Striscia di Gaza. Commando israeliano compie azione terrorista

Patrizia Cecconi

La situazione a Gaza precipita. Israele ha ripreso a bombardare da molte ore e la resistenza gazawa in accordo con tutte le formazioni politiche presenti nella Striscia, nessuna esclusa, ha deciso di rispondere. 
Sono stati lanciati, che si sappia, cento missili di cui circa 70 intercettati e gli altri no. Un autobus è stato colpito e ci sono degli israeliani feriti. 
La domanda è “perché? perché Israele ha voluto questo?” 
Di seguito un articolo con gli ultimi aggiornamenti.
12 novembre 2018, Pressenza

“Cessate il fuoco” sembra un ritornello amaramente beffardo da queste parti.  Ancora ieri sera, 11 novembre, Israele ha mostrato che non è sua intenzione stare ai patti nonostante la mediazione egiziana e i compromessi accomodanti col Qatar.

Come confermato anche dal portavoce dell’IDF (l’esercito di occupazione israeliano), un’auto civile con un commando di soldati e ufficiali in abiti borghesi è entrato nella Striscia assediata per compiere un’azione di stampo terroristico definita dall’IDF “attività operativa” finalizzata all’immediata uccisione del vice comandante delle brigate Ezz al Din al Qassam, Nur Barake.

Ma gli israeliani del commando, alcuni pare vestissero abiti femminili palestinesi per portare a compimento la loro missione di morte, hanno incontrato la resistenza di militanti di Hamas i quali, nonostante la sorpresa, hanno reagito e nello scontro a fuoco che ne è scaturito è stato ucciso un tenente colonnello israeliano facente parte del commando, un altro israeliano è stato ferito e altri tre palestinesi sono stati uccisi prima che l’aviazione israeliana entrasse in azione lanciando circa 40 missili sulle postazioni palestinesi e portando a sette il numero complessivo dei morti di cui quattro militari che non stavano esercitando alcun ufficio militare durante l’aggressione e tre civili.

All’azione, che ha innescato ovvie reazioni da parte gazawa – reazioni misurabili in 17 missili qassam alcuni dei quali intercettati dall’iron dome e gli altri capaci di provocare grande paura e fughe nei bunker della zona in cui sono caduti – la reazione pubblica da parte israeliana è quanto meno sconcertante. Ignorando totalmente la causa, ovvero l’azione oggettivamente di stampo terroristico del commando israeliano, il presidente Rivlin ha dichiarato di essere “stordito e addolorato per la perdita dell’ufficiale dell’IDF ucciso stasera.” Ed ha aggiunto “ Prego, insieme a tutti i cittadini israeliani, per la salute dell’ufficiale ferito“.

Dal canto loro Lieberman e Bennet, i falchi di estrema destra che non perdono occasione per invitare alla “soluzione finale” della causa palestinese, hanno fatto a gara nel tessere lodi all’assassino a sua volta ucciso dal fuoco palestinese arrivando a dichiarare (Bennett) che “grazie a eroi come questi, possiamo tutti vivere qui sani e salvi“.

Il primo ministro Netanyahu, solo poche ore prima, durante il forum sulla pace a Parigi aveva dichiarato che “per Gaza non ci sono opzioni politiche” paragonando inoltre, assurdamente, Gaza all’Isis e anticipando in tal modo il suo consenso all’azione terroristica o, per usare la formula di cortesia che la Tv italiana riserva a Israele, la “missione dell’intelligence”.

Avvertito di quanto successo, il premier israeliano ha lasciato Parigi per mostrarsi vicino al suo popolo e al suo esercito, cioè quello che ha organizzato – certo non autonomamente – la sanguinosa spedizione costata la vita ad almeno sette palestinesi e un israeliano.

Lo stesso Netanyahu, che a Parigi aveva escluso opzioni politiche, pochi giorni prima aveva dichiarato di voler evitare una nuova aggressione massiccia e di auspicare un cessate il fuoco durevole. Come si conciliano quindi queste due posizioni contraddittorie? Cosa c’è dietro quest’azione che, seppur fosse andata come previsto dall’intelligence  israeliana non avrebbe certo lasciato la resistenza gazawa immobile a piangere le sue vittime?

E’ lecito pensare che l’accoglienza inaspettatamente negativa fatta all’ambasciatore del Qatar, dopo che Israele aveva graziosamente consentito l’entrata di denaro per ammorbidire  la resistenza gazawa possa aver avuto il suo peso nella decisione di quest’azione terroristica di cui non si vedeva la necessità politica. O forse, come ipotizza qualche osservatore locale, Netanyahu ha bisogno di distrarre l’opinione pubblica israeliana dai suoi capi di imputazione per corruzione e frode e Gaza è il miglior espediente per richiamare lo spirito nazionalista a far quadrato mettendo all’angolo i guai giudiziari che potrebbero farlo affondare.

Intanto oggi la calma sembra essere tornata, i palestinesi contano i danni delle case distrutte e piangono i loro morti, mentre gli israeliani si stringono intorno al premier e alla destra estrema che onora come eroe nazionale il tenente colonnello che, mascheratosi da palestinese, è andato per uccidere ed è rimasto ucciso. Ma Fawzi Barhoum, portavoce di Hamas, ha dichiarato che la “vigliacca aggressione israeliana” avrà la sua risposta e che “la resistenza palestinese è pronta a svolgere il suo dovere” e il portavoce della Jihad ha ribadito lo stesso concetto.

Mentre scriviamo arriva notizia di un attacco di artiglieria israeliano sulla striscia settentrionale di Gaza, vicino a una postazione di Hamas. Chiariamo ai nostri lettori che anche gli uffici ministeriali sono considerati postazioni di Hamas.

A questo punto sembra chiaro che si stia provocando la risposta promessa da Hamas e dalla Jihad, e la domanda alla quale non abbiamo ancora risposta certa si riaffaccia: perché proprio ora, mentre si cercava di raggiungere un cessate il fuoco duraturo? A favore, o forse a danno di chi questa ripresa delle ostilità?

A questo punto a poco serve la mediazione egiziana, tornata in gioco intensificando i suoi sforzi per un cessate il fuoco che, ormai è ampiamente prevedibile, durerà fino a che Israele non avrà bisogno di interromperlo ripetendo un gioco chiamato sicurezza che si ripeterà tristemente all’infinito a meno che l’ONU non entri davvero in campo e i paesi complici di questa mattanza, accompagnata da assoluta illegalità, non diano a Israele un segnale di stop. Al momento segnali di questo tipo non se ne vedono.

Arriva in questo esatto momento la notizia che la resistenza gazawa ha risposto al bombardamento israeliano di poco fa. Un enorme lancio di razzi lanciato su Israele da Gaza. E’ stato colpito un autobus e ferito gravemente un giovane israeliano.

Forse Israele vuole davvero la guerra e da Gaza rispondono come sanno e come possono.

Se una nuova aggressione massiccia come Margine protettivo o Piombo fuso ci sarà, Gaza pagherà il prezzo più alto ma questa scelta non farà bene neanche agli israeliani.

Chiudiamo al momento ricordando le parole del ministro di orientamento fascista Naftali Bennett, che sembrano in questo momento ancora più assurde di poco fa “grazie a eroi come questi, possiamo tutti vivere qui sani e salvi“.

Per il momento dalla Palestina è tutto.




Nonostante il rinvio, Israele ha deciso di distruggere Khan al-Ahmar

Tamara Nassar

23 ottobre 2018,Electronic Intifada

Sabato Israele ha rimandato la demolizione e deportazione del villaggio palestinese di Khan al-Ahmar.

Secondo il quotidiano israeliano “Haaretz” il ritardo intende “finalizzare una proposta per l’evacuazione volontaria”.

Gli abitanti del villaggio si sono sistematicamente ed energicamente opposti al trasferimento forzato dalla loro terra, che non può essere in nessun caso “volontario” se avviene sotto minaccia.

Khan al-Ahmar sarà evacuato, è un verdetto della corte, è la nostra politica e sarà fatto,” ha detto domenica il primo ministro Benjamin Netanyahu in una conferenza stampa con il ministro del Tesoro USA Steven Mnuchin.

Netanyahu ha aggiunto che il ritardo sarà breve, finché gli abitanti daranno il loro “assenso” a sgomberare e distruggere il loro villaggio.

Alcuni ministri israeliani di Destra, tra cui il ministro dell’Educazione Naftali Bennett, la ministra della Giustizia Ayelet Shaked e il deputato Bezalel Smotrich, si sono opposti alla decisione di Netanyahu.

Tutti e tre sono membri del partito nazionalista di estrema destra “Casa Ebraica”.

Khan al-Ahmar deve essere distrutto. Dobbiamo opporci al mondo,” ha detto Smotrich lunedì da una collina che sovrasta il villaggio, secondo il giornale israeliano “The Jerusalem Post” [giornale israeliano di destra in lingua inglese, ndtr.].

Dobbiamo togliere di mezzo questa comunità dopo aver dato loro un’alternativa,” ha detto la vice-ministra Tzipi Hotovely sulla collina di mattina presto.

Il governo israeliano ha investito milioni per creare questa alternativa e penso che la comunità internazionale sarebbe molto più d’aiuto se non utilizzasse i beduini come strumento politico,” ha detto Hotovely.

Yehuda Glick, parlamentare dello stesso partito di Netanyahu, il Likud, e uno dei dirigenti del movimento estremista ebreo che intende distruggere la moschea di al-Aqsa a Gerusalemme, si è unito a Hotovely nella sua visita a Khan al-Ahmar.

La scelta tra spazzatura e liquami

Le alternative che Israele ha proposto non sono adeguate alla vita nomade dei beduini che vivono a Khan al-Ahmar.

Le alternative che Israele sta proponendo sono nei pressi di una discarica o dello scarico di una fogna,” ha detto all’israeliano “i24 News” [canale televisivo di informazioni in arabo, francese e inglese, ndtr.] Tawfique Jabareen, un avvocato che rappresenta gli abitanti di Khan al Ahmar.

Israele vuole obbligarli a spostarsi in una zona chiamata “al-Jabal ovest”, situata nei pressi della discarica del villaggio palestinese di Abu Dis. Israele ha anche proposto di spostare gli abitanti del villaggio in una zona vicina a un impianto di trattamento dei rifiuti nei pressi della colonia di Mitzpe, vicino alla città di Gerico, nella Cisgiordania occupata.

Jabareen ha aggiunto che gli abitanti hanno proposto all’Alta Corte israeliana di spostarsi di qualche centinaio di metri dalla loro attuale sistemazione, ma rimanendo ancora all’interno [della zona] di Khan al-Ahmar, un’idea che Israele ha rifiutato.

La Corte Penale Internazionale mette in guardia contro crimini di guerra

Il rinvio annunciato da Israele avviene dopo che la procuratrice generale della Corte Penale Internazionale Fatou Bensouda ha manifestato preoccupazione per la situazione a Khan al-Ahmar.

Una vasta distruzione di proprietà senza necessità di carattere militare e il trasferimento di popolazione in un territorio occupato costituiscono crimini di guerra,” ha affermato Bensouda il 17 ottobre.

Di conseguenza mi vedo obbligata a ricordare a tutte le parti che la situazione resta sotto esame preliminare da parte del mio ufficio.”

Secondo Haaretz alla polizia israeliana e all’amministrazione civile – la burocrazia militare che gestisce l’occupazione della Cisgiordania – non sia stato detto di lasciare la zona.

Nelle scorse settimane le autorità israeliane sono arrivate nel villaggio per preparare la demolizione, e talvolta hanno arrestato e ferito i manifestanti. Anche i coloni israeliani maltrattano regolarmente gli abitanti.

Durante la notte attivisti e giornalisti sono rimasti con loro nel villaggio per resistere all’invasione e all’imminente demolizione.

Khan al Ahmar si trova tra le colonie israeliane di Maaleh Adumim e Kfar Adumim.

Questa terra a est di Gerusalemme, la cosiddetta zona E1, si trova dove Israele pianifica di espandere la sua grande colonia di Maaleh Adumim, completando l’isolamento tra loro della parte nord da quella sud della Cisgiordania e circondando Gerusalemme di colonie.

In base alle leggi internazionali tutte le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata sono illegali.

Lunedì la Francia – uno dei numerosi Stati europei che si sono opposti al progetto di Israele di distruggere Khan al-Ahmar sulla base del fatto che in questo modo verrebbe compromessa la soluzione dei due Stati – ha detto di “prendere nota” del rinvio.

Chiediamo alle autorità israeliane di abbandonare definitivamente i progetti di demolire Khan al-Ahmar e di far cessare l’incertezza che circonda il destino di questo villaggio.”

Tuttavia, a parte l’opposizione verbale, gli Stati dell’UE non hanno espresso chiaramente le conseguenze per Israele se dovesse sfidare questi appelli.

Prendere il controllo di Hebron

Nel contempo, all’inizio di questo mese Israele ha approvato un progetto per espandere la colonia esclusivamente ebraica nel cuore della città di Hebron, nella Cisgiordania occupata.

Secondo Haaretz questa sarà la prima costruzione di una colonia nel cuore di Hebron in oltre un decennio.

L’edificazione del progetto da 6 milioni, che è destinato a includere 31 unità abitative, potrebbe iniziare in qualunque momento.

Parte del progetto riguarda una ex-base militare israeliana che, secondo Haaretz, “è stata costruita su terreni che erano di proprietà di ebrei.”

Quando Israele costruisce colonie in Cisgiordania spesso vengono presentate fittizie rivendicazioni di proprietà sul terreno [da edificare].

Incendiare la regione”

Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha festeggiato il nuovo insediamento.

Un nuovo quartiere ebraico a Hebron per la prima volta in 20 anni,” ha twittato.

Lieberman ha elogiato il governo per aver approvato il suo progetto per il quartiere, il cosiddetto quartiere “Hezekiah”, che ha definito “un’altra importante pietra miliare nell’estesa attività che stiamo conducendo per rafforzare l’insediamento in Giudea e Samaria.”

Ayman Odeh, capo della “Lista Araba Unita” [coalizione di tutti i partiti arabo-israeliani, ndtr.] nel parlamento israeliano, ha condannato l’iniziativa, accusando il governo di “infiammare continuamente la regione e poi gridare che non ci sono partner” per fare la pace, tutto a vantaggio di un “pugno di coloni estremisti.”

Più di 800 coloni vivono in un’area nel cuore di Hebron sotto totale controllo militare israeliano.

I coloni israeliani hanno preso il controllo della maggior parte della moschea di Abramo [o Tomba dei patriarchi, per gli ebrei, ndtr.] nella città, in seguito al massacro nel 1994 da parte di Baroch Goldstein, un colono americano, di 29 fedeli palestinesi nel sito.

A lungo i palestinesi hanno temuto che la divisione della moschea di Abramo potesse servire come modello per una presa di possesso totale o parziale da parte di Israele del complesso di al-Aqsa a Gerusalemme.

Coloni si aggirano liberamente nella zona di Hebron, sotto totale controllo militare israeliano, mentre i palestinesi sono sottoposti a severe restrizioni negli spostamenti, comprese strade segregate, e alle violenze e ai maltrattamenti dei soldati come dei coloni.

Demolizioni a Hebron

Nel frattempo le forze di occupazione israeliane hanno messo in atto demolizioni di case palestinesi nelle zone nei dintorni di Hebron e in altre parti della Cisgiordania occupata.

All’inizio di questo mese le forze israeliane hanno confiscato nel villaggio di Khirbet al-Halawa, sulle colline meridionali di Hebron, nella Cisgiordania occupata, una tenda di una famiglia composta da sei persone.

La famiglia include quattro bambini, che secondo B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndtr.] sono rimasti senza casa.

Khirbet al-Halawa è una frazione dei villaggi chiamati Masafer Yatta.

Il 3 ottobre le forze israeliane sono arrivate a Khirbet al-Mufaqara, sempre a Masafer Yatta, ed hanno confiscato materiale edile per una casa prefabbricata.

Gli abitanti dei villaggi di Masafer Yatta hanno vissuto per vent’anni sotto minaccia di espulsione forzata.

B’Tselem ha affermato: “Dagli anni ’90 Israele ha sistematicamente tentato di cacciare gli abitanti palestinesi di Masafer Yatta dalle loro case.”

Sia Masafer Yatta che Khan al.-Ahmar si trovano nell’area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania occupata.

In base ai termini degli accordi di Oslo, firmati tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina negli anni ’90, l’area C resta sotto il totale controllo militare israeliano.

Israele ha negato praticamente a ogni palestinese il permesso edilizio nell’area C, obbligando i palestinesi a costruire senza permessi e a vivere con la continua paura che le loro case o comunità vengano demolite.

Martedì mattina le forze di occupazione israeliane hanno smantellato e confiscato roulotte utilizzate come aule scolastiche a Ibziq, un villaggio nel nord della valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata.

Un video postato da attivisti mostra le forze israeliane che portano via le strutture su camion.

Pare che le roulotte siano state finanziate dall’Unione Europea e dalla Finlandia, che non hanno fatto niente per chiedere conto ad Israele della distruzione delle decine di milioni di dollari dei progetti per i palestinesi pagate dai contribuenti europei.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gaza, la guerra alle porte

Michele Giorgio

18 ottobre 2018, Il Manifesto

Gaza/Israele. Presieduto dal premier Netanyahu, il Consiglio di difesa israeliano si è riunito ieri per decidere come rispondere al lancio da Gaza di un razzo Katiusha contro Beersheba dove ha distrutto una abitazione civile.

Non ci sono altre interpretazioni possibili. Il rinvio del viaggio del capo dell’intelligence egiziana Abbas Kamel, atteso oggi a Gaza, indica che l’offensiva israeliana è lì, alle porte della Striscia. L’unica incertezza è quando. Qualcuno l’attendeva già la scorsa notte, quando l’oscurità è scesa carica di tensione e paura su Gaza e le aree circostanti. Gli oltre duemila morti del 2014 sono un ricordo sempre molto vivo. La risposta, una ventina di raid aerei che hanno fatto un morto e tre feriti tra i palestinesi, data ieri dal governo Netanyahu al lancio martedì notte di un razzo Katiusha a medio raggio che ha colpito e distrutto in buona parte una abitazione di Beersheba, con una madre e i suoi tre figli che si sono salvati per un soffio, è giudicata insufficiente dall’opinione pubblica. Gli israeliani chiedono un’azione di forza, un colpo devastante. Nemmeno considerano che la tensione e le manifestazioni lungo le linee di demarcazione con Gaza sono il risultato inevitabile di una situazione insostenibile, da un punto di vista umanitario e politico, per due milioni di palestinesi che vivono come prigionieri, sotto embargo da oltre dieci anni, in meno di 400 chilometri quadrati di terra.

Con le elezioni sempre più all’orizzonte, nessun esponente politico israeliano vuole apparire debole nei confronti dei palestinesi e sulle questioni di sicurezza. A maggior ragione quando c’è il ministro della difesa Lieberman, uno dei rivali più insidiosi del premier Netanyahu Netanyahu, ad invocare un “colpo duro” al movimento islamico Hamas che controlla Gaza, unica via, afferma, per riportare la calma. «Israele agirà con tutta la sua forza» ha perciò proclamato il primo ministro durante la visita ieri nelle aree a ridosso di Gaza. «Guardiamo con grande severità agli attacchi alla frontiera, a Beersheba, ovunque. Se gli attacchi non finiranno – ha avvertito – gli metteremo noi fine». Poi nel tardo pomeriggio Netanyahu ha presieduto una riunione del Consiglio di difesa mentre dall’Unione europea e dall’inviato dell’Onu Nikolay Mladenov giungevano messaggi di solidarietà a Israele e di condanna del lancio del razzo palestinese.

La guerra però a questo punto la vuole anche Hamas malgrado il comunicato emesso assieme al Jihad in cui indirettamente condanna il lancio del razzo contro Beersheba. Un giornalista di Gaza, ben introdotto ai vertici del movimento islamico, sostiene che non ci sarebbe alcun mistero intorno a chi ha sparato il Katiusha. «Occorre tenere conto dello stato dei leader di Hamas – ci ha spiegato il giornalista – hanno cercato un accordo di tregua a lungo termine con Israele, l’hanno fatto per tutta l’estate senza riuscirci. Hanno intensificato le proteste popolari al confine per fare pressione, ancora una volta senza risultato mentre tanti manifestanti venivano uccisi». Ora, ha aggiunto, i vertici di Hamas si sono convinti che solo una nuova escalation militare potrà indurre Netanyahu ad accettare un’intesa in più punti che metta fine o almeno allenti il blocco israeliano. Un grande conflitto può portare a novità positive nei periodi di tregua». Secondo il giornalista di Gaza «Hamas non ha rivendicato l’attacco a Beersheba ma quel razzo, più potente di quelli soliti, è negli arsenali della sua ala armata e non di organizzazioni minori. Colpire Beersheba è stata una una dimostrazione di forza, un messaggio chiaro per gli israeliani: se non volete la tregua allora si farà la guerra e anche voi soffrirete».

Sullo sfondo ci sono anche le manovre dell’Autorità nazionale palestinese. Il presidente Abu Mazen è apertamente contrario ad una tregua separata tra Hamas e Israele. In questi mesi ha fatto di tutto per impedirla arrivando a dichiarare persona non grata Mladenov dell’Onu perché impegnato nelle attività di mediazione, assieme all’Egitto. La trattativa esclude totalmente l’Anp e il presidente la considera un tentativo mascherato di dividere per sempre Gaza dalla Cisgiordania, in linea con quello che prevederebbe il piano di pace Usa non ancora reso pubblico (il mediatore Usa Jason Greenblatt nega che l’iniziativa americana punti a separare i territori palestinesi). Per colpire Hamas, Abu Mazen non ha esitato nell’ultimo anno e mezzo a tagliare gli stipendi dei dipendenti pubblici, a varare sanzioni e ad attuare forme di boicottaggio economico che hanno soltanto reso più difficile la vita alla popolazione civile palestinese e scalfito appena la solidità del potere dei rivali islamisti.




I drusi e la legge sullo Stato Nazione

Yara Hawari

16 agosto 2018, Al Jazeera

Questa legge dimostra che non importa quanto cooperi – se non sei ebreo, questo Stato non è per te

L’approvazione lo scorso mese della legge sullo Stato-Nazione, che afferma il carattere ebraico dello Stato israeliano e riduce l’importanza della lingua araba, ha riacceso un dibattito tra i cittadini palestinesi di Israele, soprattutto in merito alla loro situazione precaria all’interno dello Stato. In particolare ha suscitato un’intensa discussione nella comunità dei drusi palestinesi in Israele, oltre a provocare una serie di dimissioni da parte di ufficiali drusi che prestano servizio nell’esercito israeliano. Il 4 agosto 50.000 drusi si sono riuniti contro la legge in piazza Rabin a Tel Aviv sventolando sia bandiere israeliane che druse. L’immagine della piazza invasa dalla bandiera drusa multicolore e da quella israeliana una vicino all’altra evidenzia la diversa relazione che la comunità drusa ha con Israele rispetto a quella degli altri cittadini palestinesi.

In seguito alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, la dirigenza sionista cercò di dividere la comunità palestinese sopravvissuta [alla pulizia etnica, ndtr.] attraverso la nozione di particolarismo – in altre parole, mettendo in evidenza differenze religiose e tradizionali al suo interno. I sionisti concentrarono la loro attenzione sulla comunità drusa di lingua araba (la religione drusa si è sviluppata dall’Islam ismailita [corrente dell’Islam sciita, ndtr.] e i suoi membri sono concentrati in Libano, Siria e Palestina).

Già nel 1948 alcuni drusi vennero reclutati dall’Haganà [principale milizia sionista, ndtr.], – una cosa all’epoca negata agli altri palestinesi – con la promessa di consentirgli di fare il raccolto agricolo nelle loro terre. Nel 1956 i dirigenti drusi accettarono un accordo di coscrizione obbligatoria nell’esercito israeliano in cambio della protezione della comunità in quanto minoranza.

Tutt’altro che d’accordo, molti villaggi drusi protestarono contro la coscrizione e contro la collaborazione dei loro dirigenti con il regime sionista. Tuttavia, nel corso del tempo, la maggioranza della comunità venne cooptata e inserita a forza all’interno del regime sionista, contribuendo a conservare il mosaico culturale israeliano di facciata. Eppure ironicamente continuarono ad essere privati delle loro terre e gli vennero negate le stesse infrastrutture e servizi a disposizione delle loro controparti ebraiche. Infatti, dalla nascita di Israele, i drusi hanno perso oltre tre quarti della loro terra a favore dello Stato e allo stesso tempo gli è stato vietato il permesso di costruire, provocando una situazione di sovraffollamento e strangolamento simile a quella degli altri palestinesi in Israele.

Questa vicenda di continue discriminazioni e la storia dei drusi che si rifiutano e resistono è spesso stata marginalizzata dalla narrazione egemonica. Più di recente, nel 2013 è stato formato un gruppo di giovani drusi chiamato “Urfod” (“rifiuto” in arabo) che ha promosso il rifiuto di fare il servizio militare nell’esercito israeliano e una campagna per abolire la coscrizione obbligatoria. Formatosi nel villaggio druso di Rameh, in Galilea, “Urfod” sta iniziando a sfidare la narrazione egemonica della collaborazione dei drusi con il regime sionista mettendo in evidenza la resistenza attuale e passata dei drusi. Il villaggio di Rameh è anche il luogo d’origine di uno dei più famosi e prolifici poeti palestinesi, Samih al-Qassim, un palestinese druso. La sua poetica si concentra sulla resistenza e sull’amore per la Palestina. Sia gli attivisti di Urfod che Samih al-Qassim rappresentano un monito che non c’è niente di naturale o intrinseco nella collaborazione dei drusi con Israele – al contrario, è stata e continua ad essere una dei molti metodi utilizzati per disintegrare la società palestinese.

Tuttavia questa rinnovata e diffusa indignazione nel corso delle ultime settimane all’interno della comunità drusa nei confronti di questa legge non riflette necessariamente un incremento del rifiuto dei drusi. La legge è stata vista come uno schiaffo morale per una comunità “leale” piuttosto che la consacrazione di una supremazia ebraica già in atto. I timori per una “nuova” situazione in un’era di cittadinanza di serie B ha portato i dirigenti drusi, compreso il capo spirituale, lo sceicco Muwafaq Tarif, a incontrarsi con Netanyahu per discutere la prosecuzione della protezione dei drusi come minoranza. Nell’incontro Netanyahu ha anche espresso la speranza che la manifestazione dei drusi, organizzata in risposta alla legge, venisse annullata. Benché Tarif e Netanyahu abbiano raggiunto un accordo, il comizio ha avuto ugualmente luogo. Lungi dall’essere critico nei confronti di Israele o mettere in discussione la collaborazione dei drusi con lo Stato, ha ospitato oratori dell’esercito che hanno insistito sulla fedeltà dei drusi e hanno descritto la legge come un insulto piuttosto che come parte di una legislazione intesa a sostenere le reali caratteristiche razziste dello Stato.

Questo tentativo di cooptare le minoranze è stato a lungo una strategia per distruggere e frammentare la società palestinese. Le promesse di integrazione e di opportunità economiche e sociali non sono state mantenute, come dimostrato dal fatto che i drusi palestinesi continuano a essere vittime di discriminazione, marginalizzazione ed esclusione. Infatti una delle maggiori tragedie è come Israele sia riuscito a dividere il popolo palestinese ed abbia creato gruppi minoritari che lottano per le briciole della tavola del padrone. Se non altro questa legge dimostra che non importa quanto cooperi o collabori – se non sei ebreo, questo Stato non è per te.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è l’esperta di politica palestinese di Al-Shabaka, la rete di politica palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’”accordo del secolo” non è nuovo e la dirigenza dell’ANP non è una vittima

Ramzy Baroud

Middle East Monitor – 3 luglio 2018

L’”accordo del secolo” di Donald Trump fallirà. I palestinesi non scambieranno la loro lotta di settant’anni per la libertà con i soldi di Jared Kushner [genero di Trump e suo consigliere per il Medio oriente, ndtr.], né Israele accetterà che esista neppure uno Stato palestinese demilitarizzato in Cisgiordania.

È probabile che la sequenza di questo precoce fallimento si svolga in questo modo: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah probabilmente rifiuterà l’accordo una volta che verranno rivelati tutti i dettagli del piano dell’amministrazione USA; è probabile che Israele non sveli la sua decisione fin tanto che il rifiuto dei palestinesi verrà sfruttato a fondo dai media USA filoisraeliani.

La realtà è che, data la massiccia crescita della Destra e delle forze ultra-nazionaliste in Israele, uno Stato palestinese indipendente anche solo sull’1% della Palestina storica non sarebbe accettabile dalle attuali posizioni politiche dominanti in Israele.

C’è qualcos’altro da prendere in considerazione: la turbolenta carriera del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu come dirigente di lungo corso è messa duramente alla prova da accuse di corruzione e da una serie di inchieste di polizia. La sua posizione è troppo debole per garantire anche solo la sua sopravvivenza fino alle prossime elezioni politiche, figuriamoci per sostenere un “accordo del secolo”.

Tuttavia si prevede che il leader israeliano in difficoltà stia al gioco per conquistarsi ulteriormente i favori dei suoi alleati americani, distolga l’attenzione dell’opinione pubblica israeliana dalla sua corruzione e incolpi i palestinesi del fallimento politico che ciò sicuramente determinerà.

Si ripetono il Camp David II di Bill Clinton e la “Road Map per la Pace” di W. Bush. Entrambe le iniziative, per quanto inique per i palestinesi, non vennero mai accettate in primo luogo da Israele, eppure in molti libri di storia si è scritto che l’ingrata dirigenza palestinese silurò i tentativi di pace di USA e Israele. Netanyahu è intenzionato a mantenere questa concezione sbagliata.tan

Il leader israeliano, che ha ricevuto l’estremo regalo americano dello spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, sa quanto importante sia questo “accordo” per l’amministrazione Trump. Prima di assumere la carica di presidente, il primo novembre 2016 Trump ha parlato fin dall’inizio del suo “accordo definitivo” in un’intervista con il Wall Street Journal. Non ha esposto dettagli, oltre all’affermazione di essere in grado “di fare…l’accordo impossibile … per il bene dell’umanità.”

Da allora ci siamo basati su sporadiche indiscrezioni, a partire dal novembre 2017 fino a poco tempo fa. Abbiamo appreso che su una piccola parte della Cisgiordania verrebbe fondato uno Stato palestinese demilitarizzato, senza Gerusalemme est occupata come sua capitale; che Israele si terrebbe tutta Gerusalemme e si annetterebbe le colonie ebraiche illegali e prenderebbe persino il controllo della valle del Giordano, e via di seguito.

I palestinesi avrebbero ancora una “Gerusalemme”, anche se inventata, in cui il quartiere di Abu Dis verrebbe semplicemente chiamato “Gerusalemme”

Nonostante il clamore, niente di tutto ciò è realmente innovativo. L’”accordo del secolo” promette di essere un rimaneggiamento di precedenti proposte americane che erano al servizio di necessità ed interessi israeliani. Considerazioni del genero di Trump, Jared Kushner, in un’intervista con il giornale palestinese “Al-Quds”, confermano questa opinione. Ha sostenuto che il popolo palestinese è “meno interessato ai punti affrontati nelle discussioni politiche di quanto lo sia a cercare il modo in cui un accordo darà a loro e alle loro future generazioni nuove opportunità, più lavoro e meglio pagato.”

Dove lo abbiamo già sentito dire? Ah, sì, la cosiddetta “pace economica” di Netanyahu, che ha spacciato per oltre un decennio. Certamente l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha dimostrato che la sua volontà politica è una merce che può essere comprata e venduta, ma aspettarsi che il popolo palestinese faccia altrettanto è un’illusione senza precedenti storici.

Al contrario, l’ANP è diventata un ostacolo per la libertà palestinese. Un recente sondaggio realizzato dal “Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca” ha indicato che la maggioranza dei palestinesi attribuisce prevalentemente la colpa a Israele e all’ANP per l’assedio di Gaza, e che per lo più pensa che l’ANP sia “diventata un peso per il popolo palestinese.”

Non è affatto sorprendente che a marzo 2018 il 68% di tutti i palestinesi volesse che il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas desse le dimissioni.

Mentre a Israele va attribuita la maggior parte della colpa per la sua pluridecennale occupazione militare, le successive guerre e gli assedi letali, anche gli USA sono responsabili di appoggiare e finanziare l’impresa israeliana di colonizzazione. Tuttavia l’ANP non più giocare il ruolo della vittima indifesa.

Ciò che rende l’”accordo del secolo” particolarmente pericoloso è il fatto che non ci si può fidare dell’ANP. Ha giocato così bene e così a lungo il suo ruolo, assegnatogli da Israele e dagli USA. La politica dell’ANP è servita come braccio locale nella sottomissione dei palestinesi, ostacolandone le proteste e garantendo il fallimento di qualunque iniziativa politica che non ruotasse intorno alla glorificazione di Abbas e dei suoi scagnozzi.

Non è certo un buon risultato quando la maggior parte della politica estera dell’ANP negli ultimi anni si è occupata di garantire il totale isolamento economico e politico dell’impoverita Gaza, invece di unificare il popolo palestinese attorno a una lotta collettiva per porre fine alla terribile occupazione israeliana.

Che i funzionari dell’ANP condannino l’”accordo del secolo” come una violazione dei diritti dei palestinesi, mentre loro per primi hanno fatto poco per rispettare questi diritti, è una concreta definizione di ipocrisia. Non c’è da stupirsi che Kushner pensi che gli USA possano semplicemente comprare i palestinesi con i soldi in un “(tipo di) accordo da cambia le tue fiches, rischia tutto, prendere o lasciare”, come ha detto Robert Fisk [famoso giornalista inglese contrario alle politiche israeliane, ndtr.]

Cosa può fare ora l’ANP? È intrappolata nella sua stessa imprudenza. Da una parte, lo sponsor finanziario dell’ANP a Washington ha chiuso il rubinetto dei soldi, mentre dall’altra il popolo palestinese ha perso l’ultima briciola di rispetto verso la sua cosiddetta “dirigenza”.

L’”accordo del secolo” di Trump potrebbe inavvertitamente rimescolare le carte portando a un’“indispensabile resa dei conti per tutte le altre parti coinvolte,” ha sostenuto Anders Persson [ricercatore ed editorialista danese, ndtr.]. Una opzione a disposizione del popolo palestinese è l’espansione del modello delle mobilitazioni popolari che si è evidenziato presso la barriera tra Gaza e Israele per molte settimane.

Gli effetti negativi di USA-ANP e l’imminente disgregazione dello status quo potrebbe essere l’opportunità di cui il popolo palestinese ha bisogno per scatenare la propria forza attraverso una mobilitazione di massa e una resistenza popolare in patria, accompagnata da un ruolo attivo delle comunità palestinesi nella diaspora.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele e le politiche di Trump

Analisi: Israele ha ispirato la politica di Trump di separazione dalle famiglie?

Ma’an News

27 giugno 2018

di Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è un giornalista, scrittore ed editorialista di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è ” The Last Earth: A Palestinian Story” [L’Ultima terra: una storia palestinese]

Lo scorso maggio il ministro della Giustizia degli Stati Uniti, Jeff  Sessions, ha annunciato la politica della “tolleranza zero” del governo ai posti di frontiera USA. E’ stata questione di qualche settimana prima che la nuova politica iniziasse a produrre tragiche conseguenze. Chi tentava di attraversare illegalmente il confine per entrare negli USA è stato sottoposto a un’incriminazione penale federale, mentre i figli gli sono stati tolti dalle autorità federali, che li hanno messi in strutture simili a gabbie.

Come prevedibile, questa politica ha provocato indignazione e alla fine è stata revocata. Tuttavia molti di quelli che hanno condannato l’amministrazione del presidente Trump sembrano ignorare deliberatamente il fatto che Israele ha portato avanti pratiche molto peggiori contro i palestinesi.

Di fatto molti all’interno della classe dominante americana, sia repubblicani che democratici, sono stati ammaliati per decenni dal modello israeliano. Per anni opinionisti hanno elogiato non solo la presunta democrazia israeliana, ma anche il suo apparato di sicurezza come un esempio da emulare. In seguito agli attacchi dell’11 settembre 2001 è fiorita una rinnovata storia d’amore con le strategie securitarie israeliane, grazie alle quali Tel Aviv ha rastrellato miliardi di dollari dei contribuenti americani in nome dell’aiuto per rendere sicuri i confini USA contro presunte minacce.

Un nuovo, persino più terribile capitolo della continua cooperazione è stato stilato poco dopo che il neo-eletto Trump ha reso noto il suo piano di costruzione di un “grande” muro sul confine USA – Messico. Ancor prima che le imprese israeliane cogliessero l’occasione per costruire il muro di Trump, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha twittato a favore della “grande idea” di Trump, affermando che il muro di Israele è stato un “grande successo” perché “ha bloccato qualunque immigrazione illegale:”

“Uccelli dello  stesso piumaggio fanno uno stormo insieme”, dice un proverbio inglese. Netanyahu e Trump si sono mossi insieme per oltre un anno e mezzo in perfetta armonia. Purtroppo la loro affinità personale, lo stile opportunistico in politica e, in modo più preoccupante, i punti di contatto ideologici hanno peggiorato le cose. Nel caso di Israele, la parola “democrazia” non è certo appropriata. Tutt’al più, la democrazia israeliana può essere descritta come unica. L’ex-presidente della Corte Suprema dello “Stato ebraico”, Aharon Barak, avrebbe detto che “Israele è diverso dagli altri Paesi. Non solo è uno Stato democratico, ma anche ebraico.”

All’inizio di quest’anno, durante una conferenza a Tel Aviv, la controversa  ministra della Giustizia di Israele, Ayelet Shaked, ha proposto la sua personale versione dell’affermazione di Barak. “Israele è uno Stato ebraico,” ha detto. “Non è uno Stato per tutte le sue nazionalità. Cioè, uguali diritti per tutti i cittadini ma non uguali diritti nazionali.”

Per preservare la sua versione della “democrazia”, Israele deve, in base alle parole di Shaked, “conservare una maggioranza ebraica anche a costo di una violazione dei diritti.”

Israele ruota il concetto di democrazia in qualunque direzione gli consenta di garantire la dominazione della maggioranza ebraica a spese dei palestinesi, gli abitanti originari del territorio, il cui crescente numero è spesso visto come una “minaccia demografica”, persino una “bomba”.

A tutt’oggi Israele non ha una costituzione formale. E’ governato da quella che è nota come “Legge fondamentale”. Non avendo un codice etico o un fondamento giuridico in base al quale può essere giudicato il comportamento dello Stato, il parlamento israeliano (la Knesset) è, di conseguenza, libero di stilare e imporre leggi che prendono di mira i diritti dei palestinesi senza doversi confrontare con nozioni quali la minaccia di ‘incostituzionalità’ delle leggi.

Una delle ragioni per cui la legge di Trump di separazione delle famiglie sul confine è fallita è che, nonostante i difetti nel loro sistema democratico, gli USA hanno una costituzione e una società civile relativamente forte che può utilizzare i codici etici e giuridici del Paese per sfidare il terribile comportamento dello Stato.

Invece in Israele questo non succede. Il governo investe molta energia e fondi per garantire la supremazia ebraica e stabilire contatti diretti tra le colonie ebraiche illegali (costruite su terra palestinese sfidando le leggi internazionali) e Israele. Allo stesso tempo investe altrettante risorse per la pulizia etnica dei palestinesi dalla loro terra, mantenendo ovunque le loro comunità separate e frammentate.

La triste verità è che quello a cui gli americani hanno assistito sul loro confine meridionale negli ultimi due mesi è quello che i palestinesi hanno provato come situazione quotidiana da parte di Israele negli ultimi 70 anni.

Il tipo di segregazione e separazione che le comunità palestinesi sopportano va persino oltre le tipiche conseguenze della guerra, dell’assedio e dell’occupazione militare. E’ una cosa sancita dalle leggi israeliane, fatte principalmente per indebolire, persino demolire la coesione della società palestinese.

Per esempio, nel 2003 la Knesset ha votato a favore della legge “Cittadinanza e ingresso in Israele”, che pone gravi limitazioni ai cittadini palestinesi di Israele che facciano richiesta di ricongiungimento familiare. Quando alcuni gruppi per i diritti umani hanno messo in discussione la legge, i loro tentativi sono falliti in quanto all’inizio del 2012 la Corte Suprema israeliana ha sentenziato a favore del governo.

Nel 2007 quella stessa legge è stata modificata per includere coniugi di “Stati ostili” – cioè la Siria, l’Iran, il Libano e l’Iraq. Non sorprende che i cittadini di alcuni di questi “Stati ostili” siano stati inclusi nel divieto di ingresso negli USA di Trump contro cittadini di Paesi in maggioranza musulmani.

E’ come se Trump stesse seguendo un modello israeliano, improntando le sue decisioni ai principi che hanno guidato le politiche israeliane verso i palestinesi per molti anni.

Persino l’idea di rinchiudere bambini in gabbia è israeliana, una pratica che è stata denunciata dal gruppo per i diritti umani “Commissione pubblica contro la tortura in Israele” (PCATI).

La politica, che a quanto si sostiene è stata sospesa,  ha consentito di rinchiudere detenuti palestinesi, compresi minori, in gabbie esterne, persino durante durissime tempeste invernali.

“Mettere in gabbia palestinesi”, tuttavia, è una vecchia prassi. Oggi il muro dell’apartheid israeliano separa i palestinesi dalla loro terra e segrega arabi ed ebrei su base razziale. Riguardo al caso di Gaza, tutta la Striscia, che ospita 2 milioni di persone, per lo più rifugiati, è stata trasformata in un’immensa “prigione a cielo aperto” di muri e fossati.

 

Mentre molti americani sono confortati dalla decisione di Trump di porre fine alla pratica della separazione familiare sul confine, i politici e i media USA dimenticano il destino dei palestinesi che hanno subito terribili forme di separazione per molti anni. Ancora più scioccante è il fatto che molti tra i repubblicani e i democratici vedano Israele non come un ostacolo per una reale democrazia, ma come un fulgido esempio da seguire.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele contro Iran: Venti di guerra a Gerusalemme – con il sostegno di Washington

Amos Harel

1 maggio 2018, Haaretz

Israele è determinato a estromettere l’Iran dalla Siria, ma se sbaglia i calcoli, Hezbollah e Hamas potrebbero accettare la sfida. Netanyahu è pronto a correre dei rischi – a un passo dal gioco d’azzardo.

Dopo l’attacco alla Siria attribuito a Israele nella notte di domenica, perlomeno il quinto da settembre, sembra che non ci sia spazio al dubbio. Israele è determinato a sradicare la presenza militare iraniana dalla Siria.

Dopo il precedente attacco alla base aerea T4 vicino a Homs il 9 aprile, in cui morirono 14 persone inclusi sette membri del Corpo delle guardie rivoluzionarie iraniane, l’Iran minacciò gravi ritorsioni. Lo stato maggiore di difesa israeliano si preparò di conseguenza, ma finora non era successo nulla. Invece, ora è stato inflitto un altro attacco agli interessi iraniani in Siria.

In base ai rapporti siriani, il raid [israeliano] sugli obiettivi militari tra Hama e Aleppo nel nord della Siria ha causato forti esplosioni – una fonte ha riferito che sembrava ci fosse un piccolo terremoto. Alcuni furono uccisi, apparentemente soldati siriani e miliziani sciiti pro-iraniani.

La scorsa settimana la rete televisiva CNN ha riferito che lo spionaggio americano e israeliano sta controllando i movimenti in Siria delle armi iraniane che potrebbero essere utilizzate per “chiudere i conti” con Israele. L’attacco di domenica notte – questa volta, con tanta forza – potrebbe rivelare che è stato colpito un grosso deposito di armi. E ciò potrebbe confermare il tentativo di sventare una potenziale reazione iraniana.

Con l’Iran a nord di Israele lo scontro è diretto: Israele ha tracciato un limite ed è pronto a farlo rispettare con la forza. Poiché gli iraniani si oppongono sia alla proibizione di Israele alla sua presenza che ai mezzi che Israele sta usando, in assenza di un mediatore tra le parti, questo conflitto potrebbe ancora intensificarsi. La settimana è appena all’inizio.

Paura di provocare Trump

Nell’ultimo anno, due tendenze sono diventate evidenti in Medio Oriente: il presidente siriano Bashar Assad ha vinto la sanguinosa guerra civile in Siria e gli Stati Uniti stanno ridimensionando la propria presenza nella regione. Anche il loro recente attacco punitivo contro il regime di Assad è stato percepito come un gesto simbolico di addio. Nel frattempo, stanno prendendo forma altre due tendenze: lo sforzo di Israele di espellere l’Iran dalla Siria e Washington che si prepara a una risoluzione per abbandonare l’accordo nucleare tra l’Iran e le potenze [occidentali], che dovrebbe avvenire intorno al 12 maggio.

Il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu sembra stabilire una relazione fra le ultime due tendenze. L’idea è che l’Iran si stia trattenendo dal reagire contro Israele per le ultime presunte mosse in Siria perché ha paura di commettere un errore che provocherebbe la rabbia degli Stati Uniti. Secondo questo punto di vista, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump potrebbe rispondere all’escalation tra Iran e Israele abbandonando l’accordo nucleare ancora prima, e in seguito potrebbe persino attaccare i siti nucleari iraniani (il che sarebbe incalcolabilmente più grave di un ipotetico attacco israeliano). Le autorità di Teheran sono anche preoccupate per le varie minacce interne, dalla crisi finanziaria alle accese manifestazioni di protesta. Apparentemente la conclusione logica è che Israele possa continuare a colpire gli iraniani in Siria a suo piacimento.

In effetti, gli Stati Uniti agiscono in modo molto diverso rispetto ai giorni di Obama. Il Segretario di Stato Mike Pompeo è venuto in Israele dopo aver assunto l’incarico ed è partito per la Giordania poco prima che arrivassero le prime notizie degli attacchi israeliani in Siria. Contemporaneamente, Trump e Netanyahu si sono parlati per telefono, discutendo, come riferito, anche dell’Iran. Si tratta chiaramente di un riconoscimento da parte di Washington dei venti di guerra che soffiano a Gerusalemme. Si potrebbe pensare che se Pompeo avesse potuto rimanere in Israele qualche ora in più, gli avrebbero suggerito di saltare in una cabina di pilotaggio e sparare lui stesso alcuni missili.

Nel frattempo, Netanyahu, come abbiamo scritto alcune settimane fa, è di un umore particolarmente trumpiano, molto diverso dal suo comportamento normale. L’attenzione agli incidenti riguardo alla sicurezza ha superato anche la preoccupazione per le lotte politiche all’interno della coalizione. È pronto ad affrontare rischi inediti, al limite del gioco d’azzardo. Stranamente, lo stato maggiore della difesa è con lui. Contrariamente all’acceso contrasto dell’inizio del decennio [2010] sul bombardamento dei siti nucleari in Iran, questa volta i capi della difesa israeliana portano avanti una linea dura e aggressiva riguardo alla presenza dell’Iran in Siria.

La seccante ma necessaria domanda di questa mattina è cosa succede se Israele sbaglia una mossa.

È vero, l’Iran adesso non vuole importunare gli Stati Uniti. È piuttosto occupato a proteggere il suo programma nucleare da ulteriori pressioni ed è interessato a esibire la sua capacità di colpire in Siria. Un combattimento in Siria non andrebbe bene nemmeno ai russi che sono intenzionati a ristabilire il regime di Assad.

Ma i calcoli di Israele potrebbero saltare se le fiamme in Siria divampassero fuori controllo, e se l’Iran decidesse, smentendo le ipotesi, di trascinare Hezbollah nel conflitto, per esempio dopo le elezioni libanesi del 6 maggio. Hezbollah ha acquisito in Siria un’esperienza largamente operativa. Ha un arsenale di oltre 100.000 fra missili e razzi. Hezbollah non è certamente più forte delle Forze di Difesa Israeliane, ma in caso di guerra, potrebbe provocare danni reali sul fronte interno israeliano, e i combattimenti a terra in Libano potrebbero costare cari all’esercito israeliano.

Un conflitto del genere potrebbe coinvolgere Hamas a Gaza, come il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha ripetutamente segnalato (sembra esserci una discrepanza tra i toni sicuri espressi da Gerusalemme, tra cui quelli di Lieberman, in pubblico, e le loro reali paure). Finora Israele è riuscito a stabilire e mantenere un coordinamento con l’aviazione russa per prevenire qualsiasi attrito nei cieli siriani. Ma, a un certo punto, non potrebbe Mosca decidere che è stufa di ricevere diktat da Gerusalemme?

Israele ha uno scopo comprensibile in Siria. La presenza dell’Iran sta diventando potenzialmente pericolosa e potrebbe in futuro bloccare l’esercito israeliano. Eppure, stamattina, bisogna farsi alcune domande. L’obiettivo di espellere tutte le forze iraniane dalla Siria è davvero raggiungibile, come sembrano pensare il primo ministro, il ministro della Difesa e il capo dello stato maggiore? Stanno considerando che le cose possano andare storte, sfociando in un conflitto più vasto dal costo molto più alto? Finora non c’è stata alcuna vera discussione in merito, né è emerso alcun dibattito sulla politica che sta prendendo forma al nord – non nel governo né tra i vertici della sicurezza.

( Traduzione di Luciana Galliano)




Le uccisioni sul confine di Gaza mettono in evidenza la vera mentalità di Israele

Zeev Sternhell

27 aprile 2018, Haaretz

E Bezalel Smotrich, come il volto cinico di Avigdor Lieberman, riflette il nostro volto, il volto di avamposto dell’Occidente di Netanyahu

Benjamin Netanyahu, ci ricorda Anshel Pfeffer [giornalista inglese che scrive su Haaretz, ndt.], non vede il conflitto arabo-israeliano come un problema in sé, ma come parte inscindibile dello scontro di civiltà tra l’Islam e il mondo occidentale (“La visione di Netanyahu in 467 pagine”, 18 aprile). Per lui Israele è l’avanguardia dell’Occidente in una lotta durata 1.500 anni.

Quando è stato pubblicato il suo [di Netanyahu] libro “A Place Among the Nations” [“Un posto tra le Nazioni”], l’ho considerato come niente più che propaganda, l’intenzione di inventarsi una copertura ideologica per continuare l’occupazione sponsorizzata dal neo-conservatorismo americano nella sua forma più semplicistica. È un vero peccato che gente rispettabile cada ancora nella trappola.

Netanyahu ha da molto tempo capito che i palestinesi sono incapaci di resistere con la forza all’occupazione, per cui essa non finirà in un futuro prevedibile. Ma poiché nessuna situazione può persistere senza una copertura ideologica, e la narrazione biblica non si vende bene negli Stati Uniti al di fuori dei circoli evangelici, ci prova con la protezione della cultura occidentale, nello spirito della tendenza neoconservatrice della fine del XX secolo.

Tuttavia, per più di 300 anni la cultura occidentale ha presentato due approcci: quello liberale, da cui si sono sviluppati la democrazia e i diritti umani dell’Illuminismo francese e britannico, e quello che subordina l’individuo a una comunità etnica e cerca nella storia la legittimazione delle proprie politiche. Questa tendenza iniziò a far germogliare, alla fine del XIX secolo, i vari movimenti nazionalisti e razzisti di destra, compresi quelli che si sono sviluppati nel fascismo e nel nazismo.

Questi movimenti sapevano come sfruttare il diritto al suffragio universale per eliminare il principio di uguaglianza tra gli esseri umani. Poi hanno eliminato la stessa democrazia. Il nazionalismo razzista non fu inventato da Hitler, ma emerse gradualmente dalla rivoluzione di destra che iniziò a travolgere l’Europa. Questo approccio nazionalista radicale è l’”Occidente” di Netanyahu, in cui trova la legittimazione per la politica colonialista di annessione e oppressione che ha architettato da quando è salito al potere.

Questo è il punto di vista che il giovane israeliano educato in America ha adottato per se stesso: laggiù la sua immaginazione non è stata accesa dall’eredità del movimento per i diritti civili, ma piuttosto dall’oscuro tenore della cultura politica americana. Mentre la rivoluzione francese liberava gli ebrei e gli schiavi, in America – insieme alla devozione quasi religiosa per le libertà individuali e il bilanciamento dei poteri, ancorati alla Costituzione e alla Dichiarazione di Indipendenza – la schiavitù è esistita per altri 100 anni. Per ulteriori 100 è prevalsa la brutale oppressione sociale dei neri. Il giovane Netanyahu ha imparato là che l’Occidente contiene tutto, il meglio e il peggio, e ognuno può scegliere da solo quello che gli serve.

Quindi è così che funziona la destra israeliana: dopo aver rafforzato il colonialismo tratta gli arabi fondamentalmente come nativi. I britannici in Kenia e i francesi in Algeria hanno fatto scuola. Le uccisioni settimanali sul confine della Striscia di Gaza sono una campagna di brutalità, che mette in evidenza la mentalità della società nel cui nome l’esercito agisce: possiamo fare tutto quello che vogliamo. Come Elor Azaria, che ha giustiziato un terrorista ferito e presto uscirà di prigione come un eroe, così come i giovani in uniforme che massacrano civili disarmati sui confini di Gaza sono i “figli di tutti noi”. E Bezalel Smotrich [deputato del partito di estrema destra dei coloni “Casa ebraica, ndt], che vuole che si spari a una gamba ad Ahed Tamimi [ragazza palestinese detenuta in Israele. Smotirch ha sostenuto che le si dovrebbe almeno sparare a un ginocchio, ndt.], è il parlamentare di tutti noi. Non abbiamo sentito i dirigenti del suo partito o i ministri dell’Educazione e della Giustizia [entrambi di “Casa ebraica”, ndt.] urlare con orrore. Smotrich, come il volto cinico di Avigdor Lieberman [ministro della Difesa, del partito di estrema destra “Israele casa nostra”, ndt.], riflette il nostro stesso volto, il volto dell’avamposto dell’Occidente di Netanyahu.

Questa è la dura verità che i festeggiamenti per il settantesimo dell’indipendenza hanno reso ancora più evidente.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Netanyahu è orgoglioso del miglioramento dei rapporti diplomatici di Israele, ma il voto dell’ONU dà una lezione di umiltà

Noa Landau

22 didembre 2017,Haaretz

Le molte dichiarazioni del primo ministro negli ultimi due anni riguardo ad un presunto e vistoso cambiamento nell’atteggiamento del mondo verso Israele non hanno superato la prova della realtà.

Più passava il tempo prima della sconfitta all’Assemblea generale dell’ONU, tanto più a Gerusalemme cambiavano le aspettative sui risultati attesi.

All’inizio Israele ha cercato di convincere più Paesi possibile a votare contro la risoluzione, ma quando le esplicite minacce americane di tagliargli gli aiuti non hanno cambiato in modo significativo la situazione, il principale tentativo fatto è stato centrato sul convincere i leader almeno ad astenersi o ad andarsene improvvisamente per le vacanze di Natale e assentarsi dall’aula. E se questo non avesse funzionato, che per lo meno abbassassero il tono dei loro discorsi durante il dibattito.

Dopo il voto, il primo ministro Benjamin Netanyahu ed il suo ministro degli Esteri, Benjamin Netanyahu [Netanyahu ricopre entrambi gli incarichi, ndt.], hanno risposto all’unisono: “Israele rifiuta la risoluzione dell’ONU ed esprime la sua soddisfazione per il grande numero di Paesi che non hanno votato a favore della risoluzione,” rallegrandosi delle astensioni e festeggiando le assenze.

La maggiore delusione per Israele è venuta dai Paesi che negli ultimi anni hanno rafforzato i rapporti bilaterali, soprattutto quelli che condividono con il governo Netanyahu una visione molto conservatrice. Per esempio l’India, il cui primo ministro Narendra Modi ha visitato Israele in luglio – un viaggio memorabile soprattutto per le immagini bucoliche di lui e Netanyahu abbracciati che sguazzavano nelle onde – ha votato la risoluzione contro Israele e contro gli Stati Uniti. Durante la sua visita Netanyahu aveva definito Modi “un’anima gemella”. Ma anche con la visita bilaterale prevista a metà del prossimo mese, l’India non cambiato idea sul proprio rifiuto di astenersi.

Altre delusioni significative sono venute dalla Grecia e da Cipro, con cui è stato firmato molto recentemente un accordo per il gas naturale. La Russia e la Cina che Netanyahu loda in continuazione per i loro calorosi rapporti con Israele, hanno di nuovo votato, come al solito, per la posizione palestinese.

Un diplomatico israeliano ha detto che il principale insegnamento da trarre da questo episodio potrebbe essere una “lezione di umiltà”. Alla luce del voto del consiglio a New York, dove 128 quadratini luminosi verdi sono apparsi al suono di fragorosi applausi che sono rimbombati nell’aula quando si è saputo il risultato, le molte dichiarazioni del primo ministro negli ultimi due anni riguardo al presunto cambiamento significativo dell’atteggiamento del mondo verso Israele ora appaiono a dir poco diverse.

Ma ci sono state anche modeste consolazioni. Sei Paesi hanno rotto l’unanimità dell’Unione Europea ed hanno accolto le pressioni israeliane ad astenersi. L’Ungheria ed il suo leader Orban hanno guidato la ribellione, insieme alla Repubblica Ceca, il cui primo ministro è stato messo sotto pressione da Netanyahu prima del voto, ed alla Polonia, la cui posizione in Europa è comunque indebolita, e insieme a Croazia, Lettonia e Romania hanno votato per la risoluzione. Austria e Lituania, anche loro considerate amiche di Israele, hanno votato a favore della risoluzione. E ad ogni modo l’astensione dei Paesi dell’Europa orientale, come ha spiegato dalla tribuna il rappresentante della Cechia, è stata debole: “Non ci opponiamo alla posizione dell’Unione Europea sulla questione di Gerusalemme (la salvaguardia dei confini del 1967), ma ci asteniamo perché non pensiamo che il voto di questo pomeriggio farà progredire la pace.”

Il ministro degli Esteri ha riservato i suoi commenti più negativi all’”Europa classica”, alla Germania, per esempio. Alcuni Paesi africani, in cui Israele sta investendo un notevole impegno, si sono astenuti (per esempio il Rwanda e il Sud Sudan) o erano assenti (come il Kenia), mentre uno, il Togo, ha persino votato contro la risoluzione. È anche interessante notare l’astensione dell’Argentina, che Netanyahu ha visitato quest’anno. Tuttavia, in sostanza, se prendiamo in considerazione i viaggi di Netanyahu quest’anno, e sono stati molti – 59 giorni all’estero – non ci sono prove che queste visite abbiano dato risultati giovedì all’Assemblea Generale dell’ONU.

Rispetto agli esiti di importanti votazioni precedenti, per esempio nel 2012 sulla promozione dei palestinesi allo status di osservatori, c’è qualche miglioramento per quel che riguarda il governo: allora votarono “sì” 138 Paesi; questa volta lo hanno fatto “solo” 128. Ma questa volta non è stato messo alla prova solo il sostegno a Israele, era sotto esame soprattutto l’appoggio agli Stati Uniti. Poiché negli scorsi giorni il presidente Donald Trump e la sua ambasciatrice alle Nazioni Unite, Nikki Haley, non hanno esitato da fare esplicite minacce (“di prendere i nomi”) e di vendicarsi di chi avesse votato “sì” tagliando gli aiuti USA a quei Paesi, i quadratini verdi sulla lavagna elettronica hanno segnato non solo il chiaro appoggio della maggior parte dei Paesi alla soluzione dei due Stati all’interno dei confini del 1967, ma anche una crescente sfiducia nell’amministrazione Trump come mediatrice neutrale nel conflitto e nello stesso Trump come leader di una potenza mondiale.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Come mai l’Unione Europea sta offrendo croissant al criminale di guerra Netanyahu ?

David Cronin, Diritti e Responsabilizzazione

8 dicembre 2017 Electronic Intifada

Ci sono almeno 3000 motivi perché Benjamin Netanyahu non venga accolto a Bruxelles la prossima settmana.

Tremila è la cifra approssimata dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane da quando Netanyahu è diventato primo ministro nel marzo del 2009.

Netanyahu ha ordinato due importanti offensive contro Gaza. Sia nell’una che nell’altra sono stati perpetrati crimini di guerra.

Insieme ai suoi colleghi di governo ha approvato l’espansione delle colonie nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme Est. Hanno promosso una serie di leggi per peggiorare la discriminazione e la repressione [a cui] i palestinesi sottostanno.

Netanyahu ha imposto alla popolazione di Gaza tagli all’energia elettrica. Egli è responsabile della morte dei pazienti cui è stata negata un’ adeguata cura medica e dei minori torturati durante la loro custodia in Israele.

Netanyahu è un palese razzista. Ha definito “infiltrati” i rifugiati africani e “bestie selvagge” gli arabi.

L’Accoglienza

Come mai Federica Mogherini, responsabile della politica estera dell’Unione Europea, ha invitato a “una colazione informale”Netanyahu ?

Perché l’Unione Europea offre dei croissant a un criminale di guerra?

Che nessuno venga ingannato dall’uso della parola “informale” usata per provare a sminuire il significato di come l’UE stia abbracciando Netanyahu.

L’UE ha rafforzato i suoi rapporti commerciali con Israele da quando Netanyahu è diventato primo ministro.

In questo periodo sono entrati in funzione due importanti accordi per facilitare agli esportatori israeliani l’accesso ai mercati dell’Unione Europea .

L’UE ha dato prova a Netanyahu di essere largamente compiacente.

Alcuni anni orsono Netanyahu si lamentava dei tentativi di escludere dai programmi europei di ricerca scientifica alcune imprese e istituzioni israeliane che lavoravano nella Cisgiordania occupata

Se i rappresentanti dell’Unione Europea avessero manifestato sul serio il loro attaccamento ai diritti umani e al diritto internazionale, avrebbero resistito alle pressioni del governo Netanyahu. Avrebbero rifiutato di intensificare la loro cooperazione con uno Stato che sta inghiottendo la terra palestinese.

Invece l’UE ha ceduto alle prepotenza di Netanyahu. Un decreto è stato tirato fuori per permettere a Israele di partecipare pienamente a Horizon 2020, come viene definito l’ultimo programma scientifico dell’Unione Europea.

L’accordo presentava delle grandi problematicità. Il ministero israeliano delle Scienze è una delle principali istituzioni di coordinamento della partecipazione dello Stato al [progetto] Horizon 2020.

Il ministero delle Scienze non si trova in quello che oggi è Israele. I suoi principali uffici, invece, sono nella Gerusalemme Est occupata

Superficiale

L’accordo di Horizon 2020 mostra come siano assai superficiali le preoccupazioni espresse questa settimana da Federica Mogherini circa il riconoscimento da parte di Donald Trump di Gerusalemme quale capitale di Israele.

Parlando alla CNN, Mogherini ha detto che la mossa di Trump ha “screditato un po’ gli Stati Uniti quale onesto mediatore”

Un buffone bellicoso come Trump non potrebbe mai essere credibile come onesto mediatore.

Per certi versi,tuttavia, Trump è stato veramente più onesto di Mogherini.

Trump sta dando carta bianca a Israele per continuare la pulizia etnica a Gerusalemme.

I rappresentanti dell’Unione Europea, collaborando con i ministeri israeliani a Gerusalemme Est, hanno fatto la stessa cosa- sebbene meno sfacciatamente.

Per celebrare la Giornata dei Diritti Umani all’inizio di questa settimana, l’ambasciatore dell’UE a Tel Aviv, Emanuele Giaufret, ha visitato l’Università Ebraica di Gerusalemme.

L’Università Ebraica ha il campus nell’occupata Gerusalemme Est. Alcuni dei suoi edifici sono situati su terra confiscata alla vicina cittadina palestinese Issawiyeh.

L’Università Ebraica è la maggiore beneficiaria dei finanziamenti europei [del programma] scientifico. In conclusione, l’Unione Europea sta fornendo un diretto aiuto a un’istituzione complice della colonizzazione di Gerusalemme.

Questo fatto [ci] fa capire come sia stata falsa Mogherini questa settimana quando ha provato a svolgere il [suo] compito riguardo all’annuncio di Trump su Gerusalemme.

Mantra

Mogherini non è riuscita a rendere Israele responsabile dei danni che ha prodotto a progetti finanziati dall’UE.

L’anno scorso ha affermato che i governi europei stavano discutendo [di chiedere] “possibili restituzioni o compensazioni” a Israele per avere distrutto progetti umanitari che avevano finanziato.

Otto tra i 28 Paesi dell’Unione hanno successivamente protestato per la confisca da parte di Israele dei pannelli solari che avevano pagato.

Nel venir meno a dare seguito a quell’azione, gli altri 20 Paesi europei e Mogherini,in qualità di responsabile della politica estera, stanno effettivamente scagionando Israele [dalle sue responsabilità]

Mogherini ripete come un mantra che l’UE si adopera per la soluzione a due Stati e desidera rilanciare il processo di pace.

Ad essere benevoli, forse crede che la soluzione a due Stati sia possibile o desiderabile. Ma Netanyahu ha sotto ogni aspetto escluso una tale soluzione ribadendo che Israele non abbandonerà mai nessuna delle sue colonie nella Cisgiordania

Una colazione con Netanyahu non cambierà le decisioni del suo governo. Al contrario Netanyahu potrà partire da Bruxelles con la consapevolezza che potrà continuare a calpestare impunemente

i diritti dei palestinesi

Per i suoi crimini è stato premiato con croissant.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)