Israele ha appena “perso Cronkite” – la lotta per i diritti dei palestinesi al “New York Times”

Robert Herbst

20 gennaio 2019 Mondoweiss

Nel lontano gennaio 1968, dopo una serie di attacchi dei nordvietnamiti e dei vietcong noti come “l’offensiva del Tet”, Walter Cronkite, presentatore nel notiziario CBS della sera e il giornalista più autorevole d’America, ritornò da un viaggio in Vietnam per riportare quello che vi stava succedendo. Alla fine del suo reportage del 27 febbraio, Cronkite, che raramente osava esprimere la propria opinione in diretta, espresse il suo verdetto:

Ora pare più sicuro che mai che la sanguinosa esperienza del Vietnam sta per finire in una situazione di stallo… È sempre più chiaro a questo reporter che l’unico modo razionale per uscirne sarà negoziare, non come vincitori, ma come gente onesta che ha mantenuto fede all’impegno di difendere la democrazia ed ha fatto il meglio che ha potuto.”

Si dice (con qualche polemica) che, dopo aver sentito questa dichiarazione, il presidente Lyndon B. Johnson abbia detto a un suo collaboratore: “Se abbiamo perso Cronkite, abbiamo perso il ceto medio americano.” Ma non c’è discussione sul fatto che il giudizio di Cronkite secondo cui la guerra del Vietnam era in una situazione di stallo impossibile da vincere sia stato un momento di svolta: ebbe un fortissimo impatto sulla discussione riguardo alla guerra e al corso della nostra politica. Diede un enorme impulso alla campagna contro la guerra di Gene McCarthy [candidato del partito democratico alle primarie per le presidenziali, ndtr.]; Bobby Kennedy scese in campo poche settimane dopo con un programma contro la guerra; il 31 marzo 1968, in un indimenticabile discorso alla Nazione, il presidente Johnson rinunciò a candidarsi di nuovo a presidente.

Oggi non c’è un “giornalista più autorevole d’America”. Il giornalismo è frammentato, in quanto ci siamo ritirati nei nostri rispettivi orticelli politici sia nelle notizie stampate che via cavo (e anche in internet). Ma se c’è qualcosa di simile all’arbitro più influente dell’opinione politica americana, questo è il “New York Times”. È letto quotidianamente dalla classe politica e liberal, progressisti e centristi dentro e fuori la “Beltway” [area di Washington in cui si concentrano gli uffici del potere, ndtr.]. Rimane il primo come diffusione complessiva tra quanti fanno opinione negli USA. Secondo l’ex-reporter del “Times” Neil Lewis, che nel 2012 ha scritto un articolo informativo per la Columbia Journalist Review [rivista per giornalisti della Columbia University, ndtr.] sul modo in cui il giornale ha informato su Israele, esso ha svolto anche la funzione di “giornale locale dell’ebraismo americano per più di un secolo.”

Ironicamente, dopo aver comprato il giornale ed essersi spostato dal Tennessee a New York, il fondatore Adolph Ochs era deciso a che il Times non apparisse mai come un “giornale ebraico” o un particolare sostenitore della causa ebraica. Durante la Seconda Guerra Mondiale la sottovalutazione dell’Olocausto da parte del giornale fu duramente criticata dalla comunità ebraica. Arthur Hays Sulzberger, genero di Och ed editore dal 1935 al 1961, non era sionista, convinto, insieme al suo nonno acquisito, il rabbino Isaac Mayer Wise, un fondatore dell’ebraismo riformato, che gli ebrei fossero seguaci di una religione, non un popolo o una nazione.

Neil Lewis descrive come la narrazione su Israele da parte del “Times” sia cambiata nel corso degli anni, sotto l’influenza della propaganda israeliana, o hasbara, uno sforzo con cui i palestinesi non potevano competere. “Teddy Kollek, sindaco di Gerusalemme dal 1965 al 1993, conosceva per nome ogni direttore del “Times”.” E i direttori del “Times” che visitavano Israele erano in genere “trattati come ospiti reali.” Lewis descrive anche come i direttori del “Times” reagirono negativamente a vari esempi di informazione critica su Israele negli anni ’80 e fino alla fine degli anni ’90 da parte dei corrispondenti del giornale da Gerusalemme. L’ex-direttore esecutivo Max Frankel ha ammesso la parzialità quando era direttore degli editorialisti. Nelle sue memorie (come vengono citate nel libro “The Israel Lobby”) [La Israel Lobby e la politica estera israeliana, Mondadori, 2007, ndtr.], egli ha scritto:

Ero molto più fedele a Israele di quanto osassi affermare…Forte della mia conoscenza di Israele e delle mie amicizie là, io stesso ho scritto la maggior parte dei nostri articoli di commento sul Medio oriente. Come più lettori arabi che ebrei hanno riconosciuto, li ho scritti da una prospettiva filo-israeliana.”

Lamentele in merito alla copertura informativa di parte su eventi riguardanti Israele-Palestina sono state un elemento chiave su questo sito per anni. L’ex capo redattore dell’ufficio di Gerusalemme Jodi Rudoren frequentava Abe Foxman [influente membro della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] e mostrò indifferenza culturale verso i palestinesi. Almeno quattro reporter del giornale hanno avuto figli nell’esercito israeliano. In quanto lettore del giornale negli ultimi 60 anni, so che la voce dei palestinesi che descrivono la propria lotta per i diritti umani e la dignità raramente è comparsa in queste pagine, mentre commenti filo-israeliani considerati attendibili sono arrivati per anni dagli editorialisti del “Zionist Times” David Brooks e Tom Friedman, e più recentemente da Bret Stephens, Bari Weiss, Shmuel Rosner e Matti Friedman.

All’inizio dello scorso anno, il primo gennaio 2018, tuttavia, il trentottenne A.G. Sulzberger ha sostituito suo padre come direttore (dopo un periodo di un anno come vice direttore). Da quando ha assunto l’incarico pare che siano in corso cambiamenti nel giornale sul fronte israelo-palestinese. Lo scorso anno l’editorialista da poco assunta Michelle Goldberg ha definito le uccisioni lungo la barriera di Gaza come un “massacro” e ha difeso l’antisionismo come una posizione legittima per ebrei e non ebrei, distinguendola dall’antisemitismo.

E oggi l’editorialista neo-assunta Michelle Alexander ha chiesto di “rompere il silenzio” sulla Palestina:

Dobbiamo condannare le azioni di Israele, le incessanti violazioni delle leggi internazionali, la continua occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme est e di Gaza, le demolizioni delle case e le confische delle terre. Dobbiamo alzare la voce contro il trattamento dei palestinesi ai checkpoint, le periodiche perquisizioni nelle loro case, le restrizioni alla loro libertà di movimento e l’accesso gravemente limitato a una casa decente, alla scuola, al cibo, agli ospedali e all’acqua che molti di loro devono subire.

Non dobbiamo tollerare il rifiuto di Israele persino a discutere del diritto dei rifugiati palestinesi a tornare alle proprie case, come previsto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite e dobbiamo mettere in questione i fondi del governo che hanno sostenuto molteplici conflitti e migliaia di vittime civili a Gaza, così come i 38 miliardi di dollari che il governo USA ha assicurato all’ appoggio militare di Israele.

E infine dobbiamo parlare a voce alta, con tutto il coraggio e la convinzione che possiamo trovare, contro il sistema di discriminazione legale che esiste all’interno di Israele, un sistema composto di…più di 50 leggi che discriminano i palestinesi…ignorando i diritti della minoranza araba che rappresenta il 21% della popolazione.”

Questa avvocatessa per i diritti umani e autrice di “The New Jim Crow” [“Il nuovo Jim Crow”, in riferimento alle leggi discriminatorie nel Sud degli Stati Uniti, ndtr.] è molto rispettata da progressisti e centristi del partito democratico, ed anche nella comunità ebraica come in quelle di colore. Rompendo il suo silenzio su Israele/Palestina ha reso pubblico un rapporto accuratamente strutturato e con fonti attendibili che mette in primo piano il dramma dei palestinesi “che lottano per sopravvivere sotto l’occupazione israeliana.” La confessione dell’immoralità del suo precedente silenzio – a causa delle preoccupazioni che “calunnie” filo-israeliane avrebbero danneggiato o screditato il suo lavoro per la giustizia sociale a favore della sua e di altre comunità emarginate – risuonerà nei cuori di quelli che, come me, hanno anche loro rotto il silenzio, e su molti altri che sanno quanto questa oppressione sia sistematica, costante e pervasiva – e come gli americani l’agevolino – ma non hanno ancora avuto il coraggio di parlarne. La sconfessione da parte di Alexander di quello che ha motivato il suo silenzio si spera influenzerà altri a farlo anche loro, nonostante il fatto che sono già stati sguainati i coltelli contro di lei da parte dei soliti sospetti.

L’appello di Alexander ad appoggiare la lotta palestinese e la sua evocazione del coraggioso appello di Martin Luther King per la fine della guerra del Vietnam – un anno prima di Cronkite – è una svolta per il “Times”, come lei implicitamente nota:

“Non molto tempo fa era veramente raro sentire questo punto di vista. Non è più così.”

Dando all’articolo di Alexander rilievo nella prima pagina della “Sunday Review” [sezione degli editoriali del NYT, ndtr.] può darsi che il “Times” di A.G. Sulzberger stia annunciando ufficialmente che il testimone è passato a una nuova generazione di americani, ebrei e non-ebrei, libera di discutere questo punto di vista senza timore o favore, nonostante l’influenza di quanti lo definirebbero antisemitismo o in qualche altro modo illegittimo. Se così fosse, questo potrebbe essere un momento di svolta non solo per il “Times”, ma per tutti quelli di noi che sono coinvolti nella lotta per i diritti e la dignità dei palestinesi.

Robert Herbst è un avvocato per i diritti civili. È stato coordinatore della sezione di “Jewish Voice for Peace” [“Voci Ebraiche per la Pace”, gruppo ebraico Usa contro l’occupazione, ndtr.] di Westchester [contea dell’area metropolitana di New York, ndtr.] dal 2014 al 2017.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il New York Times cerca di mettere a tacere la vicenda di Ahed Tamimi

James North

23 dicembre 2017,Mondoweiss

Oggi il New York Times ha pubblicato un articolo sul modo molto diverso in cui israeliani e palestinesi considerano l’episodio degli schiaffi che ha visto coinvolti la sedicenne Ahed Tamimi e un soldato israeliano.

Il titolo è “Atti di resistenza e di repressione in Cisgiordania che sfuggono ad una facile definizione”, ed è stato scritto da David Halbfinger.

L’articolo fa di tutto per minimizzare il caso, in cui una coraggiosa ragazza di sedici anni, il cui cugino era stato da poco colpito, si ribella alla disumanità dell’occupazione. No, il senso dell’articolo è fare in modo che i sostenitori di Israele che potrebbero aver sentito parlare della vicenda scuotano la testa sulla “doppia narrazione”, per tornare ai propri affari.

Ecco il piano di insabbiamento del Times:

1.Fare in modo che nell’edizione a stampa non compaia nessuna delle impressionanti foto divenute virali della coraggiosa resistenza di Ahed Tamimi.

2.Non dire da nessuna parte che gli israeliani sono occupanti e che gli insediamenti (le colonie) sono illegali in base alle leggi internazionali.

3. Infilarci astutamente il seguente paragrafo: “L’apparente incoraggiamento della famiglia alle rischiose sfide della ragazzina ai soldati offende alcuni palestinesi e manda in bestia molti israeliani.”

4.Citare di sfuggita il fatto che l’illegale insediamento/colonia di Halamish ha preso il controllo dell’accesso del villaggio di Nabi Salh alla sua sorgente e non fare nessun tentativo di dare conto di chi abbia ragione. Trattare invece la questione come se fosse un “da una parte… ma dall’altra…”

5. Nella prima frase, far sembrare che il soldato israeliano sia la vittima: “Una ragazzina, con una kefiah sulla giacca di jeans, urlando in arabo, colpisce ripetutamente, schiaffeggia e prende a calci un ufficiale dell’esercito israeliano pesantemente armato, che l’affronta impassibile, incassando qualche colpo, schivandone altri, ma senza mai reagire.” (Di sicuro vi concentrate sulla kefiah e sugli “urli in arabo”: perle di perfetto orientalismo).

6. Far in modo che il colono Yossi Klein Halevi [presentato nell’articolo del NYT come uno scrittore e intervistato dal giornalista, ndt.] ribadisca il concetto che l’israeliano è la vittima: “La mia prima reazione è stata che sono fiero dei soldati, ma ero anche incerto: questo potrebbe incitare altre aggressioni, anche più gravi?”

7. Aggiungere un altro odioso paragrafo: “…la scena di una giovane donna trascinata via potrebbe aver fornito ai palestinesi l’evidente colpaccio propagandistico che gli era stato negato all’inizio dell’incidente.”

8. Mettere solo nel tredicesimo paragrafo l’informazione che ore prima dello scontro un soldato israeliano aveva sparato in faccia al cugino di Ahed Tamimi. Ignorare il nome del cugino, Mohammad, e la gravità delle ferite. No, per saperlo devi andare su Al Jazeera.

9 Citare 6 israeliani ebrei e solo 4 palestinesi. Ma soprattutto non citare nessun membro della coraggiosa famiglia Tamimi, nonostante siano stati menzionati nel fondamentale articolo di Ben Ehrenreich apparso sul “New York Times Magazine” [supplemento domenicale del NYT, ndt.] a proposito di Nabi Saleh. E nonostante il fatto che l’episodio degli schiaffi [al militare] sia avvenuto quando il soldato aveva violato la loro proprietà.

P.S. Louis Allday, un dottorando alla School of Oriental and African Studies [Scuola di Studi Orientali ed Africani, ndt.] dell’università di Londra, che sta digitalizzando documenti coloniali, aggiunge [citazioni da un tweet, ndt.]: 23 dicembre: Questo non è neppure un commento di opinione, questo è un reportage del responsabile della redazione di Gerusalemme del New York Times, David M. Halbfinger.

Lo strenuo tentativo di Halbfinger di far sì che qualcosa di molto semplice ed ovvio risulti complicato (elogiando efficacemente la “moderazione” israeliana) è un chiaro esempio di come i mezzi di comunicazione in generale parlino della Palestina, soprattutto il NYT.

(Una correzione: il post originale diceva: “La maggior parte di persone legge ancora il Times su carta.” In realtà il Times ha 2,5 milioni di abbonati alla versione digitale, contro 1 milione di abbonati alla versione cartacea).

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Roger Waters: il Congresso non dovrebbe far tacere i difensori dei diritti umani

Roger Waters

7 settembre 2017,New York Times

Membri del Congresso [USA] stanno attualmente prendendo in considerazione un disegno di legge che minaccia di far tacere il crescente appoggio al movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni a favore della libertà e dei diritti umani dei palestinesi, noto come BDS.

La norma draconiana, la “Legge anti-boicottaggio di Israele”, minaccia con pene fino a 20 anni di carcere e una multa di 1.000.000 di dollari singole persone e attività economiche che partecipano attivamente alle campagne di boicottaggio a sostegno dei diritti dei palestinesi intraprese da organizzazioni governative internazionali.

Approvando questa legge maccartista i senatori eliminerebbero i diritti del primo emendamento della costituzione americana per proteggere Israele dalle pressioni non violente per porre fine alla sua cinquantennale occupazione del territorio palestinese e ad altre violazioni dei diritti dei palestinesi.

L’ “Unione per le Libertà Civili Americane” [ACLU, ong che si dedica a difendere i diritti civili e le libertà individuali negli Stati Uniti] ha condannato questo disegno di legge, a favore del quale sta facendo pressione l’ “American Israel Public Affairs Committee” [AIPAC, uno dei principali gruppi di pressione a favore di Israele negli USA, ndt.], in quanto sarebbe una minaccia per il diritto costituzionale della libertà di parola.

Ogni americano – indipendentemente dalle proprie opinioni su Israele-Palestina – dovrebbe capire che la possibilità di prendere di mira e mettere in una lista nera concittadini che appoggiano i diritti dei palestinesi potrebbe rivelarsi la punta di un pesante cuneo autoritario.

Non è una novità. Circa 22 disegni di legge contro il BDS sono stati presentati agli organi legislativi del Congresso e degli Stati in tutto il Paese come parte di un pericoloso tentativo di mettere a tacere i sostenitori dei diritti umani dei palestinesi – alcuni sono già stati approvati. In molti casi questi disegni di legge vietano agli Stati ed al governo federale di fare affari con, o di investire in, imprese che aderiscono alle campagne di boicottaggio o disinvestimento riguardanti le violazioni delle leggi internazionali da parte di Israele. Nessuna di queste leggi è ancora stata messa alla prova in un tribunale.

Questa criminalizzazione dell’appoggio al BDS negli Stati Uniti rispecchia tentativi simili in Israele. Nel 2011 la Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha approvato una legge che consente che cittadini o organizzazioni israeliani che sostengono pubblicamente il BDS siano citati in giudizio da chiunque sia stato danneggiato dall’appello al boicottaggio. E all’inizio di quest’anno ha approvato una legge che consente ad Israele di negare l’ingresso a stranieri che abbiano pubblicamente sostenuto il boicottaggio. E’ stato in base a questa legge che a Alissa Wise, un rabbino americano che faceva parte di una delegazione interreligiosa in Terra Santa, è stato recentemente vietato di prendere un volo per Tel Aviv.

La criminalizzazione dei boicottaggi è anti-americana e anti-democratica. I boicottaggi sono sempre stati accettati come una forma legittima di protesta non-violenta negli Stati Uniti. Nel 1955 e nel 1956 un boicottaggio degli autobus a Montgomery, Alabama, innescato dalla protesta di Rosa Parks e di altri, diede inizio a una delle più importanti lotte per i diritti civili contro la segregazione nel Sud.

Più di recente la “National Collegiate Athletic Association” [associazione che organizza le attività sportive di 1.200 college e università negli USA, ndt.] ha rifiutato di tenere incontri del campionato in Nord Carolina dopo che i parlamentari dello Stato hanno approvato una legge che riduce la protezione legale di persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender e stabilisce norme discriminatorie riguardo all’uso dei gabinetti nei locali pubblici da parte di transgender. Numerosi artisti, compreso Bruce Springsteen, si sono rifiutati di esibirsi nello Stato; importanti imprese hanno annullato i propri investimenti in Nord Carolina. La voce del boicottaggio a sostegno dei diritti civili è stata ascoltata e la legge è stata respinta, anche se come parte di un discutibile compromesso.

In questi casi i progressisti hanno lodato coloro che boicottavano come paladini di uguaglianza. Perciò perché parlamentari nazionali – compresi democratici apparentemente progressisti – vogliono fare un’eccezione per quelli che sostengono uguali diritti per i palestinesi?

Quando la causa è giusta, il boicottaggio ha dimostrato di essere un metodo efficace per mettere in luce violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale. E’ per questo che il governo israeliano e i suoi sostenitori sono così impegnati a mettere a tacere chi appoggia il BDS.

Quotidianamente sentiamo commenti ricchi di spunti provocatori da editorialisti, dal comitato editoriale del Times e da collaboratori di ogni parte del mondo.

Per anni i gruppi filo-israeliani hanno tentato di demonizzare i sostenitori del BDS – credetemi, ne so qualcosa. Attualmente sto facendo un tour di 63 date negli Stati Uniti e in Canada. Un pubblico di decine di migliaia di persone si è unito al nostro spettacolo “Us+Them”, che parla di amore, comprensione, collaborazione e coesistenza e incoraggia la resistenza all’autoritarismo e al proto-fascismo. Queste esibizioni sono state accolte da poche e sporadiche proteste da parte dei sostenitori di destra di Israele.

Queste proteste sarebbero senza conseguenze, se non di rado non ne avessero alcune veramente negative. Per esempio, la città di Miami Beach, dopo pressioni da parte della “Greater Miami Jewish Federation”, ha vietato a un gruppo di scolari di comparire con me sul palco. Capisco che funzionari della città abbiano il diritto democratico di non essere d’accordo con le mie opinioni, ma sono rimasto scioccato che abbiano voluto prendersela con i bambini.

Questi attacchi sono ripetuti e relativamente poco importanti. Ma la “Legge contro il boicottaggio di Israele” è un grave esempio di “lawfare” [uso della legge per combattere delle posizioni politiche, ndt.]. Funzionari della Contea di Nassau a Long Island minacciano azioni legali per impedire due spettacoli che ho in programma per la prossima settimana, utilizzando una legge locale anti-BDS approvata nel 2016. Se il procuratore della contea di Nassau procederà contro i gestori dello stadio di Nassau, andremo in tribunale a perorare la causa di coloro che credono nei diritti umani universali e nel Primo Emendamento.

I sondaggi dimostrano che circa la metà degli americani, e una maggioranza tra i Democratici, sarebbe disposto ad appoggiare sanzioni contro Israele a causa della costruzione di colonie illegali sulla terra palestinese occupata. In effetti sempre più chiese, gruppi studenteschi, artisti, accademici e organizzazioni di lavoratori stanno appoggiando la tattica di boicottaggio e disinvestimento come mezzo per fare pressione su Israele perché ponga fine ai suoi soprusi contro i palestinesi. Se approvata, la “Legge contro il boicottaggio di Israele” potrebbe mettere a rischio di arresto con accuse di tradimento tutti costoro, dagli arcivescovi ai chierichetti, dagli artisti agli artigiani.

Quelli che stanno tentando di farmi tacere capiscono il potere dell’arte e della cultura. Conoscono il ruolo che gli artisti hanno giocato nella lotta per i diritti civili negli Stati Uniti e contro l’apartheid in Sud Africa. Vogliono fare di noi un esempio per scoraggiare altri dal prendere la parola.

Invece di lavorare per indebolire il BDS, il Congresso dovrebbe difendere il diritto, stabilito dal primo emendamento, di ogni americano e stare dalla parte giusta della storia appoggiando uguali diritti civili ed umani per tutti, indipendentemente dall’etnia e dalla religione.

Roger Waters, musicista e cantautore, è un co-fondatore del gruppo dei “Pink Floyd”.

(Traduzione di Amedeo Rossi)

 

 




Israele legalizza alla chetichella gli avamposti pirata in Cisgiordania.

di ISABEL KERSHNER
The New York Times, 30 agosto 2016
Gli insediamenti illegali costellano la cima delle colline in Cisgiordania, ma i Palestinesi e le organizzazioni anti-insediamenti sostengono che la loro legalizzazione retroattiva è un sistematico tentativo di sovvertire la mappa della regione.ragazzi

Ragazzi fotografati questo mese nell’avamposto di Mitzpe Danny, nella Cisgiordania occupata. Mitzpe Danny fa parte di un’estesa rete di circa 100 avamposti creati per lo più negli ultimi venti anni senza autorizzazione governativa. Uriel Sinai per il NYT.

MITZPE DANNY, Cisgiordania –  Una sera nell’autunno del 1998, un autoproclamatosi “imprenditore di avamposti” portò tre caravan sulla cima di un’aspra collina nella Cisgiordania occupata da Israele e fondò il suo primo insediamento pirata.
Dozzine di giovani sostenitori arrivarono per dar man forte all’imprenditore, Simon Riklin, che fu raggiunto pochi giorni dopo dalla moglie, un bambino e un neonato. Una seconda famiglia seguì il loro esempio. All’inizio furono sorpresi che nessuno dall’esercito o dal governo venisse ad allontanarli. “Dopo sei mesi,” ha detto Rifkin in una recente intervista, “ho capìto che l’affare era fatto.”
Chiamarono il loro avamposto Mitzpe Danny, dal nome di un immigrato britannico che era stato accoltellato a morte da un Palestinese nell’insediamento che si trova dall’altra parte dell’autostrada. Nei mesi successivi contribuirono a fondare Mitzpe Hagit e poi Neve Erez che si trova a pochi minuti di auto. “Saltavo da una collina all’altra”, ha detto Riklin.
Oggi più di 40 famiglie di Ebrei ortodossi vivono a Mitzpe Danny, che fa parte di una catena di avamposti su un crinale strategico che a sud-ovest ha viste mozzafiato fino al Monte degli Ulivi di Gerusalemme, mentre ad est la vista arriva fino alla Giordania. Fanno parte di una vasta rete di circa 100 avamposti, fondati per lo più negli ultimi venti anni senza autorizzazione governativa.
Almeno un terzo di questi avamposti sono stati legalizzati retroattivamente, oppure -come nel caso di Mitzpe Danny- è in corso quello che secondo gli osservatori anti-colonie è un tentativo silenzioso ma metodico da parte del governo di cambiare la mappa della Cisgiordania (ormai nel suo 50esimo anno di occupazione israeliana) rafforzando gli avamposti che si stanno estendendo sul territorio come le dita di una mano.
In un momento in cui il processo di pace israelo-palestinese è “in sonno” e la comunità internazionale è sempre più scettica circa l’effettivo impegno del governo di destra israeliano per la formazione di un futuro stato palestinese, gli avamposti vengono occupati proprio per dimostrare che è impossibile sbrogliare il conflitto. Nel suo rapporto di luglio, il cosiddetto Quartetto per il Medio-Oriente (formato da Stati Uniti, Unione Europea, ONU e Russia) ha visto questi sviluppi come qualcosa che “mette in pericolo la fattibilità della soluzione a due stati.”
Il primo ministro Benjamin Netanyahu, che era al suo primo mandato quando fu fondata Mitzpe Danny, ha in seguito avallato l’idea di uno stato palestinese a fianco di Israele e ha detto che il suo governo non avrebbe costruito nuovi insediamenti né espropriato altra terra per quelli esistenti. Ma Ziv Stahl, direttrice di ricerca di Yesh Din, uno dei gruppi di difesa della sinistra, ha detto che “li stanno autorizzando mascherandoli in qualche modo.”
Secondo Ziv Stahl, Israele cerca di evitare la condanna internazionale registrando gli avamposti del tipo di Mitzpe Danny come “sobborghi” di insediamenti già costituiti, anche se alcuni sono molto distanti e funzionano come comunità separate.

Gli avamposti in Cisgiordania
mappa avamposti
Dei 100 avamposti fondati per lo più negli ultimi venti anni, circa un terzo sono stati o saranno legalizzati retroattivamente. By Rudy Omri/New York Times

Quanto ad altri provvedimenti di Israele, tra cui la demolizione di costruzioni palestinesi non autorizzate in Cisgiordania, Ziv Stahl aggiunge: “Vediamo tutto ciò come una manovra molto graduale verso l’annessione.”
A una domanda sulla legalizzazione degli avamposti (con le relative critiche internazionali), il portavoce di Netanyahu, David Keyes, non ha risposto direttamente, ma ha girato la domanda sulla posizione dei leader palestinesi secondo cui -in un eventuale accordo futuro- nessun insediamento potrebbe rimanere in Cisgiordania.
“La pretesa così spesso ripetuta dai Palestinesi di far pulizia etnica degli Ebrei nel loro futuro stato,” ha detto Keyes in una email, “è scandalosa, immorale e antitetica all’idea di pace.”
Prima illegali, poi legali
Gli avamposti sono disposti strategicamente a fianco degli oltre 120 insediamenti ufficialmente approvati da Israele e ospitano una parte  dei 350.000 coloni ebrei della Cisgiordania.
Un gruppo si estende a est di Shilo, come una catena di perle: Shvut Rahel, Adei Ad, Ahiya, Kida, Esh Kodesh. Questi avamposti dominano le colline che separano villaggi palestinesi come Qusra, Jalud, Al-Mughayyer e Duma. Quest’ultimo è il villaggio in cui l’anno scorso è avvenuto l’attentato incendiario mortale per cui un giovane Israeliano è stato accusato di omicidio e un altro di complicità.
Rabbah Hazameh, un Palestinese la cui famiglia possiede oliveti e campi coltivati nella zona, dice che i coloni hanno impedito a lui e ai suoi familiari di lavorare la loro terra vicino ad Adei Ad ed hanno danneggiato e avvelenato gli alberi. Dice che suo zio, nel corso degli anni, ha presentato 86 denunce alla polizia, ma poi “non è successo niente.”
Mentre nella maggior parte del mondo questi insediamenti sono visti come una violazione della legge internazionale, Israele, per parte sua, fa delle distinzioni, a seconda che si trovino o meno su proprietà private palestinesi e a seconda che abbiano avuto o meno l’approvazione governativa a costruire.
Un’indagine del 2005 che il governo aveva affidato a Talia Sasson, un ex procuratore dello stato, contò almeno 105 avamposti che si erano insediati “in flagrante violazione della legge” e chiese che fossero presi “drastici provvedimenti,” tra cui l’immediata rimozione di quelli costruiti su proprietà private.
Ma nel 2012 Netanyahu aveva insediato un’altra commissione che era giunta a conclusioni del tutto diverse.
Presieduta da Edmund Levy, un ex giudice della Corte Suprema israeliana, la commissione concluse che la Cisgiordania non è veramente occupata (anche perché i precedenti 19 anni di governo da parte della Giordania non hanno mai avuto riconoscimento internazionale) e che non c’erano ostacoli all’approvazione di avamposti che fossero costruiti su terreni di proprietà dello stato e che avessero quello che veniva definito “l’implicito consenso” di alti funzionari israeliani. Tuttavia, il rapporto Levy confermò il criterio israeliano secondo il quale gli insediamenti su proprietà private palestinesi sono illegali.
Sotto la pressione internazionale, Israele si è ripetutamente impegnata ad eliminare gli avamposti non autorizzati. Ma allo stesso tempo ha cercato di salvarne alcuni, anche se costruiti su proprietà private, come quello di Amona, che per ordine della Corte Suprema Israeliana dovrebbe essere demolito entro il 25 dicembre. Gli abitanti di un altro avamposto di questo tipo, Migron (costruito anche questo con l’aiuto di Simon Riklin), sono stati trasferiti nel 2012 in abitazioni provvisorie su un suolo pubblico vicino.
Nel 2011 il governo di Netanyahu aveva già silenziosamente introdotto quella che chiamava una nuova “regolamentazione combinata.” L’idea era che Israele avrebbe smantellato gli insediamenti costruiti su proprietà private palestinesi, ma nelle zone dichiarate da Israele come proprietà dello stato avrebbe invece “regolarizzato il piano del progetto”, ossia -in altre parole- avrebbe legalizzato a posteriori le costruzioni.
il colono simon
Simon Riklin fotografato questo mese a Mitzpe Danny, che l’autoproclamato “imprenditore di avamposti” ha fondato nell’autunno 1998. Uriel Sinai for The New York Times

Un processo cauto e ambiguo
I primi sintomi di un cambiamento di status di un dato avamposto emergono di solito dalle risposte del governo israeliano alle cause legali avanzate dai gruppi anti-insediamenti.
Come, ad esempio, l’anno scorso, quando la Corte Suprema Israeliana ha respinto una istanza di demolizione per una costruzione illegale a Mitzpe Danny, dopo che lo stato aveva comunicato che era in atto un procedimento per autorizzare l’avamposto.
La Corte ha citato una decisione dell’ottobre 2015 di un comitato di pianificazione israeliano inteso a promuovere un vecchio piano generale per la crescita della popolazione ebrea nella zona.
In questo piano, Mitzpe Danny è definito un “sobborgo” di Ma’ale Michmash, l’insediamento originario al di là dell’autostrada, anche se una parte dell’avamposto si trova fuori dai confini più esterni dell’insediamento. Secondo il piano, nel 2040 Mitzpe Danny dovrebbe contenere 189 abitazioni permanenti.
L’avamposto non ha un piano urbanistico dettagliato come sarebbe richiesto per ottenere la piena autorizzazione da Israele, e anche la Corte ha riconosciuto che la pianificazione procedeva a rilento. Tuttavia Peace Now, un altro gruppo anti-insediamenti, riferisce che almeno 20 avamposti hanno già completato la pianificazione o hanno piani dettagliati in via di realizzazione e già approvati dal ministro della difesa, mentre altri 14 sono in fase di sviluppo.

Mitzpe Danny, dal 2001 al 2015
foto aerea di Mitzpe Dannyfoto aerea di Mitzpe Danny 2011

foto aerea di Mitzpe Danny 2015
Fotografie aeree da Peace Now
By Rudy Omri/The New York Times

Hagit Ofran, direttore del programma di monitoraggio degli insediamenti realizzato da Peace Now, dice che il messaggio del governo è “costruite e poi noi sistemiamo tutto a cose fatte.”
Il Ministero della Difesa e l’Amministrazione Civile (che è il ramo dell’esercito israeliano che si occupa degli affari civili in Cisgiordania) hanno rifiutato di parlare degli avamposti o di fornire alcun dato circa il loro status. Anche i leader dei coloni dicono che hanno tentato di avere informazioni su quanti avamposti stiano per essere legalizzati. “Non ho capito se è un terzo o la metà o il 100 per cento,” ha detto Oded Revivi, il principale delegato agli esteri dello Yesha Council che rappresenta i coloni.
La maggior parte delle procedure di legalizzazione avviene con cautela e con una certa dose di ambiguità. Simon Riklin, il fondatore di Mitzpe Danny e degli avamposti vicini, lo ha descritto come un gioco “tutto gatto e topo” tra Netanyahu e il presidente Obama, il quale ha detto ripetutamente che qualunque espansione degli insediamenti rappresenta un ostacolo alla pace.
Yigal Dilmoni, il vice amministratore delegato del comitato dei coloni, ha detto che gruppi come Peace Now hanno in realtà fatto un favore ai coloni quando hanno fatto causa allo stato, perché spesso questo costringe lo stato a prendere una posizione. Dopo che un procedimento giudiziario si era concluso con l’autorizzazione governativa per un edificio illegale di un insediamento e per un avamposto, il comitato dei coloni mandò un mazzo di fiori a Peace Now. Il biglietto di accompagnamento diceva: “Saremo lieti di proporre il nome ‘Peace Now’ per una strada del nuovo quartiere.”
Uscire dal recinto
Nel 1998, quando era ministro degli esteri, Ariel Sharon aveva esortato i coloni a “correre ad impossessarsi” delle colline della Cisgiordania. Ma non c’era niente di improvvisato nel progetto degli avamposti.
L’indagine della Sasson del 2005 ha descritto come i funzionari dei ministeri dell’edilizia, della difesa e altri lavorassero in modo sistematico per stabilire la localizzazione dei nuovi insediamenti, per finanziarli e per aiutarli a procurarsi le infrastrutture.
All’inizio degli anni 1990, gruppi di coloni avevano disegnato i primi progetti per Mitzpe Danny che, come molti avamposti, secondo il rapporto Sasson, si estende sia su terreni pubblici che terreni privati. Si trova al di sopra di una strada tortuosa che prende il nome da Yigal Allon, generale israeliano e uomo politico del Labor Party che, dopo la guerra arabo-israeliana del 1967, era a favore di un ritiro di Israele dalla maggior parte delle zone della Cisgiordania che erano densamente popolate da Palestinesi, mentre suggeriva di mantenere il territorio strategico lungo la Valle del Giordano.
colonia di Micmash
By Rudy Omri/The New York Times

Simon Riklin e altri attivisti cominciarono il loro lavoro mentre Netanyahu, al suo primo mandato, stava negoziando un accordo del 1998 con cui cedeva alla neonata Autorità Palestinese altri territori della Cisgiordania che Israele aveva sottratto alla Giordania nel guerra del 1967.
Riklin, che ha ora 53 anni ed è una voce forte nei media israeliani a favore dei coloni, dice (riferendosi alla Cisgiordania col suo nome biblico): “Ho pensato che in Giudea e Samaria non c’erano abbastanza coloni per garantire il futuro degli insediamenti,” e aggiunge: “Abbiamo sentito che dovevamo uscire dal recinto.”
Daniel Frei, l’immigrante inglese assassinato che ha dato il nome all’avamposto, era stato il vicino di casa di Riklin a Ma’ale Michmash. Era un ingegnere informatico di 28 anni e fu ucciso nella sua casa mentre la figlia di 18 mesi stava dormendo.
Un paio di settimane dopo che Riklin e i suoi amici si erano impadroniti della collina, il Binyamin Council (l’autorità governativa regionale che conta attualmente 50 colonie e avamposti nella zona) fornì loro generatori elettrici e autocisterne d’acqua. Riklin dice che arrivò anche il ministro dell’edilizia e gli chiese di cosa aveva bisogno. C’era insomma un’atmosfera che definisce di “euforia.”
Ora l’avamposto ha dozzine di caravan, oltre ad alcune spaziose case rivestite in pietra e un nuovo campo di pallacanestro in un avvallamento che è poco visibile dall’autostrada. C’è un asilo e un parco giochi che pochi giorni fa avevano un soldato a far la guardia. Tra i residenti c’è un avvocato, un architetto e alcuni insegnanti.
In un punto panoramico vicino, un sistema audio descrive l’insediamento ebraico nella zona come l’adempimento della profezia di Geremia: “I tuoi figli torneranno dentro i loro confini.”
Riklin, il fondatore dell’avamposto, è poi rimasto ad abitare a Ma’ale Michmash. L’attuale leader dell’avamposto ha rifiutato di essere intervistato per questo articolo.
Yehuda Naamad, 30 anni, lavora in una drogheria e due anni fa si è trasferito a Mitzpe Danny da Gerusalemme “per lo spazio”, come dice lui. Questo mese si è trasferito di nuovo in un’altra caravan nell’insediamento di Hemdat nella Valle del Giordano, dove i progetti di costruzione sono stati recentemente approvati dopo esser stati bloccati per 19 anni.
”Credo che questa sia la nostra terra” ha detto riferendosi alla Cisgiordania, e ha aggiunto: “Dio ci ha fatto tornare. Dio scrive la nostra storia.” E riferendosi ai Palestinesi ha detto: “Chiunque ci accetta può vivere qui tranquillamente.”
Non si mostrava preoccupato per la lunga attesa di una casa definitiva. “È scritto che la redenzione si sviluppa lentamente: come la natura, come un albero di olivo.”
Isabel Kershner si può seguire su Twitter @IKershner.
Una versione a stampa di questo articolo è comparsa il 31 agosto 2016 a pagina A1 della edizione di New York col titolo: Israel Legalizes Outposts in the West Bank, Step by Quiet Step.

Traduzione di Donato Cioli
A cura di Assopace Palestina