No Other Land: un duo di registi israeliano e palestinese lotta per denunciare l’apartheid mentre a Gaza infuria la guerra

Alex MacDonald

26 novembre 2024  Middle East Eye

Middle East Eye parla con Yuval Abraham e Basel Adra di minacce di morte, attacchi di squadracce e antisemitismo

A un certo punto del loro premiato documentario No Other Land il regista palestinese Basel Adra dice al suo co-regista israeliano Yuval Abraham di essere convinto che basteranno 10 giorni per scrivere e girare e avranno finito, e gli dice che è troppo impaziente di vedere la fine dell’occupazione della Cisgiordania da parte del suo Paese.

“Abituati a sbagliarti,” dice Adra, sardonicamente, ad Abraham, mentre girano in macchina per Masafar Yatta, un agglomerato di villaggi a sud di Hebron dove si trova casa sua. “Sei un fallito.”

Nel 2024, dopo 57 anni di occupazione israeliana della Cisgiordania e oltre tre quarti di secolo dopo la Nakba, la ‘catastrofe’ che ha visto la cacciata dalle loro case di oltre 700.000 palestinesi, sembra più difficile che mai credere che un altro articolo, un rapporto o un documentario possano finalmente spingere il mondo ad agire.

No Other Land è disseminato di filmati risalenti all’infanzia di Adra che riprendono il padre attivista fronteggiare i soldati e i coloni israeliani esattamente come avrebbe poi fatto suo figlio.

Sebbene possa sembrare difficile che il documentario, girato nel corso di cinque anni fino all’ottobre 2023, sarà la goccia che farà finalmente traboccare il vaso dell’occupazione, ha certamente suscitato forti reazioni, sia positive che negative.

Abraham e Adra, rispettivamente a Gerusalemme e a Masafer Yatta, hanno detto a Middle East Eye che è stato difficile gestire le ripercussioni seguite al loro film. “Mi hanno sorpreso le reazioni in Germania,” ha detto Abraham.

” La Germania dice di sostenere Israele e gli israeliani, ma in realtà sta sostenendo gli israeliani che credono nella continuazione dell’occupazione e che, in un certo senso, ripetono le politiche dei loro governi.”

A febbraio i due registi hanno vinto il premio per i documentari al film festival della Berlinale; nel discorso di accettazione Abraham ha citato le leggi dell’”apartheid” che lo segregano dal suo co-regista invocando la fine dell’occupazione.

Per tutta risposta vari politici tedeschi hanno bollato i suoi commenti come “antisemiti”, dopo di che ha ricevuto minacce di morte e squadracce di estrema destra hanno attaccato la casa della sua famiglia in Israele.

In seguito il portale ufficiale online della Berlinale ha citato le ” tendenze antisemite” di No Other Land sebbene il commento sia poi stato rimosso.

Abraham ha detto che in Germania l’ossessiva repressione dei comportamenti filo-palestinesi sta rendendo sempre più difficile la vita per israeliani ed ebrei come lui che vogliono vedere la fine dell’attuale guerra a Gaza.

“Questa visione semplicistica su cosa significhi sostenere gli israeliani o il popolo ebraico… diplomaticamente, finanziariamente, significa continuare a fare quello che mostriamo nel film, cioè continuare a operare per impedire uno Stato palestinese.

Credo che abbiano agito non solo contro i palestinesi, ma anche contro gli israeliani perché considero i due popoli connessi e credo che la sicurezza sarà sempre uno sforzo comune,” dice.

‘Una storia di potere’

Tuttavia la controversia all’uscita del film ha solo accresciuto l’interesse per i suoi protagonisti, gli abitanti di Masafer Yatta.

Per decenni le autorità israeliane hanno cercato di sfrattare circa 1000 palestinesi residenti a Masafer Yatta per creare una “zona di tiro” militare, un campo di addestramento per l’esercito israeliano. 

Le loro case sono situate nell’Area C della Cisgiordania che resta sotto la totale autorità di Israele ed è costellata di colonie, illegali ai sensi del diritto internazionale, i cui abitanti attaccano regolarmente i palestinesi, vandalizzando case e veicoli e sparandogli contro.

Adra ha detto che dopo le controversie in Germania ha organizzato un’importante proiezione del film nel suo villaggio natale.

“Volevano veramente vederlo dopo tutte le storie su quello che era successo alla Berlinale, gli attacchi contro di me e contro Yuval da parte dei media israeliani e tedeschi,” ha detto.

“A marzo abbiamo fatto un’importante proiezione nel cortile della scuola con una grande affluenza di centinaia di persone della comunità, giornalisti e attivisti solidali.”

Adra ha detto che, oltre a vedere la loro lotta sullo schermo, l’esperienza è stata piena di nostalgia per molti degli anziani che vedevano i vecchi filmati ripescati dagli anni ‘90.

Un momento particolarmente memorabile era stata la visita nel 2009 dell’ex primo ministro britannico Tony Blair nella sua qualità di inviato di pace In Medio Oriente. All’epoca la sua visita, vista con scetticismo dal padre di Adra, aveva garantito la sospensione della distruzione di uno dei villaggi a Masafer Yatta.

Seguendo la visita Adra commenta fuoricampo “questa è una storia di potere”.

“Oggi siamo delusi,” ha detto a MEE.

Le immagini del massacro a Gaza sono ovunque mentre anche la Cisgiordania occupata ha subito un intensificarsi di attacchi dei coloni e dell’esercito israeliano, inclusi attacchi aerei – un’escalation che ha causato centinaia di morti.

“Eppure governi come quelli di Regno Unito, USA e Germania continuano a difendere Israele, sostenendolo e appoggiandolo,” ha detto Adra.

“Sono complici di occupazione, apartheid e genocidio a Gaza.”

“Fede” nel cinema

Per gli abitanti la lotta per proteggere le proprie case è stata sfinente e costosa, finanziariamente e fisicamente.

Una figura centrale del film è Harun Abu Aran, un abitante del villaggio rimasto completamente paralizzato quando un soldato gli sparò al collo mentre tentavano, inspiegabilmente, di confiscare un generatore.

Sua madre ha sempre cercato di accudirlo dentro la grotta in cui vivevano, occupandosi delle visite di giornalisti stranieri curiosi, lamentandosi delle condizioni inadeguate in cui era costretta a prendersene cura.

In coincidenza con la fine del film Abu Aran è morto per le ferite riportate.

“Porto una telecamera con me da quando ero un ragazzino… per filmare le prove, mostrarle e farle pubblicare,” ha detto Adra a MEE.

Ha detto che si è aggrappato alla “fede”, che se continuava a registrare e produrre le prove in modo che tutto il mondo vedesse, qualcuno finalmente avrebbe fatto qualcosa, che gli USA sarebbero riusciti a fare pressione su Israele.

Il 7 ottobre, poco dopo la fine delle riprese, c’è stato l’attacco di Hamas nel sud di Israele con l’uccisione di circa 1200 persone e la cattura di centinaia di israeliani portati come ostaggi a Gaza.

In risposta Israele ha lanciato un attacco devastante contro la Striscia di Gaza, uccidendo oltre 44.000 persone, causando lo sfollamento praticamente di tutta la popolazione e facendo sprofondare l’enclave nella fame, distruzione e disperazione.

“Per tutto lo scorso anno abbiamo guardato il genocidio in diretta sui nostri cellulari con tutti i video provenienti da Gaza e dalla Cisgiordania… la situazione sul campo non fa che peggiorare,” ha detto Adra.

“E agli israeliani non importa delle pressioni internazionali, del diritto internazionale perché, sfortunatamente, gli USA li sostengono.”

La vita sta diventando più difficile anche per Abraham che fa parte del sempre più sparuto numero di israeliani che sostengono i diritti dei palestinesi, sgomento nell’assistere al fervore ultra-nazionalista e irredentista che ha sommerso il Paese in cui nessuna cifra di morti palestinesi sembra suscitare alcuna simpatia.

“Una sinistra israeliana c’è, al momento non rappresentata politicamente ed è molto piccola e sempre più perseguitata dal governo. Dal 7 ottobre lo spazio per le critiche si è veramente ristretto,” ha spiegato.

I recenti mandati di arresto emessi dalla Corte Penale Internazionale (CPI) contro Netanyahu e l’ex ministro della difesa Yoav Gallant sono stati pesantemente condannati in Israele, non solo dagli alleati politici ma anche dai leader all’opposizione.

Perfino Yair Golan, leader dei Democratici (una fusione del Partito laburista e di Meretz, di centro sinistra), li ha bollati come “vergognosi.”

“Io penso che la gente, specialmente nei paesi occidentali, voglia aggrapparsi alla speranza che se solo si sostituisse Netanyahu tutto migliorerebbe e ci sarebbe una soluzione politica, la soluzione dei due Stati, qualsiasi cosa,” ha detto Abraham.

“I partiti israeliani non sono intenzionati a esprimere neppure un minimo di critica verso il loro esercito nonostante la più alta Corte del mondo abbia definito crimini di guerra contro l’umanità le loro operazioni militari.”

Un atto di resistenza dall’interno

Masafer Yatta continua a respingere i tentativi di Israele per cancellarne l’esistenza. “È la nostra terra… ecco perché soffriamo per essa,” sono le parole di uno degli abitanti.

Lo scorso anno ha visto un’esplosione di violenza da parte dei coloni in Cisgiordania e Masafer Yatta non ha fatto eccezione.

Nel corso del weekend i coloni avrebbero attaccato la casa di un attivista locale nel villaggio di Tiwani e aggredito i suoi famigliari, ferendone due.

I soldati israeliani sono poi arrivati e invece di prendere di mira i coloni hanno sequestrato l’attivista.

Il film di Abraham e Adra presenta la Palestina alla vigilia di quella che è indubbiamente stata la maggiore crisi per i palestinesi dal 1967.

E con uno spazio per la resistenza palestinese che si è ridotto in Israele, nei territori occupati e, a quanto pare, anche in quasi tutto il resto del mondo, No Other Land sta combattendo un’ardua battaglia.

“Per noi il film è un atto di resistenza dall’interno e appena l’abbiamo finito volevamo farlo vedere il prima possibile,” conclude Adra.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Tutta la storia delle ingiustizie del sionismo in un solo villaggio beduino

Orly Noy

20 novembre 2024 – +972 Magazine

In collaborazione con LOCAL CALL

La distruzione di Umm Al-Hiran esemplifica la visione sionista dei palestinesi come transitori; pedine di scacchi movibili in un gioco di ingegneria demografica.

La settimana scorsa lo Stato di Israele ha appeso alla sua cintura lo scalpo di un’altra comunità palestinese portando a termine la demolizione di Umm Al-Hiran. La mattina del 14 novembre centinaia di poliziotti hanno preso d’assalto il villaggio beduino – situato nel deserto del Negev/Naqab nel sud di Israele – accompagnati da ufficiali delle forze speciali ed elicotteri. Gli abitanti, cittadini israeliani che hanno a lungo temuto che ciò accadesse, avevano già distrutto essi stessi la maggior parte delle strutture nel villaggio, per evitare di dover pagare multe salate. Ciò che è rimasto da distruggere alla polizia era la moschea.

E così 25 anni di battaglie legali per salvare il villaggio sono finite e gli abitanti sono rimasti senza casa. Se si vuole capire l’intera storia delle ingiustizie del sionismo contro i palestinesi – con tutte le discriminazioni, il razzismo, le espropriazioni e la violenza radicate in una visione di supremazia ebraica e in una concomitante ossessione per la questione demografica – non c’è bisogno di guardare più in là di Umm Al-Hiran.

Nel discorso ebreo-israeliano la distruzione di una comunità beduina a malapena fa alzare un sopracciglio, non parliamo di meritare titoli di giornali. Dopotutto era un “villaggio non riconosciuto” – un espediente linguistico che Israele utilizza per dipingere i cittadini beduini come invasori nelle loro stesse terre. Il pubblico israeliano percepisce la distruzione sistematica di queste comunità come una mera repressione di trasgressori. Ma gli abitanti di Umm Al-Hiran non solo non erano invasori, ma sono stati trasferiti là dallo Stato stesso.

Prima della nascita di Israele gli abitanti della comunità diventata Umm Al-Hiran vivevano nel nordovest del Negev. Nel 1952 il governo militare di Israele li trasferì con la forza più ad est, per espropriare la loro terra per la costruzione del Kibbutz Shoyal. Quattro anni dopo lo Stato decise di sradicarli nuovamente, spingendoli in una zona appena all’interno della Linea Verde, vicina all’estremità sudoccidentale della Cisgiordania, dove sono rimasti fino alla settimana scorsa.

In tutti questi decenni lo Stato non si è preoccupato di regolarizzare lo status del villaggio. Non ha fornito agli abitanti infrastrutture o servizi basilari come elettricità, acqua, educazione o impianti igienici. Questa è l’indecente immoralità del sionismo: privare gli abitanti palestinesi del Negev delle più elementari condizioni di vita per generazioni, per rimpiazzarli un giorno con una comunità ebraica in nome del “far fiorire il deserto”.

Il Negev costituisce più della metà del territorio dello Stato di Israele e vaste aree di esso sono vuote. Eppure lo Stato insiste nel distruggere villaggi arabi “non riconosciuti” per costruirne di nuovi ebraici. Nel caso di Umm Al-Hiran la nuova comunità originariamente doveva recare la versione ebraicizzata del nome del villaggio che stava rimpiazzando: Hiran. Qualcuno ha pensato di meglio e adesso verrà chiamata Dror – “libertà”.

Ovviamente non è una novità. Israele ha distrutto le comunità palestinesi e ha insediato ebrei al loro posto fin dalla sua fondazione. Solo nel corso della Nakba del 1948 ha spopolato centinaia di città e villaggi palestinesi. Ma la storia di Umm Al- Hiran presenta un altro aspetto dell’atteggiamento di Israele verso i palestinesi, che è essenziale per comprendere il modus operandi del sionismo: la percezione della presenza dei palestinesi come provvisoria.

Questa è una delle più violente espressioni della supremazia ebraica. I palestinesi sono visti come polvere umana che può essere semplicemente spazzata via, o come pedine di scacchi che possono essere spostate da un quadrato all’altro secondo l’eterno progetto di Israele di ingegneria demografica tra il fiume e il mare. E’ un aspetto essenziale della disumanizzazione di coloro sulle cui terre lo Stato ha posto le mire: la convinzione profonda che queste persone non abbiano radici e perciò spostarle da una parte all’altra non possa assolutamente essere considerato una rimozione.

In tal modo è possibile continuare ad ignorare le rivendicazioni degli abitanti dei villaggi della Galilea Iqrit e Bir’em, dopo più di mezzo secolo da quando l’Alta Corte ha sentenziato che deve essere loro permesso ritornare alle loro terre da cui furono espulsi durante la Nakba; è possibile condurre una vasta pulizia etnica in Cisgiordania col pretesto della sicurezza e della legalità; è possibile ordinare a centinaia di migliaia di abitanti di Gaza di evacuare ancora e ancora e ancora, trasformandoli in eterni nomadi come progettato dal sionismo – e, in cima a tutto ciò, considerare questo un atto umanitario.

L’ingegneria demografica del sionismo non si limita ai palestinesi. La storia di Givat Amal, un quartiere mizrahi (ebrei orientali, provenienti da Medio Oriente e Maghreb, ndtr.) di Tel Aviv che è stato sgomberato con la forza e demolito nel 2021, presenta molti parallelismi con la storia di Umm Al-Hiran: anche là lo Stato ha costretto una comunità emarginata a spostarsi in una zona di frontiera, non ha mai regolarizzato il suo status o i diritti alla terra e appena il valore del terreno è aumentato ha espulso gli abitanti per avidità. Intanto i “comitati di ammissione” approvati dallo Stato continuano a sostenere l’apartheid in centinaia di comunità ebree nel Negev e in Galilea, garantendo che le “persone giuste” vivano nei posti giusti.

Ma sono stati i palestinesi ad essere trasformati dal sionismo in un popolo precario con un’identità transitoria. E’ questo l’assunto che sta alla base del piano di scambio di terre sostenuto dieci anni fa da Avigdor Liberman, che contemplerebbe il trasferimento di parecchie comunità palestinesi all’interno di Israele in Cisgiordania insieme all’annessione da parte di Israele di alcuni insediamenti coloniali: oggi i palestinesi possono essere cittadini di Israele, ma domani, muovendo un dito, possono smettere di esserlo. (Liberman, un tempo considerato all’estrema destra della politica israeliana, è recentemente diventato una specie di eroe del centro-sinistra).

Forse ciò su cui poggia questa determinazione sionista di strappare i palestinesi dai loro luoghi è una paura interiorizzata del loro legame profondo con la terra. Forse è l’illusione che se vengono sradicati e scacciati da un posto all’altro un numero sufficiente di volte – vuoi con le marce della morte a Gaza, la pulizia etnica in Cisgiordania, o la distruzione e l’espulsione nel Negev – alla fine si arrenderanno e se ne andranno.

Otto anni fa il leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid ha scritto un tributo al movimento Hashomer Hachadash, in cui ha detto che “un uomo che pianta un albero non andrà da nessuna parte”. C’è qualcosa di notevole nei modi in cui a volte il subconscio fuoriesce dalla penna, a dispetto della persona che la impugna. Dopotutto lo Stato sa esattamente chi ha piantato gli ulivi che l’esercito bombarda a Gaza e i coloni bruciano in Cisgiordania. Ma anche dopo decenni di distruzioni, espulsioni e carneficine il sionismo rifiuta di accettare che non se ne andranno da nessuna parte.

Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa Farsi. E’ capo del consiglio esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti si occupano delle linee di intersezione e definizione della sua identità come mizrahi, donna di sinistra, donna, migrante temporanea che vive entro un’incessante migrazione, e il costante dialogo tra di esse.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Uno sguardo sulla guerra di Israele contro gli attivisti stranieri che aiutano i palestinesi in Cisgiordania

Hagar Shezaf

17 novembre 2024 – Haaretz

Nell’ultimo anno il ministro della sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir ha iniziato a mettere in pratica una politica di espulsione degli attivisti stranieri filo-palestinesi, molti dei quali americani, con una serie di pretesti. Il risultato: un picco nel numero di attivisti costretti ad andarsene

Quando circa un mese fa l’attivista americano per i diritti umani Jaxson Schor, 22 anni, è stato arrestato in Cisgiordania, non capiva cosa stesse succedendo. Quella mattina era uscito con diversi altri attivisti stranieri per aiutare i palestinesi a raccogliere le olive vicino al villaggio di Qusra nella zona di Nablus quando all’improvviso i soldati lo hanno chiamato. “Mi hanno detto ‘Ciao, ciao’ e mi hanno chiesto il passaporto”, ricorda. “Gliel’ho dato e ho chiesto se c’era un qualche problema”.

I soldati gli hanno detto che non gli era permesso stare lì. “È stato molto surreale”, aggiunge, e descrive il seguito di una lunga giornata caratterizzata da interrogatori in una stazione di polizia, accuse di essere “un sostenitore di Hamas”, umiliazioni da parte della polizia e un’udienza presso la Population and Immigration Authority [Autorità su Popolazione e Immigrazione, ndt.]. Al termine della disavventura il suo visto e quello di un altro attivista arrestato insieme a lui sono stati revocati. E così i due stranieri venuti in Israele con l’intento di fare volontariato con i palestinesi si sono ritrovati espulsi dal Paese.

Non sono gli unici. L’anno scorso sempre più attivisti stranieri giunti per fare del volontariato con i palestinesi sono stati espulsi. I dati ottenuti da Haaretz mostrano che dall’ottobre 2023 almeno 16 di questi attivisti sono stati estradati da Israele dopo essere stati arrestati in Cisgiordania con l’accusa di varie violazioni.

L’avvocato Michal Pomeranz, che ha rappresentato alcuni degli attivisti espulsi, afferma che c’è stato un aumento del numero di arresti di volontari stranieri con falsi pretesti, nel tentativo di fare pressione su di loro affinché se ne andassero. “La situazione non è sorprendente alla luce del carattere dei decisori al governo, ma è esasperante”, afferma Pomeranz. “È inquietante e basata su analisi fittizie”.

Non è un caso che il numero di espulsioni sia aumentato, è anzi il risultato di una politica dichiarata del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir che viene realizzata sul campo tramite una stretta cooperazione tra l’esercito, la polizia e la Population and Immigration Authority. Nel quadro di tale politica negli ultimi mesi Ben-Gvir ha ordinato che gli attivisti stranieri vengano interrogati presso l’Unità Centrale di Polizia di Giudea e Samaria [denominazione israeliana della Cisgiordania occupata, ndt.], incaricata dei crimini gravi nel distretto di polizia che controlla i territori della Cisgiordania.

Parallelamente la sottocommissione della Knesset per la Giudea e la Samaria, guidata dal parlamentare Tzvi Succot (Partito del Sionismo Religioso), si è occupata ampiamente e approfonditamente della questione. Negli ultimi mesi la sottocommissione ha dedicato almeno cinque sessioni alla questione e ha invitato a partecipare rappresentanti dell’esercito e della polizia. Secondo Succot in queste sessioni i rappresentanti dell’esercito hanno riferito che ai soldati è stato chiesto di fotografare gli attivisti e i loro passaporti e di consegnare gli attivisti o la loro documentazione alla polizia.

La collaborazione fattiva dell’esercito è fondamentale, poiché sono i soldati che, per la maggior parte, eseguono gli arresti sul campo. Un documento ottenuto da Haaretz indica che l’esercito non esita a mettere in pratica la visione di Ben-Gvir e Succot. Nel documento, una lettera del GOC [comandante generale dell’esercito) Avi Bluth inviata dal Comando Centrale a una coalizione di organizzazioni di sinistra chiamata Olive Picking Partners Forum [forum degli attivisti volontari nella raccolta delle olive, ndt.], si afferma esplicitamente che “Il Comando Centrale impedirà e farà rispettare [sic] l’ingresso di attivisti stranieri che arrivano nei siti di raccolta delle olive con l’obiettivo di creare attriti”. In risposta a una domanda di Haaretz il portavoce dell’esercito israeliano ha negato che ci siano istruzioni ai soldati di arrestare gli attivisti stranieri.

Nel frattempo sembra che la collaborazione sia produttiva: la polizia riferisce che dall’inizio di quest’anno sono stati indagati 30 attivisti stranieri. Secondo i dati ottenuti da Haaretz, la maggior parte di coloro che sono stati espulsi sono stati interrogati con l’accusa di aver commesso reati minori come ostacolare un agente di polizia o un soldato durante lo svolgimento dei suoi doveri o la disobbedienza a un ordine in un’area militare interdetta. Tuttavia, alcuni sono stati indagati anche per reati più gravi come il sostegno a un’organizzazione terroristica o l’istigazione.

Dopo l’interrogatorio alcuni dei detenuti sono stati inviati a un’udienza presso la Population and Immigration Authority e successivamente espulsi, in quanto sospettati di aver commesso reati e col pretesto di violazione delle condizioni del loro visto. Altri non sono stati formalmente espulsi ma costretti di fatto a lasciare il Paese dalla polizia, che ha trattenuto i loro passaporti fino a quando non hanno presentato un biglietto aereo. In tutti i casi nella dichiarazione rilasciata sugli arresti la polizia si è assicurata di segnalarli come “anarchici”, assecondando la politica del ministro Ben-Gvir.

Sospetto: sostegno al terrorismo

Schor afferma che da quando è arrivato in Cisgiordania in agosto la maggior parte della sua attività lì consisteva nel fornire una “presenza protettiva”, ovvero accompagnare le comunità palestinesi con l’obiettivo di proteggere gli abitanti dall’esercito o dai coloni. Questo, dice, è ciò che stava facendo alla fine dell’estate quando è stato arrestato e gli è stato confiscato il passaporto. Per tre ore è stato trattenuto sul posto, mentre attivisti di destra documentavano l’arresto e dicevano agli amici di Schor che era proibito filmare o scattare foto e che lo avrebbero “buttato fuori” da Israele.

Uno di loro era Bnayahu Ben Shabbat, dell’organizzazione di destra Im Tirtzu. Alla fine è arrivata la polizia e hanno ammanettato i due volontari. Solo allora, afferma Schor, gli è stato detto che l’area era stata designata come zona militare interdetta. A quel punto è stato trasferito alla stazione di polizia, gli è stato sequestrato il cellulare e gli è stato comunicato che era in arresto con l’accusa di aver ostacolato un soldato nello svolgimento dei suoi compiti, di aver violato un ordine relativo ad un’area militare interdetta e di aver sostenuto un’organizzazione terroristica.

Durante l’interrogatorio gli è stato chiesto cosa stesse facendo in Cisgiordania, chi gli avesse indicato dove recarsi e chi fosse il “capo” della raccolta delle olive. Aggiunge che chi faceva da interprete in simultanea era inesperto e che gli ha persino urlato contro. In seguito a Schor è stato chiesto se avesse partecipato a una manifestazione di Hamas contro Israele, e ha risposto negativamente. Mi hanno detto che stavo mentendo e che ero venuto per combattere gli ebrei e per svolgere azioni terroristiche e che mi avrebbero cacciato dal Paese”, racconta. “Mi hanno chiesto più e più volte se stessi combattendo contro gli ebrei”.

Dopo di che hanno mostrato a Schor quattro sue fotografie. Dice che una di queste era stata scattata da un soldato, un’altra da un colono, una terza era stata presa da un social network e la quarta da un sito di notizie che aveva pubblicato la documentazione di una manifestazione a Ramallah a cui aveva partecipato qualche giorno prima. Ciò ha suscitato il sospetto che fosse stato pedinato anche prima del suo arresto. Alla fine dell’interrogatorio, racconta Schor, un poliziotto gli ha chiesto se fosse un anarchico e se fosse ebreo e gli ha detto: “Noi c’eravamo prima di te e Israele starà qui dopo di te”, e poi ha aggiunto: “Ti butteremo fuori da Israele per sempre”.

Dalla stazione di polizia Schor e l’altro attivista arrestato con lui sono stati portati per un’udienza presso la Population and Immigration Authority, dove i loro visti sono stati revocati. Nell’ultimo anno altri tre attivisti sono stati espulsi da Israele con una procedura simile, in seguito ad un’udienza ufficiale presso l’Authority. Ad altri sette è stato confiscato il passaporto dalla polizia, ed è stato restituito solo dopo la presentazione di un biglietto aereo; a tre è stato offerto il rilascio durante l’indagine a condizione che lasciassero il Paese e a uno, un ebreo britannico di nome Leo Franks, non è stato rinnovato il visto. Successivamente il suo passaporto è stato confiscato e la procedura che aveva iniziato per l’aliyah, l’immigrazione in Israele, è stata bloccata.

Una condotta simile si ritrova anche nella trascrizione dell’udienza di un attivista inglese espulso ad aprile, arrestato a Masafer Yatta in Cisgiordania con l’accusa di aver violato un divieto relativo ad un’area militare interdetta e di aver ostacolato un soldato nello svolgimento dei suoi compiti. Durante l’udienza all’attivista è stato chiesto perché fosse venuto in Israele insieme alle seguenti domande: “Hai visto che Israele sta attaccando i palestinesi e sei venuto per questo?” “Perché sei andato in giro con una macchina fotografica e hai scattato foto ai soldati? Ci sono delle ragioni particolari?” “Vuoi documentare gli attacchi dei soldati contro i palestinesi?”

Secondo l’avvocato Pomeranz, la Population and Immigration Authority non era tenuta ad accettare le considerazioni della polizia riguardo agli attivisti, specialmente nei casi in cui non erano stati portati in tribunale per la custodia cautelare o non erano stati incriminati. L’udienza presso l’Authority ha lo scopo di consentire loro di esporre le loro versioni e servire da premessa per giungere alla decisione se espellerli o meno.

Donne aggredite’

Gli attivisti in Cisgiordania provengono da vari Paesi, tra cui Stati Uniti, Belgio e Inghilterra: alcuni di loro affermano di aver sentito parlare per la prima volta della possibilità di andarci tramite post sui social media, altri grazie a conoscenze. I loro numeri non sono molto alti, con una stima di poche decine di arrivi ogni anno.

Il numero raggiunge il picco con l’avvicinarsi della stagione della raccolta delle olive, che è considerata a rischio. Nell’ultimo anno, affermano gli attivisti, il loro numero è cresciuto. Molti sono arrivati ​​di recente in risposta a un appello dell’organizzazione palestinese Faz3a (Fazaa), che mette in contatto gli attivisti stranieri con le comunità palestinesi minacciate. Altri sono collegati al più veterano e noto International Solidarity Movement (noto come ISM), in parte perché nel 2003 una delle sue attiviste, Rachel Corrie, è stata uccisa da un bulldozer dell’IDF nella Striscia di Gaza. Un’altra delle sue attiviste, Ayşenur Ezgi Eygi, una donna turco-americana, è stata uccisa a settembre a Beita, vicino a Nablus, dal fuoco vivo dell’esercito israeliano.

Di recente il lavoro degli attivisti stranieri in Cisgiordania si è insediato in un appartamento nel villaggio di Qusra. L’11 ottobre i soldati dell’IDF hanno sfondato la porta e perquisito il posto. Secondo gli attivisti i soldati hanno rovistato tra i loro effetti personali, fotografato i loro passaporti e arrestato un attivista palestinese residente nel villaggio. Inoltre, affermano, i soldati hanno esaminato le lettere scritte dagli attivisti che se ne erano andati.

Sebbene non siano qui da molto alcuni degli attivisti hanno già sperimentato violenze estreme. Ad esempio Vivi Chen, una residente del New Jersey giunta in Cisgiordania a luglio, afferma di aver già assistito a due aggressioni da parte di coloni che l’hanno segnata. “Sono rimasta così sorpresa perché loro [i coloni] erano ragazzi adolescenti e stavano aggredendo con tutta la loro forza donne che avrebbero potuto essere le loro madri”, afferma riferendosi ad un fatto avvenuto il 21 luglio a Qusra. Riguardo ad un altro più grave incidente racconta che cinque giovani palestinesi sono stati colpiti da proiettili veri, alcuni sparati dall’esercito.

Un’altra attivista, Lu Griffen, una siriana-americana di 22 anni, racconta che il 4 settembre, durante la sua seconda settimana in Cisgiordania, è stata violentemente aggredita dai coloni mentre accompagnava un pastore a Qusra. “Hanno iniziato a lanciarci pietre. Stavo correndo e una pietra mi ha colpito la testa e me l’ha spaccata”, racconta. Ricorda che anche dopo essere caduta i coloni hanno continuato a lanciare pietre su di lei e hanno spruzzato su di lei e gli altri dello spray al peperoncino.

Griffen spiega di essere stata attratta dall’attivismo in Cisgiordania dopo aver partecipato all’inizio di quest’anno alle proteste contro la guerra nei campus degli Stati Uniti. “È difficile spiegare come mi sento: l’indignazione, la tristezza. Qui la situazione è semplicemente sconvolgente”, dice. “Ho trascorso parte della mia vita in una zona di guerra, ma in quel momento non potevo fare nulla per il mio popolo siriano. E ora che sono abbastanza grande ho tempo, non ho figli o responsabilità che mi trattengano, non c’è niente che voglio fare di più che andare ad aiutare i palestinesi come loro ci stanno chiedendo”.

Indubbiamente però l’evento più traumatico per gli attivisti è stato l’uccisione dell’attivista turco-americana Ezgi Eygi. “All’inizio non credevo fosse morta”, ricorda Chen. “Quando è caduta e sono corsa da lei, potevo sentire il suo polso e ho detto ‘Sopravviverà’.” L’esperienza è stata particolarmente difficile, dice, a causa della diffamazione del nome e dell’attività di Ezgi Eygi. “Molti di noi hanno finito per scrivere le proprie ultime volontà come precauzione, perché vorremmo rendere le cose più facili alle nostre famiglie nel caso in cui accada qualcosa.”

Chen collega la morte di Ezgi Eygi a un incidente che l’ha preceduta nello stesso luogo: il ferimento di unattivista americana durante una manifestazione nel villaggio di Beita. “Se il governo americano avesse condannato l’uccisione di una cittadina americana in quel momento, non avrebbero avuto l’audacia di uccidere un altro straniero”, aggiunge. Secondo l’IDF, un’indagine preliminare sulla morte di Ezgi Eygi ha concluso che non sarebbe stata colpita intenzionalmente. La divisione investigativa criminale della polizia militare ha avviato un’indagine sull’incidente.

Dirgli addio’

Alcuni membri della Knesset, in particolare Tzvi Succot, hanno un problema di vecchia data con gli attivisti stranieri e sostengono che stanno causando danni allo Stato di Israele. All’interno del sottocomitato che presiede, Succot è molto impegnato nelle misure contro gli attivisti. “La legge afferma che chiunque entri nel Paese e violi i termini del suo visto può essere espulso”, dice ad Haaretz. “Quei ragazzi sono un danno strategico. In definitiva, le campagne contro Israele e le sanzioni provengono da loro. E quindi, quando vengono e molestano i soldati o entrano in un’area militare interdetta o commettono la più piccola infrazione, lo Stato di Israele deve dire loro addio/congedarli“.

Durante la conversazione con Haaretz Succot ha continuato a ripetere che il suo problema con gli attivisti consiste nel fatto che starebbero promuovendo un boicottaggio contro Israele. La sua argomentazione si basa sulla legge sull’ingresso in Israele del 2017, che proibisce di concedere un visto a chiunque promuova un boicottaggio dello Stato.

Nel frattempo Succot afferma di stare attualmente lavorando a una legislazione con l’obiettivo di istituire un’organizzazione statale che monitorizzi gli attivisti stranieri mentre sono in Israele e decida la loro espulsione nel caso che dopo il loro ingresso si scopra che abbiano fatto degli appelli al boicottaggio. “Al momento questo non sta accadendo, e quindi la soluzione tampone in questo momento è che se qualcuno viola le condizioni del visto, la legge consente di revocarlo”, aggiunge.

Il monitoraggio degli attivisti durante la loro permanenza in Israele, afferma, è attualmente svolto da organizzazioni civili senza scopo di lucro. Afferma che il recente aumento dell’attività sulla questione è il risultato di un coordinamento rafforzato tra l’IDF, la polizia e il Ministero dell’Interno. “Un soldato sul campo che incontra qualcuno del genere che violi la legge sa di dover registrare i suoi dati personali e il suo passaporto e inviarli alla polizia e poi al Ministero dell’Interno. Da lì, spiega, il passo verso la revoca del visto o l’espulsione dal Paese è breve.

La questione del boicottaggio è emersa nell’inchiesta sull’attivista Michael Jacobsen, 78 anni, dello Stato di Washington. Dopo la sua espulsione Succot ha rilasciato un comunicato stampa di encomio in cui ha ringraziato, tra gli altri, un’organizzazione non-profit chiamata The Legal Forum for the Land of Israel. Il 10 ottobre Jacobsen, che ha militato nell’esercito americano durante la guerra del Vietnam, stava accompagnando un palestinese che pascolava un gregge a Masafar Yatta. Ricorda che un soldato che ha identificato come colono gli ha chiesto il passaporto e poi gli ha detto che era ricercato dalla polizia. “Ha chiesto: ‘sei un membro dell’ISM [International Solidarity Movement]’, e io ho detto di no. E poi ha chiesto ‘sei un ebreo?’ e io ho detto di no, e lui [ha chiesto] ‘sei un terrorista?’ E io ho detto ‘no, sono un turista”.

Jacobsen è stato arrestato e portato alla stazione di polizia. Afferma che durante il tragitto ha cercato di scoprire perché lo stavano arrestando, ma non ha ricevuto informazioni. “Mi hanno detto che ero un terrorista perché ero un membro del BDS”, ha aggiunto, riferendosi al movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni. Alla stazione di polizia è stato interrogato con l’accusa di aver ostacolato un agente di polizia nell’adempimento dei suoi doveri e di soggiorno illegale, un sospetto basato sull’accusa attribuitagli di sostegno al boicottaggio. “Chi ha condotto l’interrogatorio è stato molto borioso e maleducato con me”, racconta. “Ha detto che ero coinvolto in cinque diverse organizzazioni terroristiche”, ha continuato Jacobsen, citando le cinque come IHH Humanitarian Relief Foundation, Meta Peace Team, International Solidarity Movement, BDS e MPT.

Jacobsen afferma che Meta Peace Team è un’organizzazione di attivisti che gli ha fornito una formazione sulla resistenza non violenta, mentre IHH è un’organizzazione ombrello sotto la cui egida ha partecipato nell’aprile di quest’anno alla flottiglia verso Gaza per portare cibo e attrezzature mediche nella Striscia. Durante l’interrogatorio gli è stata anche mostrata la documentazione sulla sua attività presso Veterans for Peace in Corea del Sud, dove ha lavorato con i dimostranti contro l’istituzione di una base navale. Alla fine dell’interrogatorio gli è stata data una scelta. Poteva rimanere in stato di arresto o poteva essere inviato al confine con la Giordania. Ha scelto di andarsene, senza [partecipare ad] un’udienza presso la Population and Immigration Authority e senza sapere se sarebbe mai potuto tornare in Israele.

A ottobre due attivisti tedeschi sono stati espulsi da Israele in modo simile. Sono stati arrestati con l’accusa di aver ostacolato un agente di polizia nell’adempimento del suo dovere, di riunione illegale e di far parte di un’organizzazione terroristica. Il sospetto di riunione illegale è stato attribuito a causa della loro appartenenza all’International Solidarity Movement, nonostante in Israele l’organizzazione non sia stata messa al bando.

La loro detenzione è stata prorogata due volte, e poi la polizia ha offerto loro la possibilità di scegliere tra lasciare il Paese o affrontare un’altra richiesta di proroga della loro detenzione. Se ne sono andati. Di recente la polizia ha fatto un’offerta simile a due donne americane, una suora e una pensionata di 73 anni, arrestate a South Hebron Hills con l’accusa di aver ostacolato un soldato nell’adempimento del suo dovere. Dopo il loro rifiuto, sono state rilasciate con un divieto di ingresso di due settimane in Cisgiordania.

Dalla sua attuale residenza negli Stati Uniti Jacobsen afferma che il fatto che la sua attività non violenta sia stata definita terroristica lo ha portato a opporsi alle azioni di Israele con ancora più veemenza: “Ok, mi chiami terrorista? Allora esprimerò le mie opinioni su ciò che sta facendo lo Stato sionista di Israele come attività terroristiche. In effetti, lo Stato di Israele sta usando tattiche terroristiche, sicuramente in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza”.

L’unità portavoce dell’IDF ha risposto: “Le forze di sicurezza, la polizia israeliana e l’amministrazione civile stanno agendo per consentire agli abitanti della zona di raccogliere le olive sui terreni di loro proprietà e, allo stesso tempo, stanno agendo per mantenere la sicurezza dei civili e delle comunità israeliane. In generale, non ci sono istruzioni per arrestare gli attivisti stranieri”. Il portavoce ha aggiunto che la decisione di effettuare una perquisizione nella casa degli attivisti a Qusra è derivata da una “segnalazione di attività insolite” in quel sito.

Per quanto riguarda la sparatoria contro l’attivista americana a Beita ad agosto l’esercito ha aggiunto che ciò sarebbe avvenuto dopo una segnalazione di “violento disturbo dell’ordine pubblico durante il quale i terroristi hanno lanciato pietre contro i militari, che hanno risposto utilizzando mezzi per disperdere le dimostrazioni e sparando in aria”. Hanno anche aggiunto che la segnalazione “è nota ed è in corso una verifica“.

La polizia israeliana ha risposto: “La polizia israeliana attua l’applicazione della legge con tutti i mezzi legali contro gli attivisti israeliani e stranieri che agiscono illegalmente interferendo con l’attività operativa delle forze di sicurezza e dimostrando sostegno e condivisione nei confronti delle organizzazioni terroristiche. Dall’inizio dell’anno circa 30 attivisti stranieri sono stati indagati per ostacolo e provocazione contro le forze di sicurezza, e incitamento, sostegno e incoraggiamento verso le organizzazioni terroristiche Hamas e Hezbollah. Alcuni di loro hanno lasciato il Paese al termine del loro interrogatorio e per altri è stata tenuta un’udienza dalla Populating and Immigration Authority, al termine della quale è stato revocato il loro permesso di soggiorno in Israele ed è stato proibito per il futuro l’ingresso nel Paese”.

La Population and Immigration Authority ha risposto: “Di norma un cittadino straniero che entra in Israele con un visto turistico è tenuto a rispettare lo scopo per cui è stato concesso il visto. Un turista che sfrutta la concessione del visto per altre attività, tra cui una condotta di disturbo contro le forze dell’ordine, viola le condizioni per cui è stato concesso il visto ed è consentito annullare il visto e richiedere la sua espulsione dal Paese. In pratica, stiamo parlando di una manciata di incidenti e solo di quelli in cui la polizia presenta prove di reati penali commessi dal titolare del visto”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un’inconsapevole auto-rappresentazione mentale è la fonte del genocidio

Richard Forer

11 novembre 2024 – The Palestine Chronicle

Se il velo che maschera l’ingiustizia e la disumanità di Israele cadesse dai loro occhi, i sionisti vedrebbero quegli stessi caratteri in sé stessi

Uno degli argomenti “storici” più comuni che la maggioranza dei sionisti usa a difesa delle incessanti violazioni del diritto internazionale da parte di Israele e delle generazioni che hanno messo i palestinesi sotto occupazione è che la parte ebraica ha accettato il piano di spartizione delle Nazioni Unite del 1947 mentre la parte araba lo ha respinto. Pertanto è colpa dei palestinesi se non c’è pace, è colpa loro se sono sotto occupazione, è persino colpa loro se l’esercito israeliano ha passato l’anno scorso a Gaza a “difendere” il proprio Paese principalmente da donne e bambini.

I sionisti non vogliono conoscere la storia. Per loro è pura malignità. Quindi la totalità della loro conoscenza del piano di spartizione delle Nazioni Unite o di qualsiasi altro evento con cui colpevolizzano gli arabi è costituita da argomenti pretestuosi, i cui resoconti distorcono automaticamente, per negarla o giustificarla, l’oppressione israeliana sul popolo indigeno. I sionisti interpretano come minacce mortali alla loro immagine di sé qualsiasi cosa metta in discussione le frasi ad effetto di uno o due slogan a cui si aggrappano per dimostrare l’innocenza israeliana e la colpevolezza palestinese, e faranno o diranno qualsiasi cosa per illudersi di aver almeno temporaneamente estinto la minaccia, incluso accusare di antisemitismo chiunque consideri Israele come ingiusto e disumano.

In base a ciò possono convincersi che ogni critica è inaffidabile e può essere liquidata a priori. Ma non possono sottrarsi alla responsabilità per il loro ruolo nella sofferenza di un intero popolo perché, nel loro inconscio, la possibilità di potersi sbagliare evoca la stessa paura della morte che proverebbero se si trovassero di fronte a un plotone di esecuzione nazista.

Non ho mai incontrato un difensore di Israele che fosse ragionevolmente informato della storia. Questo perché non vogliono conoscere la storia. Ancora più rivelatrice è la realtà che l’Israele che stanno difendendo non esiste. È un’immagine idealistica nella loro mente che proiettano sull’Israele che esiste, l’Israele che dal momento della sua nascita ha espulso, espropriato, assassinato e calunniato i palestinesi. Allo stesso modo, non si preoccupano di Israele. Ciò che gli interessa è mantenere, a tutti i costi, la loro immagine ideale di Israele.

Israele è un sostituto di sé stessi. Quando difendono o si preoccupano di “Israele”, stanno realmente e semplicemente difendendo le loro presunte, limitate e mortali identità, la loro immagine di sé. E poiché, consapevolmente e inconsapevolmente, interpretano la critica a Israele come una minaccia mortale, motivo per cui non vogliono conoscere la storia, non c’è limite a ciò che faranno per difendere le convinzioni e le rappresentazioni che emanano dalle loro presunte identità e le rafforzano. Manderanno i loro figli in guerra prima di interrogarsi sulla propria identità.

A qualcuno di loro ho detto che se fossi stato rapito da bambino e cresciuto come musulmano in Arabia Saudita, è improbabile che sarei stato il difensore di Israele che sono stato. Avrei avuto lo stesso corpo con gli stessi geni ma con una visione del mondo completamente diversa.

A loro non importa. Niente di tutto ciò ha importanza per loro. La loro lealtà incondizionata è rivolta alle loro presunte identità, indipendentemente dal fatto che, in larga misura, le loro identità siano il prodotto di una qualche condizione in cui sono stati cresciuti.

Incorporando Israele nelle loro presunte identità, i sionisti vedono lo Stato ebraico nel modo in cui vogliono vedere sé stessi, come giusto e umano, e poiché si sono convinti che non difenderebbero mai l’ingiustizia e la disumanità, anche Israele è, ipso facto, giusto e umano.

Se il velo che maschera l’ingiustizia e la disumanità di Israele cadesse dai loro occhi, i sionisti vedrebbero quegli stessi caratteri in sé stessi.

In tutti i casi, tranne alcuni rarissimi, l’immagine di sé, l’identità del loro ego interpreterebbe un confronto di questo genere come una minaccia mortale, e contemplare la morte è insopportabile perché suscita una paura esistenziale, ma poiché la paura esistenziale è il prisma attraverso cui vedono il confronto Israele-Palestina, sono smarriti.

La necessità di evitare un confronto interiore che susciti questa paura e smarrimento è il motivo per cui è così difficile convincere i sionisti a istruirsi sulla storia documentata. Non solo sono troppo spaventati per comprendere che un impegno sincero nell’apprendere la storia documentata potrebbe alleviare il loro smarrimento e ripristinare la loro umanità, non sanno nemmeno di essere confusi. Né sanno contemplare la propria disumanità. Non possono nemmeno ammettere di non aver mai studiato la storia. Lo smarrimento è anche il motivo per cui i sionisti insistono nel volere la pace mentre allo stesso tempo giustificano il genocidio che Israele ha minacciato di perpetrare più di un anno fa.

Determinato a impossessarsi di tutta la Palestina, dal 1948 Israele ha ignorato numerose opportunità di pace che avrebbero potuto rendere superflue le ostilità odierne, ma i sionisti non vogliono saperlo. Né vogliono sapere che, anziché condurre una guerra difensiva, Israele ha deliberatamente assassinato, fatto morire di fame, torturato e ripulito etnicamente una popolazione per lo più indifesa, e che il suo esito preferito è la morte perché i palestinesi morti non possono fare irruzione nei kibbutz. La negazione è di gran lunga preferibile all’assumersi la responsabilità del proprio ruolo nella sofferenza di milioni di palestinesi o del proprio ruolo nelle condizioni che hanno contribuito all’assalto di Hamas il 7 ottobre 2023.

Tutti sono capaci di giustificare il proprio comportamento, persino Hitler, Biden, Netanyahu, Ben-Gvir e Smotrich, gli ultimi tre membri della coalizione di governo di Israele che l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert definisce “macellai, killer, assassini e terroristi”.

Ecco i fatti chiave sulla divisione con cui i sionisti non vogliono avere nulla a che fare. Nel 1947 l’ONU formò l’UNSCOP (Comitato speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina) per decidere se la divisione fosse una soluzione valida all’impasse ebraico-araba. Il Comitato concluse che la divisione avrebbe privato i palestinesi del loro diritto all’autodeterminazione. Consapevole che la Gran Bretagna voleva porre fine al suo mandato e lasciare la Palestina, e che le bande terroristiche ebraiche (Irgun, Stern Gang) erano così feroci che opporsi alla divisione avrebbe potuto portare a un aumento della violenza, approvò comunque la divisione.

Per più di un decennio i leader ebrei hanno chiarito che la spartizione sarebbe stata il primo passo verso la conquista di tutta la Palestina.

Il primo presidente di Israele Chaim Weizmann: “Gli ebrei sarebbero degli sciocchi a non accettare [la spartizione] anche se [la terra loro assegnata] fosse grande quanto una tovaglia”.

Il primo Primo Ministro di Israele David Ben-Gurion: “Quando saremo diventati una potenza forte come risultato della creazione di uno Stato, aboliremo la spartizione e ci espanderemo in tutta la Palestina”.

Il piano di spartizione delle Nazioni Unite diede il 56 % della Palestina e l’80 % della costa alla parte ebraica, pose Gerusalemme e Betlemme, l’1% della Palestina, sotto un corpus separatum amministrato dalle Nazioni Unite e lasciò il restante 43% della loro patria ai palestinesi. Entro una settimana dalla sua approvazione, la parte ebraica violò l’accordo trasferendo il rabbinato capo a Gerusalemme.

Sulla base dell’“accettazione” ebraica e del rifiuto palestinese della spartizione, i sionisti insistono sul fatto che Israele ha sempre voluto la pace mentre i palestinesi non l’hanno mai voluta. Come si può credere che Israele si sarebbe accontentato del 56 % della Palestina senza Gerusalemme quando non si è mai accontentato del 78 % della Palestina che ha rubato, per usare le parole di Ben-Gurion, nel 1948? I sionisti ignorano opportunisticamente la dichiarazione di Ben-Gurion secondo cui la spartizione era strumentale al sogno sionista di “espandersi in tutta la Palestina”. Inizialmente la popolazione palestinese sarebbe stata pari al 49 % della popolazione totale dello Stato ebraico diviso. Con un tasso di natalità più elevato, sarebbero diventati la maggioranza nel giro di pochi anni. È del tutto ingenuo pensare che Israele avrebbe accettato un simile risultato.

Come alternativa alla divisione le nazioni arabe avevano proposto un unico Stato con uguali diritti per ebrei e palestinesi. La parte ebraica respinse la loro proposta, principalmente perché dava ai palestinesi gli stessi diritti che dava agli ebrei. Con sorpresa di alcuni, il futuro primo ministro Menachem Begin si preoccupò che la parte araba avrebbe accettato la divisione. Perché? Dal momento che la parte ebraica non aveva mai avuto intenzione di onorare la divisione, sarebbe stato più facile giustificare un’espansione di Israele “in tutta la Palestina” che non rubare uno Stato palestinese che le nazioni arabe avevano già accettato.

La visione del mondo sionista è falsa e disonesta. I sionisti ingannano sé stessi con affermazioni facilmente confutabili. Poi propagandano tali affermazioni a chiunque voglia ascoltare. Peggio ancora la loro visione del mondo nega l’umanità del popolo palestinese. Per evitare di trovarsi faccia a faccia con la propria disumanità i sionisti consegnano al mondo intero una sofferenza senza fine. Un modo per uscire da questo dilemma è non dare nulla per scontato, studiare la storia con l’intento di scoprire la verità e riflettere su chi saremmo senza credenze e rappresentazioni che credono al diritto all’autodeterminazione di un popolo mentre rifiutano quello di un altro.

Richard Forer è l’autore di Wake Up and Reclaim Your Humanity: Essays on the Tragedy of Israel-Palestine (Svegliati e rivendica la tua umanità. Saggi sulla tragedia Israele-Palestina) e Breakthrough: Transforming Fear Into Compassion: A New Perspective on the Israel-Palestine Conflict (La svolta. Trasformare la paura in compassione: una nuova prospettiva sul conflitto Israele-Palestina).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un messaggio per gli ebrei che conosco e per gli ebrei che dovrebbero conoscere la verità

Salman Abu Sitta

29 ottobre 2024 – Middle East Monitor

È ora che veniate allo scoperto e prendiate posizione.

Al momento, in Occidente e in Israele, ci sono molti gruppi di ebrei che affermano di stare dalla parte della giustizia per i palestinesi in Palestina. Oscillano tra proporre un regime sionista, camuffato in panni pacifisti, a una prudente ma non significativa liberazione della Palestina.

Io vi dico: non potete continuare con questa altalena. Smettete di oscillare fra due estremi. Prendete posizione, proclamate la vostra lealtà a una tribù o a tutta l’umanità.

Non esistono una apartheid a metà, un’occupazione umana (come hanno sostenuto le macchine della propaganda), un compromesso tra l’assassino e la vittima, non esistono uccisioni o distruzioni giustificate.

Non nascondetevi dietro a slogan come “uguaglianza” o, in arabo, “musawa”, uno Stato Unico Democratico. Sono bustine che contengono una ricetta per un veleno.

L’occupante e l’assassino non hanno il diritto all’“autodifesa”. L’autodifesa non è un diritto di coloro che arrivano da oltreoceano per ammazzare e saccheggiare. L’autodifesa è il diritto del popolo di un Paese di difendersi contro gli invasori stranieri.

Non siete esseri umani giusti quando dite: ammazzate i bambini, ma non troppo, affamate la gente, ma tenete in vita qualcuno, metteteli in gabbia, ma con un guinzaglio lungo, distruggete gli ospedali, ma dategli cerotti.

Non potete mercanteggiare su quanta della loro terra rubata impossessarvi, metà o un po’ di più. Non predicate l’adesione alla “soluzione dei due Stati”. State semplicemente negoziando su quanta carne taglierete via dal corpo della Palestina.

Non accusate “le due parti”. State nascondendo il killer dietro la sua vittima.

Non potete offrire alla popolazione imprigionata una falsa libertà di parlare o respirare in base a quanto imposto dal carceriere e aspettarvi di essere applauditi.

Se siete un israeliano non potete vivere in Israele su una terra i cui proprietari vivono in un campo profughi.

Se siete un israeliano abbiate la decenza di non impiegare un lavoratore della Cisgiordania per coltivare per voi quello stesso campo che avete sottratto alla sua famiglia espulsa. Restituitegli ciò che è suo. 

Se siete un israeliano a Sderot che vive sulla terra del villaggio di Nejd i cui abitanti sono rifugiati a Gaza, a tre chilometri di distanza, non lamentatevi se vi tirano i tubi della cucina. Vi stanno dicendo che sono ancora qui e che non lasceranno la loro terra. 

Se siete un askenazita arrivato sui nostri lidi su una nave di trafficanti per uccidere, distruggere e derubare siete un codardo. Dovreste combattere i vostri compatrioti che vi hanno perseguitato dove vivevate. Non dovreste fare vela per un altro Paese per uccidere un popolo di cui non sapevate nulla, che non vi ha fatto del male.

Siate come i palestinesi: combattete con tutta la vostra forza l’aggressore, l’occupante, l’assassino.

Se non siete un attivista per la causa della giustizia state proteggendo l’assassino.

Rammentate che d’ora in poi la storia degli ebrei non sarà più ricordata per il dogma cristiano degli assassini di Gesù Cristo né per le atrocità dei nazisti, ma per le persistenti, continue e barbariche atrocità contro i palestinesi che rappresentano un genocidio durato finora più di 27.700 giorni.

Questo è un pesante fardello che potete scaricarvi dalle spalle mettendovi incondizionatamente dalla parte dei palestinesi.

I vostri migliori pensieri, il vostro latente concetto di giustizia che oscilla da zero a cento ha solo aiutato l’assassino.

Se siete veramente esseri umani giusti venite allo scoperto: unitevi alla resistenza palestinese, combattete l’aggressore sul campo, fianco a fianco con i palestinesi.

Questo è l’unico modo per ripristinare la giustizia.

La prova del nove per testare la vostra umanità è chiara: l’adempimento completo e senza restrizioni del Diritto al Ritorno con retribuzione, compensazione e risanamento delle perdite e dei danni materiali e immateriali, individuali e collettivi.

Tutto il resto è fuffa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




In seguito all’invasione israeliana il tasso di povertà nei territori palestinesi è raddoppiato, riportando indietro lo sviluppo di Gaza ai livelli degli anni ‘50.

  1. Redazione di MEMO

22 ottobre 2024 – Middle East Monitor

Quest’anno il tasso di povertà in tutti i territori palestinesi occupati dovrebbe raggiungere quasi il 75% in seguito ai bombardamenti e all’invasione israeliane in corso nella Striscia di Gaza.

Secondo un nuovo rapporto del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), l’economia palestinese è attualmente scesa del 35% rispetto all’inizio dell’invasione israeliana un anno fa, cancellando oltre sette decenni di incremento e riportando i livelli di sviluppo a Gaza agli anni ‘50.

Alla fine del 2023 il tasso di povertà in tutti i territori palestinesi è stato del 38,8%, ma gli ulteriori 2,61 milioni di palestinesi che sono da allora caduti in povertà quest’anno hanno portato il totale a 4,1 milioni, rendendo il tasso quasi doppio, al 74,3%.

Achim Steiner, il direttore dell’UNDP, ha dichiarato che “l’immediata conseguenza della guerra, non solo in quanto a distruzione di infrastrutture fisiche, ma anche in termini di povertà, condizioni di vita e perdita dei mezzi di sostentamento è enorme.” Ha aggiunto che “il livello di distruzioni ha riportato indietro di anni, se non di decenni, lo Stato di Palestina in termini di percorso verso lo sviluppo.”

Steiner ha riconosciuto che, anche se i bombardamenti si fermassero e d’ora in poi gli aiuti umanitari fossero forniti ogni anno, ci vorrebbe almeno oltre un decennio prima che l’economia possa ritornare ai livelli di prima dell’invasione israeliana. “Proiezioni in questa nuova analisi confermano che a fronte della sofferenza immediata e dell’orrenda perdita di vite, è in corso anche una seria crisi nello sviluppo, che mette a repentaglio il futuro dei palestinesi per le prossime generazioni,” ha affermato.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Esperti accolgono con favore la dichiarazione della CIG sull’illegalità della presenza israeliana nei territori palestinesi occupati

Redazione di MEMO

30 luglio 2024 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che martedì esperti di diritti umani dell’ONU e indipendenti hanno accolto con favore il parere legale della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) che ha definito “fuorilegge” l’occupazione israeliana della Palestina sollecitando Israele ad ottemperare alla sentenza.

In una dichiarazione gli esperti affermano che “il parere legale riafferma norme cogenti che proibiscono l’annessione, la colonizzazione, la segregazione razziale e l’apartheid e deve essere letto intrinsecamente dichiarativo e vincolante per Israele e per tutti gli Stati che supportano l’occupazione.”

Essi affermano che “la corte ha finalmente riaffermato un principio che non sembrava chiaro neppure alle Nazioni Unite: la libertà da una occupazione militare straniera, dalla segregazione razziale e dall’apartheid è assolutamente non negoziabile”.

Essi si sono detti favorevoli al riconoscimento da parte della corte del fatto che le parti coinvolte abbiano riconosciuto che convertire l’occupazione in annessione – come evidenziato da azioni come la demolizione di case, la negazione dei permessi di costruzione e il furto di territorio – viola la norma di diritto cogente che proibisce l’uso della forza per annettere territori occupati.

Gli esperti hanno affermato: “Possa questa sentenza storica essere l’inizio della realizzazione del diritto fondamentale del popolo palestinese all’autodeterminazione e alla pace basate sulla libertà per tutti.”

Essi hanno messo in guardia riguardo agli attacchi intensificati contro la popolazione civile di Gaza e le sue risorse naturale in seguito al parere legale emesso il 19 luglio.

Israele deve adempiere a questo parere legale e ad altre sentenze della CIG emesse quest’anno,” hanno affermato. “Israele deve smettere di agire come se fosse il solo Paese al di sopra della legge.”

Hanno inoltre esortato tutti gli Stati a rivedere “immediatamente” tutti i legami diplomatici, politici ed economici con Israele, includendo affari e finanza, fondi pensione, università e fondazioni, chiedendo un embargo sulle armi, la fine di tutte le altre attività commerciali che possono danneggiare i palestinesi e sanzioni mirate, incluso il blocco dei beni per singoli individui ed entità coinvolti nelle politiche di occupazione illegale, segregazione razziale e apartheid.

Gli esperti hanno chiesto inchieste e azioni penali contro coloro che sono coinvolti in crimini nei territori palestinesi occupati.

Il recente parere della CIG, in risposta ad una richiesta del 2022 da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU, ha affermato che l’occupazione israeliana di Gerusalemme Est e della Cisgiordania è “fuorilegge” e vi si deve porre fine “il più rapidamente possibile.”

Il parere ha affermato che Israele debba cessare ulteriori attività di colonizzazione ed “evacuare tutti i coloni dai territori palestinesi occupati.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




” Israele ha sempre fatto credere che l’occupazione fosse legale. La Corte Internazionale di Giustizia ora li terrorizza”

Ghousoon Bisharat

23 luglio 2024, 972 Magazine

L’avvocata palestinese Diana Buttu illustra l’opinione della Corte Internazionale di Giustizia sul regime militare israeliano e gli insegnamenti da seguire per applicare il diritto internazionale.

Venerdì 19 luglio la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha stabilito che l’occupazione israeliana della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, è illegale e deve cessare “il più rapidamente possibile”. La Corte ha affermato che Israele è obbligato ad astenersi immediatamente da ogni nuova attività di insediamento, a evacuare tutti i coloni dai territori occupati e a risarcire i palestinesi per i danni causati dal regime militare israeliano durato 57 anni. Ha inoltre affermato che alcune delle politiche di Israele nei territori occupati costituiscono il crimine di apartheid.

La sentenza, riconosciuta come parere consultivo, deriva da una richiesta del 2022 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e non è vincolante. Ma segna la prima volta che la massima corte mondiale esprime il suo punto di vista sulla legalità del controllo di Israele sui territori occupati e costituisce un netto ripudio delle difese legali a lungo prodotte da Israele.

Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas ha accolto con favore la sentenza, descrivendola come “un trionfo della giustizia” e invitando l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a considerare ulteriori misure per porre fine all’occupazione. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu l’ha liquidata come “assurda”, affermando: “Il popolo ebraico non è occupante nella propria terra, inclusa la nostra eterna capitale Gerusalemme, né in Giudea e Samaria [la Cisgiordania], la nostra patria storica”. Gli Stati Uniti hanno risposto affermando soltanto che gli insediamenti israeliani sono illegali e hanno criticato “l’ampiezza del parere della Corte” che, affermano, “complicherà gli sforzi per risolvere il conflitto”.

Per comprendere meglio il significato e la portata della sentenza, +972 Magazine ha parlato con Diana Buttu, un’avvocata palestinese che risiede ad Haifa ed è stata consulente legale dell’OLP dal 2000 al 2005. Durante quel periodo ha fatto parte del team che ha portato alla Corte Internazionale di Giustizia il caso riguardante il muro di separazione israeliano, il cui percorso la Corte ha dichiarato – in un altro parere consultivo non vincolante – illegale. L’intervista è stata modificata per motivi di lunghezza e chiarezza.

Come si è sentita guardando il presidente della CIG Nawaf Salam leggere il parere della Corte?

Da un lato mi ha fatto molto piacere perché conferma tutto quello che io e tanti altri giuristi e attivisti diciamo da decenni. Ma d’altro canto continuavo a chiedermi: perché siamo dovuti arrivare fino alla Corte Internazionale di Giustizia? Perché le persone ascoltano un parere legale, ma non la nostra esperienza vissuta? Perché c’è voluto così tanto tempo per capire che ciò che Israele sta facendo è sbagliato?

Quanto è importante questa sentenza per i palestinesi?

È importante inserire la sentenza nel suo giusto contesto, come parere consultivo. Ci sono due vie per rivolgersi alla CIG. La prima è quando c’è una disputa tra due Stati, ed è quello che s’è visto con il Sudafrica contro Israele [sulla questione del genocidio a Gaza], e quelle decisioni sono vincolanti. La seconda è quando l’Assemblea Generale dell’ONU chiede chiarimenti o un parere legale su una questione; si tratta di un parere consultivo e non è vincolante.

Quindi, se si guarda al quadro generale, bisogna ricordare che l’uso dei tribunali e l’uso della legge sono solo uno strumento, non l’unico o lo strumento decisivo. Ciò non significa che non sia importante, o che un parere non vincolante non sia legge. Il problema più grande è come influenzerà i comportamenti futuri.

Qui è importante ricordare cosa è successo con la prima decisione della Corte Internazionale di Giustizia [sul muro di separazione di Israele], emessa il 9 luglio 2004. Anche se si trattava di un parere consultivo, ha costituito legge e, cosa più importante, è stato per questa decisione che abbiamo visto la crescita del movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) – in effetti, il movimento è stato lanciato a livello internazionale esattamente un anno dopo.

Quindi le persone dovrebbero capire che non ci sarà mai una vittoria legale. L’occupazione non finirà attraverso tribunali e meccanismi legali: finirà quando Israele ne pagherà il prezzo. E sia che quel prezzo venga pagato all’esterno perché il mondo dice basta, o all’interno perché il sistema inizia a implodere, sarà una decisione israeliana quella di porre fine all’occupazione.

Il parere consultivo della CIG del 2004 fu una decisione storica, ma fece ben poco per contrastare la costruzione del muro di separazione o cambiarne il percorso. Pensa che la nuova sentenza abbia un peso diverso rispetto al passato o possa generare azioni politiche diverse?

SÌ. La decisione del 2004 è stata importante per alcuni motivi. In primo luogo, non solo ha affermato che il muro è illegale, ma ha anche parlato degli obblighi degli Stati terzi di rispettare il diritto internazionale umanitario e di non contribuire al danno. Ora, ha ragione, il muro è rimasto in piedi e la decisione non vincolante non ha fermato la costruzione, perché non è stata applicata. Tuttavia, ha cambiato il modo in cui diplomatici e altri si rapportavano al muro.

Dobbiamo anche ricordare che questo nuovo parere consultivo è molto più importante e ampio. La Corte fa a pezzi l’idea dei negoziati di pace, degli accordi di Oslo, dell’accettazione da parte dei palestinesi dell’occupazione permanente. E mentre i governi continuano a mantenere la loro posizione secondo cui i negoziati sono l’unica via da seguire, in ogni capitale del mondo ci sarà ora una nota legale in cui si afferma che la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso una sentenza [che i negoziati non possono privare la popolazione di paesi occupati dei diritti ai sensi della Convenzione di Ginevra].

Un’altra cosa importante è che gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sono stati normalizzati, e qui abbiamo una decisione che indebolisce questo principio, affermando che gli insediamenti e i coloni devono andarsene. Sulla base di questi elementi mi aspetto di iniziare a vedere un cambiamento nella politica. Potrebbe non accadere immediatamente, ma cambierà la mentalità del modo in cui le persone si rapporteranno all’occupazione.

Che tipo di cambiamento nella politica o nella mentalità si aspetta dalla comunità internazionale?

Posso fare l’esempio del Canada, dove sono nata. Il commento del Canada [sul procedimento della Corte Internazionale di Giustizia sul caso] è stato molto prevedibile: afferma che la Corte Internazionale di Giustizia ha giurisdizione su questa importante questione ma poi prosegue dicendo che il modo migliore per risolverla è attraverso i negoziati. Ma questo equivale a dire, e perdonate l’analogia, che una persona che viene picchiata deve semplicemente negoziare con il suo aggressore. Ora la Corte ha fatto piazza pulita di tutto ciò e ha stabilito chiaramente che esiste un occupante e un occupato. Quindi ora mi aspetto – e in realtà inizierò a chiedere – che il governo canadese cambi la sua posizione.

Un altro esempio in cui mi aspetto di vedere un cambiamento è la questione dei coloni. Se si considera il numero di coloni che vivono oggi nei territori occupati, una stima prudente è di 700.000. In rapporto ai 4 milioni di persone presenti nell’intero territorio [della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est], si tratta di una percentuale molto alta. E questo è importante perché dimostra che tanti coloni israeliani hanno interiorizzato e normalizzato l’occupazione.

La domanda è se i coloni israeliani si considereranno persone che vivono illegalmente sulla terra palestinese – e sospetto che la risposta sarà un no. Ma ciò che voglio pensare è che quell’azione e quella percezione non saranno più normalizzate, e che si riconosca che l’occupazione ha causato danni che devono finire. Israele ha fatto un buon lavoro nel normalizzare gli insediamenti, e non esiste più la Linea Verde [linea di confine stabilita negli accordi del 1949, ndt.] – la dichiarazione di Netanyahu di ieri [contro la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia] ne è la prova. Ma questo deve cambiare.

Penso che siamo in un momento simile a quello in cui eravamo negli anni ’80 con l’apartheid in Sud Africa. Allora i sostenitori dell’apartheid dicevano agli attivisti anti-apartheid che semplicemente non capivano la situazione. L’apartheid era del tutto normalizzato. Dieci anni dopo non lo era più. Ed eccoci qui, 30 anni dopo non si riuscirebbe a trovare una persona che dica che l’apartheid fosse una buona cosa.

C’è stato qualcosa nel parere consultivo che l’ha sorpresa?

Non sono rimasta sorpresa da molte cose, ma mi ha fatto piacere che ci fossero certi elementi. Uno di questi è stata l’attenzione su Gaza, perché dal 2005 Israele ha adottato una narrazione di “disimpegno” sostenendo che non ci sia alcuna occupazione. Molte organizzazioni per i diritti umani si sono battute per affermare che Gaza è effettivamente occupata, che esiste un effettivo controllo israeliano e che il livello di tale controllo è responsabilità di Israele. Sono felice di vedere che la Corte lo ha confermato e ha messo a tacere questa discussione, soprattutto perché non c’è stata, per quanto ne so, alcuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite su questo argomento.

La seconda cosa che mi ha fatto molto piacere è che la Corte ha affermato che devono essere pagati dei risarcimenti e non solo sotto forma di smantellamento di tutti gli insediamenti, ma anche di abbandono dei coloni. E la terza cosa è l’idea che ai rifugiati sia permesso di ritornare [nelle case da cui erano fuggiti o da cui erano stati espulsi nel 1967]. Questo è un riconoscimento del danno che hanno causato 57 anni di occupazione militare. Sono rimasta felicemente sorpresa nel vedere la giudice australiana [Hilary Charlesworth] uscire allo scoperto e dire molto chiaramente che Israele non può rivendicare l’autodifesa per mantenere un’occupazione militare, o in relazione ad atti di resistenza contro l’occupazione. Lo sostengo da molto tempo ed è bello vedere una giudice fare le stesse osservazioni. E mentre nel complesso è d’accordo con l’opinione della Corte, la nuova giudice americana [presso la CIG] Sarah Cleveland, ha dato separatamente un’opinione molto interessante: ha sostenuto che la sentenza avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione alle responsabilità di Israele ai sensi della legge sull’occupazione specificatamente nei confronti di Gaza, sia prima del 7 ottobre che ora.

I politici israeliani, sia al governo che all’opposizione, hanno respinto l’opinione della Corte Internazionale di Giustizia bollandola come antisemita e prevenuta. Pensa che queste reazioni nascondano preoccupazioni o paure autentiche?

Sì, la paura di essere denunciati per i razzisti che sono, e che potrebbero effettivamente dover porre fine all’occupazione. Potrebbero esserci anche delle azioni a livello mondiale [per fare pressione su Israele]. Sono preoccupati anche perché sono innanzitutto loro che hanno portato lì i coloni, e potrebbero esserci richieste da parte dei coloni di essere ricompensati per andarsene.

Netanyahu non ha mai riconosciuto il diritto all’esistenza della Palestina. Proprio l’altro giorno abbiamo assistito al voto della Knesset contro la creazione di uno Stato palestinese. E non sono stati solo quelli del Likud, o gli [Itamar] Ben Gvir e [Bezalel] Smotrich a sottoscriverlo, ma anche altri legislatori, tra cui [Benny] Gantz. Non hanno mai riconosciuto ciò che hanno fatto nel 1948 o il danno che stanno causando oggi. Invece, sono guidati da questo concetto di supremazia ebraica – secondo cui solo loro hanno diritto a questa terra.

Israele ha sempre spacciato l’occupazione come in qualche modo legale, e le sue azioni come giuste e corrette con le stupide pretese di un “esercito morale”. Non esiste un esercito morale al mondo: come puoi uccidere moralmente le persone? Affermano che ci si può rivolgere all’Alta Corte israeliana ma ogni palestinese sa che non si può ottenere giustizia da un tribunale che è stato istituito come braccio dell’occupazione. Ora, quando c’è un tribunale che guarda dall’esterno e dice che quello che stanno facendo è illegale, per loro è ovviamente allarmante.

Il Sudafrica dell’apartheid si è comportato allo stesso modo quando ha dovuto fare i conti con le opinioni della Corte Internazionale di Giustizia. Alla fine di ogni parere della Corte Internazionale di Giustizia il governo dell’apartheid era solito esprimere la stessa linea: che solo il Sudafrica può giudicare il Sudafrica, il che significa che solo un sistema razzista può giudicare se il sistema è razzista. Questo è ciò che dice Israele: solo noi, il sistema razzista, possiamo determinare se è razzista. Ma poi esci di casa e vedi che le regole internazionali confermano che il sistema è razzista e deve essere smantellato. Questo è spaventoso per Israele.

Alcuni israeliani esperti di diritto internazionale stanno minimizzando il significato del parere della Corte Internazionale di Giustizia, sottolineando che non è vincolante e sostenendo che la Corte non ha detto che l’occupazione è illegale, ma solo che è illegale per Israele disobbedire alle regole dell’occupazione. Come considera queste affermazioni?

Hanno ragione, ma minimizzare è solo una perdita di tempo. Secondo il diritto internazionale ci può essere un’occupazione legale ma solo come stato temporaneo per un breve periodo di tempo al fine di ristabilire la legge e l’ordine ed eliminare le minacce. Il problema con l’occupazione israeliana non è solo la durata, ma il fatto che non è mai stata concepita come temporanea. Dal 1967 Israele ha affermato che non rinuncerà mai alla Cisgiordania. Hanno negato che i palestinesi abbiano diritti su questa terra e quasi immediatamente hanno iniziato la costruzione e l’espansione degli insediamenti. La durata e la prassi sono ciò che rende illegale l’occupazione israeliana.

Questi stessi giuristi israeliani non riconoscono cosa rappresenti il danno. Mantenere un’occupazione richiede violenza. Conquistare terre, costruire posti di blocco, costruire insediamenti, gestire un sistema giudiziario militare e un regime di permessi, rapire bambini nel cuore della notte, demolire case e rubare acqua: tutto ciò che questa occupazione comporta è violento. Quindi gli esperti israeliani possono provare a minimizzare la sentenza quanto vogliono, ma farebbero bene a mettervi finalmente fine, invece di trovare modi per abbellire l’occupazione.

Lei afferma che le azioni di Israele furono illegali fin dal primo giorno dell’occupazione del 1967. Ritiene che l’attuale governo, o gli ultimi 15 anni di governo di Netanyahu, siano più pericolosi di quelli precedenti? Oppure si stiano sostanzialmente continuando le stesse politiche nei confronti dei palestinesi e dei territori occupati che vediamo da più di mezzo secolo?

È lo stesso ed è diverso. È lo stesso perché non c’è stato un governo israeliano dal 1967 che abbia fermato l’espansione degli insediamenti. Può prendere in considerazione qualsiasi altro problema in Israele e i governi hanno avuto politiche diverse, ma questo li unisce. Quindi non importa che si tratti del Labour, del Likud o di Kadima; sotto questo aspetto Netanyahu non è diverso.

L’unica cosa nuova è che questo governo sia così sfacciato riguardo alla sua posizione. Mentre in passato ci potevano essere persone che parlavano di una soluzione a due Stati, Netanyahu è stato molto chiaro durante tutto il suo mandato sul fatto che non ci sarà mai uno Stato palestinese e che i palestinesi non hanno diritti.

Lei è stata a lungo critica nei confronti dell’Autorità Palestinese per i suoi fallimenti. Come crede che gestiranno questa sentenza e le altre recenti procedure presso la CIG e la Corte Penale Internazionale, sia sul piano diplomatico che sul territorio?

Uno dei grossi problemi nel 2004 era che non avevamo una leadership palestinese che spingesse per l’attuazione della decisione della Corte Internazionale di Giustizia [sul muro di separazione]. Pensavano ancora che quello fosse il periodo d’oro dei negoziati, vivevano ancora in un mondo fantastico. Ed è per questo che il movimento BDS ha finito per farsi avanti e premere.

Questa volta sono davvero preoccupata perché se c’è una cosa chiara in questa decisione è [una critica a] tutte quelle cosiddette “generose offerte [israeliane]” che i palestinesi hanno dovuto sopportare. La Corte Internazionale di Giustizia chiarisce che [i territori palestinesi occupati] non sono territorio israeliano con cui essere generosi. Non solo, il parere della Corte Internazionale di Giustizia è un atto d’accusa contro Oslo: afferma che non importa cosa sia stato firmato, la Palestina ha ancora il diritto all’autodeterminazione e nessun accordo può sostituire tale diritto.

Il mio timore è che Abu Mazen [il presidente Mahmoud Abbas] conosca un solo concetto, ovvero i negoziati. Temo che vedremo abbastanza pressioni da parte degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale da spingerlo a dire che va tutto molto bene, ma che crede che i negoziati siano l’unica via da seguire.

E se dovesse dare un consiglio all’Autorità Palestinese, come suggerirebbe di procedere?

L’Autorità Palestinese dovrebbe andare di capitale in capitale per sostenere l’idea che gli insediamenti sono illegali e che i coloni devono andarsene. Non prenderei in considerazione l’idea di scambi di terre, come è stato fatto in passato. Non prenderei in considerazione l’ipotesi di negoziare adesso; non sono male come metodo, ma i negoziati devono pur riguardare qualcosa. Se dovessero, ad esempio, negoziare sui pesticidi, o sull’economia, o sulla circolazione delle persone, andrebbe tutto bene. Ma negoziare sui propri diritti è veramente ripugnante, e non posso credere che ci siano persone che pensano ancora in questi termini nel 2024.

Quindi consiglierei loro di fare tutto il possibile per assicurarsi che gli insediamenti e i coloni vengano rimossi – cosa che non dovrebbe essere oggetto di negoziati – e che Israele inizi a pagare un prezzo. Capisco che il presidente palestinese è sotto occupazione militare e che l’economia è sotto il controllo di Israele. Ma è necessario che questa dipendenza venga interrotta.

Come può la leadership palestinese utilizzare questa decisione della Corte Internazionale di Giustizia per spingere con più forza per la fine della guerra a Gaza?

Non penso che l’attuale leadership sia in grado di fare qualcosa per Gaza. È molto triste per me dirlo, ma ho la sensazione che a molti di loro non importi nulla di Gaza.

E se parliamo della leadership palestinese nel suo insieme, non solo dell’Autorità Palestinese?

Per prima cosa dobbiamo avere una leadership palestinese che si formi attraverso le elezioni. La mia paura ora per Gaza è che si parli [a livello internazionale] di “chi” [chi prenderà il controllo], e non si parli realmente di “cosa”. La gente punta dicendo che questa o quella persona sarebbe buona, poi in qualche modo finisce per consolidarsi attorno ad Abu Mazen, come se non ci fosse nessun altro in Palestina capace di essere un leader.

Nessuno vorrà entrare in gioco e diventare il capo dell’Autorità Palestinese [come è adesso]. C’è una ragione per cui non c’è stato un colpo di Stato a Ramallah da quando Abu Mazen è salito al potere: è un lavoro ingrato e stupido in cui sei effettivamente il subappaltatore della sicurezza per Israele.

Ciò che deve emergere è una leadership eletta credibile con una strategia e una visione globale per tutti i palestinesi, ma soprattutto in questo momento per Gaza. E per me dovrebbero focalizzarsi sull’idea di accusare Israele di tutto ciò che ha fatto, in particolare dopo il 7 ottobre.

È sconsolante sentire in continuazione [da commentatori e politici internazionali] che nulla giustifica [l’attacco di Hamas del] 7 ottobre e tuttavia tutto ciò che Israele fa a Gaza è giustificato dal 7 ottobre. Dobbiamo iniziare a fare breccia in questa ideologia e addossare a Israele le sue colpe – allora si potrà iniziare a ricostruire Gaza.

Spero che una nuova leadership palestinese unita ed eletta faccia un passo indietro, valuti Oslo e gli errori commessi e valuti le circostanze attuali per andare avanti. Non penso che l’attuale leadership sia in grado di condurre questa riflessione su di sé.

L’OLP ha sempre avuto questa ossessione che il processo decisionale palestinese fosse nelle mani dei palestinesi, e oggi l’Autorità Palestinese mantiene la stessa ossessione. Ma se l’Autorità Palestinese non gestirà correttamente questo momento, e sospetto che non lo farà, vedremo molti più attivisti, il movimento BDS e altri a livello internazionale prendere il testimone.

La sentenza si concentra sui territori palestinesi occupati da Israele dal 1967. Alcuni direbbero che è un ambito molto ristretto, che ignora i crimini e le violazioni risalenti al 1948, e che potrebbe costringere i palestinesi ad accettare un futuro solo nei confini del 1967. Come affronta i limiti di questa sentenza per la causa palestinese?

Questa è stata la prima critica alla posizione della Corte Internazionale di Giustizia, e condivido questa critica: concentrandosi solo sul ’67 si dà un lasciapassare a Israele. L’unico modo per comprendere l’occupazione è capire cosa ha fatto Israele durante la Nakba e durante l’era del governo militare [all’interno di Israele], sotto il quale i cittadini palestinesi hanno vissuto per 19 anni fino al ’66. L’idea che si possano separare i due [1948 e 1967] è un’invenzione.

Per l’Autorità Palestinese ci sono due ragioni principali per concentrarsi sul 1967: la prima è che vedono l’occupazione come un danno diretto che deve essere riparato, e la seconda è che penso che abbiano rinunciato al [terreno usurpato nel] 1948 decenni fa – non solo con la firma di Oslo, ma ancor prima con la Dichiarazione di Indipendenza dell’OLP del 1988.

Per l’Autorità Palestinese c’è anche un contesto politico ristretto. In molti modi hanno rinunciato ai risarcimenti per la Nakba, il che di fatto significa che stanno rinunciando al diritto al ritorno. Potrebbero anche sostenere di essere favorevoli, ma io semplicemente non lo vedo.

C’è modo di parlare del ’48 e avere ancora un’idea di compromesso politico. Questa è stata la posizione palestinese per molti anni, ma negli ultimi vent’anni non è stata quella dell’Autorità Palestinese. Quando mi allontano e guardo la loro posizione, penso che ci sia una forte convinzione politica che alla fine rinunceremo sul ’48 – non solo al territorio ma anche alla narrazione – per cercare di preservare ciò che resta del ’67.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un mostruoso progetto di frode e autoinganno; quello che agli israeliani sfugge sugli insediamenti

Iris Leal

22 luglio 2024 – Haaretz/Opinioni

Mercoledì scorso ero a Kfar Tapuah, un insediamento coloniale nella Samaria [Giudea e Samaria sono i nomi usati da Israele per indicare la Cisgiordania, ndt.]. Il sole picchiava e una giovane donna, che spende i suoi giorni a tormentare i palestinesi rendendo la loro vita un inferno, passava tra due roulotte con un aspetto sciatto e trasandato.

Prima che partissimo da lì tre giovani hanno notato il nome Majdi sul nostro minibus, ci hanno inseguito, hanno picchiato sul cofano del motore e hanno preteso, davanti all’autista terrorizzato, di sapere perché a un arabo fosse stato permesso di entrare nella loro comunità.

Così giovani, eppure erano già esperti su come effettuare una profilazione razziale. Questa è l’immagine che ho portato con me da questo tour giornalistico organizzato dalla Geneve Iniziative [istituzione internazionale nata dall’Accordo di Ginevra tra Israeliani e Palestinesi elaborato nei 2003 a Ginevra, ndt.], una donna e alcuni giovani che immaginano di vivere in un mondo in cui possono impossessarsi della terra e tenersela senza impedimenti, perché i loro rappresentanti parlamentari esercitano un potere inimmaginabile.

Questo è il movimento di insediamento coloniale di cui parlano Bezalel Smotrich e Orit Strock di Sionismo Religioso, questo è il volto del “miracolo”. Non solo blocchi di insediamenti, ma anche alcune roulotte a Kfar Tapuah ed Evyatar che hanno come fine ultimo leliminazione di ogni possibilità di risolvere il conflitto con mezzi pacifici.

Oltre ad essere un progetto di rapina le colonie sono anche un enorme progetto di frode e autoinganno, che tutto Israele ha felicemente abbracciato. Neanche 24 ore dopo la Knesset  avrebbe adottato una risoluzione secondo la quale “La Knesset israeliana si oppone totalmente alla creazione di uno Stato palestinese a ovest del fiume Giordano”.

Un gruppo di persone ricche di fantasia che credono che dopo decenni di sanguinosa lotta nazionale palestinese saranno in grado di convincere milioni di persone ad essere sudditi nelle proprie terre, una terra che non hanno mai smesso di considerare come la loro patria. Zeev Elkin ha twittato, come uno sposo la prima notte di nozze, che la creazione di uno Stato palestinese nel cuore del Paese farebbe sì che il conflitto non abbia fine, al che mi sono chiesta: ma quale allucinogeno si è fumato?

Nel corso degli anni del suo governo Benjamin Netanyahu ha gestito il conflitto partendo dal falso presupposto che lesistenza dei palestinesi potesse essere cancellata dalla memoria, in Israele e allestero, ignorando la loro richiesta di uno Stato proprio. Riguardo agli Accordi di Abramo [accordi di normalizzazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein del 13 agosto 2020,ndt.] ha detto con soddisfazione che sono la testimonianza di pace in cambio di pace e non di terra in cambio di pace.

Il 7 ottobre è stata una terribile dimostrazione del suo errore, e la consapevolezza mondiale della grave situazione dei palestinesi e della necessità fondamentale di una soluzione diplomatica non è mai stata così forte. Ma invece di correggere lerrore la Knesset lo ha scolpito nella pietra.

Il che ci porta alla sentenza di venerdì della Corte Internazionale di Giustizia. Per batterla sul tempo Smotrich ha annunciato che quella Corte è un’istituzione politica e antisemita, e che “noi traiamo la fonte del nostro diritto su tutte le parti della terra d’Israele dalla promessa divina”.

I giudici della corte mondiale sono rimasti meno impressionati dalla promessa divina e più dalla realtà, e hanno stabilito che la presenza israeliana in Cisgiordania e a Gerusalemme Est è illegale; che le azioni che Israele porta avanti in questi territori, compresa la costruzione di insediamenti coloniali e la loro espansione, equivalgono allannessione di ampie aree del territorio palestinese; che Israele non riesce a prevenire la violenza dei coloni contro i palestinesi e a punire i colpevoli; che sequestra la terra per l’insediamento dei coloni; e, cosa ancora più vergognosa, che Israele sta attuando un sistema di segregazione razziale tale da configurarsi probabilmente come regime di apartheid.

La risposta alla sentenza da parte di esponenti del sionismo religioso è stata unanime: “La risposta all’Aja – supremazia subito“. Netanyahu ha annunciato che nessuna nazione può essere considerata forza di occupazione nel proprio territorio, mentre il leader dellopposizione Yair Lapid ha affermato che la sentenza è lontana dalla realtà e viziata da antisemitismo.

Da Smotrich a Lapid, dalla destra messianica al centrosinistra, tutti scelgono di negare loccupazione e il fatto che essa sia la questione decisiva delle nostre vite.

I leader ciechi e codardi, che hanno lasciato la sinistra radicale a trattare con la realtà, continueranno a reprimere lespressione della parola apartheid. Ma tutti, su entrambi i lati della Linea Verde [linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949, ndt.] che Israele ha cancellato, sentiranno presto le conseguenze della sentenza dellAia. Il gioco è finito.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Le violenze che non fanno mai notizia

Adam Horowitz

23 giugno 2024 – Mondoweiss

 

Le morti quotidiane e il numero delle vittime che abbiamo conteggiato da ottobre si riferiscono solo a coloro che sono stati uccisi direttamente dall’offensiva militare israeliana. E quelli che sono stati uccisi dalla distruzione di una società? Questa è una domanda che mi ha perseguitato per mesi. Cosa è successo ai pazienti oncologici? Come hanno fatto i palestinesi con altri problemi di salute a ottenere le cure di cui hanno bisogno?

Parte della risposta è stata chiarita da una storia di Tareq Hajjaj che abbiamo pubblicato questa settimana sulle condizioni del settore medico a Gaza. I momenti di violenza più scioccanti di cui siamo stati testimoni nei passati 8 mesi, l’assedio degli ospedali, il massacro dei palestinesi che cercavano di ricevere aiuti, lo sfollamento forzato di oltre 2 milioni di persone sotto la minaccia delle armi sono solo la punta dell’iceberg della violenza a cui sono stati sottoposti i palestinesi di Gaza.

Tareq racconta la storia di Nabil Kuhail, un paziente di 3 anni affetto da leucemia che semplicemente non ha potuto ricevere le cure mediche necessarie perché gli ospedali di Gaza sono stati distrutti. “La storia di Nabil è una di tante,” scrive Tareq. “Sono innumerevoli i pazienti che lottano per avere i trattamenti per varie malattie, quelle comuni spesso più mortali di quelle serie.”

Tale distruzione della vita palestinese è la prova dell’intento genocida di Israele a Gaza. E, come Jonathan Ofir ci ha aiutato a confermare questa settimana, il sostegno per queste politiche si estende a tutto lo spettro politico israeliano, inclusi quelli spesso lodati in Occidente come i campioni più progressisti della “democrazia” israeliana.”

Naturalmente questa violenza quotidiana che i palestinesi affrontano oltre a quella riportata nei titoli dei giornali non è solo nella Striscia di Gaza. Shatha Hanaysha ci ha riferito del caso di sadismo dei soldati israeliani che hanno usato un palestinese ferito come scudo umano durante un attacco a Jenin in Cisgiordania questo fine settimana. 

Shatha racconta:

Un testimone oculare che preferisce rimanere anonimo ha detto a Mondoweiss che i soldati israeliani hanno deliberatamente maltrattato il ferito.

Sembrava che lo facessero per divertirsi,” ha detto il testimone, aggiungendo che l’uomo non era né ricercato né un combattente della resistenza, ma un civile disarmato. Ciò era evidente dal fatto che i militari israeliani non l’hanno arrestato, ma l’hanno consegnato all’ambulanza palestinese dopo che era rimasto legato sul cofano del veicolo per parecchi minuti nel caldo estivo.

Questa storia probabilmente non arriverà sulle testate internazionali ma ci dice di più sulla realtà dell’occupazione israeliana e l’apartheid che testimoniano molte relazioni sui diritti umani. 

E le minacce di violenza sembrano solo aumentare. Leggete questa relazione di Qassam Muaddi sulla crescente minaccia di un attacco israeliano su larga scala contro il Libano. Come chiarisce Qassam, probabilmente spetterà all’amministrazione Biden fermare un attacco israeliano che potrebbe avere conseguenze regionali gigantesche e devastanti. Sfortunatamente sembra che gli USA non vogliano opporsi a Israele. 

Tuttavia gli sforzi della politica statunitense continuano con molti occhi puntati sulle imminenti elezioni USA. Questa settimana Michael Arria ha delineato due importanti tentativi di sfidare lo status quo politico. 

Da quando la campagna “Uncommitted” per esprimere disapprovazione verso l’amministrazione Biden ha cominciato a comparire a sorpresa sui titoli dei giornali durante le primarie del partito Democratico la domanda è: cosa succederà dopo? Questa settimana Michael ha parlato con Lexis Zeidan, co-direttore di Listen to Michigan, per scoprirlo. Michael ha anche parlato con Usamah Andrabi, portavoce di Justice Democrats, sulla coalizione Reject AIPAC [Contro AIPAC, principale organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndt.] per un podcast di Mondoweiss. Per favore, prestategli ascolto.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)