I drusi e la legge sullo Stato Nazione

Yara Hawari

16 agosto 2018, Al Jazeera

Questa legge dimostra che non importa quanto cooperi – se non sei ebreo, questo Stato non è per te

L’approvazione lo scorso mese della legge sullo Stato-Nazione, che afferma il carattere ebraico dello Stato israeliano e riduce l’importanza della lingua araba, ha riacceso un dibattito tra i cittadini palestinesi di Israele, soprattutto in merito alla loro situazione precaria all’interno dello Stato. In particolare ha suscitato un’intensa discussione nella comunità dei drusi palestinesi in Israele, oltre a provocare una serie di dimissioni da parte di ufficiali drusi che prestano servizio nell’esercito israeliano. Il 4 agosto 50.000 drusi si sono riuniti contro la legge in piazza Rabin a Tel Aviv sventolando sia bandiere israeliane che druse. L’immagine della piazza invasa dalla bandiera drusa multicolore e da quella israeliana una vicino all’altra evidenzia la diversa relazione che la comunità drusa ha con Israele rispetto a quella degli altri cittadini palestinesi.

In seguito alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, la dirigenza sionista cercò di dividere la comunità palestinese sopravvissuta [alla pulizia etnica, ndtr.] attraverso la nozione di particolarismo – in altre parole, mettendo in evidenza differenze religiose e tradizionali al suo interno. I sionisti concentrarono la loro attenzione sulla comunità drusa di lingua araba (la religione drusa si è sviluppata dall’Islam ismailita [corrente dell’Islam sciita, ndtr.] e i suoi membri sono concentrati in Libano, Siria e Palestina).

Già nel 1948 alcuni drusi vennero reclutati dall’Haganà [principale milizia sionista, ndtr.], – una cosa all’epoca negata agli altri palestinesi – con la promessa di consentirgli di fare il raccolto agricolo nelle loro terre. Nel 1956 i dirigenti drusi accettarono un accordo di coscrizione obbligatoria nell’esercito israeliano in cambio della protezione della comunità in quanto minoranza.

Tutt’altro che d’accordo, molti villaggi drusi protestarono contro la coscrizione e contro la collaborazione dei loro dirigenti con il regime sionista. Tuttavia, nel corso del tempo, la maggioranza della comunità venne cooptata e inserita a forza all’interno del regime sionista, contribuendo a conservare il mosaico culturale israeliano di facciata. Eppure ironicamente continuarono ad essere privati delle loro terre e gli vennero negate le stesse infrastrutture e servizi a disposizione delle loro controparti ebraiche. Infatti, dalla nascita di Israele, i drusi hanno perso oltre tre quarti della loro terra a favore dello Stato e allo stesso tempo gli è stato vietato il permesso di costruire, provocando una situazione di sovraffollamento e strangolamento simile a quella degli altri palestinesi in Israele.

Questa vicenda di continue discriminazioni e la storia dei drusi che si rifiutano e resistono è spesso stata marginalizzata dalla narrazione egemonica. Più di recente, nel 2013 è stato formato un gruppo di giovani drusi chiamato “Urfod” (“rifiuto” in arabo) che ha promosso il rifiuto di fare il servizio militare nell’esercito israeliano e una campagna per abolire la coscrizione obbligatoria. Formatosi nel villaggio druso di Rameh, in Galilea, “Urfod” sta iniziando a sfidare la narrazione egemonica della collaborazione dei drusi con il regime sionista mettendo in evidenza la resistenza attuale e passata dei drusi. Il villaggio di Rameh è anche il luogo d’origine di uno dei più famosi e prolifici poeti palestinesi, Samih al-Qassim, un palestinese druso. La sua poetica si concentra sulla resistenza e sull’amore per la Palestina. Sia gli attivisti di Urfod che Samih al-Qassim rappresentano un monito che non c’è niente di naturale o intrinseco nella collaborazione dei drusi con Israele – al contrario, è stata e continua ad essere una dei molti metodi utilizzati per disintegrare la società palestinese.

Tuttavia questa rinnovata e diffusa indignazione nel corso delle ultime settimane all’interno della comunità drusa nei confronti di questa legge non riflette necessariamente un incremento del rifiuto dei drusi. La legge è stata vista come uno schiaffo morale per una comunità “leale” piuttosto che la consacrazione di una supremazia ebraica già in atto. I timori per una “nuova” situazione in un’era di cittadinanza di serie B ha portato i dirigenti drusi, compreso il capo spirituale, lo sceicco Muwafaq Tarif, a incontrarsi con Netanyahu per discutere la prosecuzione della protezione dei drusi come minoranza. Nell’incontro Netanyahu ha anche espresso la speranza che la manifestazione dei drusi, organizzata in risposta alla legge, venisse annullata. Benché Tarif e Netanyahu abbiano raggiunto un accordo, il comizio ha avuto ugualmente luogo. Lungi dall’essere critico nei confronti di Israele o mettere in discussione la collaborazione dei drusi con lo Stato, ha ospitato oratori dell’esercito che hanno insistito sulla fedeltà dei drusi e hanno descritto la legge come un insulto piuttosto che come parte di una legislazione intesa a sostenere le reali caratteristiche razziste dello Stato.

Questo tentativo di cooptare le minoranze è stato a lungo una strategia per distruggere e frammentare la società palestinese. Le promesse di integrazione e di opportunità economiche e sociali non sono state mantenute, come dimostrato dal fatto che i drusi palestinesi continuano a essere vittime di discriminazione, marginalizzazione ed esclusione. Infatti una delle maggiori tragedie è come Israele sia riuscito a dividere il popolo palestinese ed abbia creato gruppi minoritari che lottano per le briciole della tavola del padrone. Se non altro questa legge dimostra che non importa quanto cooperi o collabori – se non sei ebreo, questo Stato non è per te.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è l’esperta di politica palestinese di Al-Shabaka, la rete di politica palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’”accordo del secolo” non è nuovo e la dirigenza dell’ANP non è una vittima

Ramzy Baroud

Middle East Monitor – 3 luglio 2018

L’”accordo del secolo” di Donald Trump fallirà. I palestinesi non scambieranno la loro lotta di settant’anni per la libertà con i soldi di Jared Kushner [genero di Trump e suo consigliere per il Medio oriente, ndtr.], né Israele accetterà che esista neppure uno Stato palestinese demilitarizzato in Cisgiordania.

È probabile che la sequenza di questo precoce fallimento si svolga in questo modo: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah probabilmente rifiuterà l’accordo una volta che verranno rivelati tutti i dettagli del piano dell’amministrazione USA; è probabile che Israele non sveli la sua decisione fin tanto che il rifiuto dei palestinesi verrà sfruttato a fondo dai media USA filoisraeliani.

La realtà è che, data la massiccia crescita della Destra e delle forze ultra-nazionaliste in Israele, uno Stato palestinese indipendente anche solo sull’1% della Palestina storica non sarebbe accettabile dalle attuali posizioni politiche dominanti in Israele.

C’è qualcos’altro da prendere in considerazione: la turbolenta carriera del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu come dirigente di lungo corso è messa duramente alla prova da accuse di corruzione e da una serie di inchieste di polizia. La sua posizione è troppo debole per garantire anche solo la sua sopravvivenza fino alle prossime elezioni politiche, figuriamoci per sostenere un “accordo del secolo”.

Tuttavia si prevede che il leader israeliano in difficoltà stia al gioco per conquistarsi ulteriormente i favori dei suoi alleati americani, distolga l’attenzione dell’opinione pubblica israeliana dalla sua corruzione e incolpi i palestinesi del fallimento politico che ciò sicuramente determinerà.

Si ripetono il Camp David II di Bill Clinton e la “Road Map per la Pace” di W. Bush. Entrambe le iniziative, per quanto inique per i palestinesi, non vennero mai accettate in primo luogo da Israele, eppure in molti libri di storia si è scritto che l’ingrata dirigenza palestinese silurò i tentativi di pace di USA e Israele. Netanyahu è intenzionato a mantenere questa concezione sbagliata.tan

Il leader israeliano, che ha ricevuto l’estremo regalo americano dello spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, sa quanto importante sia questo “accordo” per l’amministrazione Trump. Prima di assumere la carica di presidente, il primo novembre 2016 Trump ha parlato fin dall’inizio del suo “accordo definitivo” in un’intervista con il Wall Street Journal. Non ha esposto dettagli, oltre all’affermazione di essere in grado “di fare…l’accordo impossibile … per il bene dell’umanità.”

Da allora ci siamo basati su sporadiche indiscrezioni, a partire dal novembre 2017 fino a poco tempo fa. Abbiamo appreso che su una piccola parte della Cisgiordania verrebbe fondato uno Stato palestinese demilitarizzato, senza Gerusalemme est occupata come sua capitale; che Israele si terrebbe tutta Gerusalemme e si annetterebbe le colonie ebraiche illegali e prenderebbe persino il controllo della valle del Giordano, e via di seguito.

I palestinesi avrebbero ancora una “Gerusalemme”, anche se inventata, in cui il quartiere di Abu Dis verrebbe semplicemente chiamato “Gerusalemme”

Nonostante il clamore, niente di tutto ciò è realmente innovativo. L’”accordo del secolo” promette di essere un rimaneggiamento di precedenti proposte americane che erano al servizio di necessità ed interessi israeliani. Considerazioni del genero di Trump, Jared Kushner, in un’intervista con il giornale palestinese “Al-Quds”, confermano questa opinione. Ha sostenuto che il popolo palestinese è “meno interessato ai punti affrontati nelle discussioni politiche di quanto lo sia a cercare il modo in cui un accordo darà a loro e alle loro future generazioni nuove opportunità, più lavoro e meglio pagato.”

Dove lo abbiamo già sentito dire? Ah, sì, la cosiddetta “pace economica” di Netanyahu, che ha spacciato per oltre un decennio. Certamente l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha dimostrato che la sua volontà politica è una merce che può essere comprata e venduta, ma aspettarsi che il popolo palestinese faccia altrettanto è un’illusione senza precedenti storici.

Al contrario, l’ANP è diventata un ostacolo per la libertà palestinese. Un recente sondaggio realizzato dal “Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca” ha indicato che la maggioranza dei palestinesi attribuisce prevalentemente la colpa a Israele e all’ANP per l’assedio di Gaza, e che per lo più pensa che l’ANP sia “diventata un peso per il popolo palestinese.”

Non è affatto sorprendente che a marzo 2018 il 68% di tutti i palestinesi volesse che il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas desse le dimissioni.

Mentre a Israele va attribuita la maggior parte della colpa per la sua pluridecennale occupazione militare, le successive guerre e gli assedi letali, anche gli USA sono responsabili di appoggiare e finanziare l’impresa israeliana di colonizzazione. Tuttavia l’ANP non più giocare il ruolo della vittima indifesa.

Ciò che rende l’”accordo del secolo” particolarmente pericoloso è il fatto che non ci si può fidare dell’ANP. Ha giocato così bene e così a lungo il suo ruolo, assegnatogli da Israele e dagli USA. La politica dell’ANP è servita come braccio locale nella sottomissione dei palestinesi, ostacolandone le proteste e garantendo il fallimento di qualunque iniziativa politica che non ruotasse intorno alla glorificazione di Abbas e dei suoi scagnozzi.

Non è certo un buon risultato quando la maggior parte della politica estera dell’ANP negli ultimi anni si è occupata di garantire il totale isolamento economico e politico dell’impoverita Gaza, invece di unificare il popolo palestinese attorno a una lotta collettiva per porre fine alla terribile occupazione israeliana.

Che i funzionari dell’ANP condannino l’”accordo del secolo” come una violazione dei diritti dei palestinesi, mentre loro per primi hanno fatto poco per rispettare questi diritti, è una concreta definizione di ipocrisia. Non c’è da stupirsi che Kushner pensi che gli USA possano semplicemente comprare i palestinesi con i soldi in un “(tipo di) accordo da cambia le tue fiches, rischia tutto, prendere o lasciare”, come ha detto Robert Fisk [famoso giornalista inglese contrario alle politiche israeliane, ndtr.]

Cosa può fare ora l’ANP? È intrappolata nella sua stessa imprudenza. Da una parte, lo sponsor finanziario dell’ANP a Washington ha chiuso il rubinetto dei soldi, mentre dall’altra il popolo palestinese ha perso l’ultima briciola di rispetto verso la sua cosiddetta “dirigenza”.

L’”accordo del secolo” di Trump potrebbe inavvertitamente rimescolare le carte portando a un’“indispensabile resa dei conti per tutte le altre parti coinvolte,” ha sostenuto Anders Persson [ricercatore ed editorialista danese, ndtr.]. Una opzione a disposizione del popolo palestinese è l’espansione del modello delle mobilitazioni popolari che si è evidenziato presso la barriera tra Gaza e Israele per molte settimane.

Gli effetti negativi di USA-ANP e l’imminente disgregazione dello status quo potrebbe essere l’opportunità di cui il popolo palestinese ha bisogno per scatenare la propria forza attraverso una mobilitazione di massa e una resistenza popolare in patria, accompagnata da un ruolo attivo delle comunità palestinesi nella diaspora.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele e le politiche di Trump

Analisi: Israele ha ispirato la politica di Trump di separazione dalle famiglie?

Ma’an News

27 giugno 2018

di Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è un giornalista, scrittore ed editorialista di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è ” The Last Earth: A Palestinian Story” [L’Ultima terra: una storia palestinese]

Lo scorso maggio il ministro della Giustizia degli Stati Uniti, Jeff  Sessions, ha annunciato la politica della “tolleranza zero” del governo ai posti di frontiera USA. E’ stata questione di qualche settimana prima che la nuova politica iniziasse a produrre tragiche conseguenze. Chi tentava di attraversare illegalmente il confine per entrare negli USA è stato sottoposto a un’incriminazione penale federale, mentre i figli gli sono stati tolti dalle autorità federali, che li hanno messi in strutture simili a gabbie.

Come prevedibile, questa politica ha provocato indignazione e alla fine è stata revocata. Tuttavia molti di quelli che hanno condannato l’amministrazione del presidente Trump sembrano ignorare deliberatamente il fatto che Israele ha portato avanti pratiche molto peggiori contro i palestinesi.

Di fatto molti all’interno della classe dominante americana, sia repubblicani che democratici, sono stati ammaliati per decenni dal modello israeliano. Per anni opinionisti hanno elogiato non solo la presunta democrazia israeliana, ma anche il suo apparato di sicurezza come un esempio da emulare. In seguito agli attacchi dell’11 settembre 2001 è fiorita una rinnovata storia d’amore con le strategie securitarie israeliane, grazie alle quali Tel Aviv ha rastrellato miliardi di dollari dei contribuenti americani in nome dell’aiuto per rendere sicuri i confini USA contro presunte minacce.

Un nuovo, persino più terribile capitolo della continua cooperazione è stato stilato poco dopo che il neo-eletto Trump ha reso noto il suo piano di costruzione di un “grande” muro sul confine USA – Messico. Ancor prima che le imprese israeliane cogliessero l’occasione per costruire il muro di Trump, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha twittato a favore della “grande idea” di Trump, affermando che il muro di Israele è stato un “grande successo” perché “ha bloccato qualunque immigrazione illegale:”

“Uccelli dello  stesso piumaggio fanno uno stormo insieme”, dice un proverbio inglese. Netanyahu e Trump si sono mossi insieme per oltre un anno e mezzo in perfetta armonia. Purtroppo la loro affinità personale, lo stile opportunistico in politica e, in modo più preoccupante, i punti di contatto ideologici hanno peggiorato le cose. Nel caso di Israele, la parola “democrazia” non è certo appropriata. Tutt’al più, la democrazia israeliana può essere descritta come unica. L’ex-presidente della Corte Suprema dello “Stato ebraico”, Aharon Barak, avrebbe detto che “Israele è diverso dagli altri Paesi. Non solo è uno Stato democratico, ma anche ebraico.”

All’inizio di quest’anno, durante una conferenza a Tel Aviv, la controversa  ministra della Giustizia di Israele, Ayelet Shaked, ha proposto la sua personale versione dell’affermazione di Barak. “Israele è uno Stato ebraico,” ha detto. “Non è uno Stato per tutte le sue nazionalità. Cioè, uguali diritti per tutti i cittadini ma non uguali diritti nazionali.”

Per preservare la sua versione della “democrazia”, Israele deve, in base alle parole di Shaked, “conservare una maggioranza ebraica anche a costo di una violazione dei diritti.”

Israele ruota il concetto di democrazia in qualunque direzione gli consenta di garantire la dominazione della maggioranza ebraica a spese dei palestinesi, gli abitanti originari del territorio, il cui crescente numero è spesso visto come una “minaccia demografica”, persino una “bomba”.

A tutt’oggi Israele non ha una costituzione formale. E’ governato da quella che è nota come “Legge fondamentale”. Non avendo un codice etico o un fondamento giuridico in base al quale può essere giudicato il comportamento dello Stato, il parlamento israeliano (la Knesset) è, di conseguenza, libero di stilare e imporre leggi che prendono di mira i diritti dei palestinesi senza doversi confrontare con nozioni quali la minaccia di ‘incostituzionalità’ delle leggi.

Una delle ragioni per cui la legge di Trump di separazione delle famiglie sul confine è fallita è che, nonostante i difetti nel loro sistema democratico, gli USA hanno una costituzione e una società civile relativamente forte che può utilizzare i codici etici e giuridici del Paese per sfidare il terribile comportamento dello Stato.

Invece in Israele questo non succede. Il governo investe molta energia e fondi per garantire la supremazia ebraica e stabilire contatti diretti tra le colonie ebraiche illegali (costruite su terra palestinese sfidando le leggi internazionali) e Israele. Allo stesso tempo investe altrettante risorse per la pulizia etnica dei palestinesi dalla loro terra, mantenendo ovunque le loro comunità separate e frammentate.

La triste verità è che quello a cui gli americani hanno assistito sul loro confine meridionale negli ultimi due mesi è quello che i palestinesi hanno provato come situazione quotidiana da parte di Israele negli ultimi 70 anni.

Il tipo di segregazione e separazione che le comunità palestinesi sopportano va persino oltre le tipiche conseguenze della guerra, dell’assedio e dell’occupazione militare. E’ una cosa sancita dalle leggi israeliane, fatte principalmente per indebolire, persino demolire la coesione della società palestinese.

Per esempio, nel 2003 la Knesset ha votato a favore della legge “Cittadinanza e ingresso in Israele”, che pone gravi limitazioni ai cittadini palestinesi di Israele che facciano richiesta di ricongiungimento familiare. Quando alcuni gruppi per i diritti umani hanno messo in discussione la legge, i loro tentativi sono falliti in quanto all’inizio del 2012 la Corte Suprema israeliana ha sentenziato a favore del governo.

Nel 2007 quella stessa legge è stata modificata per includere coniugi di “Stati ostili” – cioè la Siria, l’Iran, il Libano e l’Iraq. Non sorprende che i cittadini di alcuni di questi “Stati ostili” siano stati inclusi nel divieto di ingresso negli USA di Trump contro cittadini di Paesi in maggioranza musulmani.

E’ come se Trump stesse seguendo un modello israeliano, improntando le sue decisioni ai principi che hanno guidato le politiche israeliane verso i palestinesi per molti anni.

Persino l’idea di rinchiudere bambini in gabbia è israeliana, una pratica che è stata denunciata dal gruppo per i diritti umani “Commissione pubblica contro la tortura in Israele” (PCATI).

La politica, che a quanto si sostiene è stata sospesa,  ha consentito di rinchiudere detenuti palestinesi, compresi minori, in gabbie esterne, persino durante durissime tempeste invernali.

“Mettere in gabbia palestinesi”, tuttavia, è una vecchia prassi. Oggi il muro dell’apartheid israeliano separa i palestinesi dalla loro terra e segrega arabi ed ebrei su base razziale. Riguardo al caso di Gaza, tutta la Striscia, che ospita 2 milioni di persone, per lo più rifugiati, è stata trasformata in un’immensa “prigione a cielo aperto” di muri e fossati.

 

Mentre molti americani sono confortati dalla decisione di Trump di porre fine alla pratica della separazione familiare sul confine, i politici e i media USA dimenticano il destino dei palestinesi che hanno subito terribili forme di separazione per molti anni. Ancora più scioccante è il fatto che molti tra i repubblicani e i democratici vedano Israele non come un ostacolo per una reale democrazia, ma come un fulgido esempio da seguire.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele contro Iran: Venti di guerra a Gerusalemme – con il sostegno di Washington

Amos Harel

1 maggio 2018, Haaretz

Israele è determinato a estromettere l’Iran dalla Siria, ma se sbaglia i calcoli, Hezbollah e Hamas potrebbero accettare la sfida. Netanyahu è pronto a correre dei rischi – a un passo dal gioco d’azzardo.

Dopo l’attacco alla Siria attribuito a Israele nella notte di domenica, perlomeno il quinto da settembre, sembra che non ci sia spazio al dubbio. Israele è determinato a sradicare la presenza militare iraniana dalla Siria.

Dopo il precedente attacco alla base aerea T4 vicino a Homs il 9 aprile, in cui morirono 14 persone inclusi sette membri del Corpo delle guardie rivoluzionarie iraniane, l’Iran minacciò gravi ritorsioni. Lo stato maggiore di difesa israeliano si preparò di conseguenza, ma finora non era successo nulla. Invece, ora è stato inflitto un altro attacco agli interessi iraniani in Siria.

In base ai rapporti siriani, il raid [israeliano] sugli obiettivi militari tra Hama e Aleppo nel nord della Siria ha causato forti esplosioni – una fonte ha riferito che sembrava ci fosse un piccolo terremoto. Alcuni furono uccisi, apparentemente soldati siriani e miliziani sciiti pro-iraniani.

La scorsa settimana la rete televisiva CNN ha riferito che lo spionaggio americano e israeliano sta controllando i movimenti in Siria delle armi iraniane che potrebbero essere utilizzate per “chiudere i conti” con Israele. L’attacco di domenica notte – questa volta, con tanta forza – potrebbe rivelare che è stato colpito un grosso deposito di armi. E ciò potrebbe confermare il tentativo di sventare una potenziale reazione iraniana.

Con l’Iran a nord di Israele lo scontro è diretto: Israele ha tracciato un limite ed è pronto a farlo rispettare con la forza. Poiché gli iraniani si oppongono sia alla proibizione di Israele alla sua presenza che ai mezzi che Israele sta usando, in assenza di un mediatore tra le parti, questo conflitto potrebbe ancora intensificarsi. La settimana è appena all’inizio.

Paura di provocare Trump

Nell’ultimo anno, due tendenze sono diventate evidenti in Medio Oriente: il presidente siriano Bashar Assad ha vinto la sanguinosa guerra civile in Siria e gli Stati Uniti stanno ridimensionando la propria presenza nella regione. Anche il loro recente attacco punitivo contro il regime di Assad è stato percepito come un gesto simbolico di addio. Nel frattempo, stanno prendendo forma altre due tendenze: lo sforzo di Israele di espellere l’Iran dalla Siria e Washington che si prepara a una risoluzione per abbandonare l’accordo nucleare tra l’Iran e le potenze [occidentali], che dovrebbe avvenire intorno al 12 maggio.

Il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu sembra stabilire una relazione fra le ultime due tendenze. L’idea è che l’Iran si stia trattenendo dal reagire contro Israele per le ultime presunte mosse in Siria perché ha paura di commettere un errore che provocherebbe la rabbia degli Stati Uniti. Secondo questo punto di vista, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump potrebbe rispondere all’escalation tra Iran e Israele abbandonando l’accordo nucleare ancora prima, e in seguito potrebbe persino attaccare i siti nucleari iraniani (il che sarebbe incalcolabilmente più grave di un ipotetico attacco israeliano). Le autorità di Teheran sono anche preoccupate per le varie minacce interne, dalla crisi finanziaria alle accese manifestazioni di protesta. Apparentemente la conclusione logica è che Israele possa continuare a colpire gli iraniani in Siria a suo piacimento.

In effetti, gli Stati Uniti agiscono in modo molto diverso rispetto ai giorni di Obama. Il Segretario di Stato Mike Pompeo è venuto in Israele dopo aver assunto l’incarico ed è partito per la Giordania poco prima che arrivassero le prime notizie degli attacchi israeliani in Siria. Contemporaneamente, Trump e Netanyahu si sono parlati per telefono, discutendo, come riferito, anche dell’Iran. Si tratta chiaramente di un riconoscimento da parte di Washington dei venti di guerra che soffiano a Gerusalemme. Si potrebbe pensare che se Pompeo avesse potuto rimanere in Israele qualche ora in più, gli avrebbero suggerito di saltare in una cabina di pilotaggio e sparare lui stesso alcuni missili.

Nel frattempo, Netanyahu, come abbiamo scritto alcune settimane fa, è di un umore particolarmente trumpiano, molto diverso dal suo comportamento normale. L’attenzione agli incidenti riguardo alla sicurezza ha superato anche la preoccupazione per le lotte politiche all’interno della coalizione. È pronto ad affrontare rischi inediti, al limite del gioco d’azzardo. Stranamente, lo stato maggiore della difesa è con lui. Contrariamente all’acceso contrasto dell’inizio del decennio [2010] sul bombardamento dei siti nucleari in Iran, questa volta i capi della difesa israeliana portano avanti una linea dura e aggressiva riguardo alla presenza dell’Iran in Siria.

La seccante ma necessaria domanda di questa mattina è cosa succede se Israele sbaglia una mossa.

È vero, l’Iran adesso non vuole importunare gli Stati Uniti. È piuttosto occupato a proteggere il suo programma nucleare da ulteriori pressioni ed è interessato a esibire la sua capacità di colpire in Siria. Un combattimento in Siria non andrebbe bene nemmeno ai russi che sono intenzionati a ristabilire il regime di Assad.

Ma i calcoli di Israele potrebbero saltare se le fiamme in Siria divampassero fuori controllo, e se l’Iran decidesse, smentendo le ipotesi, di trascinare Hezbollah nel conflitto, per esempio dopo le elezioni libanesi del 6 maggio. Hezbollah ha acquisito in Siria un’esperienza largamente operativa. Ha un arsenale di oltre 100.000 fra missili e razzi. Hezbollah non è certamente più forte delle Forze di Difesa Israeliane, ma in caso di guerra, potrebbe provocare danni reali sul fronte interno israeliano, e i combattimenti a terra in Libano potrebbero costare cari all’esercito israeliano.

Un conflitto del genere potrebbe coinvolgere Hamas a Gaza, come il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha ripetutamente segnalato (sembra esserci una discrepanza tra i toni sicuri espressi da Gerusalemme, tra cui quelli di Lieberman, in pubblico, e le loro reali paure). Finora Israele è riuscito a stabilire e mantenere un coordinamento con l’aviazione russa per prevenire qualsiasi attrito nei cieli siriani. Ma, a un certo punto, non potrebbe Mosca decidere che è stufa di ricevere diktat da Gerusalemme?

Israele ha uno scopo comprensibile in Siria. La presenza dell’Iran sta diventando potenzialmente pericolosa e potrebbe in futuro bloccare l’esercito israeliano. Eppure, stamattina, bisogna farsi alcune domande. L’obiettivo di espellere tutte le forze iraniane dalla Siria è davvero raggiungibile, come sembrano pensare il primo ministro, il ministro della Difesa e il capo dello stato maggiore? Stanno considerando che le cose possano andare storte, sfociando in un conflitto più vasto dal costo molto più alto? Finora non c’è stata alcuna vera discussione in merito, né è emerso alcun dibattito sulla politica che sta prendendo forma al nord – non nel governo né tra i vertici della sicurezza.

( Traduzione di Luciana Galliano)




Le uccisioni sul confine di Gaza mettono in evidenza la vera mentalità di Israele

Zeev Sternhell

27 aprile 2018, Haaretz

E Bezalel Smotrich, come il volto cinico di Avigdor Lieberman, riflette il nostro volto, il volto di avamposto dell’Occidente di Netanyahu

Benjamin Netanyahu, ci ricorda Anshel Pfeffer [giornalista inglese che scrive su Haaretz, ndt.], non vede il conflitto arabo-israeliano come un problema in sé, ma come parte inscindibile dello scontro di civiltà tra l’Islam e il mondo occidentale (“La visione di Netanyahu in 467 pagine”, 18 aprile). Per lui Israele è l’avanguardia dell’Occidente in una lotta durata 1.500 anni.

Quando è stato pubblicato il suo [di Netanyahu] libro “A Place Among the Nations” [“Un posto tra le Nazioni”], l’ho considerato come niente più che propaganda, l’intenzione di inventarsi una copertura ideologica per continuare l’occupazione sponsorizzata dal neo-conservatorismo americano nella sua forma più semplicistica. È un vero peccato che gente rispettabile cada ancora nella trappola.

Netanyahu ha da molto tempo capito che i palestinesi sono incapaci di resistere con la forza all’occupazione, per cui essa non finirà in un futuro prevedibile. Ma poiché nessuna situazione può persistere senza una copertura ideologica, e la narrazione biblica non si vende bene negli Stati Uniti al di fuori dei circoli evangelici, ci prova con la protezione della cultura occidentale, nello spirito della tendenza neoconservatrice della fine del XX secolo.

Tuttavia, per più di 300 anni la cultura occidentale ha presentato due approcci: quello liberale, da cui si sono sviluppati la democrazia e i diritti umani dell’Illuminismo francese e britannico, e quello che subordina l’individuo a una comunità etnica e cerca nella storia la legittimazione delle proprie politiche. Questa tendenza iniziò a far germogliare, alla fine del XIX secolo, i vari movimenti nazionalisti e razzisti di destra, compresi quelli che si sono sviluppati nel fascismo e nel nazismo.

Questi movimenti sapevano come sfruttare il diritto al suffragio universale per eliminare il principio di uguaglianza tra gli esseri umani. Poi hanno eliminato la stessa democrazia. Il nazionalismo razzista non fu inventato da Hitler, ma emerse gradualmente dalla rivoluzione di destra che iniziò a travolgere l’Europa. Questo approccio nazionalista radicale è l’”Occidente” di Netanyahu, in cui trova la legittimazione per la politica colonialista di annessione e oppressione che ha architettato da quando è salito al potere.

Questo è il punto di vista che il giovane israeliano educato in America ha adottato per se stesso: laggiù la sua immaginazione non è stata accesa dall’eredità del movimento per i diritti civili, ma piuttosto dall’oscuro tenore della cultura politica americana. Mentre la rivoluzione francese liberava gli ebrei e gli schiavi, in America – insieme alla devozione quasi religiosa per le libertà individuali e il bilanciamento dei poteri, ancorati alla Costituzione e alla Dichiarazione di Indipendenza – la schiavitù è esistita per altri 100 anni. Per ulteriori 100 è prevalsa la brutale oppressione sociale dei neri. Il giovane Netanyahu ha imparato là che l’Occidente contiene tutto, il meglio e il peggio, e ognuno può scegliere da solo quello che gli serve.

Quindi è così che funziona la destra israeliana: dopo aver rafforzato il colonialismo tratta gli arabi fondamentalmente come nativi. I britannici in Kenia e i francesi in Algeria hanno fatto scuola. Le uccisioni settimanali sul confine della Striscia di Gaza sono una campagna di brutalità, che mette in evidenza la mentalità della società nel cui nome l’esercito agisce: possiamo fare tutto quello che vogliamo. Come Elor Azaria, che ha giustiziato un terrorista ferito e presto uscirà di prigione come un eroe, così come i giovani in uniforme che massacrano civili disarmati sui confini di Gaza sono i “figli di tutti noi”. E Bezalel Smotrich [deputato del partito di estrema destra dei coloni “Casa ebraica, ndt], che vuole che si spari a una gamba ad Ahed Tamimi [ragazza palestinese detenuta in Israele. Smotirch ha sostenuto che le si dovrebbe almeno sparare a un ginocchio, ndt.], è il parlamentare di tutti noi. Non abbiamo sentito i dirigenti del suo partito o i ministri dell’Educazione e della Giustizia [entrambi di “Casa ebraica”, ndt.] urlare con orrore. Smotrich, come il volto cinico di Avigdor Lieberman [ministro della Difesa, del partito di estrema destra “Israele casa nostra”, ndt.], riflette il nostro stesso volto, il volto dell’avamposto dell’Occidente di Netanyahu.

Questa è la dura verità che i festeggiamenti per il settantesimo dell’indipendenza hanno reso ancora più evidente.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Netanyahu è orgoglioso del miglioramento dei rapporti diplomatici di Israele, ma il voto dell’ONU dà una lezione di umiltà

Noa Landau

22 didembre 2017,Haaretz

Le molte dichiarazioni del primo ministro negli ultimi due anni riguardo ad un presunto e vistoso cambiamento nell’atteggiamento del mondo verso Israele non hanno superato la prova della realtà.

Più passava il tempo prima della sconfitta all’Assemblea generale dell’ONU, tanto più a Gerusalemme cambiavano le aspettative sui risultati attesi.

All’inizio Israele ha cercato di convincere più Paesi possibile a votare contro la risoluzione, ma quando le esplicite minacce americane di tagliargli gli aiuti non hanno cambiato in modo significativo la situazione, il principale tentativo fatto è stato centrato sul convincere i leader almeno ad astenersi o ad andarsene improvvisamente per le vacanze di Natale e assentarsi dall’aula. E se questo non avesse funzionato, che per lo meno abbassassero il tono dei loro discorsi durante il dibattito.

Dopo il voto, il primo ministro Benjamin Netanyahu ed il suo ministro degli Esteri, Benjamin Netanyahu [Netanyahu ricopre entrambi gli incarichi, ndt.], hanno risposto all’unisono: “Israele rifiuta la risoluzione dell’ONU ed esprime la sua soddisfazione per il grande numero di Paesi che non hanno votato a favore della risoluzione,” rallegrandosi delle astensioni e festeggiando le assenze.

La maggiore delusione per Israele è venuta dai Paesi che negli ultimi anni hanno rafforzato i rapporti bilaterali, soprattutto quelli che condividono con il governo Netanyahu una visione molto conservatrice. Per esempio l’India, il cui primo ministro Narendra Modi ha visitato Israele in luglio – un viaggio memorabile soprattutto per le immagini bucoliche di lui e Netanyahu abbracciati che sguazzavano nelle onde – ha votato la risoluzione contro Israele e contro gli Stati Uniti. Durante la sua visita Netanyahu aveva definito Modi “un’anima gemella”. Ma anche con la visita bilaterale prevista a metà del prossimo mese, l’India non cambiato idea sul proprio rifiuto di astenersi.

Altre delusioni significative sono venute dalla Grecia e da Cipro, con cui è stato firmato molto recentemente un accordo per il gas naturale. La Russia e la Cina che Netanyahu loda in continuazione per i loro calorosi rapporti con Israele, hanno di nuovo votato, come al solito, per la posizione palestinese.

Un diplomatico israeliano ha detto che il principale insegnamento da trarre da questo episodio potrebbe essere una “lezione di umiltà”. Alla luce del voto del consiglio a New York, dove 128 quadratini luminosi verdi sono apparsi al suono di fragorosi applausi che sono rimbombati nell’aula quando si è saputo il risultato, le molte dichiarazioni del primo ministro negli ultimi due anni riguardo al presunto cambiamento significativo dell’atteggiamento del mondo verso Israele ora appaiono a dir poco diverse.

Ma ci sono state anche modeste consolazioni. Sei Paesi hanno rotto l’unanimità dell’Unione Europea ed hanno accolto le pressioni israeliane ad astenersi. L’Ungheria ed il suo leader Orban hanno guidato la ribellione, insieme alla Repubblica Ceca, il cui primo ministro è stato messo sotto pressione da Netanyahu prima del voto, ed alla Polonia, la cui posizione in Europa è comunque indebolita, e insieme a Croazia, Lettonia e Romania hanno votato per la risoluzione. Austria e Lituania, anche loro considerate amiche di Israele, hanno votato a favore della risoluzione. E ad ogni modo l’astensione dei Paesi dell’Europa orientale, come ha spiegato dalla tribuna il rappresentante della Cechia, è stata debole: “Non ci opponiamo alla posizione dell’Unione Europea sulla questione di Gerusalemme (la salvaguardia dei confini del 1967), ma ci asteniamo perché non pensiamo che il voto di questo pomeriggio farà progredire la pace.”

Il ministro degli Esteri ha riservato i suoi commenti più negativi all’”Europa classica”, alla Germania, per esempio. Alcuni Paesi africani, in cui Israele sta investendo un notevole impegno, si sono astenuti (per esempio il Rwanda e il Sud Sudan) o erano assenti (come il Kenia), mentre uno, il Togo, ha persino votato contro la risoluzione. È anche interessante notare l’astensione dell’Argentina, che Netanyahu ha visitato quest’anno. Tuttavia, in sostanza, se prendiamo in considerazione i viaggi di Netanyahu quest’anno, e sono stati molti – 59 giorni all’estero – non ci sono prove che queste visite abbiano dato risultati giovedì all’Assemblea Generale dell’ONU.

Rispetto agli esiti di importanti votazioni precedenti, per esempio nel 2012 sulla promozione dei palestinesi allo status di osservatori, c’è qualche miglioramento per quel che riguarda il governo: allora votarono “sì” 138 Paesi; questa volta lo hanno fatto “solo” 128. Ma questa volta non è stato messo alla prova solo il sostegno a Israele, era sotto esame soprattutto l’appoggio agli Stati Uniti. Poiché negli scorsi giorni il presidente Donald Trump e la sua ambasciatrice alle Nazioni Unite, Nikki Haley, non hanno esitato da fare esplicite minacce (“di prendere i nomi”) e di vendicarsi di chi avesse votato “sì” tagliando gli aiuti USA a quei Paesi, i quadratini verdi sulla lavagna elettronica hanno segnato non solo il chiaro appoggio della maggior parte dei Paesi alla soluzione dei due Stati all’interno dei confini del 1967, ma anche una crescente sfiducia nell’amministrazione Trump come mediatrice neutrale nel conflitto e nello stesso Trump come leader di una potenza mondiale.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Come mai l’Unione Europea sta offrendo croissant al criminale di guerra Netanyahu ?

David Cronin, Diritti e Responsabilizzazione

8 dicembre 2017 Electronic Intifada

Ci sono almeno 3000 motivi perché Benjamin Netanyahu non venga accolto a Bruxelles la prossima settmana.

Tremila è la cifra approssimata dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane da quando Netanyahu è diventato primo ministro nel marzo del 2009.

Netanyahu ha ordinato due importanti offensive contro Gaza. Sia nell’una che nell’altra sono stati perpetrati crimini di guerra.

Insieme ai suoi colleghi di governo ha approvato l’espansione delle colonie nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme Est. Hanno promosso una serie di leggi per peggiorare la discriminazione e la repressione [a cui] i palestinesi sottostanno.

Netanyahu ha imposto alla popolazione di Gaza tagli all’energia elettrica. Egli è responsabile della morte dei pazienti cui è stata negata un’ adeguata cura medica e dei minori torturati durante la loro custodia in Israele.

Netanyahu è un palese razzista. Ha definito “infiltrati” i rifugiati africani e “bestie selvagge” gli arabi.

L’Accoglienza

Come mai Federica Mogherini, responsabile della politica estera dell’Unione Europea, ha invitato a “una colazione informale”Netanyahu ?

Perché l’Unione Europea offre dei croissant a un criminale di guerra?

Che nessuno venga ingannato dall’uso della parola “informale” usata per provare a sminuire il significato di come l’UE stia abbracciando Netanyahu.

L’UE ha rafforzato i suoi rapporti commerciali con Israele da quando Netanyahu è diventato primo ministro.

In questo periodo sono entrati in funzione due importanti accordi per facilitare agli esportatori israeliani l’accesso ai mercati dell’Unione Europea .

L’UE ha dato prova a Netanyahu di essere largamente compiacente.

Alcuni anni orsono Netanyahu si lamentava dei tentativi di escludere dai programmi europei di ricerca scientifica alcune imprese e istituzioni israeliane che lavoravano nella Cisgiordania occupata

Se i rappresentanti dell’Unione Europea avessero manifestato sul serio il loro attaccamento ai diritti umani e al diritto internazionale, avrebbero resistito alle pressioni del governo Netanyahu. Avrebbero rifiutato di intensificare la loro cooperazione con uno Stato che sta inghiottendo la terra palestinese.

Invece l’UE ha ceduto alle prepotenza di Netanyahu. Un decreto è stato tirato fuori per permettere a Israele di partecipare pienamente a Horizon 2020, come viene definito l’ultimo programma scientifico dell’Unione Europea.

L’accordo presentava delle grandi problematicità. Il ministero israeliano delle Scienze è una delle principali istituzioni di coordinamento della partecipazione dello Stato al [progetto] Horizon 2020.

Il ministero delle Scienze non si trova in quello che oggi è Israele. I suoi principali uffici, invece, sono nella Gerusalemme Est occupata

Superficiale

L’accordo di Horizon 2020 mostra come siano assai superficiali le preoccupazioni espresse questa settimana da Federica Mogherini circa il riconoscimento da parte di Donald Trump di Gerusalemme quale capitale di Israele.

Parlando alla CNN, Mogherini ha detto che la mossa di Trump ha “screditato un po’ gli Stati Uniti quale onesto mediatore”

Un buffone bellicoso come Trump non potrebbe mai essere credibile come onesto mediatore.

Per certi versi,tuttavia, Trump è stato veramente più onesto di Mogherini.

Trump sta dando carta bianca a Israele per continuare la pulizia etnica a Gerusalemme.

I rappresentanti dell’Unione Europea, collaborando con i ministeri israeliani a Gerusalemme Est, hanno fatto la stessa cosa- sebbene meno sfacciatamente.

Per celebrare la Giornata dei Diritti Umani all’inizio di questa settimana, l’ambasciatore dell’UE a Tel Aviv, Emanuele Giaufret, ha visitato l’Università Ebraica di Gerusalemme.

L’Università Ebraica ha il campus nell’occupata Gerusalemme Est. Alcuni dei suoi edifici sono situati su terra confiscata alla vicina cittadina palestinese Issawiyeh.

L’Università Ebraica è la maggiore beneficiaria dei finanziamenti europei [del programma] scientifico. In conclusione, l’Unione Europea sta fornendo un diretto aiuto a un’istituzione complice della colonizzazione di Gerusalemme.

Questo fatto [ci] fa capire come sia stata falsa Mogherini questa settimana quando ha provato a svolgere il [suo] compito riguardo all’annuncio di Trump su Gerusalemme.

Mantra

Mogherini non è riuscita a rendere Israele responsabile dei danni che ha prodotto a progetti finanziati dall’UE.

L’anno scorso ha affermato che i governi europei stavano discutendo [di chiedere] “possibili restituzioni o compensazioni” a Israele per avere distrutto progetti umanitari che avevano finanziato.

Otto tra i 28 Paesi dell’Unione hanno successivamente protestato per la confisca da parte di Israele dei pannelli solari che avevano pagato.

Nel venir meno a dare seguito a quell’azione, gli altri 20 Paesi europei e Mogherini,in qualità di responsabile della politica estera, stanno effettivamente scagionando Israele [dalle sue responsabilità]

Mogherini ripete come un mantra che l’UE si adopera per la soluzione a due Stati e desidera rilanciare il processo di pace.

Ad essere benevoli, forse crede che la soluzione a due Stati sia possibile o desiderabile. Ma Netanyahu ha sotto ogni aspetto escluso una tale soluzione ribadendo che Israele non abbandonerà mai nessuna delle sue colonie nella Cisgiordania

Una colazione con Netanyahu non cambierà le decisioni del suo governo. Al contrario Netanyahu potrà partire da Bruxelles con la consapevolezza che potrà continuare a calpestare impunemente

i diritti dei palestinesi

Per i suoi crimini è stato premiato con croissant.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




L’insuccesso al Consiglio di Sicurezza è totalmente di Netanyahu

Sono le colonie, stupido: l’insuccesso al Consiglio di Sicurezza è totalmente di Netanyahu

Per otto anni gli USA hanno messo in guardia Netanyahu che la sua politica avrebbe avuto un costo, ma lui ha preferito tenersi buona la lobby delle colonie piuttosto che fare un piano di azione. Può dare la colpa solo a se stesso.

Haaretz

Di Barak Ravid – 24 dicembre 2016

Solo un’ora dopo il voto di venerdì al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, Ben Rhodes, consigliere del presidente Barak Obama, ha tenuto una conferenza stampa durante la quale ha spiegato perché gli Stati Uniti non hanno posto il veto sulla risoluzione riguardante le colonie. Rhodes ha risposto alle domande per un’ora, ma le sue osservazioni possono essere riassunte in questo modo: abbiamo messo in guardia Netanyahu per otto anni che questo è ciò che sarebbe successo. Non ci ha ascoltati: ora può dare la colpa solo a se stesso.

La descrizione di Rhodes è esatta. Il fatto che gli USA si siano astenuti non dovrebbe sorprendere nessuno, soprattutto non il primo ministro israeliano. Il vecchio luogo comune a proposito di quello che si può prevedere non è mai stato così vero. Infatti, è stato lo stesso primo ministro Benjamin Netanyahu che lo ha scritto sul muro con le sue iniziative negli ultimi anni e soprattutto negli ultimi mesi. La risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU è una sua sconfitta personale.

Dalle ultime elezioni, e soprattutto l’anno scorso, il governo di Netanyahu ha condotto una politica di notevole accelerazione della costruzione nelle colonie, demolizione di case palestinesi nell’Area C [in base agli accordi di Oslo, il territorio della Cisgiordania sotto totalmente controllata da Israele. Ndtr.] e di autorizzazione di colonie illegali. La saga riguardante l’evacuazione di Amona [avamposto illegale dei coloni che la Corte Suprema israeliana ha ordinato di evacuare. Ndtr.] e la legge nota come “Legge della regolarizzazione” [legge che intende legalizzare retroattivamente Amona ed altri avamposti. Ndtr.] è l’apice di questa tendenza. Netanyahu, insieme al ministro dell’Educazione Naftali Bennett e della Giustizia Ayelet Shaked, ha fatto tutto il possibile per spingere Obama al Consiglio di Sicurezza.

Durante tutti questi mesi la comunità internazionale non è stata per niente indifferente. Il rapporto del Quartetto sulla pace in Medio Oriente, reso pubblico in luglio, ha messo in guardia proprio sui punti inclusi nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Da allora, praticamente ogni settimana, il Dipartimento di Stato USA ed i ministri degli Esteri delle potenze occidentali hanno diramato condanne sempre più severe della politica di colonizzazione del governo israeliano, avvertendo che minacciava di seppellire la soluzione dei due Stati. Ogni mese il Consiglio di Sicurezza ha tenuto un incontro nel quale ha chiesto ai rappresentanti di molti Paesi di prendere decisioni relative alle colonie.

Netanyahu lo sapeva. Ha ricevuto una serie di documenti riservati dal ministero degli Esteri e dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale che lo avvertivano di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a cui gli USA non avrebbero posto il veto. Lui stesso lo ha dichiarato pubblicamente e in discussioni riservate dozzine di volte negli ultimi mesi e lo ha citato dalla tribuna dell’ONU in settembre. Netanyahu sapeva anche molto bene quanto fossero precari i rapporti con Obama e quanto scarsa fosse la sua capacità di influenzarne le decisioni.

Invece di fare un piano d’azione, Netanyahu si è occupato di Amona, Amona e ancora Amona. Invece di cambiare politica per evitare una disfatta diplomatica e un danno a livello internazionale per Israele, Netanyahu ha preferito tenersi buona la lobby dei coloni per poter sopravvivere politicamente. Sapeva che avrebbe pagato un prezzo per le sue azioni, ma ha agito come se tutto andasse bene. Una persona che sa tutto questo e continua con la stessa politica è affetto da una mancanza di discernimento e di responsabilità, o è semplicemente un giocatore d’azzardo compulsivo.

Solo mercoledì Netanyahu ha fatto un’apparizione arrogante sulla sua pagina Facebook privata. Di fronte alla camera da presa, il primo ministro di Israele ha superato se stesso nell’autocelebrazione, informando tutti quelli che lo guardavano che la posizione internazionale di Israele non era mai stata migliore. Quarantotto ore dopo si è scoperto che le parole di Netanyahu erano avulse dalla realtà.

Netanyahu ha ragione quando afferma che Israele è corteggiato da molti Paesi, ma sbaglia e si inganna riguardo a quanto pesino duramente su Israele 50 anni di occupazione. Una solida maggioranza di Paesi che hanno votato per la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU non è anti-israeliana o antisemita. Il messaggio del loro voto è semplice: sono le colonie, stupido.

La risoluzione del Consiglio di Sicurezza rivela ancora una volta quanto chiaro e netto sia il consenso internazionale contro le colonie. Non si tratta solo di Obama. Ha votato a favore [della risoluzione] il governo inglese di destra del primo ministro Theresa May e del ministro degli Esteri Boris Johnson.  Lo stesso hanno fatto i governi di Spagna e Russia, del presidente Vladimir Putin, buon amico di Netanyahu, e la Cina, di cui Bennett e altri ministri dicono che non si interessa dei palestinesi ma solo della tecnologia israeliana, e la Nuova Zelanda, il cui capo del governo di destra, Bill English, nel 2003 aveva attaccato il ministro degli Esteri del suo Paese per aver abbracciato Yasser Arafat.

Il primo ministro si consolerà sicuramente per il fatto di essere riuscito a portare dalla sua parte la persona che il prossimo mese sarà presidente degli USA. Non è sicuro che si tratti di una cosa di cui possa essere fiero. Netanyahu ha ingannato Donald Trump e gli ha provocato la prima sconfitta diplomatica.  Tranne che il presidente egiziano, nessun altro leader di un Paese del Consiglio di Sicurezza ha tenuto conto di Trump.

Dopo questo episodio, Netanyahu è in debito con Trump persino prima che quest’ultimo inizi il suo mandato. E’ in debito per averlo fatto perdere. E Trump non ama perdere. Anche la risposta del presidente eletto è interessante: Trump non ha attaccato la risoluzione, né ha difeso le colonie: lo ha fatto con una dichiarazione piuttosto laconica.

Prima e dopo il voto, il primo ministro si è lasciato andare ad una campagna di attacchi contro Obama che sembrano notizie false su un sito delirante della destra negli USA. L’accusa più stravagante è stata che Obama era parte di una cospirazione con i palestinesi, ha di fatto abbandonato Israele e l’ha colpito alle spalle. Sì, lo stesso Obama che solo poche settimane fa ha dato ad Israele 38 miliardi di dollari in aiuti per la sicurezza. Netanyahu non ha osato dire di Putin, May o del presidente cinese Xi Jinping  neppure un decimo di queste cose. Ci sono molti precedenti di presidenti americani che si sono astenuti all’ONU su risoluzioni riguardanti Israele. Non ci sono precedenti del modo in cui Netanyahu ha agito nei confronti di Obama.

Netanyahu può cercare di accusare Obama, Mahmoud Abbas, la sinistra e persino il tempo o il mufti per la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ma ciò non potrà eliminare la disfatta diplomatica di venerdì. Alla fine, è successo per responsabilità di Netanyahu.

E’ ad avvenimenti del genere che l’ex-primo ministro e ministro della Difesa Ehud Barak faceva riferimento quando ha parlato di uno tsunami diplomatico. Barak lo ha anche riassunto bene sul suo account Twitter durante il fine settimana: “Sconfitta senza precedenti al Consiglio di Sicurezza. Il primo ministro deve cacciare il suo ministro degli Esteri.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La risoluzione ONU: una vendetta personale di Obama

La risoluzione ONU: una vendetta personale di Obama contro Netanyahu

Middel East Eye

Yossi Melman – Sabato 24 dicembre 2016

Il primo ministro israeliano, abituato all’appoggio incondizionato degli USA, è rimasto colpito dall’iniziativa di Obama. Se ne farà una ragione.

La risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di venerdì, che denuncia le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata (che sono illegali in base alle leggi internazionali e un ostacolo alla creazione di uno Stato palestinese) è stata uno shock per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e per il suo governo di destra.

Fino all’ultimo minuto hanno sperato che in qualche modo, deus ex machina, Washington avrebbe posto il veto sulla proposta. Ma gli Usa si sono astenuti, consentendo l’adozione della risoluzione da parte degli altri 14 membri del consiglio.

Non è la prima volta che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approva una risoluzione contro l’occupazione israeliana e la sua politica illegale di costruzione ed espansione delle colonie ebraiche. Ma in questa occasione la risoluzione è molto più mirata. Sottolinea il ruolo distruttivo giocato dalle colonie nel dividere e controllare la Cisgiordania per impedire la nascita di uno Stato palestinese con continuità territoriale.

E’ stata anche la prima risoluzione dal 1980 su cui gli USA non hanno posto il veto o impedito che venisse proposta.

La decisione degli USA di astenersi riflette una politica di lunga durata contraria alle colonie. Ma si è trattato anche un atto di vendetta e di ritorsione personale del presidente Obama contro Netanyahu. La Casa Bianca usa un eufemismo quando sostiene che la politica delle colonie da parte di Netanyahu è stata responsabile della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Fin dal primo momento di Obama alla Casa Bianca, Netanyahu ha cospirato contro di lui con la maggioranza repubblicana del Congresso USA. Nonostante sia stato uno dei presidenti che più ha sostenuto e generosamente finanziato Israele, Obama è stato detestato da un ingrato Netanyahu. Il primo ministro israeliano ha ripetuto continuamente il suo sostegno alla soluzione dei due Stati, ma ha fatto tutto quanto gli era possibile per sabotarla. Ha anche cospirato con il partito Repubblicano per far fallire l’accordo sul nucleare tra l’Iran e i “P5 più uno” – cioè, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania.

Netanyahu e il suo governo, preso in ostaggio anni fa dai coloni, che rappresentato appena il 10% della popolazione ebraica di Israele, ha ignorato il fatto che la risoluzione è equilibrata. Chiede ai palestinesi di bloccare gli incitamenti alla violenza e il terrorismo.

Eppure Netanyahu ha espresso tutta la sua rabbia e frustrazione verso Obama stravolgendo la verità e accusandolo di aver deviato dalla “tradizione” politica USA di appoggiare sempre Israele. Il borioso Netanyahu si è autoconvinto che l’appoggio incondizionato degli USA è uno dei Dieci Comandamenti.

Paralizzato dal suo timore verso Vladimir Putin, che egli ha ripetutamente elogiato e descritto come un amico, Netanyahu ha totalmente ignorato il fatto che anche la Russia ha appoggiato la risoluzione.

In un messaggio personale, Netanyahu ha promesso di ignorare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e per ritorsione ha richiamato l’ambasciatore israeliano in Nuova Zelanda e quello in Senegal, due Nazioni che hanno proposto la mozione.

Riguardo alle implicazioni della risoluzione su Israele e la Palestina, si tratta di un’arma a doppio taglio. Innanzitutto, la risoluzione non fa riferimento al capitolo sette della Carta dell’ONU, che parla di “minacce per la pace” e quindi è ben lungi dall’imporre sanzioni internazionali su Israele o sulle sue colonie.

Singole Nazioni possono utilizzare la risoluzione come una base legale per giustificare la propria decisione di boicottare le colonie e persino Israele. Ma lo faranno, e in che misura? La risoluzione funge anche da impulso per il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che prende di mira le colonie e Israele.

La risoluzione è anche una vittoria per l’anziano presidente palestinese Mahmoud Abbas e per la sua strategia di utilizzare l’arena diplomatica per combattere l’occupazione. Abbas è stato recentemente sottoposto a terribili pressioni all’interno del suo stesso movimento, Fatah, e della più ampia Organizzazione per la Liberazione della Palestina perché desse le dimissioni a causa del fallimento delle sue politiche e per non essere riuscito ad avvicinare i palestinesi alla creazione di uno Stato.

Ma è prematuro che i palestinesi si rallegrino. Una volta superato lo shock, Netanyahu si sposterà probabilmente ancora più a destra e costruirà ancora più colonie. Crede che il prossimo mese, quando Donald Trump entrerà nello Studio Ovale [l’ufficio del presidente alla Casa Bianca. Ndtr.], Israele avrà mano libera per fare tutto quello che vuole.

– Yossi Melman  è un commentatore in materia di sicurezza e di intelligence e co-auotore di “Spie contro l’Armageddon”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)