sua famiglia e dei suoi più stretti collaboratori, e al leader israeliano non resta che picchiare sui palestinesi ad ogni minima occasione di mostrare la propria bravura.

Persino il leader dell’ex partito laburista, Ehud Barak, sta tentando di rispolverare la sua fallita carriera di politico confrontando le proprie passate violenze contro i palestinesi con la presunta debolezza di Netanyahu.

Netanyahu è “debole”, “impaurito” e non è in grado di prendere provvedimenti risolutori per tenere a freno Gaza, “quindi dovrebbe tornare a casa”, ha detto di recente Barack in un’intervista alIa TV israeliana Channel 10.

Confrontando il proprio presunto eroismo con la “resa” di Netanyahu alla resistenza palestinese, Barack si è vantato di aver ucciso “più di 300 membri di Hamas (in) tre minuti e mezzo”, quando era Ministro della Difesa del Paese.

La sinistra dichiarazione di Barack si riferisce all’omicidio di centinaia di abitanti di Gaza, tra cui donne, bambini e neo-cadetti di polizia, avvenuto a Gaza il 27 dicembre 2008, inizio di una guerra che uccise e ferì migliaia di palestinesi e preparò il terreno per altre, altrettanto letali, guerre a seguire.

Quando commenti così inquietanti sono fatti da una persona considerata nel lessico politico di Israele una “colomba”, si può solo immaginare la violenza del discorso politico di Netanyahu e della sua coalizione estremista.

In Israele, le guerre – così come le leggi razziste mirate ai palestinesi – sono spesso il risultato di manovre politiche israeliane. Incontrastati da un partito forte e imperterriti alle accuse delle Nazioni Unite, i leader israeliani continuano a mostrare i muscoli, ad appellarsi al loro elettorato radicalizzato e a marcare il proprio terreno elettorale a spese dei palestinesi.

La Legge sulla pena di morte non fa eccezione.

Il disegno di legge, una volta acquisito come legge israeliana, sarà applicato solo ai palestinesi, perché in Israele il termine “terrorismo” si riferisce quasi sempre agli arabi palestinesi, e difficilmente, se mai, agli ebrei israeliani.

Aida Touma-Suleiman, cittadina palestinese di Israele e fra i pochi membri arabi della Knesset, come la maggior parte dei palestinesi capisce bene le intenzioni del disegno di legge.

La legge è “destinata principalmente al popolo palestinese”, ha detto ai giornalisti lo scorso gennaio. “Non sarà certamente mai impugnata contro gli ebrei che commettono attacchi terroristici contro i palestinesi “, essendo il disegno di legge redatto e sostenuto dall’estrema destra del paese.

Infine, il disegno di legge sulla pena di morte deve essere compreso nel più ampio contesto del crescente razzismo e sciovinismo di Israele, che sta scalzando qualsiasi debole appello alla democrazia presente in Israele fino a poco tempo fa.

Il 19 luglio di quest’anno, il governo israeliano ha approvato la “Legge dello Stato Nazione” ebraico che designa Israele come “stato nazionale del popolo ebraico”, svalutando apertamente i cittadini arabi palestinesi del Paese, la loro cultura, lingua e identità.

Come molti hanno temuto, l’auto-definizione razzista di Israele sta ora ispirando una serie di nuove leggi che mirano ulteriormente ai palestinesi, abitanti nativi del paese, sempre più marginalizzati.

La legge sulla pena di morte sarebbe la ciliegina sulla torta in questa orribile e incontrastata agenda israeliana che oltrepassa le linee di partito e unisce la maggioranza dei cittadini e dei politici ebrei del Paese in un’ininterrotta festa dell’odio.

Certamente, Israele ha già giustiziato centinaia di palestinesi in quelli che sono noti come “assassinii mirati” e “neutralizzazioni”, uccidendone anche di più a sangue freddo.

Quindi, in un certo senso, la proposta di legge israeliana, una volta divenuta legge, cambierà ben poco delle sanguinose dinamiche che muovono il comportamento di Israele.

Tuttavia, l’esecuzione di palestinesi perché resistono alla violenta occupazione israeliana evidenzierà ulteriormente il crescente estremismo della società israeliana e la crescente vulnerabilità dei palestinesi.

Proprio come la “Legge dello Stato Nazione”, la legge sulla pena di morte contro i palestinesi esibisce la natura razzista di Israele e sancisce il totale disprezzo per le leggi internazionali, una realtà dolorosa che dovrebbe essere urgentemente e apertamente messa in discussione dalla comunità internazionale.

Quelli che sinora si sono permessi di “lavarsene le mani” mentre Israele brutalizzava i palestinesi, dovrebbero immediatamente rompere il silenzio.

A nessun governo, nemmeno a Israele, dovrebbe essere permesso di farsi razzista e violare i diritti umani in modo così spudorato e senza assumersene alcuna responsabilità.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo prossimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara. Il suo sito web è www.ramzybaroud.net.

(traduzione di Luciana Galliano)