A Gerusalemme non c’è nessuna spirale di violenza, solo un’oppressione mortale del mio popolo da parte di Israele

Jalal Abukhater

martedì 7 febbraio 2023 – The Guardian

Dalle demolizioni di case alla detenzione militare, la violenza che noi palestinesi affrontiamo quotidianamente riflette lo squilibrio di potere tra occupante e occupato

I bulldozer sono quasi quotidianamente in azione. Nei quartieri palestinesi di Gerusalemme, la mia città, le forze israeliane demoliscono case quasi ogni giorno. L’espropriazione e la discriminazione sono una realtà di lunga data qui nella parte orientale della città, da 56 anni sotto l’occupazione militare israeliana, ma con il nuovo governo israeliano di estrema destra Gerusalemme ha visto un picco di demolizioni: nel solo mese di gennaio sono stati distrutti più di 30 edifici.

Le notizie che giungono dalla nostra regione nelle capitali occidentali e nei media tendono a parlare prevalentemente di spargimenti di sangue e il popolo palestinese sta attraversando alcuni dei giorni più violenti, distruttivi e letali degli ultimi tempi. Nella Cisgiordania occupata il 2022 è stato l’anno più letale in quasi due decenni. A gennaio altri 31 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano. Disperazione, frustrazione e angoscia aleggiano su tutti noi come una nuvola scura. Ma i numeri da soli non esprimono la portata di questa crudeltà.

I numeri delle vittime e i luoghi comuni su spirali di violenza riportati da media male informati, prevenuti o servili non sono corretti o sufficienti per trasmettere lo squilibrio di potere tra un occupante e un occupato. La violenza a cui noi palestinesi siamo esposti quotidianamente non proviene solo dalle armi dell’esercito israeliano, ma è insieme profonda e strutturale.

Non ci sono cicli di demolizioni di case” o espulsioni per ritorsione” – i palestinesi non confiscano proprietà israeliane né imprigionano migliaia di israeliani con l’impiego di tribunali militari. Qualsiasi approccio che suggerisca una simmetria di potere o di responsabilità – è concettualmente e moralmente sbagliato.

Un microcosmo di questa violenza strutturale si trova proprio qui, nella mia città natale, Gerusalemme. Il mese scorso un palestinese armato ha ucciso sette israeliani nell’insediamento coloniale di Neve Yaakov nella Gerusalemme est occupata. Il ministro della sicurezza nazionale israeliano, Itamar Ben-Gvir, si è successivamente impegnato a intensificare le demolizioni delle case palestinesi costruite senza permessi, formulando tale mossa come una risposta all’attacco.

La maggior parte delle case palestinesi sono prese di mira per assenza di autorizzazione; infatti, nella mia città, almeno un terzo delle abitazioni palestinesi non dispone del rilascio di un’autorizzazione da parte di Israele, il che in qualsiasi momento pone a rischio di sfollamento forzato 100.000 residenti di Gerusalemme est occupata.

Infatti, dall’inizio dell’occupazione israeliana di Gerusalemme est nel 1967, praticamente non è stata condotta alcuna pianificazione pubblica riguardante i quartieri palestinesi. Nella parte orientale della città sono state costruite con ogni tipo di sostegno governativo cinquantacinquemila case per gli ebrei israeliani mentre per i palestinesi ne sono state costruite meno di 600. Questa politica ha assicurato non solo che i palestinesi avessero alloggi inadeguati, ma anche che nella città rappresentassero una minoranza.

Nonostante i palestinesi costituiscano oltre il 37% dei residenti di Gerusalemme, solo l’8,5% del terreno della città è destinato ai loro bisogni residenziali (e anche lì il potenziale edificabile è limitato). Tra il 1991 e il 2018, solo il 16,5% di tutti i permessi di costruzione di alloggi rilasciati dal comune di Gerusalemme hanno riguardato quartieri palestinesi nella zona est occupata e annessa illegalmente. La cosiddetta costruzione illegale o non autorizzata da parte dei palestinesi è una risposta alla cronica carenza di alloggi basata sulla discriminazione.

Più di recente, Ben-Gvir e il vicesindaco di Gerusalemme, Aryeh King, hanno annunciato l’imminente demolizione di un edificio abitativo a Wadi Qaddum, Silwan [quartiere di Gerusalemme est, ndt.], sulla base del fatto che è stato costruito su un terreno destinato a “sport e tempo libero”, e non ad uso residenziale. Una volta iniziata, sauna demolizione di grandi dimensioni, con lo sfollamento di circa 100 residenti. Solo negli ultimi 10 anni a Gerusalemme Est sono stati demoliti 1.508 edifici palestinesi, facendo sì che 2.893 persone, metà delle quali minorenni, restassero senza casa.

Anche la Cisgiordania occupata è segnata da una realtà brutale.

Nella cosiddetta Area C (60% della Cisgiordania) [sotto il temporaneo completo controllo israeliano secondo gli accordi di Oslo del 1993, ndt.] non è consentita quasi alcuna costruzione palestinese. Le autorità israeliane demoliscono costantemente case, strade, cisterne, pannelli solari e altro ancora di proprietà palestinese. Gli insediamenti coloniali, considerati illegali dal diritto internazionale, sono in espansione, mentre i palestinesi sono confinati in enclavi frammentate.

Con l’aumento del numero di demolizioni ed espulsioni a Gerusalemme e in Cisgiordania sono minacciate intere comunità. Ma dovremmo ricordare che il costo più evidente è a livello individuale: il singolo nucleo famigliare che perde tutto ciò che ha al mondo. I muri crollano, i bambini piangono e i genitori si affrettano a capire cosa fare o dove andare dopo. È una catastrofe ed è continua.

La mancanza di un’autorizzazione impossibile da ottenere non è l’unico pretesto per demolire proprietà palestinesi; le autorità di occupazione israeliane stanno anche distruggendo o sigillando le case come forma di punizione collettiva, severamente vietata dal diritto internazionale. Gli atti di espulsione forzata di una popolazione occupata costituiscono un crimine di guerra. E’ una crudeltà incredibile.

Queste demolizioni ed evacuazioni sono una parte della violenza strutturale che noi palestinesi affrontiamo ogni giorno. Questo governo israeliano può mettere in atto nuove crudeli manifestazioni dell’occupazione, ma le basi sono state gettate dalle coalizioni che si sono succedute al governo dal 1967, dai laburisti al Likud.

Ecco perché noi palestinesi non ci sentiamo sollevati per la folla di israeliani che protestano contro le riforme giudiziarie proposte. Per decenni le nostre terre sono state confiscate e le persone sfollate da politici israeliani eletti di vari partiti, con approvazione da parte di ogni livello del sistema giudiziario. Occupazione e politiche razziste ci sono state imposte da chi si trova all’interno dell’attuale coalizione di governo e da molti che attualmente ne stanno fuori.

Questa violenza è la nostra realtà e affrontare una tale realtà è un primo passo necessario nella nostra lotta per la dignità e la giustizia. Incolpare le vittime o chiudere il dialogo [con loro] non farà che prolungare la nostra sofferenza. Non è una spirale di violenza, è un sistema di apartheid e deve essere trattato come tale dal mondo esterno.

Jalal Abukhater è un giornalista di Gerusalemme

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il ballo in maschera dell’Israele liberale: un apartheid più sofisticato

Hagai El-Ad

30 gennaio 2023 – Haaretz

Dalle elezioni del primo novembre Israele si è rapidamente “tolto la maschera”, un processo evidenziato dagli accordi di coalizione prima dell’insediamento del il nuovo governo di Benjamin Netanyahu il 29 dicembre. In tali accordi la Legge Fondamentale del 2018 su Israele come Stato-Nazione del popolo ebraico evidenzia palesemente e ampiamente la supremazia ebraica ovunque Israele comandi tra il mare Mediterraneo e il fiume Giordano.

Gli esempi sono molteplici. Il governo ha iniziato con questa dichiarazione programmatica: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della Terra di Israele.” Oltre a ciò, ci sono passi per “legalizzare” avamposti dei coloni in Cisgiordania e il tentativo di affrontare “la bilancia demografica” nel Negev e in Galilea, e un’iniziativa per espandere la legge sulle commissioni di ammissione [che concedono a una persona il permesso di abitare in una certa zona della Galilea o del Negev e che escludono sistematicamente i palestinesi, ndt.] a comunità con 600 o più famiglie rispetto alle attuali 400.

In un Paese in cui “l’insediamento ebraico” è un “valore nazionale”, come stabilito dalla Legge Fondamentale che non è stata bocciata dalla Corte Suprema, la bussola è la supremazia ebraica. Il trentasettesimo governo sta ampiamente avendo cura di ostentare tutto ciò.

Ma, mentre alcune maschere sono state rimosse, ne sono state messe in vendita delle altre. La storia secondo cui “i territori stanno occupando Israele” ci propone la nostalgia dell’Israele illuminato che verrà occupato in ogni minuto dal Selvaggio West dei territori. Dopotutto da questo lato della Linea Verde [cioè in Israele, ndt.] abbiamo democrazia, uguaglianza e stato di diritto, mentre nei territori l’apartheid si sta approfondendo. Quello che succede “lì” potrebbe avvenire “qui”, ci viene detto.

Tutto ciò è lontano sia dalla storia che dalla realtà. Dopotutto Israele non ha solo occupato i territori [palestinesi], ha anche messo in atto “lì” pratiche che aveva introdotto “qui” a partire dal 1948. Queste pratiche includono l’imposizione di un governo militare e la promozione dell’“insediamento ebraico”, l’appropriazione ebraica di terra palestinese e una riprogettazione del potere politico, della geografica e della demografia. Tutto è iniziato “qui”, e dal 1967 [la guerra dei Sei Giorni e l’occupazione delle Alture del Golan, di Gerusalemme est, della Cisgiordania e di Gaza, ndt.] è stato messo in pratica anche “lì”: la stessa ideologia e le stesse politiche “in tutte le zone della Terra di Israele.”

Il rimpianto per come stanno le cose ora porta a un fenomeno veramente grottesco se consideriamo le reazioni alle modifiche che il nuovo governo ha previsto al progetto di espropriazione da parte di Israele in Cisgiordania. Si è duramente protestato contro questi cambiamenti, un “trasferimento di poteri” dall’esercito a un ente civile, uno schiaffo all’“indipendenza” del consulente giuridico dell’esercito per la Cisgiordania e l’illegalità di queste iniziative in base alle leggi internazionali.

La lotta contro il governo di estrema destra deve essere una lotta per i diritti di tutte le persone che vivono tra il Mediterraneo e il Giordano, non la grande menzogna che cerca di ripristinare gli immaginari giorni gloriosi di una democrazia liberale israeliana. Ma di cosa hanno paura i manifestanti [contro il nuovo governo Netanyahu, ndt.], che diventi evidente che non c’è una sovranità “separata” in Cisgiordania? Che l’Amministrazione Civile dell’establishment della difesa abbia sempre messo in pratica lì le politiche governative invece di una politica indipendente realizzata dal capo del comando centrale dell’esercito in base al suo profondo rispetto delle leggi internazionale e della comunità palestinese?

Il consigliere giuridico per la Cisgiordania si è sempre adoperato per fornire il beneplacito al furto di terra palestinese da parte di Israele. Ciò era vero sotto un governo “di sinistra” e lo sarà sotto il governo “totalmente di destra”. Le politiche israeliane nei territori, in parte responsabilità di quell’organizzazione burocratica chiamata l’Amministrazione Civile, sono sempre state solo questo: le politiche israeliane nei territori, non un’amministrazione separata o un regime separato.

Nessuno stava ad aspettare la nomina di un membro dell’“estrema destra” a ministro incaricato di questi problemi nel ministero della Difesa. Ministri e parlamentari da uomini di Stato, procure e ufficiali dell’esercito hanno definito l’infrastruttura politica, amministrativa e giudiziaria di Israele per portare avanti queste politiche.

Anche la Corte Suprema ha svolto fedelmente il proprio ruolo. Dalla sera alla mattina gli israeliani ripetono il mantra secondo cui dobbiamo proteggere la Corte dai demolitori della democrazia e dello stato di diritto. Che cosa stanno cercando di nascondere qui?

Soprattutto il ruolo della Corte nell’approvare il progetto di spoliazione dei palestinesi e nell’impedire che i criminali responsabili di ciò fossero chiamati a risponderne. Come ha detto lo scorso mese Elyakim Rubinstein, ex procuratore generale e giudice della Corte Suprema: “Chi è il nostro giubbotto antiproiettile contro l’Aia [la Corte Penale Internazionale, ndt.]? Soprattutto la Corte Suprema… Indebolire la Corte significa indebolirci all’Aia.”

In altre parole, non abbiamo una Corte che protegge i diritti umani, abbiamo una Corte che protegge israeliani dall’essere chiamati a rispondere per aver minato i diritti umani dei palestinesi.

E perché noi si possa continuare così senza un intervento internazionale, dobbiamo salvaguardare l’“indipendenza” della Corte. La Corte continuerà, in modo indipendente, ad approvare la demolizione di case palestinesi, il furto di terra palestinese, il fatto di sparare a manifestanti palestinesi e ucciderli, la continua detenzione di palestinesi in sciopero della fame che stanno per morire e tutto quello che il regime di supremazia ebraica desidera per portare avanti i nostri diritti esclusivi.

La menzogna definitiva, che tutte queste cose non si trovano al centro del consenso al regime di supremazia ebraica, ma sono un’esclusiva dei “partiti dell’estrema destra radicale”, è stata menzionata in un editoriale del New York Times lo scorso mese. Gli stessi “estremisti” stanno chiedendo di “estendere e legalizzare colonie in un modo che renderebbe effettivamente impossibile uno Stato palestinese in Cisgiordania,” ha scritto il Times.

Questo è davvero un nuovo programma di estrema destra? Non hanno forse tutti i governi israeliani dal 1967 costruito, esteso e legalizzato colonie? Non è stato il (non estremista) partito Laburista a patrocinare tutto questo? Non hanno giocato le (non estremiste) Procura generale e Corte Suprema un ruolo nell’approvare il progetto?

L’idea che la formazione di uno Stato palestinese “sia impossibile” è una vecchia politica israeliana al centro degli accordi che hanno reso possibile il precedente “governo del cambiamento”. I leader di questa politica non sono considerati “estremisti”. È una posizione di centro: garantire ai palestinesi non uguaglianza e libertà, ma apartheid.

Cos’è ancora limitato solo agli “estremisti”, secondo il New York Times? “Modificare lo status quo sul Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee, ndt.], un atto che rischia di provocare un nuovo ciclo di violenze tra arabi e israeliani.” Questa è veramente una questione imprevedibile e delicata. Ma nientemeno che il precedente primo ministro non estremista e non di destra, Yair Lapid, quando ha riassunto alla Knesset i successi del suo governo liberale, ha affermato che “l’anno scorso un numero record di ebrei ha visitato il Monte del Tempio”.

Ci sono probabilmente delle persone che credono che, con l’aiuto di tali maschere, possiamo costruire delle barricate migliori dietro le quali combattere il nuovo governo e i pericoli che esso rappresenta. Ma una barricata costruita sulle menzogne è una barricata inefficace, destinata a crollare. Dopo tutte queste bugie, la stessa “lotta” è diventata una grande menzogna che sta cercando di ripristinare gli immaginari giorni gloriosi di una democrazia liberale, come se i suoi fautori dicessero: “Se solo vivessimo ancora nel mondo ugualitario e illuminato del 31 ottobre 2022 [il giorno prima delle ultime elezioni, ndt.]!”

Non c’è nient’altro che nostalgia per un apartheid un poco più raffinato, un poco meno banditesco, l’apartheid di Benny Gantz [politico centrista ed ex generale, ndt.] e Elyakim Rubinstein, dio ce ne scampi non di Benjamin

Ovviamente non dobbiamo sottovalutare il pericolo rappresentato dal nuovo governo e dalle sue politiche. Ma la grande esplosione che potrebbe scatenarsi in qualunque momento implica che dobbiamo rifiutare di chiudere gli occhi sul quotidiano orrore sanguinoso che sono le vite dei palestinesi all’ombra del potere israeliano. Esattamente perché è un momento così pericoloso, vergognoso e razzista, dobbiamo combatterlo con onestà e non basare la lotta su menzogne.

Non può essere una lotta per “lo stato di diritto” (al servizio degli ebrei), o per il “senso dello Stato” (ebraico) o “uno Stato ebraico e democratico” (per gli ebrei). Deve essere una lotta per i diritti di tutte le persone che vivono tra il Mediterraneo e il Giordano. Una lotta senza maschere.

Hagai El-Ad è un il direttore esecutivo dell’associazione per i diritti umani B’Tselem.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele sta per adottare provvedimenti punitivi contro i palestinesi in seguito agli attacchi mortali a Gerusalemme

Bethan McKernan da Gerusalemme

29 gennaio 2023 – The Guardian

Il primo ministro Benjamin Netanyahu annuncia misure dopo gli attacchi più gravi [negli ultimi] anni.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato una serie di misure punitive contro i palestinesi in seguito all’attacco terroristico più grave a Gerusalemme da anni, nel corso del quale un aggressore armato ha ucciso sette persone davanti a una sinagoga.

In una dichiarazione rilasciata domenica dopo l’incontro settimanale del governo, l’ufficio di Netanyahu ha comunicato che l’agenzia di sicurezza israeliana valuterà “misure di deterrenza addizionali riguardanti le famiglie dei terroristi che esprimano sostegno al terrorismo”, inclusa la revoca del diritto di residenza a Gerusalemme e della cittadinanza israeliana e norme che permetteranno ai datori di lavoro il licenziamento immediato, senza bisogno di un procedimento giudiziario, dei dipendenti che hanno “sostenuto il terrorismo”.

Altri provvedimenti illustrati dal governo includono la privazione per i famigliari degli assalitori di sicurezza sociale e prestazioni sanitarie, modifiche delle norme per facilitare la demolizione delle case dei palestinesi che compiono attacchi terroristici e il “rafforzamento delle colonie” nella Cisgiordania occupata, su cui non sono forniti ulteriori dettagli.

Tutte le misure sono illegali ai sensi del diritto internazionale e probabilmente contribuiranno ad alimentare le tensioni fra la popolazione palestinese e con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che controlla parti della Cisgiordania occupata, in un momento in cui la regione è già pericolosamente vicina all’escalation sul campo.

Lo scontro a fuoco di venerdì nel quartiere [in realtà una colonia, ndt.] di Neve Yaakov, nella Gerusalemme Est occupata, costata la vita a sette persone, mentre tre sono rimaste ferite, ha fatto seguito al più grave raid dell’esercito israeliano in Cisgiordania da decenni. L’attacco insolitamente feroce contro combattenti nel campo profughi di Jenin ha causato la morte di nove palestinesi, inclusi due civili, e scatenato un’ondata di violente rappresaglie all’alba di venerdì con lo scambio di razzi fra la Striscia di Gaza, controllata dagli islamisti, e Israele.

Dopo l’attacco della sinagoga sono stati riportati parecchi altri incidenti, fra cui l’attacco con armi da fuoco in cui sono state ferite due persone vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme da parte di un tredicenne palestinese, il ricovero in ospedale di quattro palestinesi aggrediti da un colono israeliano vicino a Nablus e la sparatoria di sabato in un ristorante di coloni vicino a Gerico senza vittime, ma in cui l’assalitore è stato ucciso.

Domenica è stato ucciso un palestinese armato che si stava avvicinando a una colonia nell’area di Nablus, mentre case e auto sono state danneggiate e incendiate in vari villaggi palestinesi vicino a Ramallah.

Il primo ministro ha anche annunciato che la sua amministrazione varerà norme per semplificare l’iter per ottenere il porto d’armi per i cittadini israeliani, spiegando che la misura ridurrà la violenza perché “abbiamo visto più e più volte… che civili eroici, armati e addestrati salvano vite”.

Netanyahu ha dichiarato che Israele non cerca l’escalation, ma che fornirà una risposta “potente, rapida e precisa” all’attacco di venerdì a Gerusalemme. In previsione di altri attacchi da emulazione e price tag [attacchi di ritorsione contro palestinesi ad opera di gruppi di coloni, ndt.] nella città contesa e in Cisgiordania sono stati impiegati battaglioni aggiuntivi dell’esercito.

Sabato il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha incolpato Israele del picco di violenze. In seguito al raid a Jenin l’ANP ha dichiarato che sospenderà la cooperazione per la sicurezza con Israele, una decisione presa anche in passato con scarso successo.

Domenica all’alba la polizia israeliana ha messo i sigilli e si appresta a demolire la casa della famiglia dell’aggressore alla sinagoga ucciso mentre fuggiva dalla luogo dell’attacco. Si crede che Alqam Khayri, 21 anni, abbia agito da solo; anche se gruppi di militanti palestinesi hanno elogiato la sua azione, nessuno ha rivendicato la responsabilità dell’attacco. Un totale di 42 persone, tra cui suoi famigliari, sono stati arrestate in relazione all’episodio.

Membri del parlamento israeliano minacciano una raffica di provvedimenti che costituiscono una punizione collettiva contro persone innocenti solo perché sono collegate all’uomo che ha commesso un attacco mortale,” ha detto in una dichiarazione HaMoked, un’associazione israeliana no profit che si occupa principalmente dei diritti legali dei palestinesi.

[La legge israeliana] permette di demolire o mettere i sigilli a una casa. Tuttavia l’esercito deve notificarlo in anticipo alla famiglia, permettendo loro di presentare ricorso e, se respinto, di fare appello all’Alta Corte di Giustizia. Nulla di tutto ciò è stato fatto in questo caso.”

La sparatoria alla sinagoga di venerdì è la prima prova per la neoeletta coalizione governativa di estrema destra di Netanyahu, la cui campagna elettorale si è basata sulla promessa di rendere Israele più sicuro dopo la serie di attacchi palestinesi con coltelli e pistole la scorsa primavera. Elementi del nuovo governo hanno anche promesso di annettere la Cisgiordania ed estendere il controllo ebraico sul complesso sacro del Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee per i musulmani, ndt.] a Gerusalemme, spesso un focolaio di violenze.

Lunedì Netanyahu riceverà Antony Blinken, Segretario di Stato USA, una visita a Gerusalemme pianificata da tempo, ma che ora sarà dominata dagli sforzi per disinnescare l’infiammabile situazione di sicurezza.

Ci si aspetta che i colloqui tratteranno anche dell’Iran, della posizione di Israele sulla guerra in Ucraina, dello stallo del processo di pace con i palestinesi e delle preoccupazioni internazionali per i piani del governo israeliano per minare i poteri della Corte Suprema del Paese.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




I generali israeliani non sono contenti di dover rispondere ai due ministri e mezzo di Netanyahu

Lily Galili

23 gennaio 2023 – Middle East Eye

L’accordo di coalizione del primo ministro israeliano ha consegnato all’estrema destra un controllo civile e militare senza precedenti, aprendo la strada all’annessione de facto della Cisgiordania.

Il nuovo comandante dell’esercito israeliano Herzi Halevi si trova in una situazione insolita. Il generale deve rispondere non a un ministro della Difesa, e neanche a due, ma a due ministri e mezzo.

Yoav Gallant del Likud [partito nazionalista e di destra israeliano con a capo l’attuale primo ministro Netanyahu, ndt.] è il ministro della Difesa israeliano. Bezalel Smotrich, presidente del partito di estrema destra Sionismo religioso, è sottosegretario presso lo stesso ministero [oltre ad essere ministro delle Finanze ndt.]. Itamar Ben-Gvir, del partito Jewish Power [Potere Ebraico, di estrema destra, ndt.], dispone di una fetta del portafoglio della Difesa, oltre ad essere ministro della Sicurezza Nazionale.

Gli ultimi due politici di estrema destra hanno rivendicato la loro parte nel ministero attraverso piani per riorganizzare l’autorità nella Cisgiordania occupata, che Israele ha [fino ad oggi, ndt.] amministrato – con l’eccezione di Gerusalemme Est – attraverso l’Amministrazione Civile Israeliana, un ramo del ministero della Difesa.

Nell’ambito dell’accordo che lo ha visto entrare a far parte del nuovo governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, Smotrich ha chiesto – e ottenuto – l’autorità sull’Amministrazione Civile, che fino a quel momento era stata sotto il controllo esclusivo del ministro della Difesa.

Ben-Gvir, responsabile della polizia, ha ottenuto l’autorità sulla polizia di frontiera operante in Cisgiordania. Fino ad ora quella forza è rimasta sotto il controllo del comando centrale dell’esercito israeliano.

Ma ora, sulla base dell’accordo di coalizione, entro 90 giorni dalla formazione del nuovo governo sarà attuato il trasferimento dei poteri.

Di tutte le frammentazioni dei ministeri compiute da Netanyahu per facilitare la ripartizione equilibrata degli incarichi tra i partner della sua coalizione di estrema destra, la disarticolazione del ministero della Difesa è la meno comprensibile.

Nonostante la messa sull’avviso da parte di ufficiali di alto rango, anche in occasione di un incontro urgente con il comandante dell’esercito uscente Aviv Kochavi, Netanyahu ha portato a termine una mossa senza precedenti e insolitamente rischiosa.

Non è ciò che fa un primo ministro che si vanta di essere “Mr Security” [Signor Sicurezza]. È qualcosa che fa un uomo incriminato di tre reati per evitare di andare in prigione.

Yagil Levy, professore di Sociologia Politica e Ordine Pubblico presso la Open University of Israel, ha dichiarato a Middle East Eye che queste variazioni senza precedenti nella struttura dell’esercito e nella divisione dei compiti potrebbero provocare nei militari, in particolare tra gli alti gradi dell’esercito, un senso di perdita di prestigio.

Amir Eshel, ex dirigente generale del ministero della Difesa ed ex comandante dell’aeronautica israeliana, ha avvertito che la divisione del ministero tra tre entità potrebbe costituire un vero pericolo per la sicurezza.

Lunedì scorso, alla cerimonia del passaggio delle consegne ad Halevi, il ministro della Difesa Gallant ha affrontato la questione, dicendo che si sarebbe impegnato per frenare la “pressione esterna” sulle forze armate.

Gallant ha sottolineato l’unità di comando: “Per ogni soldato c’è un comandante… e soprattutto c’è il capo di stato maggiore, subordinato al ministro della Difesa”, ha detto.

Quindi un ministro della Difesa, e non 2,5. Dietro le spalle Gallant, che dovrebbe essere alla guida del ministero, è soprannominato ministro della Difesa di secondo grado”, o appaltatore esecutivo per lo smantellamento dell’esercito”. In questo caso la colpa non è sua.

La nuova struttura è stata testata prima del previsto quando venerdì, dopo che un avamposto coloniale ebraico illegale in Cisgiordania è stato evacuato poco dopo che era stato creato durante la notte, si è verificata una crisi di potere all’interno della coalizione. Gallant ha ordinato l’evacuazione sfidando sia Smotrich che Ben-Gvir.

Come ritorsione Smotrich ha rifiutato di partecipare alla teleconferenza con Netanyahu e Gallant; nel frattempo Ben-Gvir ha chiesto l’immediata evacuazione di Khan al-Ahmar, un villaggio beduino in Cisgiordania, lamentando un doppio standard per ebrei e arabi. Questo è solo l’inizio.

L’autorità di Smotrich sull’Amministrazione Civile israeliana e il Coordinatore delle attività governative nei territori (Cogat) [unità del Ministero della Difesa israeliano che coordina le questioni civili tra il governo di Israele, l’esercito israeliano, le organizzazioni internazionali e l’Autorità Nazionale Palestinese, ndt.] è già stata suggellata nell’accordo di coalizione.

Cosa significa questo in realtà, a parte un’anomalia all’interno di un’anomalia? Una risposta è più che certa: significa annessione de facto della Cisgiordania.

Amministrazione civile e militare

Per comprenderlo è fondamentale cogliere il ruolo dell’amministrazione civile nella macchina dell’occupazione.

La natura di questo organismo, istituito nel 1981, è stata delineata dal governo militare della Cisgiordania occupata in un regolamento militare.

Esso affermava: “Con la presente istituiamo un’amministrazione civile … gestirà tutte le questioni civili regionali relative a questo decreto militare, per il benessere e l’interesse della popolazione locale”.

In pratica, l’amministrazione civile è un eufemismo per amministrazione militare. Dal 1994 nelle aree A (18% della Cisgiordania) [sotto il pieno controllo dell’ANP, sulla base degli accordi di Oslo del 1993, ndt.] e B (22%) [sotto il controllo civile dell’ANP e militare di Israele, ndt.] alcune delle sue funzioni sono state trasferite per le questioni civili all’Autorità Nazionale Palestinese.

Oggi l’amministrazione civile è responsabile del rilascio dei permessi di viaggio dalla Cisgiordania occupata e da Gaza verso Israele. All’interno della Cisgiordania rilascia permessi di lavoro ai palestinesi che entrano in Israele per lavorare e sovrintende a tutti i permessi di costruzione negli insediamenti coloniali israeliani e su terra palestinese nell’Area C (60% della Cisgiordania), che è sotto il pieno controllo civile e militare israeliano.

“Il controllo dell’esercito sulla terra e sulla popolazione, in particolare quella palestinese, richiede non solo armi, ma un insieme di strumenti civili, militari e legali – ecco perché deve rimanere sotto una catena di comando militare”, ha detto in un’intervista radiofonica il generale in pensione Nitzan Alon, già a capo del comando centrale.

La subordinazione dell’Amministrazione Civile all’autorità militare non solo svolge il ruolo di organo effettivo di occupazione, ma anche di strumento legale. Israele non ha mai annesso formalmente la Cisgiordania e, anche se lo facesse, il suo status rimarrebbe comunque definito dal diritto internazionale come “occupazione militare temporanea”.

Mentre il mondo diviene insofferente per i 56 anni di occupazione temporanea, il trasferimento dell’autorità militare sull’area a un ministero civile solleva una questione giuridica.

Apparentemente, potrebbe significare un’annessione de facto con tutte le ripercussioni giuridiche del cambiamento di status. Contemporaneamente significa un aggravamento dell’apartheid.

Quasi tre milioni di palestinesi – compresi quelli delle aree A e B, ancora dipendenti da Israele – e mezzo milione di coloni ebrei si ritroveranno sotto una nuova compagine amministrativa che predica la supremazia ebraica ed è lì per compiacere il suo elettorato di estrema destra. Le implicazioni sono evidenti.

I generali in pensione si oppongono al cambiamento

Ephraim Sneh, un generale di brigata in pensione ed ex politico il cui ultimo ruolo nelle forze armate è stato quello di capo dell’Amministrazione Civile e che in seguito ha svolto attività di supervisione come viceministro della Difesa, è profondamente turbato dall’imminente trasferimento del potere dal comando militare a Smotrich.

Parlando con MEE, ha descritto l’equilibrio che le amministrazioni civile e militare cercano di raggiungere nel controllo della Cisgiordania e della sua popolazione.

“Il responsabile del comando centrale e il capo dell’amministrazione civile devono trovare l’equilibrio tra le esigenze di sicurezza militare e le esigenze civili”, sostiene Sneh.

Molto spesso queste esigenze si scontrano. Il capo dell’Amministrazione Civile si occupa per definizione di tutelare con la maggiore discrezione possibile la routine quotidiana. L’organismo responsabile della sicurezza è lì per fornire sicurezza, spesso a costo di interrompere la routine dei palestinesi”, afferma.

I responsabili della sicurezza, dice Sneh, sono a favore di più posti di blocco, maggiori restrizioni per fornire sicurezza, mentre la popolazione cerca semplicemente più comodità e possibilità di spostamento”.

“Alla fine, spetta al ministro della Difesa decidere”, afferma il comandante in pensione. “È una mossa molto rischiosa mettere questa autorità nelle mani di un ministro il cui principale interesse è cacciar via quanti più palestinesi possibile.

Ancora peggio, un politico i cui maggiori interessi sono scontri violenti tra ebrei e arabi ovunque, per preparare il terreno per futuri trasferimenti o quanto meno per compiacere il suo elettorato”.

Alla richiesta di fornire un esempio concreto di possibile scontro tra l’autorità militare del comando centrale responsabile della Cisgiordania e l’amministrazione civile, Sneh descrive una situazione di vita reale.

Immaginiamo una situazione in cui un uomo di un villaggio palestinese venga sospettato di qualche atto terroristico. L’istinto immediato dei militari sarebbe porre sotto assedio l’intero villaggio e revocare tutti i permessi di lavoro – una punizione collettiva totale”, sostiene Sneh.

L’Amministrazione Civile per definizione non è interessata ad una punizione collettiva, a cui farebbe seguito una protesta collettiva e quindi una violenza collettiva. Diciamo che l’Amministrazione Civile preferisce infliggere una punizione solo alla famiglia. È il ministro della Difesa a dover decidere. Ora abbiamo due ministri incaricati di quella decisione”.

Sneh aggiunge che il Cogat, un’unità del ministero della Difesa a cui è subordinata l’Amministrazione Civile, sarebbe guidata da un esponente di estrema destra incaricato da Smotrich, “la cui missione è rendere la vita dei palestinesi il più miserabile possibile”.

Avvertimento del dimissionario Kochavi

In una serie di interviste di addio ai media israeliani il comandante militare uscente Kochavi ha trattato dell’imminente subordinazione della polizia di frontiera della Cisgiordania al controverso Ben-Gvir.

Ha espresso la sua preoccupazione per la mossa in un incontro con Netanyahu. Alla domanda sul possibile trasferimento del potere a Ben-Gvir Kochavi non ha usato mezzi termini:

“Non possiamo avere due eserciti che rispondono a differenti concezioni e norme“, ha detto a Channel 13 [canale televisivo israeliano, ndt.].

Se in Giudea e Samaria [denominazione ebraica della Cisgiordania, ndt.] il controllo viene trasferito al di fuori della catena di comando dell’esercito, schiereremo soldati e riservisti per sostituire la polizia di frontiera. Le forze che operano insieme non avranno due comandanti”.

Kochavi ha sollevato la questione con Netanyahu ed è andato via con la convinzione che “saranno prese le decisioni giuste”. Ma anche Smotrich e Ben-Gvir sono stati ottimisti quando hanno firmato i loro accordi di coalizione, essendogli stato promesso tutto questo e altro ancora.

Levy, l’accademico, è preoccupato per le possibili ripercussioni. “Se a causa del trasferimento dell’autorità sulla polizia di frontiera a Ben-Gvir saranno necessari più riservisti, alcune unità potrebbero ribellarsi contro l’eccessivo reclutamento“, ha detto a MEE.

Il mondo assiste con indifferenza alla scissione del ministero dell’Istruzione e al trasferimento di alcuni dei suoi poteri a un irriducibile omofobo e misogino [si riferisce al vice ministro Avi Maoz, del partito ultraintegralista Noam, ndt.]. Lo stesso si può dire nel caso della frammentazione del ministero degli Esteri.

Questo non accade quando dei cambiamenti nelle forze armate sono un segnale chiaro e forte di un cambiamento di politica sull’uso della forza, l’apartheid e l’annessione accelerata dei territori occupati.

“Caos” è la parola usata dalla maggior parte delle alte cariche per descrivere l’evolversi della situazione, poiché avvertono il pericolo di un grande scontro con la comunità internazionale, l’amministrazione statunitense, l’UE e gli Stati arabi.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Netanyahu incassa una crisi politica – e un messaggio personale – dall’Alta Corte

Gidi Weitz

19 gennaio 2023, Haaretz 

 

Ribadendo che non si dimetterà dal suo ministero, Arye Dery ha lanciato la bomba al primo ministro

Arye Dery aveva effettivamente previsto il voto in anticipo – 10 a 1. Aveva giustamente previsto che 10 degli 11 giudici nell’udienza degli appelli contro la sua nomina avrebbero ordinato a Benjamin Netanyahu di licenziarlo, e che il giudice Yosef Elron sarebbe rimasto una minoranza contraria.

Per questo, nei giorni precedenti la pubblicazione del verdetto, alti esponenti di Shas [partito politico di ebrei ortodossi di cui Dery è membro, ndt.] hanno lanciato minacce esplicite rivolte anche a Netanyahu: se Dery non sarà ministro, non ci sarà governo.

Il Primo Ministro e il suo alleato capiscono bene di trovarsi ora in una situazione giuridica e politica molto complessa. Per loro il verdetto è un ostacolo quasi insormontabile. O come ha detto un anziano consulente giuridico, “li hanno chiusi da ogni parte e hanno gettato la chiave in un pozzo”.

Quanti sono vicini al Procuratore Generale Gali Baharav-Miara credono che una volta rimosso Dery dal tavolo di governo nessun trucco costituzionale, per quanto creativo, ce lo riporterà.

I giudici hanno addotto due motivi principali per squalificare Dery: il primo è la ripetuta condanna di Dery per violazioni fiscali; il secondo è la sua falsa dichiarazione quando ha affermato che intendeva dimettersi dal potere per sempre, il che aveva portato il Presidente della Corte di Gerusalemme, il magistrato Shmuel Herbst, ad approvare un patteggiamento indulgente. “Non solo queste due cause non si escludono, si sostengono a vicenda”, ha scritto il giudice Ofer Grosskopf.

La menzogna è stata la causa su cui si sono basati i giudici conservatori che Ayelet Shaked [Ministro degli Interni nel precedente governo, ndt.] aveva nominato, e che anche Yariv Levin [già Ministro della Giustizia e portavoce del Parlamento, ndt.] ha giudicato plausibile. Pertanto, anche l’idea strampalata di abrogare la clausola di ragionevolezza [principio costituzionale che sanziona le incoerenze del sistema di governo, ndt.] non libererà Dery dall’avviso di sfratto che gli è stato notificato.

In effetti, anche il giudice Elron non ha detto che la nomina fosse accettabile, ha invece affermato che Netanyahu debba rivolgersi al presidente del Comitato Elettorale Centrale, il giudice Noam Sohlberg, per determinare se Dery è marchiato da condotta immorale.

Quando è stato raggiunto l’accordo, alcuni politici vicini a Dery lo hanno supplicato di non sfidare nuovamente il destino, di rinunciare al seggio in Parlamento e al governo e di mantenere la sua posizione di figura di potere in Shas e attore chiave nella politica israeliana. “Gestisci il partito e i ministri dal tuo ufficio privato, e intanto fai la tua vita”, gli dissero. Dery ha scelto di ignorare il consiglio che avrebbe risparmiato a lui e a Netanyahu l’attuale crisi. Voleva stare vicino al potere, ai bilanci, alle nomine, alle buste sigillate, agli incontri con i vertici delle agenzie di sicurezza, alle decisioni incendiarie e drammatiche.

Nei prossimi giorni i membri del governo e i loro lacchè nei media grideranno probabilmente che l’Alta Corte ha preso una decisione politica e che i giudici cercano di rovesciare il governo per ostacolare il suo piano di indebolire la Corte. È un tuffo nel passato: nel settembre 1993 Dery fu costretto a rinunciare alla carica di Ministro degli Interni nel governo di Yitzhak Rabin. Due collegi della Corte Suprema, guidati dal presidente della Corte Meir Shamgar e dal vicepresidente Aharon Barak, avevano stabilito che il primo ministro dovesse licenziare Dery e il viceministro nominato dallo Shas Rafael Pinhasi a causa delle accuse contro di loro.

Il governo deve fungere anche da regolatore delle norme di condotta del gabinetto e agire in modo da generare fiducia”, aveva stabilito Shamgar nel verdetto, e Barak aggiunto: “Ragionevolezza non è un termine fisico o metafisico. La ragionevolezza non è uno stato d’animo. Ragionevolezza è un termine normativo”. Il verdetto di Esther Hayut di mercoledì fa eco alle parole del suo predecessore 30 anni fa.

[Allora,] Dery scelse di risparmiarsi la scena umiliante del licenziamento. “Lo Stato di diritto è un valore fondamentale”, scrisse nella sua lettera di dimissioni, “ma quando un giudice, perfino in uno stato di diritto, si apre la strada con un rullo compressore di potere e malvagità, si può dire che il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente”.

Rabin si infuriò per il verdetto. Haim Ramon ha detto che quando ne fu informato, il Primo Ministro parlò del vicepresidente del tribunale con parole inadatte alla stampa. Non era solo il vecchio scontro tra i due, aperto [nel 1977] quando l’allora procuratore generale Barak decise di incriminare Leah Rabin per il suo conto bancario all’estero, costringendo l’allora Primo Ministro Rabin a dimettersi ponendo fine al suo primo mandato da premier.

Nel 1993 Rabin si trovava a un bivio storico e aveva un disperato bisogno del sostegno politico di Shas. Appena cinque giorni dopo la pronuncia del verdetto, Rabin e Yasser Arafat firmavano una dichiarazione di principi tra Israele e l’OLP sul prato della Casa Bianca. Il giorno successivo, Shas abbandonò il governo.

Rabin riteneva il verdetto Dery-Pinhasi una sentenza infondata e purista che poteva ostacolare qualsiasi decisiva azione diplomatica, ma non come una licenza per cambiare il regime in base alle proprie esigenze. Né lo stesso Dery la pensava così. Un ministro dichiarò che era inaccettabile che l’Alta Corte si sostituisse al Parlamento e al governo, e l’avvocato difensore del leader dello Shas Dan Avi-Yitzhak ipotizzò che la sentenza avrebbe portato a una riduzione dei poteri dell’Alta Corte, ma in pratica non è cambiato nulla. L’allora leader dell’opposizione Benjamin Netanyahu, tra l’altro, chiese al Likud [allora all’opposizione, ntd.] di non festeggiare il duro colpo al governo per non offendere Shas. Netanyahu è sempre stato lungimirante.

Questa settimana Dery ha dichiarato che non si sarebbe dimesso volontariamente. Così facendo, ha rilanciato la bomba al Primo Ministro, che mercoledì si è affrettato ad annunciare che si sarebbe mosso per correggere l’ingiustizia fatta al suo alleato.

Alcuni intorno a Netanyahu hanno esaminato la possibilità di chiedere un voto di sfiducia costruttivo e costituire un nuovo governo in cui Dery sarebbe Primo Ministro in alternanza. È molto difficile credere che questo trucco supererà il test Baharav-Miara e l’Alta Corte, soprattutto alla luce del verdetto di mercoledì. E nonostante lo scenario stravagante, questa non è certamente l’opzione preferita del sospettoso Netanyahu, che non ha mai nominato un proprio sostituto se non quando le circostanze gli hanno imposto Benny Gantz.

“Se c’è qualcosa che gli toglie il sonno è la possibilità che Baharav-Miara lo porti all’impeachment perché sta calpestando l’accordo sul conflitto di interessi”, ha detto ad Haaretz un uomo molto vicino a Netanyahu, che aggiunge: “Rabbrividisce all’idea di avere un sostituto già pronto, anche se si chiamasse Arye Dery”.

Rivoluzione di regime

In concomitanza con gli sforzi per risolvere lo scontro su Dery, la coalizione dovrebbe accelerare l’avanzamento della rivoluzione di regime [una serie di cambiamenti nell’assetto dello Stato, ndt.] che sta effettuando. Non sembra un caso che anche in questa sentenza i giudici si siano lasciati uno spiraglio per intervenire in casi estremi sulle Leggi Fondamentali.

A una delle persone coinvolte nella formulazione della “riforma” questa settimana è stato chiesto cosa potrebbe accadere se l’Alta Corte avesse abrogato il pacchetto legislativo promosso da Netanyahu, dal Ministro della Giustizia Yariv Levin e dal Presidente della commissione per la costituzione del Parlamento Simcha Rothman, e avesse stabilito che le proposte si scontrano frontalmente con le fondamenta del sistema democratico. “Anche contro questa eventualità c’è un improvvisato meccanismo esplosivo “, ha risposto. “Una legislazione rapida per ridurre l’età pensionabile dei giudici della Corte Suprema”, ovvero l’impeachment immediato di diversi giudici, consentendo la nomina di sostituti fedeli al governo.

Questo blitz è tutto finalizzato a uno scopo: districare Netanyahu dal suo processo. I casi di corruzione contro il Primo Ministro possono anche non essere menzionati nel verdetto di Dery, ma vi aleggiano sopra. Non sembra un caso che alcuni giudici abbiano scritto, in un modo o nell’altro, che “il verdetto dell’elettore non sostituisce il verdetto del tribunale, né può sostituirlo”. Questo è un messaggio per Netanyahu: anche se i suoi elettori credono che le accuse siano truccate, non possono sostituirsi ai giudici attraverso il voto e la fiducia riposta nel Primo Ministro dal pubblico votante non gli consente di usare il suo potere di governo per sfuggire alla giustizia .

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gli israeliani non manifestano per la democrazia

Yara Hawari

16 gennaio 2023 – Al Jazeera

In Israele democrazia significherebbe la fine dell’apartheid. Non è questo ciò che vogliono i manifestanti israeliani.

Nel corso del weekend decine di migliaia di israeliani sono scesi nelle strade di Tel Aviv e di altre città per manifestare contro ciò che considerano un’erosione della democrazia del loro Paese. Le dimostrazioni sono state innescate dalla proposta di legge annunciata dal governo del primo ministro Benjamin Netanyahu che, se approvata dalla Knesset, stravolgerebbe il sistema giudiziario israeliano. Il passo è visto da molti come un tentativo del primo ministro, accusato di corruzione, di imbrigliare l’ordinamento giudiziario ed evitare il carcere.

Alcuni degli slogan esibiti durante le proteste annunciavano “ la fine della democrazia” sotto un “governo criminale”. Di sicuro la coalizione di Netanyahu tra estrema destra e partiti conservatori religiosi non propugna pluralismo, diritti civili e libertà. Include il nuovo ministro della Sicurezza Interna, il kahanista Itamar Ben-Gvir dalla pistola facile, e Bezalel Smotrich che si autodefinisce un “fiero omofobo” e ha assunto il dicastero delle Finanze.

Anche Netanyahu stesso non è un sostenitore dello stato di diritto, avendo fatto di tutto per restare aggrappato al potere ed evitare di essere ritenuto colpevole di pratiche corruttive.

Ma è una notevole forzatura additare lui come un “ministro del crimine” e il suo governo come quello che sta “distruggendo la democrazia israeliana”. Non c’è mai stato un primo ministro israeliano che non sia stato un criminale con le mani grondanti del sangue dei palestinesi o un governo israeliano che abbia veramente sostenuto la democrazia. Lo “Stato democratico” israeliano è, ed è sempre stato, un mito, un’illusione creata per mantenere l’oppressione del popolo palestinese e continuarne lo spossessamento.

Basta vedere chi è andato alle manifestazioni “pro-democrazia”. C’erano l’ex primo ministro ed ex ministro della Difesa Benny Gantz, accusato di crimini di guerra durante la guerra contro Gaza del 2014. Ha detto alla folla che si doveva lottare in “tutti i modi legali per impedire un colpo di stato”. Poi c’era l’ex ministra degli Esteri Tzipi Livni, anche lei accusata di crimini di guerra a Gaza, ma per la guerra nella Striscia del 2009, che ha dichiarato: “Insieme proteggeremo lo Stato perché è per tutti noi.”

Ma non è “per tutti noi”. Ciò è stato molto chiaro quando la folla è diventata ostile verso un gruppetto di anti-sionisti arrivati alla manifestazione con bandiere palestinesi, che sono state rapidamente tolte loro da manifestanti “pro-democrazia”.

Vale anche la pena di guardare all’istituzione che Netanyahu è accusato di aver attaccato: la Corte Suprema israeliana, che vigila sul rispetto del regime israeliano al quadro costituzionale detto anche Leggi Fondamentali. I manifestanti sostengono che sia un ente importante che, se svuotato, ridurrebbe il sistema di pesi e contrappesi dello Stato israeliano.

Ma la lunga storia delle sentenze della Corte Suprema contro i diritti dei palestinesi mette in dubbio che questa abbia mai mantenuto i pesi e contrappesi sul potere assoluto dell’esercito israeliano, anzi avrebbe fornito una facciata legale per coprire i crimini del regime israeliano contro il popolo palestinese.

Per esempio, in una sentenza del 2018 sulle regole di ingaggio adottate dall’esercito israeliano durante la Marcia del Ritorno a Gaza, la Corte concluse che l’esercito si era attenuto ai principi di necessità e proporzionalità, cosa che palesemente non era avvenuto. Nei due anni in cui si è svolta la marcia, sono stati uccisi 214 palestinesi disarmati e decine di migliaia sono stati feriti (molti rimanendo poi disabili) a causa delle sparatorie indiscriminate da parte dell’esercito israeliano.

A luglio la stessa Corte ha deliberato che una colonia ebraica illegale costruita in Cisgiordania su terre di proprietà privata palestinese era legale, spianando la strada ad altre massicce confische di terre palestinesi occupate, ciò che costituisce un crimine di guerra. Nello stesso mese ha anche approvato la privazione della cittadinanza a palestinesi cittadini di Israele se considerati “sleali”.

Questi sono solo alcuni esempi fra i tanti che dimostrano come fin dal suo insediamento la Corte Suprema israeliana abbia continuamente autorizzato violazioni dei diritti palestinesi. Naturalmente questo fatto è completamente ignorato dai manifestanti che la considerano un’istituzione che garantisce i loro diritti.

In realtà la legge di riforma giudiziaria e il programma ultraconservatore degli alleati di estrema destra di Netanyahu ha gettato nel panico i sionisti liberali. Le loro libertà, che sono sempre state esercitate a spese dei diritti dei palestinesi, stanno per essere erose. Non potranno più proclamare con soddisfazione che il loro Stato è un faro in una regione altrimenti selvaggia.

La facciata si sta sgretolando e il regime israeliano sta rivelando al mondo la cruda verità: che la sua stessa fondazione è per natura antitetica alla democrazia.

Come altro descrivere un’entità basata sulla pulizia etnica di un altro popolo e che pratica un regime di apartheid? Come descrivere un regime che tiene un intero gruppo di persone sotto chiave? Come descrivere un regime le cui leggi fondanti sanciscono la supremazia di un gruppo di cittadini su un altro?

Se il governo di estrema destra di Netanyahu cadesse domani, nulla di tutto ciò cambierebbe. Infatti i manifestanti “pro-democrazia” non lo vogliono perché più di tutto vorrebbero conservare la supremazia ebraica e l’apartheid israeliano dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è esperta di politica palestinese per Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Cosa accadrebbe nel caso in cui la CIG delegittimasse l’occupazione israeliana della Palestina?

Ramzy Baroud

10 gennaio 2023 – Middle East Monitor

Ancora una volta la Corte internazionale di giustizia (CIG) è in procinto di emettere un parere legale sulle conseguenze dell’occupazione israeliana della Palestina. Il 31 dicembre uno storico voto delle Nazioni Unite ha invitato la CIG a esaminare in termini giuridici l’occupazione, i diritti del popolo palestinese all’autodeterminazione e la responsabilità da parte di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite di porre fine alla prolungata occupazione israeliana. Un accento particolare sarà posto sulla “composizione demografica, carattere e status” della Gerusalemme occupata.

L’ultima volta venne chiesto alla CIG di fornire un parere giuridico sulla questione fu nel 2004. Tuttavia allora il parere era in gran parte incentrato sulle “conseguenze legali derivanti dalla costruzione del muro [dell’apartheid israeliano]”.

Sebbene sia vero che la CIG concluse che la totalità delle azioni israeliane nei Territori palestinesi occupati è illegale ai sensi del diritto internazionale – la Quarta Convenzione di Ginevra, le relative disposizioni dei precedenti Regolamenti dell’Aia e, naturalmente, numerose risoluzioni della Assemblea generale e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – questa volta la corte esprimerà la sua opinione sul tentativo di Israele di rendere permanente quella che dovrebbe essere un’occupazione militare temporanea.

In altre parole, la CIG potrebbe – e molto probabilmente lo farà – delegittimare ogni singola azione intrapresa da Israele nella Palestina occupata dal 1967. Questa volta le conseguenze non saranno simboliche, come spesso accade nelle decisioni dell’ONU relative alla Palestina.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha fatto più di ogni altro leader israeliano per “normalizzare” l’occupazione della Palestina, si è comprensibilmente adirato dopo il voto delle Nazioni Unite. Lo ha descritto come “spregevole”.

I suoi partner di coalizione sono stati altrettanto intransigenti. “L’occupazione [israeliana] della Cisgiordania è permanente e Israele ha il diritto di annetterla”, ha detto il membro della Knesset Zvika Fogel il 1° gennaio in un’intervista sulla emittente israeliana Radio 103FM. Più di ogni altra cosa, le parole di Fogel riassumono la nuova realtà in Israele e Palestina. Sono finiti i giorni dell’ambiguità politica riguardo alle motivazioni ultime di Israele nei Territori palestinesi occupati.

In effetti Israele sta ora cercando di gestire una fase completamente nuova del suo progetto coloniale in Palestina, un’impresa iniziata propriamente nel 1947-48 e che, secondo i calcoli di Israele, sta per concludersi con la colonizzazione totale della Palestina. Questa è la versione israeliana di una “soluzione a uno Stato” basata su apartheid e discriminazione razziale.

Il partito di Fogel, Otzma Yehudit, è un membro importante della nuova coalizione di destra di Netanyahu. Le sue parole non riflettono semplicemente le sue opinioni personali o solo quelle del suo versante ideologico.

Il nuovo governo è pieno di estremisti del calibro, tra gli altri, di Bezalel Smotrich, Itamar Ben-Gvir e Yoav Galant – ed è ora impegnato in un’agenda contraria alla pace per una questione politica. Il 28 dicembre, subito dopo aver prestato giuramento, il nuovo governo ha annunciato che “avanzerà e realizzerà insediamenti in tutte le parti di Israele”. Non è stata fatta alcuna distinzione tra “Israele”, come riconosciuto dai Paesi di tutto il mondo, e i Territori palestinesi occupati. Nelle intenzioni della coalizione l’annessione è già avvenuta.

Ben-Gvir, il cui raid alla moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata ha suscitato molte critiche in tutto il mondo, sta inviando chiari messaggi ai palestinesi e alla comunità internazionale in generale: per quanto riguarda Israele, nessuna legge internazionale è rilevante, niente è sacro e nessun centimetro della Palestina è off limits.

Questa volta, però, non è come al solito. Sì, l’espansione territoriale di Israele a spese della Palestina occupata è stata il comune denominatore tra tutti i governi israeliani negli ultimi 75 anni, ma vari governi, comprese le prime presidenze di Netanyahu, hanno trovato modi indiretti per giustificare la costruzione di insediamenti coloniali illegali. Le cosiddette “espansioni naturali” e le “esigenze di sicurezza” erano solo due dei tanti pretesti forniti da Israele per giustificare la sua continua spinta all’acquisizione di terre con la forza.

In pratica, nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza l’inesauribile sostegno finanziario, militare e politico degli Stati Uniti. Inoltre i veti statunitensi al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e l’incessante pressione sui membri dell’Assemblea generale dell’ONU hanno permesso a Israele di aggirare indenne il diritto internazionale. Esso è in grado di agire con totale impunità. Il risultato è la tragica realtà di oggi.

Secondo il sito web ufficiale delle Nazioni Unite attualmente ci sono quasi 700.000 coloni ebrei illegali che vivono in territorio palestinese occupato. La ONG israeliana Peace Now afferma che questi coloni ebrei vivono in 145 colonie illegali nella Cisgiordania occupata, oltre a 140 avamposti di insediamenti coloniali, illegali anche secondo la legge israeliana ma che probabilmente saranno ufficializzati dal nuovo governo.

La coalizione guidata da Netanyahu è stata costituita con il programma che in futuro gli avamposti saranno effettivamente legalizzati e quindi riceveranno finanziamenti governativi ufficiali. Ciò non dovrebbe rappresentare un grosso problema politico per Netanyahu che nel 2020 è riuscito a convincere la Knesset [parlamento, ndt.] israeliana sulla prospettiva dell’annessione di gran parte della Cisgiordania ed è ora determinato a portare avanti un processo di “annessione morbida”; annessione de facto che rischia di essere legalizzata in seguito come annessione de jure.

Né la piena colonizzazione della Palestina si rivelerebbe un problema giuridico. La legge israeliana sullo Stato-nazione del 2018 ha già fornito la copertura legale a Tel Aviv per violare il diritto internazionale e fare ciò che vuole in termini di colonizzazione di tutta la Palestina ed emarginazione dei legittimi diritti dei palestinesi. Secondo la nuova Legge Fondamentale di Israele, “Lo Stato di Israele è lo Stato-nazione del popolo ebraico in cui esso realizza il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all’autodeterminazione”. Proprio questo riferimento è stato citato nella dichiarazione del nuovo governo del 29 dicembre.

Non molti in Israele protestano contro tale situazione. In un recente articolo sul Palestine Chronicle lo storico israeliano Ilan Pappe ha spiegato come le attuali formazioni socio-politiche della società israeliana, oltre le tre correnti dominanti di destra ed estremiste impegnate nella Coalizione Netanyahu: ebrei ultraortodossi, ebrei religiosi nazionalisti ed ebrei laici del Likud, rendano quasi impossibile l’emergere di politiche alternative di rilevante consenso.

Ciò significa che il cambiamento in Israele non potrebbe mai venire dall’interno dello stesso Israele. Mentre i palestinesi continuano a resistere, i governi arabi e musulmani, e la comunità internazionale in generale, devono affrontare lo stato di occupazione, usando tutti i mezzi a loro disposizione per porre fine a questa farsa. L’opinione della CIG è molto importante ma senza un’azione significativa un’opinione legale da sola non capovolgerà la sinistra realtà dei fatti in Palestina, specialmente quando questa realtà è finanziata, appoggiata e sostenuta da Washington e dagli altri alleati occidentali di Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Ilan Pappe sulle formazioni socio-politiche dietro il governo neo-sionista di Israele

Ilan Pappe

6 gennaio 2023 – Palestine Chronicle

Due mesi dopo l’elezione del nuovo governo israeliano il quadro offuscato sta diventando più chiaro e sembra che si possano offrire alcuni spunti più informati riguardo alla sua composizione, alle personalità che ne fanno parte e alle possibili politiche e reazioni ad esse nel futuro.

Non sarebbe esagerato definire Benjamin Netanyahu il meno estremista di questo governo, il che la dice lunga sulle personalità e politiche di tutti gli altri.

Ci sono tre schieramenti principali nel governo, e qui non faccio riferimento ai vari partiti politici, ma piuttosto alle formazioni socio-politiche.

Sionizzazione degli ebrei ultraortodossi

Nel primo schieramento ci sono gli ebrei ultra-ortodossi, sia dell’ortodossia europea che di quella degli ebrei arabi. Ciò che li caratterizza è il processo di sionizzazione che hanno subito dal 1948.

Da un ruolo marginale in politica solo a favore delle loro comunità, ora fanno parte dei dirigenti di questo nuovo Stato. Da moderati e sostenitori dei sacri precetti ebraici che non riconoscevano la sovranità ebraica sulla Terra Santa, ora emulano la destra israeliana laica: appoggiano la colonizzazione della Cisgiordania, l’assedio contro la Striscia di Gaza, fanno discorsi razzisti nei confronti dei palestinesi ovunque essi siano, invocano politiche dure e aggressive e nel contempo cercano di occupare lo spazio pubblico e di giudaizzarlo in base alla loro versione rigida del giudaismo.

L’unica eccezione sono i Neturei Karata, fedeli al loro tradizionale antisionismo e alla solidarietà con i palestinesi.

Gli ebrei nazional-religiosi

Del secondo schieramento fanno parte gli ebrei nazional-religiosi, che vivono in maggioranza in Cisgiordania nelle colonie costruite su terre palestinesi espropriate e recentemente hanno creato dei “centri di formazione” di coloni nelle città miste arabo-ebraiche in Israele.

Essi appoggiano sia le politiche criminali dell’esercito israeliano che le azioni di gruppi di coloni vigilantes che vessano i palestinesi, sradicano le loro coltivazioni, sparano contro di loro e mettono in discussione il loro modo di vivere.

L’intento è di dare sia all’esercito che a questi vigilantes mano libera per opprimere la Cisgiordania occupata, nella speranza di spingere più palestinese ad andarsene. Questo gruppo è anche la spina dorsale dei centri di comando del servizio segreto israeliano e domina i ranghi degli alti ufficiali dell’esercito.

I due succitati schieramenti condividono la volontà di imporre un apartheid più stretto all’interno di Israele contro gli arabi del ’48 [i palestinesi rimasti durante e dopo la guerra del 1947-49 in quello che era diventato Israele, ndt.] e nel contempo iniziare una crociata contro la comunità LGBT chiedendo anche una più rigida marginalizzazione delle donne nello spazio pubblico.

Essi condividono anche una visione messianica e credono di essere ora nelle condizioni di metterla in pratica. Al centro di questo progetto c’è la giudaizzazione dei luoghi sacri che ora sono “ancora” islamici o cristiani. Quello più ambito è l’Haram al-Sharif [la Spianata delle Moschee, per gli ebrei il Monte del Tempio, ndt.].

Il prodromo è stato la provocatoria visita del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir sull’Haram. Il prossimo passo sarà a Pasqua, con un tentativo di invadere in massa l’Haram con preghiere e ministri ebrei. Azioni simili verranno attuate a Nablus, Hebron e Betlemme. È difficile prevedere fin dove arriveranno.

L’emarginazione degli ebrei laici del Likud

Il secondo gruppo è rappresentato anche nel partito di maggioranza del governo, il Likud. Ma la maggioranza dei suoi membri fa parte di una terza componente socio-politica: gli ebrei laici che aderiscono nel contempo alle tradizionali pratiche ebraiche.

Essi cercano di distinguersi sostenendo che il liberalismo economico e politico è ancora un importante pilastro del programma politico del Likud. Netanyahu soleva essere uno di loro, ma ora sembra averli abbandonati quando si è trattato di spartirsi il bottino, cioè nel governo li ha emarginati. Ha bisogno degli altri più che del suo stesso partito per evitare di essere processato e per rimanere al potere.

Il progetto sionista

I membri di spicco di tutti questi gruppi sono arrivati con iniziative legislative e politiche già pronte, tutte intese senza eccezioni, a consentire a un governo di estrema destra di annullare qualunque cosa sia rimasta della parodia chiamata democrazia israeliana.

La prima iniziativa è già iniziata, sterilizzando il sistema giudiziario in modo tale che non possa, se mai lo ha voluto, difendere i diritti delle minoranze in generale e quelli dei palestinesi in particolare.

Per la verità, tutti i precedenti governi israeliani sono stati caratterizzati dal complessivo disprezzo riguardo ai diritti civili e umani dei palestinesi. Questa è solo una fase in cui ciò viene reso più costituzionale, più generalmente accettato e più evidente, senza alcun tentativo di nascondere lo scopo che gli sta dietro: impossessarsi della maggior parte possibile della Palestina storica con il minor numero possibile di palestinesi.

Tuttavia, se si concretizzerà in futuro, ciò avvicinerà ulteriormente Israele al suo futuro neo-sionista, cioè il vero raggiungimento e la maturazione del progetto sionista: uno spietato progetto di colonialismo d’insediamento costruito su apartheid, pulizia etnica, occupazione, colonizzazione e politiche genocidarie.

Un progetto che finora è sfuggito a qualunque significativa opposizione da parte del mondo occidentale e che viene tollerato dal resto del mondo, anche se è censurato e respinto da molti nella società civile internazionale. Finora non è riuscito a trionfare solo per la resistenza e resilienza palestinese.

Fine dell’“Israele immaginario”

Questa nuova situazione evidenzia una serie di domande che ci si deve porre, anche se per il momento non possiamo dare una risposta.

I governi arabi e musulmani, che solo di recente si sono uniti alla legittimazione di questa farsa, si renderanno conto che non è troppo tardi per cambiare strada?

I nuovi governi di sinistra, come quello eletto in Brasile, saranno in grado di aprire la via, portare a un cambiamento di atteggiamento dall’alto, che rifletterebbe democraticamente quanto richiesto dal basso?

E le comunità ebraiche saranno sufficientemente scioccate da svegliarsi dal sogno dell’“Israele immaginario” e si renderanno conto del pericolo rappresentato dall’Israele di oggi, non solo per i palestinesi ma anche per gli ebrei e il giudaismo?

Sono domande a cui non è facile rispondere. Quello che possiamo sottolineare è, ancora una volta, l’appello all’unità palestinese in modo da estendere la lotta contro questo governo e l’ideologia che esso rappresenta. Tale unità diventerà una bussola per il poderoso fronte internazionale che già esiste, grazie al movimento BDS e che è intenzionato a continuare il suo lavoro di solidarietà e ad allargarlo ulteriormente e più ampiamente: mobilitare i governi, così come le società, e riportare la Palestina al centro dell’attenzione internazionale.

Le tre componenti del nuovo governo israeliano non hanno sempre convissuto facilmente, quindi c’è anche la possibilità di un precoce collasso politico, dato che in definitiva stiamo parlando di un gruppo di politici incompetenti quando si tratta di far funzionare un’economia così complicata come quella israeliana. Probabilmente non saranno in grado di bloccare l’alta inflazione, l’aumento dei prezzi e la crescente disoccupazione.

Tuttavia, anche se ciò avvenisse, non c’è una quarta componente socio-politica alternativa che possa guidare Israele. Quindi un nuovo governo sarebbe formato da un’altra combinazione delle stesse forze, con le stesse intenzioni e politiche.

Dovremmo trattarla come una sfida strutturale, non episodica, e prepararci a una lunga lotta, basata su una solidarietà internazionale ancora più ampia e una più stretta unità dei palestinesi.

Questo governo canaglia, e quello che rappresenta, non dureranno in eterno. Dobbiamo fare tutto il possibile per ridurre l’attesa per la sua sostituzione con un’alternativa molto migliore non solo per i palestinesi, ma anche per gli ebrei e per chiunque altro viva nella Palestina storica.

Ilan Pappé è docente all’università di Exeter. È stato in precedenza professore associato all’università di Haifa. È autore di La pulizia etnica della Palestina [Fazi, 2008], The Modern Middle East [Il moderno Medio Oriente], Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli [Einaudi, 2014] e Ten Myths about Israel [Dieci miti su Israele]. Pappé è considerato uno dei “nuovi storici” israeliani che, da quando all’inizio degli anni ’80 sono stati resi pubblici documenti ufficiali britannici e israeliani sull’argomento, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sei importanti sviluppi che hanno segnato il 2022 per i palestinesi

Zena Al Tahhan e Maram Humaid

26 dicembre 2022 – Al Jazeera

L’ONU ha definito il 2022 l’anno più luttuoso degli ultimi 16 per i palestinesi nella Cisgiordania occupata dagli israeliani. Ecco alcuni degli eventi più importanti dell’anno.

Ramallah, Cisgiordania occupata e Gaza. Conflitti, incursioni e l’uccisione di una delle giornaliste più rispettate in Palestina sono alcuni degli eventi più importanti in Israele e Palestina nel 2022.

Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2022 l’anno più letale per i palestinesi nella Cisgiordania occupata dal 2006, a riprova di un aumento dell’uso della forza da parte di Israele, a fronte di un ulteriore spostamento verso l’estrema destra del Paese.

Ecco sei degli sviluppi più importanti del 2022 per i palestinesi.

Conflitto a Gaza, di nuovo

Meno di 15 mesi dopo il precedente bombardamento israeliano della Striscia di Gaza, il territorio sottoposto al blocco è stato attaccato da aerei da guerra israeliani per tre giorni agli inizi di agosto, causando la morte di almeno 49 palestinesi, tra cui 17 minori.

L’arresto in Cisgiordania del leader del Jihad Islamico Palestinese (PIJ) da parte delle forze israeliane ha sollevato timori di un’escalation, causando un’intensificazione della presenza militare israeliana lungo il confine tra Israele e Gaza.

Il 5 agosto gli aerei da guerra israeliani hanno lanciato un’ondata di attacchi aerei contro Gaza a cui il PIJ ha risposto lanciando razzi contro Israele.

Se c’era un reale timore che lo scoppio dei combattimenti avrebbe portato a un conflitto prolungato, specialmente dopo l’uccisione dei comandanti del PIJ lo scontro alla fine è terminato dopo tre giorni in seguito all’entrata in vigore di una tregua mediata dall’Egitto.

Una delle ragioni principali della mancata escalation del conflitto è stata la decisione di Hamas, che governa Gaza da 15 anni, di tenersi fuori dallo scontro.

Nonostante ciò ci sono stati danni considerevoli a Gaza, che era appena stata ricostruita dopo il conflitto nel 2021 durato 11 giorni. Non è inoltre scomparsa la minaccia di un altro scoppio di violenza prolungata, lasciando i palestinesi a Gaza costantemente preoccupati per quello che molti pensano sia un’inevitabile guerra futura.

Crescita della resistenza armata palestinese

Uno dei cambiamenti principali in Cisgiordania nel 2022 è stato la crescita di piccoli gruppi di resistenza armata concentrati nelle città settentrionali di Jenin e Nablus.

Il fenomeno è iniziato nel settembre 2021 con la formazione del primo gruppo, le Brigate di Jenin, nel campo profughi della città dopo l’uccisione a giugno da parte di Israele del combattente Jamil al-Amouri.

Ha fatto seguito nel 2022 la creazione delle Brigate di Nablus, della Fossa dei Leoni, delle Brigate di Balata, delle Brigate di Tubas e delle Brigate di Yabad. Mentre i gruppi già esistenti sono formati da membri di varie fazioni tradizionali palestinesi, questi nuovi si rifiutano di allinearsi con una specifica fazione o movimento.

Dato che i gruppi hanno limitate capacità, si sono concentrati in scontri con le forze israeliane in risposta ai loro raid quasi giornalieri e si sono anche impegnati in sparatorie contro checkpoint militari israeliani. Inoltre hanno rivendicato la responsabilità di attacchi che hanno ucciso soldati e coloni israeliani.

Con l’emergere di questi gruppi è la prima volta dalla seconda Intifada (2000-05) che formazioni organizzate hanno combattuto le forze israeliane in Cisgiordania. Alla fine di quell’Intifada, o rivolta, la maggior parte delle armi nel territorio era sotto il controllo dell’Autorità Palestinese (ANP).

Raid quotidiani e uccisioni

In seguito a una serie di attacchi individuali in Israele iniziati a marzo, Israele ha lanciato una campagna militare detta “Break the Wave” (Spezza l’ondata) con raid, arresti di massa e uccisioni quasi ogni giorno in Cisgiordania, focalizzati a Jenin e Nablus.

Con assassinii mirati e durante gli scontri armati, sono stati uccisi sia i civili che durante gli attacchi si sono scontrati con l’esercito israeliano e degli astanti non coinvolti, che dei combattenti palestinesi.

Secondo il ministero palestinese della Salute, in Cisgiordania e nella Gerusalemme Est occupata nel 2022 le forze israeliane hanno ucciso circa 170 palestinesi, inclusi più di 30 minori, e almeno altri 9.000 sono stati feriti.

Molte delle uccisioni hanno causato una particolare indignazione fra i palestinesi, inclusa recentemente quella del 12 dicembre, quando una sedicenne di Jenin è stata ferita a morte mentre dal tetto di casa sua osservava un attacco dell’esercito. Il 2 dicembre è stato ucciso in pubblico da un soldato israeliano anche un ventitreenne palestinese. L’uccisione è stata filmata e i palestinesi l’hanno descritta come “un’esecuzione”.

Nel corso di quest’anno osservatori, diplomatici e organizzazioni per i diritti umani hanno espresso “preoccupazione” circa l’uso eccessivo di forza letale da parte di Israele in Cisgiordania che ha causato l’elevato numero di uccisioni.

L’Ufficio dell’Alto Commissario dell’ONU per i Diritti Umani aveva in precedenza osservato che le forze israeliane “spesso usano armi da fuoco contro i palestinesi per un semplice sospetto o come misura precauzionale, in violazione dei principi internazionali”.

Uccisione di Shireen Abu Akleh

L’undici maggio le forze israeliane hanno ucciso Shireen Abu Akleh, giornalista veterana di Al Jazeera mentre stava seguendo un’operazione dell’esercito nel campo profughi di Jenin.

Abu Akleh, 51 anni, corrispondente televisiva palestinese-americana per Al Jazeera Arabic ha seguito l’occupazione israeliana dei territori palestinesi per oltre 25 anni. La sua uccisione ha sollevato una protesta internazionale e scosso il mondo intero.

La reporter è stata onorata nel corso di una processione funebre durata tre giorni con esternazioni di dolore e rispetto mentre il corpo veniva traslato da Jenin a Gerusalemme.

A Gerusalemme Est le forze israeliane hanno attaccato le persone in lutto che portavano la sua bara. Nonostante gli sforzi delle autorità israeliane, migliaia di palestinesi si sono riversati nelle strade di Gerusalemme per il funerale.

Varie indagini hanno ritenuto Israele responsabile della sua uccisione e a settembre Israele ha infine ammesso che con “molta probabilità” uno dei suoi soldati ha ucciso Abu Akleh. Comunque le autorità israeliane si sono rifiutate di avviare un’indagine penale.

A dicembre Al Jazeera ha presentato una richiesta formale alla Corte Penale Internazionale (ICC) per indagare e processare i responsabili dell’uccisione di Abu Akleh.

Ascesa dell’estrema destra

Nel 2022 si è svolta la quinta elezione parlamentare in Israele in meno di quattro anni. Se i risultati sembrano avere temporaneamente messo fine alla prolungata impossibilità di formare un governo stabile in Israele, ha tuttavia dato come risultato la creazione del governo di destra più estrema nella storia dei 74 anni del Paese.

Benjamin Netanyahu, primo ministro designato, e il suo partito Likud hanno formato un’alleanza con Sionismo Religioso e i partiti ultraortodossi, ottenendo una maggioranza di 64 seggi sui 120 parlamentari che costituiscono la Knesset.

Il terzo blocco per grandezza risultante dalle elezioni è l’alleanza Sionismo Religioso, una fusione tra il partito con lo stesso nome guidato da Bezalel Smotrich e Potere Ebraico, capitanato da Itamar Ben-Gvir.

I due personaggi controversi sono noti per i loro frequenti incoraggiamenti alla violenza contro i palestinesi e hanno pubblicamente dichiarato le proprie intenzioni di voler espandere la fondazione di colonie illegali israeliane in Cisgiordania.

L’anno scorso Smotrich ha detto che i palestinesi in Israele “sono qui per errore, perché [l’ex premier] Ben-Gurion non aveva finito il lavoro” di cacciarli nel 1948.

Nel contempo Ben-Gvir, che aveva in precedenza chiesto la deportazione di cittadini palestinesi “giudicati sleali verso Israele”, ha invitato i coloni a portare armi e ha regolarmente criticato l’esercito israeliano e il governo poiché non usano misure più rigide contro i palestinesi.

Le politiche e le opinioni dei politici che stanno per essere incaricati della sicurezza in Cisgiordania sono destinati a innescare ulteriormente la già tesa situazione sul posto.

Aumento degli attacchi dei coloni

Nel 2022 gli attacchi dei coloni israeliani contro i palestinesi in Cisgiordania sono aumentati, diventando più audaci e coordinati.

Quest’anno sono stati uccisi almeno tre palestinesi. Alcuni di questi attacchi sono avvenuti sotto gli occhi dell’esercito israeliano.

Prove inquietanti circa le forze israeliane che frequentemente facilitano, sostengono e partecipano agli attacchi dei coloni rendono difficile distinguere tra la violenza dei coloni israeliani e quella dello Stato,” ha sostenuto in un comunicato del 15 dicembre un funzionario dell’ONU.

Il 2022 è il sesto anno consecutivo in cui il numero di attacchi dei coloni israeliani nella Cisgiordania occupata è aumentato,” continua il documento. “Coloni israeliani armati e mascherati attaccano i palestinesi nelle loro case, aggrediscono i bambini che vanno a scuola, distruggono proprietà, bruciano oliveti e terrorizzano intere comunità nella totale impunità.”

Tra i 600.000 e i 750.000 coloni israeliani vivono in almeno 250 colonie illegali sparse in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perché il New York Times non è al passo coi tempi su Israele-Palestina

Maha Nassar

21 dicembre 2022 – +972 Magazine

Un recente editoriale che critica il nuovo governo israeliano riflette gli stessi punti ciechi che hanno afflitto per decenni il giornale americano più autorevole.

Sabato scorso il comitato di redazione del New York Times ha fatto notizia nel pubblicare un articolo intitolato “L’ideale di democrazia nello Stato ebraico è in pericolo”. Pur ribadendo il proprio sostegno a Israele e alla soluzione dei due Stati l’editoriale avverte che il nuovo governo israeliano, che sarà guidato dal partito di destra Likud e comprende partner di estrema destra come Sionismo Religioso, Otzma Yehudit (Potere Ebraico) e l’anti-LGBTQ Noam rappresenta una “minaccia significativa” per il futuro del Paese e “potrebbe rendere militarmente e politicamente impossibile lo sviluppo di una soluzione a due Stati”.

Rispondendo via Twitter, il primo ministro entrante Benjamin Netanyahu si è offeso per quello che ha descritto come un “parere infondato” del comitato. Accusando il giornale di “demonizzare Israele da decenni”, ha criticato l’editoriale come tentativo di minare il suo governo eletto e di “delegittimare l’unica vera democrazia in Medio Oriente e il miglior alleato dell’America nella regione”.

Nonostante l’importante riconoscimento dell’editoriale dei pericoli della coalizione di estrema destra israeliana, come lettrice (e critica) di lunga data del New York Times ho comunque trovato l’articolo una perfetta riflessione sui punti ciechi che ancora affliggono il “giornale più autorevole.” In effetti l’ostinato rifiuto del comitato di includere nei suoi editoriali le prospettive palestinesi, nonostante gli assordanti inviti a farlo, lo porta a dare una interpretazione essenzialmente errata della realtà sul campo e, di conseguenza, fa sì che il giornale mantenga una comprensione deplorevolmente obsoleta di Israele-Palestina.

Pensiero unico e “da entrambe le parti”

Due anni fa ho pubblicato su +972 un’analisi che documentava la storica esclusione delle voci palestinesi dalle pagine di opinione di quattro importanti quotidiani e riviste americani: The Washington Post, The Nation, The New Republic e The New York Times. Sebbene il Times non fosse il peggiore, il suo curriculum è comunque spaventoso. Dei 2.490 articoli di opinione sui palestinesi che il giornale ha pubblicato tra il 1970 e il 2019 solo 46 sono stati scritti da palestinesi, una media inferiore al 2%.

E l’altro 98%? Secondo i database che ho consultato, la stragrande maggioranza è stata scritta dagli editorialisti del giornale e dai membri del comitato di redazione. È difficile sapere dove finiscano le opinioni di un gruppo e inizino quelle dell’altro; questo perché, secondo il sito web del Times, il comitato di redazioneè composto da giornalisti d’opinione che si affidano a ricerche, dibattiti e competenze individuali per raggiungere una visione condivisa su questioni importanti”. (È significativo che l’editoriale di domenica abbia citato un recente articolo di Thomas Friedman, editorialista e commentatore di lunga data sul Medio Oriente, che ha ripreso gran parte delle posizioni del comitato.)

Data questa coincidenza tra i giornalisti d’opinione e il comitato di redazione – e la mancanza tra loro di editorialisti palestinesi o arabi – non sorprende che sia emersa una sorta di pensiero unico. E questo pensiero unico colloca costantemente Israele, le opinioni e le prospettive israeliane al di sopra di quelle dei palestinesi.

Lo conferma una ricerca per parola chiave degli editoriali del Times che parlano di palestinesi. Tra il 1970 e il 2019, la parola pace” è apparsa 1.112 volte, ma giustizia” è apparsa solo 86 volte; terrore” è stato menzionato 649 volte, ma occupazionesolo 219 volte; la sicurezza di Israele” è stata invocata 90 volte, ma la libertà palestinese” è stata menzionata solo tre volte. Anche se le ricerche per parole chiave da sole non raccontano l’intera storia, ci aiutano a farci un’idea del tenore generale della copertura del Times: negli ultimi cinquant’anni Israele è stato senza dubbio presentato dai redattori del Times come uno stretto alleato, mentre i palestinesi sono stati costantemente inquadrati come un “problema”.

Ma per i palestinesi e per i loro alleati nella regione e nel mondo la Palestina non è un problemada risolvere per Israele, ma una causa per cui lottare. Dal 1948 lo Stato israeliano ha impedito ai palestinesi di vivere nella loro patria con libertà e dignità, vietando ai rifugiati di tornare alle loro case, discriminando i cittadini palestinesi all’interno di Israele e tenendo milioni di palestinesi sotto occupazione militare. Se c’è un problema da risolvere, il problema è quel regime.

Questo semplice fatto sembra essere sfuggito alla redazione del Times. Piuttosto che riconoscere la violenza sistemica, la discriminazione e la colonizzazione perpetrate da Israele contro i palestinesi, il comitato incolpa “entrambe le parti” per una situazione ampiamente asimmetrica. Ad esempio, l’editoriale di sabato attribuisce in parte lo spostamento a destra dell’elettorato israeliano ad “autentiche preoccupazioni per la criminalità e la sicurezza, specialmente dopo gli episodi di violenza tra arabi ed ebrei israeliani dello scorso anno”. Non fa menzione della violenza della polizia israeliana – a volte in collaborazione con milizie di vigilanti, anche negli insediamenti coloniali della Cisgiordania – a cui i cittadini palestinesi sono stati sottoposti durante quel periodo né della campagna di arresti di massa e punizioni collettive contro le comunità arabe nei mesi successivi.

Allo stesso modo, l’editoriale afferma che “le speranze per uno Stato palestinese si sono affievolite sotto la pressione combinata della resistenza di Israele e della corruzione, l’inettitudine e le divisioni interne palestinesi”. Questo “da entrambe le parti” può dare l’apparenza di un equilibrio, ma non riflette una realtà in cui Israele detiene il potere politico, economico e militare quasi totale sulla vita di ogni palestinese, in un sistema che un numero crescente di studiosi, organizzazioni per i diritti umani ed esperti legali definiscono di apartheid.

Prendiamo, ad esempio, il fatto che centinaia di case palestinesi vengono demolite ogni anno dai bulldozer israeliani per far posto agli insediamenti coloniali ebraici, ma non viceversa. O che centinaia di palestinesi sono minacciati di essere espropriati della loro terra a causa di una “zona per esercitazioni” militari israeliana, mentre gli abitanti israeliani non hanno tali paure. O che i palestinesi nei territori occupati debbono attraversare posti di blocco israeliani militarizzati con permessi o documenti d’identità rilasciati da Israele, ma nessun israeliano è costretto attraversare un posto di blocco palestinese. O che centinaia di migliaia di palestinesi sono stati arrestati e detenuti nelle carceri israeliane dal 1967, ma che non esiste un tale sistema di incarcerazione di massa imposto agli israeliani. O che i tribunali militari israeliani condannano i palestinesi con una percentuale superiore al 99%, ma nessun israeliano ha dovuto essere processato in un tribunale palestinese. Non ci sono “entrambe le parti” in tutto ciò.

Promuovere un quadro di giustizia

Questa ostinata insistenza nell’incolpare entrambe le parti riflette un “quadro di pace” profondamente imperfetto che ha dominato per decenni la lettura internazionale di Israele-Palestina. Questo quadro è incentrato sulla politica dell’identità e ignora la violenza strutturale che lo Stato perpetra contro i gruppi oppressi. Si concentra invece su atti di violenza spettacolare commessi da quei gruppi in risposta all’oppressione che devono affrontare, li incolpa per l’escalation del conflitto, quindi li usa per giustificare la violenza repressiva inflitta dalle forze armate più potenti.

Molti degli editoriali del Times degli ultimi 30 anni, dall’avvento degli Accordi di Oslo, sono improntati ad un quadro di pace. Trattano israeliani e palestinesi come aventi pari potere quando chiaramente non è così. Lodano Israele per i piccoli aggiustamenti alla sua violenza strutturale quotidiana contro i palestinesi, ma rimproverano i leader e la società palestinesi per gli atti di violenza compiuti a loro volta. Se la redazione del Times oggi suona antiquata, è perché la sua visione del mondo rimane bloccata agli anni ’90.

Più di recente stiamo assistendo al riemergere di quello che può essere definito un “quadro di giustizia”. Questo quadro presta maggiore attenzione a tutte le forme di violenza strutturale che le comunità affrontano, indipendentemente dalla loro identità. Piuttosto che parlare delle persone come problemi, i fautori pongono al centro le esperienze degli oppressi e lavorano per smantellare le strutture che li sovrastano.

Tale quadro sta diventando saliente specie negli Stati Uniti, grazie al lavoro di organizzazioni per la giustizia sociale e movimenti come Black Lives Matter. Queste forze hanno spinto sostenitori progressisti come il New York Times a prestare maggiore attenzione alle voci che vengono incluse e a quelle che continuano ad essere emarginate. Tali principi stanno lentamente trapelando anche nel modo in cui i media americani si occupano di Israele-Palestina. Lo abbiamo visto in evidenza durante gli eventi del maggio 2021: dei 27 articoli di opinione pubblicati sul Times quel mese sei erano di palestinesi, tra cui quelli della regista di Gerusalemme Rula Salameh e degli scrittori di Gaza Refaat Alareer e Basma Ghalayini.

A suo merito, il Times ha recentemente assunto più giornalisti palestinesi e arabi, tra cui Hiba Yazbek e Raja Abdulrahim. La loro cronaca è stata cruciale nel portare voci, esperienze e prospettive palestinesi a lettori che altrimenti non vi avrebbero avuto accesso. Il Times ha anche continuato a pubblicare editoriali di palestinesi, tra cui due recenti articoli dell’avvocata palestinese di Haifa Diana Buttu e uno del direttore generale di Al-Haq Shawan Jabarin.

È bello vedere una maggiore rappresentanza palestinese nella redazione notizie e nelle pagine editoriali. Ma questi cambiamenti non sono sufficienti finché la maggior parte delle opinioni presentate sul Times continuano a essere prodotte da progressisti filo-israeliani come Thomas Friedman e conservatori come Bret Stephens. Come abbiamo visto con l’editoriale di sabato, quando si parla di Israele-Palestina la redazione del Times soffre ancora dell’assenza di voci palestinesi. E di conseguenza i suoi membri si aggrappano ancora a miti vecchi e screditati sulla democrazia israeliana e su un futuro a due Stati.

Il comitato di redazione del Times è da molto tempo in ritardo quando si tratta di riconoscere ciò che sta accadendo sul campo in Israele-Palestina. Mentre le loro posizioni divengono sempre meno aderenti alla realtà forse i membri del comitato finalmente ascolteranno – ascolteranno davvero – ciò che i palestinesi hanno sempre sostenuto.

La Dott.ssa Maha Nassar è Professoressa Associata presso la School of Middle Eastern and North African Studies dell’Università dell’Arizona. È autrice di Brothers Apart: Palestines Citizens of Israel and the Arab World [Fratelli separati: cittadini palestinesi di Israele e del mondo arabo] (Stanford University Press, 2017).

Twitter: @mtnassar.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)