Il ministero dell’Educazione ha lanciato una campagna contro i sostenitori della Palestina nelle università. Molti l’avevano previsto

Michael Arria

8 ottobre 2019 – Mondoweiss

Lo scorso giugno l’amministrazione Trump ha nominato Kenneth Marcus sottosegretario per i diritti civili e [la sua nomina] è stata approvata dal Senato, 50 a 46, pur non avendo ricevuto voti democratici. Alcune organizzazioni si sono opposte alla nomina di Marcus per varie ragioni: ha appoggiato la revoca delle disposizioni contro le aggressioni sessuali nei campus, si è opposto alle agevolazioni a favore delle minoranze riguardo all’educazione e non è possibile individuare un solo esempio in cui sia stato in disaccordo con Donald Trump riguardo ai diritti civili.

Alcune delle maggiori preoccupazioni riguardo a Marcus sono state espresse da attivisti e gruppi che sostengono i diritti dei palestinesi. Marcus è stato fondatore e presidente del filoisraeliano “Louis D. Brandeis Center for Human Rights” [Centro per i Diritti Civili Louis D. Brandeis, politico USA e fervente sionista, ndtr.], un’organizzazione che intende combattere “il rinascente problema dell’antisemitismo e dell’ostilità verso Israele nei campus universitari.” Marcus ha fatto pressioni a favore di una definizione di antisemitismo (a livello federale e statale) che includa le critiche contro Israele. Ha anche promosso il ritiro dei finanziamenti ai programmi di studi sul Medio Oriente nelle università ed ha chiesto al Congresso di approvare l’ Anti-Semitism Awareness Act [legge per la sensibilizzazione sull’antisemitismo], una norma che censurerebbe le posizioni a favore dei palestinesi nei campus.

Quando Marcus si servirà delle accuse di ‘antisemitismo’ per soffocare la libertà di parola su Israele-Palestina nelle università, dove saranno allora i senatori?”, si è chiesta Debra Shushan, la responsabile giuridica di “Americans for Peace Now” [associazione USA moderatamente critica con il governo israeliano, ndtr.] dopo l’approvazione della nomina di Marcus. Riguardo a questa nomina “Palestine Legal” [associazione di giuristi a favore del diritto dei cittadini USA di parlare a sostegno dei palestinesi, ndtr.] ha valutato i danni potenziali della designazione di Marcus:

Riguardo alle denunce sulla base del Titolo VI [che proibisce discriminazioni in progetti finanziati pubblicamente, ndtr.], che prendano di mira il sostegno ai diritti dei palestinesi, Marcus ha dedicato gli ultimi 13 anni a promuoverle, e non passerà dal ruolo di sostenitore a quello di arbitro.

Avrà l’autorità di indagare su università che autorizzano il sostegno ai diritti dei palestinesi protetto dal Primo Emendamento [della Costituzione USA, che protegge il diritto di parola e di riunione, ndtr.].

Troverà che le università in cui è consentito agli studenti criticare Israele violano il Titolo VI della legge sui diritti civili e obbligherà tali istituti scolastici a inserire “accordi di risoluzione” o “accordi di applicazione”. Tali accordi obbligheranno le università a limitare i discorsi a favore dei diritti dei palestinesi, in violazione del Primo Emendamento. Anche solo la minaccia di un’indagine da parte del governo federale probabilmente provocherà il fatto che le università interferiscano nel dibattito dei campus per evitare di essere messe sotto inchiesta.”

Un anno dopo questo monito si è dimostrato preveggente.

Lo scorso mese il Dipartimento per l’Educazione (DOE) di Betsy DeVos [ministra dell’Educazione nominata da Trump nel 2017, ndtr.] ha minacciato di tagliare i finanziamenti al Consorzio per il Medio Oriente, una collaborazione tra l’università del North Carolina e la Duke University. In una lettera pubblica, il DOE chiarisce di ritenere che il programma sia troppo condiscendente verso l’islam. “Si pone una considerevole enfasi sull comprendere gli aspetti positivi dell’islam, mentre manca del tutto un’attenzione simile verso gli aspetti positivi del cristianesimo, dell’ebraismo e di qualunque altra religione o sistema di credenze in Medio Oriente,” recita. Per continuare a ricevere finanziamenti, in base al Titolo VI il programma deve rivedere i suoi criteri e fornire al DOE un’analisi dettagliata dei suoi progetti di spesa.

La lettera del DOE è nata da un’indagine sul programma iniziata in giugno. Lo scorso marzo il programma di studi sul Medio Oriente aveva tenuto una conferenza intitolata “Conflitto contro Gaza: persone, politiche e possibilità.” L’evento includeva un’esibizione del musicista palestinese Tamer Nafar, che ha suonato una canzone ironica su un arabo che si innamora di una soldatessa dell’esercito israeliano. In seguito un blogger filo-israeliano ha postato immagini decontestualizzate dell’esibizione e la faccenda è stata ripresa dal senatore repubblicano George Holding, che ha chiesto a DeVos di indagare su tutto il programma.

Elyse Crystall è docente associata di Inglese e Letteratura Comparata all’UNC [Università della North Carolina, ndtr.] ed era presente alla conferenza. Afferma che l’evento è stato sfruttato in modo cinico per censurare le voci a favore di palestinesi e musulmani nel campus. “Abbiamo studenti che sono palestinesi, musulmani, arabi, arabo-americani e sono stati pugnalati alle spalle,” racconta a Mondoweiss. “Nessuno si preoccupa di come ciò li abbia colpiti. Sono sconvolti e non sanno dove andare. [Non hanno] nessuno con cui parlarne.”

Alcuni docenti della Duke recentemente hanno pubblicato una lettera di condanna della decisione del DOE. “L’inchiesta federale è il punto più alto di una campagna pluridecennale da parte di organizzazioni anti-palestinesi contro programmi e corsi di studi accademici ritenuti non sufficientemente ‘filo-israeliani’,” si afferma. “Questa inchiesta prende di mira un centro studi sul Medio Oriente, ma dovrebbe preoccupare tutti noi. Oggi ogni docente e studioso è in pericolo se non si allinea alla politica nazionale e alle priorità della sicurezza nazionale.” Inoltre oltre 100 studiosi ebrei (compresi nomi quali Noam Chomsky e Judith Butler) hanno inviato una lettera a DeVOs chiedendole di porre fine a questa “aggressione infondata” ai programmi di studi sul Medio Oriente:

Sotto la sua direzione il ministero dell’Educazione ha condotto una crociata contro chiunque nei campus universitari osi criticare le violazioni dei diritti umani da parte di Israele. Infatti il ‘capo per i diritti civili’ da lei designato, Kenneth Marcus, ha fatto carriera attaccando chi critica l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza che dura da 52 anni. Per anni Marcus ha cercato di delegittimare e privare di finanziamenti i programmi di studio sul Medio Oriente che consentono agli studenti e al corpo docente di criticare il governo di Israele e il modo in cui tratta il popolo palestinese. Il modo di agire di Marcus rende evidente come la sua preoccupazione non sia di promuovere la libertà di parola e la libera discussione accademica, ma soffocarla.”

Molti opinionisti e commentatori hanno ribadito che sotto Trump stiamo attraversando una crisi della libertà di parola nelle università, in quanto alcuni punti di vista vengono attaccati o messi a tacere. Tuttavia, com’era prevedibile, nel dibattito pubblico questa campagna potenzialmente vasta contro la libertà accademica è ignorata.

Michael Arria è inviato di Mondoweiss negli USA.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Amira Hass: perchè “La fabbrica del consenso” di Chomsky è ancora importante

Al-Jazeera – 22 dicembre 2018

La giornalista israeliana che informa su Gaza e sulla Cisgiordania condivide le sue idee su “La fabbrica del consenso” di Chomsky

Listening Post [“Postazione d’ascolto”, programma della rete televisiva Al-Jazeera] ha intervistato la giornalista israeliana Amira Hass sulla sua opinione riguardo al libro di Noam Chomsky “La fabbrica del consenso”. Hass ha passato buona parte della sua carriera professionale vivendo ed informando da Gaza e dalla Cisgiordania –una dei pochissimi giornalisti israeliani ad averlo fatto. Qui di seguito la trascrizione completa della nostra intervista con lei.

The Listening Post: “La popolazione in generale non sa cosa stia avvenendo e non sa neppure cosa non sa.” Questa è la sintesi concisa di Noam Chomsky sulla comprensione dell’opinione pubblica in generale riguardo a quali decisioni vengano prese in suo nome. Quanto le sembra vero questo oggi?

Amira Hass: È un’affermazione molto umanistica e ottimistica, la convinzione che la gente voglia avere accesso alle informazioni e con l’accesso alle informazioni possa agire, possa cambiare. Posso dire che questo tipo di approccio ha guidato molte persone come me.

In ebraico le parole comprensione, informazione e consapevolezza hanno tutte la stessa radice. È così che ho iniziato a lavorare a Gaza all’inizio degli anni ’90 ed ho scritto di Gaza, pensando che l’opinione pubblica israeliana non sapesse niente dell’occupazione e di cosa ciò significasse, della vita dei gazawi.

Mi aspettavo che i miei reportage raggiungessero altri e cambiassero la consapevolezza. Ho scoperto molto presto che non era così.

Lo stesso Noam Chomsky ha detto che quando scrive delle politiche di Israele si basa in buona misura su informazioni pubblicate dalla stampa israeliana, che non ha mai effettivamente informato sulla gravità delle politiche israeliane e della repressione.

Fino agli accordi di Oslo in Israele c’era una certa visibilità persino nei media più importanti. Ma ciò non ha cambiato la consapevolezza della gente. Ed è molto peggio oggi, quando nell’era di internet abbiamo una grande quantità di mezzi di comunicazione. Queste informazioni sono in circolazione – da parte di attivisti, organizzazioni per i diritti umani -, è tutto alla luce del sole. Ma la gente non le va a leggere. Vi hanno accesso ma scelgono di non andarle a vedere.

The Listening Post: “Chomsky ha sostenuto che normalmente i giornalisti non sono tenuti sotto controllo attraverso interventi dall’alto, ma dalla “selezione di personale che pensa quello che deve e dall’interiorizzazione, da parte dei redattori e dei giornalisti sul campo, delle priorità e delle definizioni di quello su cui vale la pena informare che sia conforme alla politica istituzionale.” Nella sua esperienza, come succede questo quando si informa sull’occupazione israeliana?

Hass: Ciò è quanto percepisce chi scrive. Ogni giornalista capisce molto rapidamente che c’è una serie di filtri mentre scrivi il tuo articolo. Possono essere problemi molto innocui come la lunghezza, il tempo, le scadenze. Hai a disposizione 300 parole. No, 400.

Ma qualcuno decide quante parole avrai per ogni argomento. Qualcuno deciderà se sarà in prima pagina o da qualche parte in fondo al giornale. O alla fine delle notizie lette alla radio o alla televisione.

Quindi, chi decide sulla gerarchia delle notizie? Cos’è importante? Cosa non lo è? Chi decide cosa sia giornalismo investigativo e cosa non lo sia?

Molto spesso mi rendo conto che se hai un’informazione ufficiale, quello viene chiamato giornalismo investigativo. Ma se tu in realtà hai informazioni direttamente dalla gente – diciamo sui pericoli di inquinamento dell’acqua a Gaza – ciò non è visto come qualcosa di serio come quando [la notizia] arriva da una fonte ufficiale.

The Listening Post: “La censura è in buona misura auto-censura” – gli inviati accettano e interiorizzano i limiti imposti dal mercato e dal potere esercitato su di loro. Ci parli di quando si è resa conto che ciò era vero e come questa consapevolezza ha influito su di lei, l’ha ispirata, l’ha frustrata.

Hass: In Israele i giornalisti non vivono ancora soggetti a una censura di Stato. C’è una censura militare ma quella non ha mai seriamente influito sul mio lavoro. Ma c’è la socializzazione. Lo si vede nei principali mezzi di comunicazione israeliani che dedicano sempre meno spazio e attenzione alla situazione dell’occupazione.

Ciò è andato peggiorando dagli accordi di Oslo. Hanno consentito alla gente di pensare che l’occupazione non esistesse. ‘Oh, ora hanno gli accordi. C’è un governo palestinese. Non c’è occupazione. Di fatto, c’è solo il terrorismo palestinese contro di noi.’ Perciò le persone hanno ancor meno interesse ad accedere a informazioni disponibili e la maggior parte dei mass media israeliani ascolta il pubblico, dà ascolto al loro desiderio di non sapere.

The Listening Post: Nel suo libro Chomsky afferma che “la ragione dell’esistenza dei mezzi di informazione è inculcare e difendere l’agenda economica, sociale e politica di gruppi privilegiati che dominano la società nazionale e lo Stato,” e lo fanno attraverso la selezione degli argomenti, la definizione dei problemi, il filtro delle informazioni e mantenendo la discussione all’interno “dei confini del consentito” nei media. Ci può parlare dello scontro con i “confini del consentito” nel contesto in cui lavora?

Hass: Sono fortunata per aver lavorato in un giornale israeliano il cui editore e proprietario è liberale nel vero senso della parola ed è anche decisamente contrario all’occupazione israeliana. Perciò ho la libertà che penso che non hanno i miei colleghi che informano su questo in altri giornali e in altri mezzi di comunicazione, che potrebbero anche essere contrari alle politiche israeliane.

Credo che, venendo dalla sinistra, dalla mia famiglia, dal mio contesto, mi sono abituata ad essere respinta. Ma ho insistito e sono anche fortunata perché c’è una comunità molto importante, non molto grande ma molto decisa, di attivisti anche israeliani contro l’occupazione e contro le politiche israeliane in generale, politiche israeliane colonialiste – forse questo è un termine migliore di occupazione.

The Listening Post: Sono passati trent’anni dalla pubblicazione di “La fabbrica del consenso”. Perché oggi è ancora importante?

Hass: Sono importanti, il libro ed il concetto sono importanti perché offrono ad ogni giornalista una sorta di faro. Sono importanti perché vediamo come nel corso degli anni i magnati hanno preso sempre più il controllo di sempre più mezzi di comunicazione, di imprese e piattaforme mediatiche.

Notizie che sono considerate degne di essere stampate non sono necessariamente quelle che sono positive per la gente e per l’opinione pubblica. Perciò il libro fa appello allo scetticismo delle persone e ciò è sempre importante. Tuttavia, come ho detto prima, oggi il problema è che la gente non è interessata a quello che non serve immediatamente ai suoi interessi. E questa è una constatazione molto triste.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I media USA su Israele: la libertà di stampa che non c’è mai stata

Belen Fernandez

Martedì 2 maggio 2017 Middle East Eye

L’America è il bastione della libertà di stampa? Nel Giorno della Libertà di Stampa nel Mondo, questo concetto crolla quando si tratta di Israele.

Mercoledì 3 maggio segna il “Giorno della Libertà di Stampa nel Mondo”.

Qualcuno vedrà sicuramente la ricorrenza come uno scherzo, dato che l’attuale capo del cosiddetto “mondo libero” è un presidente degli USA impegnato a fare la guerra ai media.

Ma, benché possa sembrare che Donald Trump costituisca un allontanamento dalla normalità in una Nazione che si è così accuratamente presentata come un bastione della libertà di stampa, di pensiero, di espressione e di tutte quelle belle cose, i media USA non sono mai stati propriamente liberi.

In fondo, oltre a svolgere regolarmente un ruolo da ragazze pon pon a favore delle conquiste militari e imprenditoriali, i mezzi di informazione americani hanno anche rispettato una persistente linea rossa: criticare Israele, l’adorabile democrazia-che-non-lo-è del Medio Oriente.

Prendiamo in considerazione un aneddoto raccontato da Thomas Friedman, del “New York Times”, egli stesso un convinto sionista, a cui tuttavia è capitato di parlare di bombardamenti israeliani “indiscriminati” su Beirut ovest in un articolo del 1982 – quando l’invasione israeliana del Libano uccise circa 20.000 libanesi e palestinesi, la stragrande maggioranza dei quali civili.

Come racconta lo stesso Friedman, la sua redazione eliminò il termine “indiscriminati”, dopodiché egli scrisse una nota accusandola di vigliaccheria. A.M. Rosenthal, ex-direttore esecutivo del “Times”, allora “esplose contro l’insubordinazione (di Friedman)” e lo convocò in termini minacciosi ad un incontro, che finì per essere un “pranzo lungo ed emotivo, con lacrime da entrambe le parti” e un aumento di stipendio di 5.000 dollari per Friedman.

Il pranzo culminò con un “caldo abbraccio” di Rosenthal e l’avvertenza: “Ora ascoltami, tu, piccolo astuto: non rifarlo mai più.”

Lezione imparata. Alla faccia dei 20.000 morti.

Non è mai stato pubblicato”

Per inciso, il 1982 ha rappresentato un raro picco nella libertà di stampa riguardo ad Israele – si potrebbe dire una momentanea mini-glasnost.

In un recente messaggio mail, l’ex capo corrispondente per il Medio oriente di “ABC News” [rete televisiva statunitense, ndtr.] Charles Glass mi ha spiegato che “non ci fu nessun inviato americano che sia stato in Libano negli anni ’70 e ’80 che non abbia dovuto lottare con i suoi editori e direttori negli USA ”sui reportage a proposito del comportamento di Israele nella regione.

Una finestra (di informazione critica) fu aperta subito dopo Sabra e Shatila nel settembre 1982 – i tre giorni di massacri appoggiati da Israele di alcune migliaia di rifugiati palestinesi a Beirut – ma si richiuse subito dopo.”

Un esempio emblematico: nel 1984, Glass inviò un reportage per “ABC News” sugli squadroni della morte israeliani nel sud del Libano – un argomento senza dubbio degno di nota, in particolare alla luce dei considerevoli flussi finanziari USA verso Israele.

Quell’articolo non è mai stato pubblicato, anche se nessuno mi ha detto perché,” ricorda Glass. “L’articolo era attendibile, (con) molti testimoni oculari, anche dell’ONU, e con prove scientifiche.”

Dopo essere stato continuamente rimandato da un editore a New York con la scusa di notizie più urgenti, il reportage venne alla fine scartato del tutto perché “non più attuale”.

Nel frattempo, l’effimera mini-glasnost del 1982 aveva prodotto negli USA una massa di censure ancora più aggressive. Il sito web del “Committee for Accuracy in Middle East Reporting in America” [Comitato per l’Accuratezza nell’informazione sul Medio Oriente in America] (CAMERA), un gruppo islamofobo fondato quell’anno a Washington, sottolineò di essere nato in risposta “a come il “Washington Post” aveva informato dell’incursione israeliana in Libano e alla complessiva parzialità anti israeliana del giornale.”

Naturalmente, questa è gente che – se ci si impegnasse — riuscirebbe a trovare “pregiudizi contro Israele” persino in Benjamin Netanyahu.

Asserviti alla propaganda

Attualmente un esame accurato del sito web “CAMERA” fornisce una valanga di prevedibili titoli come “CAMERA induce la redazione del ‘New York Times’ a una correzione”, “CAMERA suggerisce alla NPR [radio pubblica nazionale USA, ndtr.] una rettifica sulla richiesta di annessione”, “La versione di Vogue per giovani promuove la narrazione palestinese per i lettori adolescenti”, “CAMERA suggerisce al ‘Washington Post’ una correzione su ‘Gaza occupata’”, “ Il “Christian Science Monitor [quotidiano statunitense con una rubrica religiosa quotidiana, ndtr.] mente in merito ad Israele”, e così di seguito.

E CAMERA, vale la pena ripeterlo, è solo uno del miscuglio di organizzazioni ed individui che spendono denaro ed influenza in giro per associare la minima critica delle atrocità israeliane con l’antisemitismo e per impedire comunque una discussione ragionata.

Ricordiamo una delle principali atrocità attuali: l’assassinio nel 2014 da parte di un raid aereo israeliano di quattro giovani palestinesi che giocavano a pallone sulla spiaggia di Gaza – una controprova dell’attacco di 50 giorni da parte di Israele che alla fine ha eliminato 2.251 vite palestinesi, 551 delle quali di bambini.

Il relativo titolo del “New York Times” ha affermato: “Ragazzi ritratti sulla spiaggia a Gaza e nel centro del conflitto mediorientale”. E’ più o meno l’equivalente di “Uomo va a sbattere contro una pallottola, e con le sue domande esistenziali,” oppure “Maiale si materializza sotto il coltello del macellaio, sollevando problemi epocali sulla gerarchia nella catena alimentare.”

Lo concediamo, il titolo del “Times” avrebbe potuto essere anche peggiore se il giornale avesse ripreso più letteralmente le tradizioni del portavoce israeliano – ad esempio: “Maiale lancia efferato attacco contro coltello da macellaio e viene ucciso per auto-difesa.”

Durante una comparsa su “Democracy Now!” [programma statunitense di notizie in tv, radio e internet di un’ora e di orientamento progressista, ndtr.] nel bel mezzo della guerra del 2014, Noam Chomsky ha criticato duramente i media americani per la loro diligente riproduzione della linea israeliana: “Non abbiamo bisogno di ascoltare la CBS, perché possiamo ascoltare direttamente le agenzie di propaganda israeliane…è un momento vergognoso per i media USA, dato che continuano ad essere asserviti ai grotteschi servizi della propaganda di uno Stato violento e aggressivo.”

Questa vergogna naturalmente riguarda anche l’establishment governativo degli USA , che ha accuratamente coltivato la propria predilezione per la grottesca violenza e che trova una notevole quantità di vantaggi politici ed economici nelle politiche israeliane di saccheggio omicida.

E il “Giorno della Libertà di Stampa nel Mondo” è il momento più adeguato per riflettere su ciò.

  • Belen Fernandez è l’autrice de “Il messaggero imperiale: Thomas Friedman al lavoro”, edito da Verso. E’ autrice e scrittrice della rivista “Jacobin” [quadrimestrale statunitense di sinistra, ndtr.]

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi]