” Israele ha sempre fatto credere che l’occupazione fosse legale. La Corte Internazionale di Giustizia ora li terrorizza”

Ghousoon Bisharat

23 luglio 2024, 972 Magazine

L’avvocata palestinese Diana Buttu illustra l’opinione della Corte Internazionale di Giustizia sul regime militare israeliano e gli insegnamenti da seguire per applicare il diritto internazionale.

Venerdì 19 luglio la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha stabilito che l’occupazione israeliana della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, è illegale e deve cessare “il più rapidamente possibile”. La Corte ha affermato che Israele è obbligato ad astenersi immediatamente da ogni nuova attività di insediamento, a evacuare tutti i coloni dai territori occupati e a risarcire i palestinesi per i danni causati dal regime militare israeliano durato 57 anni. Ha inoltre affermato che alcune delle politiche di Israele nei territori occupati costituiscono il crimine di apartheid.

La sentenza, riconosciuta come parere consultivo, deriva da una richiesta del 2022 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e non è vincolante. Ma segna la prima volta che la massima corte mondiale esprime il suo punto di vista sulla legalità del controllo di Israele sui territori occupati e costituisce un netto ripudio delle difese legali a lungo prodotte da Israele.

Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas ha accolto con favore la sentenza, descrivendola come “un trionfo della giustizia” e invitando l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a considerare ulteriori misure per porre fine all’occupazione. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu l’ha liquidata come “assurda”, affermando: “Il popolo ebraico non è occupante nella propria terra, inclusa la nostra eterna capitale Gerusalemme, né in Giudea e Samaria [la Cisgiordania], la nostra patria storica”. Gli Stati Uniti hanno risposto affermando soltanto che gli insediamenti israeliani sono illegali e hanno criticato “l’ampiezza del parere della Corte” che, affermano, “complicherà gli sforzi per risolvere il conflitto”.

Per comprendere meglio il significato e la portata della sentenza, +972 Magazine ha parlato con Diana Buttu, un’avvocata palestinese che risiede ad Haifa ed è stata consulente legale dell’OLP dal 2000 al 2005. Durante quel periodo ha fatto parte del team che ha portato alla Corte Internazionale di Giustizia il caso riguardante il muro di separazione israeliano, il cui percorso la Corte ha dichiarato – in un altro parere consultivo non vincolante – illegale. L’intervista è stata modificata per motivi di lunghezza e chiarezza.

Come si è sentita guardando il presidente della CIG Nawaf Salam leggere il parere della Corte?

Da un lato mi ha fatto molto piacere perché conferma tutto quello che io e tanti altri giuristi e attivisti diciamo da decenni. Ma d’altro canto continuavo a chiedermi: perché siamo dovuti arrivare fino alla Corte Internazionale di Giustizia? Perché le persone ascoltano un parere legale, ma non la nostra esperienza vissuta? Perché c’è voluto così tanto tempo per capire che ciò che Israele sta facendo è sbagliato?

Quanto è importante questa sentenza per i palestinesi?

È importante inserire la sentenza nel suo giusto contesto, come parere consultivo. Ci sono due vie per rivolgersi alla CIG. La prima è quando c’è una disputa tra due Stati, ed è quello che s’è visto con il Sudafrica contro Israele [sulla questione del genocidio a Gaza], e quelle decisioni sono vincolanti. La seconda è quando l’Assemblea Generale dell’ONU chiede chiarimenti o un parere legale su una questione; si tratta di un parere consultivo e non è vincolante.

Quindi, se si guarda al quadro generale, bisogna ricordare che l’uso dei tribunali e l’uso della legge sono solo uno strumento, non l’unico o lo strumento decisivo. Ciò non significa che non sia importante, o che un parere non vincolante non sia legge. Il problema più grande è come influenzerà i comportamenti futuri.

Qui è importante ricordare cosa è successo con la prima decisione della Corte Internazionale di Giustizia [sul muro di separazione di Israele], emessa il 9 luglio 2004. Anche se si trattava di un parere consultivo, ha costituito legge e, cosa più importante, è stato per questa decisione che abbiamo visto la crescita del movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) – in effetti, il movimento è stato lanciato a livello internazionale esattamente un anno dopo.

Quindi le persone dovrebbero capire che non ci sarà mai una vittoria legale. L’occupazione non finirà attraverso tribunali e meccanismi legali: finirà quando Israele ne pagherà il prezzo. E sia che quel prezzo venga pagato all’esterno perché il mondo dice basta, o all’interno perché il sistema inizia a implodere, sarà una decisione israeliana quella di porre fine all’occupazione.

Il parere consultivo della CIG del 2004 fu una decisione storica, ma fece ben poco per contrastare la costruzione del muro di separazione o cambiarne il percorso. Pensa che la nuova sentenza abbia un peso diverso rispetto al passato o possa generare azioni politiche diverse?

SÌ. La decisione del 2004 è stata importante per alcuni motivi. In primo luogo, non solo ha affermato che il muro è illegale, ma ha anche parlato degli obblighi degli Stati terzi di rispettare il diritto internazionale umanitario e di non contribuire al danno. Ora, ha ragione, il muro è rimasto in piedi e la decisione non vincolante non ha fermato la costruzione, perché non è stata applicata. Tuttavia, ha cambiato il modo in cui diplomatici e altri si rapportavano al muro.

Dobbiamo anche ricordare che questo nuovo parere consultivo è molto più importante e ampio. La Corte fa a pezzi l’idea dei negoziati di pace, degli accordi di Oslo, dell’accettazione da parte dei palestinesi dell’occupazione permanente. E mentre i governi continuano a mantenere la loro posizione secondo cui i negoziati sono l’unica via da seguire, in ogni capitale del mondo ci sarà ora una nota legale in cui si afferma che la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso una sentenza [che i negoziati non possono privare la popolazione di paesi occupati dei diritti ai sensi della Convenzione di Ginevra].

Un’altra cosa importante è che gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sono stati normalizzati, e qui abbiamo una decisione che indebolisce questo principio, affermando che gli insediamenti e i coloni devono andarsene. Sulla base di questi elementi mi aspetto di iniziare a vedere un cambiamento nella politica. Potrebbe non accadere immediatamente, ma cambierà la mentalità del modo in cui le persone si rapporteranno all’occupazione.

Che tipo di cambiamento nella politica o nella mentalità si aspetta dalla comunità internazionale?

Posso fare l’esempio del Canada, dove sono nata. Il commento del Canada [sul procedimento della Corte Internazionale di Giustizia sul caso] è stato molto prevedibile: afferma che la Corte Internazionale di Giustizia ha giurisdizione su questa importante questione ma poi prosegue dicendo che il modo migliore per risolverla è attraverso i negoziati. Ma questo equivale a dire, e perdonate l’analogia, che una persona che viene picchiata deve semplicemente negoziare con il suo aggressore. Ora la Corte ha fatto piazza pulita di tutto ciò e ha stabilito chiaramente che esiste un occupante e un occupato. Quindi ora mi aspetto – e in realtà inizierò a chiedere – che il governo canadese cambi la sua posizione.

Un altro esempio in cui mi aspetto di vedere un cambiamento è la questione dei coloni. Se si considera il numero di coloni che vivono oggi nei territori occupati, una stima prudente è di 700.000. In rapporto ai 4 milioni di persone presenti nell’intero territorio [della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est], si tratta di una percentuale molto alta. E questo è importante perché dimostra che tanti coloni israeliani hanno interiorizzato e normalizzato l’occupazione.

La domanda è se i coloni israeliani si considereranno persone che vivono illegalmente sulla terra palestinese – e sospetto che la risposta sarà un no. Ma ciò che voglio pensare è che quell’azione e quella percezione non saranno più normalizzate, e che si riconosca che l’occupazione ha causato danni che devono finire. Israele ha fatto un buon lavoro nel normalizzare gli insediamenti, e non esiste più la Linea Verde [linea di confine stabilita negli accordi del 1949, ndt.] – la dichiarazione di Netanyahu di ieri [contro la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia] ne è la prova. Ma questo deve cambiare.

Penso che siamo in un momento simile a quello in cui eravamo negli anni ’80 con l’apartheid in Sud Africa. Allora i sostenitori dell’apartheid dicevano agli attivisti anti-apartheid che semplicemente non capivano la situazione. L’apartheid era del tutto normalizzato. Dieci anni dopo non lo era più. Ed eccoci qui, 30 anni dopo non si riuscirebbe a trovare una persona che dica che l’apartheid fosse una buona cosa.

C’è stato qualcosa nel parere consultivo che l’ha sorpresa?

Non sono rimasta sorpresa da molte cose, ma mi ha fatto piacere che ci fossero certi elementi. Uno di questi è stata l’attenzione su Gaza, perché dal 2005 Israele ha adottato una narrazione di “disimpegno” sostenendo che non ci sia alcuna occupazione. Molte organizzazioni per i diritti umani si sono battute per affermare che Gaza è effettivamente occupata, che esiste un effettivo controllo israeliano e che il livello di tale controllo è responsabilità di Israele. Sono felice di vedere che la Corte lo ha confermato e ha messo a tacere questa discussione, soprattutto perché non c’è stata, per quanto ne so, alcuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite su questo argomento.

La seconda cosa che mi ha fatto molto piacere è che la Corte ha affermato che devono essere pagati dei risarcimenti e non solo sotto forma di smantellamento di tutti gli insediamenti, ma anche di abbandono dei coloni. E la terza cosa è l’idea che ai rifugiati sia permesso di ritornare [nelle case da cui erano fuggiti o da cui erano stati espulsi nel 1967]. Questo è un riconoscimento del danno che hanno causato 57 anni di occupazione militare. Sono rimasta felicemente sorpresa nel vedere la giudice australiana [Hilary Charlesworth] uscire allo scoperto e dire molto chiaramente che Israele non può rivendicare l’autodifesa per mantenere un’occupazione militare, o in relazione ad atti di resistenza contro l’occupazione. Lo sostengo da molto tempo ed è bello vedere una giudice fare le stesse osservazioni. E mentre nel complesso è d’accordo con l’opinione della Corte, la nuova giudice americana [presso la CIG] Sarah Cleveland, ha dato separatamente un’opinione molto interessante: ha sostenuto che la sentenza avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione alle responsabilità di Israele ai sensi della legge sull’occupazione specificatamente nei confronti di Gaza, sia prima del 7 ottobre che ora.

I politici israeliani, sia al governo che all’opposizione, hanno respinto l’opinione della Corte Internazionale di Giustizia bollandola come antisemita e prevenuta. Pensa che queste reazioni nascondano preoccupazioni o paure autentiche?

Sì, la paura di essere denunciati per i razzisti che sono, e che potrebbero effettivamente dover porre fine all’occupazione. Potrebbero esserci anche delle azioni a livello mondiale [per fare pressione su Israele]. Sono preoccupati anche perché sono innanzitutto loro che hanno portato lì i coloni, e potrebbero esserci richieste da parte dei coloni di essere ricompensati per andarsene.

Netanyahu non ha mai riconosciuto il diritto all’esistenza della Palestina. Proprio l’altro giorno abbiamo assistito al voto della Knesset contro la creazione di uno Stato palestinese. E non sono stati solo quelli del Likud, o gli [Itamar] Ben Gvir e [Bezalel] Smotrich a sottoscriverlo, ma anche altri legislatori, tra cui [Benny] Gantz. Non hanno mai riconosciuto ciò che hanno fatto nel 1948 o il danno che stanno causando oggi. Invece, sono guidati da questo concetto di supremazia ebraica – secondo cui solo loro hanno diritto a questa terra.

Israele ha sempre spacciato l’occupazione come in qualche modo legale, e le sue azioni come giuste e corrette con le stupide pretese di un “esercito morale”. Non esiste un esercito morale al mondo: come puoi uccidere moralmente le persone? Affermano che ci si può rivolgere all’Alta Corte israeliana ma ogni palestinese sa che non si può ottenere giustizia da un tribunale che è stato istituito come braccio dell’occupazione. Ora, quando c’è un tribunale che guarda dall’esterno e dice che quello che stanno facendo è illegale, per loro è ovviamente allarmante.

Il Sudafrica dell’apartheid si è comportato allo stesso modo quando ha dovuto fare i conti con le opinioni della Corte Internazionale di Giustizia. Alla fine di ogni parere della Corte Internazionale di Giustizia il governo dell’apartheid era solito esprimere la stessa linea: che solo il Sudafrica può giudicare il Sudafrica, il che significa che solo un sistema razzista può giudicare se il sistema è razzista. Questo è ciò che dice Israele: solo noi, il sistema razzista, possiamo determinare se è razzista. Ma poi esci di casa e vedi che le regole internazionali confermano che il sistema è razzista e deve essere smantellato. Questo è spaventoso per Israele.

Alcuni israeliani esperti di diritto internazionale stanno minimizzando il significato del parere della Corte Internazionale di Giustizia, sottolineando che non è vincolante e sostenendo che la Corte non ha detto che l’occupazione è illegale, ma solo che è illegale per Israele disobbedire alle regole dell’occupazione. Come considera queste affermazioni?

Hanno ragione, ma minimizzare è solo una perdita di tempo. Secondo il diritto internazionale ci può essere un’occupazione legale ma solo come stato temporaneo per un breve periodo di tempo al fine di ristabilire la legge e l’ordine ed eliminare le minacce. Il problema con l’occupazione israeliana non è solo la durata, ma il fatto che non è mai stata concepita come temporanea. Dal 1967 Israele ha affermato che non rinuncerà mai alla Cisgiordania. Hanno negato che i palestinesi abbiano diritti su questa terra e quasi immediatamente hanno iniziato la costruzione e l’espansione degli insediamenti. La durata e la prassi sono ciò che rende illegale l’occupazione israeliana.

Questi stessi giuristi israeliani non riconoscono cosa rappresenti il danno. Mantenere un’occupazione richiede violenza. Conquistare terre, costruire posti di blocco, costruire insediamenti, gestire un sistema giudiziario militare e un regime di permessi, rapire bambini nel cuore della notte, demolire case e rubare acqua: tutto ciò che questa occupazione comporta è violento. Quindi gli esperti israeliani possono provare a minimizzare la sentenza quanto vogliono, ma farebbero bene a mettervi finalmente fine, invece di trovare modi per abbellire l’occupazione.

Lei afferma che le azioni di Israele furono illegali fin dal primo giorno dell’occupazione del 1967. Ritiene che l’attuale governo, o gli ultimi 15 anni di governo di Netanyahu, siano più pericolosi di quelli precedenti? Oppure si stiano sostanzialmente continuando le stesse politiche nei confronti dei palestinesi e dei territori occupati che vediamo da più di mezzo secolo?

È lo stesso ed è diverso. È lo stesso perché non c’è stato un governo israeliano dal 1967 che abbia fermato l’espansione degli insediamenti. Può prendere in considerazione qualsiasi altro problema in Israele e i governi hanno avuto politiche diverse, ma questo li unisce. Quindi non importa che si tratti del Labour, del Likud o di Kadima; sotto questo aspetto Netanyahu non è diverso.

L’unica cosa nuova è che questo governo sia così sfacciato riguardo alla sua posizione. Mentre in passato ci potevano essere persone che parlavano di una soluzione a due Stati, Netanyahu è stato molto chiaro durante tutto il suo mandato sul fatto che non ci sarà mai uno Stato palestinese e che i palestinesi non hanno diritti.

Lei è stata a lungo critica nei confronti dell’Autorità Palestinese per i suoi fallimenti. Come crede che gestiranno questa sentenza e le altre recenti procedure presso la CIG e la Corte Penale Internazionale, sia sul piano diplomatico che sul territorio?

Uno dei grossi problemi nel 2004 era che non avevamo una leadership palestinese che spingesse per l’attuazione della decisione della Corte Internazionale di Giustizia [sul muro di separazione]. Pensavano ancora che quello fosse il periodo d’oro dei negoziati, vivevano ancora in un mondo fantastico. Ed è per questo che il movimento BDS ha finito per farsi avanti e premere.

Questa volta sono davvero preoccupata perché se c’è una cosa chiara in questa decisione è [una critica a] tutte quelle cosiddette “generose offerte [israeliane]” che i palestinesi hanno dovuto sopportare. La Corte Internazionale di Giustizia chiarisce che [i territori palestinesi occupati] non sono territorio israeliano con cui essere generosi. Non solo, il parere della Corte Internazionale di Giustizia è un atto d’accusa contro Oslo: afferma che non importa cosa sia stato firmato, la Palestina ha ancora il diritto all’autodeterminazione e nessun accordo può sostituire tale diritto.

Il mio timore è che Abu Mazen [il presidente Mahmoud Abbas] conosca un solo concetto, ovvero i negoziati. Temo che vedremo abbastanza pressioni da parte degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale da spingerlo a dire che va tutto molto bene, ma che crede che i negoziati siano l’unica via da seguire.

E se dovesse dare un consiglio all’Autorità Palestinese, come suggerirebbe di procedere?

L’Autorità Palestinese dovrebbe andare di capitale in capitale per sostenere l’idea che gli insediamenti sono illegali e che i coloni devono andarsene. Non prenderei in considerazione l’idea di scambi di terre, come è stato fatto in passato. Non prenderei in considerazione l’ipotesi di negoziare adesso; non sono male come metodo, ma i negoziati devono pur riguardare qualcosa. Se dovessero, ad esempio, negoziare sui pesticidi, o sull’economia, o sulla circolazione delle persone, andrebbe tutto bene. Ma negoziare sui propri diritti è veramente ripugnante, e non posso credere che ci siano persone che pensano ancora in questi termini nel 2024.

Quindi consiglierei loro di fare tutto il possibile per assicurarsi che gli insediamenti e i coloni vengano rimossi – cosa che non dovrebbe essere oggetto di negoziati – e che Israele inizi a pagare un prezzo. Capisco che il presidente palestinese è sotto occupazione militare e che l’economia è sotto il controllo di Israele. Ma è necessario che questa dipendenza venga interrotta.

Come può la leadership palestinese utilizzare questa decisione della Corte Internazionale di Giustizia per spingere con più forza per la fine della guerra a Gaza?

Non penso che l’attuale leadership sia in grado di fare qualcosa per Gaza. È molto triste per me dirlo, ma ho la sensazione che a molti di loro non importi nulla di Gaza.

E se parliamo della leadership palestinese nel suo insieme, non solo dell’Autorità Palestinese?

Per prima cosa dobbiamo avere una leadership palestinese che si formi attraverso le elezioni. La mia paura ora per Gaza è che si parli [a livello internazionale] di “chi” [chi prenderà il controllo], e non si parli realmente di “cosa”. La gente punta dicendo che questa o quella persona sarebbe buona, poi in qualche modo finisce per consolidarsi attorno ad Abu Mazen, come se non ci fosse nessun altro in Palestina capace di essere un leader.

Nessuno vorrà entrare in gioco e diventare il capo dell’Autorità Palestinese [come è adesso]. C’è una ragione per cui non c’è stato un colpo di Stato a Ramallah da quando Abu Mazen è salito al potere: è un lavoro ingrato e stupido in cui sei effettivamente il subappaltatore della sicurezza per Israele.

Ciò che deve emergere è una leadership eletta credibile con una strategia e una visione globale per tutti i palestinesi, ma soprattutto in questo momento per Gaza. E per me dovrebbero focalizzarsi sull’idea di accusare Israele di tutto ciò che ha fatto, in particolare dopo il 7 ottobre.

È sconsolante sentire in continuazione [da commentatori e politici internazionali] che nulla giustifica [l’attacco di Hamas del] 7 ottobre e tuttavia tutto ciò che Israele fa a Gaza è giustificato dal 7 ottobre. Dobbiamo iniziare a fare breccia in questa ideologia e addossare a Israele le sue colpe – allora si potrà iniziare a ricostruire Gaza.

Spero che una nuova leadership palestinese unita ed eletta faccia un passo indietro, valuti Oslo e gli errori commessi e valuti le circostanze attuali per andare avanti. Non penso che l’attuale leadership sia in grado di condurre questa riflessione su di sé.

L’OLP ha sempre avuto questa ossessione che il processo decisionale palestinese fosse nelle mani dei palestinesi, e oggi l’Autorità Palestinese mantiene la stessa ossessione. Ma se l’Autorità Palestinese non gestirà correttamente questo momento, e sospetto che non lo farà, vedremo molti più attivisti, il movimento BDS e altri a livello internazionale prendere il testimone.

La sentenza si concentra sui territori palestinesi occupati da Israele dal 1967. Alcuni direbbero che è un ambito molto ristretto, che ignora i crimini e le violazioni risalenti al 1948, e che potrebbe costringere i palestinesi ad accettare un futuro solo nei confini del 1967. Come affronta i limiti di questa sentenza per la causa palestinese?

Questa è stata la prima critica alla posizione della Corte Internazionale di Giustizia, e condivido questa critica: concentrandosi solo sul ’67 si dà un lasciapassare a Israele. L’unico modo per comprendere l’occupazione è capire cosa ha fatto Israele durante la Nakba e durante l’era del governo militare [all’interno di Israele], sotto il quale i cittadini palestinesi hanno vissuto per 19 anni fino al ’66. L’idea che si possano separare i due [1948 e 1967] è un’invenzione.

Per l’Autorità Palestinese ci sono due ragioni principali per concentrarsi sul 1967: la prima è che vedono l’occupazione come un danno diretto che deve essere riparato, e la seconda è che penso che abbiano rinunciato al [terreno usurpato nel] 1948 decenni fa – non solo con la firma di Oslo, ma ancor prima con la Dichiarazione di Indipendenza dell’OLP del 1988.

Per l’Autorità Palestinese c’è anche un contesto politico ristretto. In molti modi hanno rinunciato ai risarcimenti per la Nakba, il che di fatto significa che stanno rinunciando al diritto al ritorno. Potrebbero anche sostenere di essere favorevoli, ma io semplicemente non lo vedo.

C’è modo di parlare del ’48 e avere ancora un’idea di compromesso politico. Questa è stata la posizione palestinese per molti anni, ma negli ultimi vent’anni non è stata quella dell’Autorità Palestinese. Quando mi allontano e guardo la loro posizione, penso che ci sia una forte convinzione politica che alla fine rinunceremo sul ’48 – non solo al territorio ma anche alla narrazione – per cercare di preservare ciò che resta del ’67.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un mostruoso progetto di frode e autoinganno; quello che agli israeliani sfugge sugli insediamenti

Iris Leal

22 luglio 2024 – Haaretz/Opinioni

Mercoledì scorso ero a Kfar Tapuah, un insediamento coloniale nella Samaria [Giudea e Samaria sono i nomi usati da Israele per indicare la Cisgiordania, ndt.]. Il sole picchiava e una giovane donna, che spende i suoi giorni a tormentare i palestinesi rendendo la loro vita un inferno, passava tra due roulotte con un aspetto sciatto e trasandato.

Prima che partissimo da lì tre giovani hanno notato il nome Majdi sul nostro minibus, ci hanno inseguito, hanno picchiato sul cofano del motore e hanno preteso, davanti all’autista terrorizzato, di sapere perché a un arabo fosse stato permesso di entrare nella loro comunità.

Così giovani, eppure erano già esperti su come effettuare una profilazione razziale. Questa è l’immagine che ho portato con me da questo tour giornalistico organizzato dalla Geneve Iniziative [istituzione internazionale nata dall’Accordo di Ginevra tra Israeliani e Palestinesi elaborato nei 2003 a Ginevra, ndt.], una donna e alcuni giovani che immaginano di vivere in un mondo in cui possono impossessarsi della terra e tenersela senza impedimenti, perché i loro rappresentanti parlamentari esercitano un potere inimmaginabile.

Questo è il movimento di insediamento coloniale di cui parlano Bezalel Smotrich e Orit Strock di Sionismo Religioso, questo è il volto del “miracolo”. Non solo blocchi di insediamenti, ma anche alcune roulotte a Kfar Tapuah ed Evyatar che hanno come fine ultimo leliminazione di ogni possibilità di risolvere il conflitto con mezzi pacifici.

Oltre ad essere un progetto di rapina le colonie sono anche un enorme progetto di frode e autoinganno, che tutto Israele ha felicemente abbracciato. Neanche 24 ore dopo la Knesset  avrebbe adottato una risoluzione secondo la quale “La Knesset israeliana si oppone totalmente alla creazione di uno Stato palestinese a ovest del fiume Giordano”.

Un gruppo di persone ricche di fantasia che credono che dopo decenni di sanguinosa lotta nazionale palestinese saranno in grado di convincere milioni di persone ad essere sudditi nelle proprie terre, una terra che non hanno mai smesso di considerare come la loro patria. Zeev Elkin ha twittato, come uno sposo la prima notte di nozze, che la creazione di uno Stato palestinese nel cuore del Paese farebbe sì che il conflitto non abbia fine, al che mi sono chiesta: ma quale allucinogeno si è fumato?

Nel corso degli anni del suo governo Benjamin Netanyahu ha gestito il conflitto partendo dal falso presupposto che lesistenza dei palestinesi potesse essere cancellata dalla memoria, in Israele e allestero, ignorando la loro richiesta di uno Stato proprio. Riguardo agli Accordi di Abramo [accordi di normalizzazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein del 13 agosto 2020,ndt.] ha detto con soddisfazione che sono la testimonianza di pace in cambio di pace e non di terra in cambio di pace.

Il 7 ottobre è stata una terribile dimostrazione del suo errore, e la consapevolezza mondiale della grave situazione dei palestinesi e della necessità fondamentale di una soluzione diplomatica non è mai stata così forte. Ma invece di correggere lerrore la Knesset lo ha scolpito nella pietra.

Il che ci porta alla sentenza di venerdì della Corte Internazionale di Giustizia. Per batterla sul tempo Smotrich ha annunciato che quella Corte è un’istituzione politica e antisemita, e che “noi traiamo la fonte del nostro diritto su tutte le parti della terra d’Israele dalla promessa divina”.

I giudici della corte mondiale sono rimasti meno impressionati dalla promessa divina e più dalla realtà, e hanno stabilito che la presenza israeliana in Cisgiordania e a Gerusalemme Est è illegale; che le azioni che Israele porta avanti in questi territori, compresa la costruzione di insediamenti coloniali e la loro espansione, equivalgono allannessione di ampie aree del territorio palestinese; che Israele non riesce a prevenire la violenza dei coloni contro i palestinesi e a punire i colpevoli; che sequestra la terra per l’insediamento dei coloni; e, cosa ancora più vergognosa, che Israele sta attuando un sistema di segregazione razziale tale da configurarsi probabilmente come regime di apartheid.

La risposta alla sentenza da parte di esponenti del sionismo religioso è stata unanime: “La risposta all’Aja – supremazia subito“. Netanyahu ha annunciato che nessuna nazione può essere considerata forza di occupazione nel proprio territorio, mentre il leader dellopposizione Yair Lapid ha affermato che la sentenza è lontana dalla realtà e viziata da antisemitismo.

Da Smotrich a Lapid, dalla destra messianica al centrosinistra, tutti scelgono di negare loccupazione e il fatto che essa sia la questione decisiva delle nostre vite.

I leader ciechi e codardi, che hanno lasciato la sinistra radicale a trattare con la realtà, continueranno a reprimere lespressione della parola apartheid. Ma tutti, su entrambi i lati della Linea Verde [linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949, ndt.] che Israele ha cancellato, sentiranno presto le conseguenze della sentenza dellAia. Il gioco è finito.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Le violenze che non fanno mai notizia

Adam Horowitz

23 giugno 2024 – Mondoweiss

 

Le morti quotidiane e il numero delle vittime che abbiamo conteggiato da ottobre si riferiscono solo a coloro che sono stati uccisi direttamente dall’offensiva militare israeliana. E quelli che sono stati uccisi dalla distruzione di una società? Questa è una domanda che mi ha perseguitato per mesi. Cosa è successo ai pazienti oncologici? Come hanno fatto i palestinesi con altri problemi di salute a ottenere le cure di cui hanno bisogno?

Parte della risposta è stata chiarita da una storia di Tareq Hajjaj che abbiamo pubblicato questa settimana sulle condizioni del settore medico a Gaza. I momenti di violenza più scioccanti di cui siamo stati testimoni nei passati 8 mesi, l’assedio degli ospedali, il massacro dei palestinesi che cercavano di ricevere aiuti, lo sfollamento forzato di oltre 2 milioni di persone sotto la minaccia delle armi sono solo la punta dell’iceberg della violenza a cui sono stati sottoposti i palestinesi di Gaza.

Tareq racconta la storia di Nabil Kuhail, un paziente di 3 anni affetto da leucemia che semplicemente non ha potuto ricevere le cure mediche necessarie perché gli ospedali di Gaza sono stati distrutti. “La storia di Nabil è una di tante,” scrive Tareq. “Sono innumerevoli i pazienti che lottano per avere i trattamenti per varie malattie, quelle comuni spesso più mortali di quelle serie.”

Tale distruzione della vita palestinese è la prova dell’intento genocida di Israele a Gaza. E, come Jonathan Ofir ci ha aiutato a confermare questa settimana, il sostegno per queste politiche si estende a tutto lo spettro politico israeliano, inclusi quelli spesso lodati in Occidente come i campioni più progressisti della “democrazia” israeliana.”

Naturalmente questa violenza quotidiana che i palestinesi affrontano oltre a quella riportata nei titoli dei giornali non è solo nella Striscia di Gaza. Shatha Hanaysha ci ha riferito del caso di sadismo dei soldati israeliani che hanno usato un palestinese ferito come scudo umano durante un attacco a Jenin in Cisgiordania questo fine settimana. 

Shatha racconta:

Un testimone oculare che preferisce rimanere anonimo ha detto a Mondoweiss che i soldati israeliani hanno deliberatamente maltrattato il ferito.

Sembrava che lo facessero per divertirsi,” ha detto il testimone, aggiungendo che l’uomo non era né ricercato né un combattente della resistenza, ma un civile disarmato. Ciò era evidente dal fatto che i militari israeliani non l’hanno arrestato, ma l’hanno consegnato all’ambulanza palestinese dopo che era rimasto legato sul cofano del veicolo per parecchi minuti nel caldo estivo.

Questa storia probabilmente non arriverà sulle testate internazionali ma ci dice di più sulla realtà dell’occupazione israeliana e l’apartheid che testimoniano molte relazioni sui diritti umani. 

E le minacce di violenza sembrano solo aumentare. Leggete questa relazione di Qassam Muaddi sulla crescente minaccia di un attacco israeliano su larga scala contro il Libano. Come chiarisce Qassam, probabilmente spetterà all’amministrazione Biden fermare un attacco israeliano che potrebbe avere conseguenze regionali gigantesche e devastanti. Sfortunatamente sembra che gli USA non vogliano opporsi a Israele. 

Tuttavia gli sforzi della politica statunitense continuano con molti occhi puntati sulle imminenti elezioni USA. Questa settimana Michael Arria ha delineato due importanti tentativi di sfidare lo status quo politico. 

Da quando la campagna “Uncommitted” per esprimere disapprovazione verso l’amministrazione Biden ha cominciato a comparire a sorpresa sui titoli dei giornali durante le primarie del partito Democratico la domanda è: cosa succederà dopo? Questa settimana Michael ha parlato con Lexis Zeidan, co-direttore di Listen to Michigan, per scoprirlo. Michael ha anche parlato con Usamah Andrabi, portavoce di Justice Democrats, sulla coalizione Reject AIPAC [Contro AIPAC, principale organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndt.] per un podcast di Mondoweiss. Per favore, prestategli ascolto.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




In che modo Israele distorce le accuse di antisemitismo per proiettare i propri crimini sui palestinesi

Amos Goldberg e Alon Confino

21 maggio 2024 – +972 Magazine

Il contenuto delle istigazioni attribuite da Israele e dai suoi sostenitori ai palestinesi viene apertamente affermato dai politici israeliani e attuato dallesercito israeliano.

Sulla scia della proliferazione di accampamenti studenteschi filo-palestinesi nei campus universitari americani, le accuse di antisemitismo sono tornate al centro del discorso politico statunitense e globale. Indubbiamente, come hanno sottolineato Peter Beinart e altri, in alcune di queste proteste sono apparse espressioni di antisemitismo, ma la loro prevalenza è stata notevolmente esagerata. In effetti, influenti personaggi ebrei e non ebrei nei media e nella politica hanno deliberatamente cercato di creare un panico morale pubblico confondendo le dure critiche a Israele e al sionismo con lantisemitismo.

Questa fusione è il risultato di una campagna decennale condotta da Israele e dai suoi sostenitori in tutto il mondo per ostacolare lopposizione alle violente politiche statali di occupazione, apartheid e dominio sui palestinesi, che negli ultimi sette mesi hanno assunto proporzioni immense e plausibilmente genocide.

Questa strategia non è solo cinica, ipocrita e dannosa per la lotta essenziale contro il vero antisemitismo. Permette anche a Israele e ai suoi sostenitori, come qui sosterremo, di negare i crimini e il discorso violento di Israele invertendoli e proiettandoli sui palestinesi e sui loro sostenitori, e chiamando ciò antisemitismo.

Questo meccanismo psico-discorsivo di inversione e proiezione è alla base del documento fondamentale della cosiddetta lotta contro lantisemitismo”: la definizione di antisemitismo dell International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dellOlocausto] (IHRA), che Israele e i suoi alleati promuovono aggressivamente in tutto il mondo.

In risposta alle proteste studentesche la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha recentemente approvato un disegno di legge che, se approvato dal Senato, trasformerebbe in legge questa definizione, nonostante il fatto che la stessa IHRA la descriva come una definizione operativa giuridicamente non vincolante.”

Inversione e proiezione attraverso una definizione

L’IHRA è un’influente organizzazione internazionale composta da 35 Stati membri principalmente del Nord del mondo (compresi Israele e l’Europa orientale). Nel 2016 lorganizzazione ha adottato una definizione operativa di antisemitismo che include una vaga connessione dellantisemitismo all’ odio verso gli ebrei” insieme a 11 esempi che pretendono di illustrarlo; sette di questi si concentrano su Israele, equiparando essenzialmente allantisemitismo la critica a Israele e lopposizione al sionismo. Ciò ha quindi scatenato enormi polemiche nel mondo ebraico e non solo, nonostante la sua adozione da parte di decine di Paesi e centinaia di organizzazioni, da università a società calcistiche.

Nel corso degli anni sono stati registrati infiniti esempi che dimostrano come questa definizione serva a frenare la libertà di parola, a mettere a tacere le critiche nei confronti di Israele perseguendo chiunque le muova. Tanto che Kenneth Stern, che è stato il principale estensore della definizione, ne è diventato il principale oppositore. Definizioni alternative come la Dichiarazione di Gerusalemme sullantisemitismo (tra i cui promotori e redattori figurano gli autori di questo articolo) sono state suggerite come strumenti più accurati e meno politicamente distorti da utilizzare per scopi educativi nella lotta allantisemitismo.

Fondamentalmente, la definizione dellIHRA è una manifestazione del meccanismo di inversione e proiezione attraverso il quale Israele e i suoi sostenitori negano i crimini di Israele e li attribuiscono ai palestinesi. Uno degli esempi della definizione afferma, ad esempio, che negare al popolo ebraico il diritto allautodeterminazione” è antisemita. Eppure la politica ufficiale di Israele di insediamento coloniale, occupazione e annessione negli ultimi decenni ha negato al popolo palestinese il diritto allautodeterminazione.

Questa politica è stata intensificata sotto Benjamin Netanyahu, che nel gennaio 2024 ha pubblicamente promesso di opporsi a qualsiasi tentativo di creare uno Stato palestinese. Inoltre, facendo eco alla Legge sullo Stato-Nazione ebraico del 2018, i principi guida fondamentali della coalizione di governo dichiarano che il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile su tutte le aree della Terra di Israele”. Mentre Israele ostacola attivamente lautodeterminazione palestinese, la definizione dellIHRA inverte questa affermazione e la proietta sugli stessi palestinesi, definendola antisemitismo.

Secondo la definizione dellIHRA fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella nazista” è un altro esempio di antisemitismo. Anche qui il modello di inversione e proiezione è evidente, poiché Israele e i suoi sostenitori collegano continuamente gli arabi e soprattutto i palestinesi ai nazisti.

Questo è un discorso profondamente radicato e molto popolare in Israele. Parte da David Ben-Gurion, il primo presidente del consiglio israeliano, che vedeva gli arabi che combattevano Israele come i successori dei nazisti e giunge fino a Benjamin Netanyahu, che sostiene che Hamas è il nuovo nazismo e al ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che ha recentemente affermato che ci sono 2 milioni di nazisti nella Cisgiordania occupata.

Alla luce di queste ipocrisie, laffermazione contenuta nella definizione dellIHRA secondo cui applicare doppi standard” nei giudizi morali su Israele è antisemita è un ulteriore esempio di questo meccanismo di inversione e proiezione. La stessa definizione dellIHRA utilizza doppi standard: mentre a Israele è consentito negare ai palestinesi il diritto allautodeterminazione e paragonarli ai nazisti, la definizione afferma che negare agli ebrei il diritto allautodeterminazione e tracciare collegamenti tra la politica israeliana e quella nazista è antisemita.

In difesa del genocidio

Come rilevato durante la recente audizione al Congresso degli Stati Uniti di tre rettrici di università americane d’élite, questo meccanismo psico-discorsivo va oltre la definizione dellIHRA. Un momento chiave ha fatto seguito alla domanda della deputata repubblicana Elise Stefanik alle rettrici se le loro istituzioni avrebbero tollerato le denunce riguardanti il genocidio contro gli ebrei.

“Presumo che lei abbia familiarità con il termine intifada, giusto?” ha chiesto Stefanik a Claudine Gay, rettrice dell’Università di Harvard. E lei comprende,” ha continuato, che luso del termine intifada nel contesto del conflitto arabo-israeliano è effettivamente un appello alla resistenza armata violenta contro lo Stato di Israele, compresa la violenza contro i civili e il genocidio degli ebrei. Ne è a consapevole?”

Questa equazione tra intifada e genocidio è infondata: intifada è la parola araba per una rivolta popolare contro loppressione e per la liberazione e la libertà (il verbo intafad انتفاض significa letteralmente scrollarsi di dosso”). Si tratta di un appello all’emancipazione ripetuto più volte nel mondo arabo contro i regimi oppressivi, e non solo contro Israele. Unintifada può essere violenta, come lo è stata la Seconda Intifada in Israele-Palestina tra il 2000 e il 2005, o non violenta, come lo è stata in larga misura la Prima Intifada tra il 1987 e il 1991, o l’“Intifada di WhatsApp” in Libano nel 2019. Detto questo, l’unica traccia di genocidio risiede nell’immaginazione di Stefanik e dei suoi pari. Questo è stato un momento fatale: Stefanik ha teso una trappola a Gay e Gay ci è caduta.

Un altro esempio di falsa e insidiosa accusa è laffermazione di Israele e dei suoi sostenitori secondo cui lo slogan di liberazione palestinese Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera” sarebbe genocida e antisemita. Come hanno sostenuto gli storici Maha Nasser, Rashid Khalidi e altri, la stragrande maggioranza dei palestinesi e dei loro sostenitori che scandiscono questo slogan vuole semplicemente dire che la terra della Palestina storica sarà liberata politicamente – nel ripudio assoluto dellattuale realtà della mancanza di libertà sotto varie forme per i palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Ciò potrebbe assumere la forma di uno Stato con uguali diritti per tutti, di due Stati nazionali completamente indipendenti o di una sorta di accordo binazionale o confederale.

In entrambi questi casi, Israele e i suoi sostenitori trovano un appello al genocidio contro gli ebrei laddove questo non esiste. Eppure in Israele, dopo i massacri e le atrocità del 7 ottobre, solo nei primi tre mesi molti leader israeliani, ministri del gabinetto di guerra, politici, giornalisti e rabbini hanno invocato esplicitamente e apertamente un genocidio a Gaza in più di 500 casi documentati, alcuni dei quali nel corso di programmi televisivi in prima serata. Ciò è stato evidenziato in modo scioccante davanti agli occhi del mondo intero nella causa che il Sud Africa ha presentato contro Israele a dicembre presso la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ).

Tra di loro, ad esempio, il presidente Isaac Herzog, il ministro della Difesa Yoav Gallant e il ministro del Patrimonio Amichai Eliyahu. Più recentemente, linfluente rabbino Eliyahu Mali ha esortato lesercito israeliano a uccidere tutti i bambini e le donne a Gaza, mentre [il ministro delle Finanze] Smotrich ha chiesto lannientamento totale delle città di Rafah, Deir al-Balah e Nuseirat. Tali voci rappresentano unampia fascia dellopinione pubblica israeliana e corrispondono a ciò che sta realmente accadendo sul campo.

Il 26 gennaio la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso una sentenza provvisoria in cui dichiara che esiste un rischio plausibile” che il diritto dei palestinesi ad essere protetti dal genocidio venga violato. Da allora la situazione è ulteriormente peggiorata, con Israele che ha esteso la sua invasione a Rafah e ha deliberatamente affamato la popolazione di Gaza di 2,3 milioni di persone.

Molti studiosi di genocidio – tra cui Raz Segal, Omer Bartov, Ronald Grigor Suny, Marion Kaplan, Amos Goldberg e Victoria Sanford – sono giunti più o meno alla stessa conclusione della Corte Internazionale di Giustizia. Anche la relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, nel suo recente rapporto Anatomia di un genocidio”, ha affermato che ci sono ragionevoli motivi per ritenere che la soglia che indica che Israele abbia commesso un genocidio sia stata raggiunta”.

Pertanto funzionari e personaggi pubblici israeliani dichiarano esplicitamente e apertamente, e lesercito israeliano mette in atto, i contenuti delle accuse di istigazione rivolte da Israele e dai suoi sostenitori contro i palestinesi. E mentre i palestinesi e i loro sostenitori inneggiano alla liberazione dal fiume al mare”, Israele sta rafforzando la supremazia ebraica dal fiume al mare” sotto forma di occupazione, annessione e apartheid.

Suggeriamo quindi di interpretare questa inversione e proiezione non solo come un classico caso di doppi standard ipocriti contro i palestinesi, ma anche – come spesso accade con i processi di proiezione – come un meccanismo di difesa attraverso la negazione. Israele e i suoi sostenitori non possono smentire loppressiva struttura dellapartheid dello Stato, la delegittimazione dei palestinesi, o la retorica e i crimini genocidi, quindi distorcono queste accuse e le trasferiscono sui palestinesi.

La cosiddetta lotta contro lantisemitismo” che Israele e i suoi sostenitori stanno conducendo, fondata sulla definizione di antisemitismo dellIHRA, dovrebbe quindi essere vista come lennesimo mezzo utilizzato da uno Stato potente per negare i suoi atti criminali e le atrocità di massa. Il governo degli Stati Uniti deve assolutamente respingerlo.

Amos Goldberg è un docente di storia dell’Olocausto. I suoi libri più recenti sono Trauma in First Person: Diary Writing during lOlocausto” [Trauma in prima persona: note di diario durante l’Olocausto] e un libro co-edito con Bashir Bashir, The Holocaust and the Nakba: A New Grammar of Trauma and History.” [ed. italiana: Olocausto e Nakba”, Zikkaron]

Alon Confino è titolare della cattedra Pen Tishkach di studi sull’Olocausto presso l’Università del Massachusetts, Amherst. Il suo libro più recente è “A World Without Jews: The Nazi Imagination from Persecution to Genocide” [ed. Italiana: Un mondo senza ebrei. L’immaginario nazista dalla persecuzione al genocidio”, Mondadori].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La Palestina è il genocidio che noi, popolo ebraico, possiamo fermare

Amanda Gelender

24 novemebre 2023 – Middle East Eye

Non possiamo consentire che l’anima morale dell’ebraismo muoia a causa del nostro silenzio collettivo sulla guerra genocida contro i palestinesi a Gaza

Mi siedo per scrivere questa lettera d’amore al mio amato popolo ebraico, mentre un genocidio si svolge sul mio schermo.

Questa lettera sgorga dal mio cuore verso i vostri. È un appello all’azione per risollevarci in solidarietà con la Palestina. Ho tanta profonda tenerezza per noi, la nostra storia e le orgogliose tradizioni che abbiamo mantenuto attraverso secoli di indicibili ingiustizie.

Sono cresciuta come alcuni di voi andando alla sinagoga in una comunità ebraica progressista americana. Celebrare e sostenere Israele era parte di quello che significava essere ebrea dal punto di vista culturale e religioso. Quando sono arrivata per la prima volta a comprendere quanto stava realmente succedendo nei territori palestinesi occupati avevo 18 anni ed ero iscritta al primo anno di college. Una coetanea ebrea mi parlò dei soprusi che Israele commette nel nostro nome.

Non sono orgogliosa di ammettere che il fatto che lei fosse ebrea fu probabilmente la sola ragione per cui le diedi ascolto: mi era stato insegnato dalla mia comunità che solo il popolo ebraico può realmente capire quanto Israele sia importante per la nostra sicurezza e il nostro benessere. Ripensandoci, vorrei aver creduto prima ai palestinesi.

I palestinesi hanno autorità sulla loro lotta per la libertà. Ma l’indottrinamento e il timore instillatimi in quanto bambina ebrea era troppo forte da superare finché la bolla del sionismo è scoppiata. Quando sono arrivata ad apprendere per la prima volta la dimensione della continua brutalità di Israele contro il popolo palestinese ho stentato a crederci. Gli adulti ebrei della mia famiglia mi parlavano di giustizia, diritti umani e dell’obbligo morale degli ebrei di coltivare il cambiamento sociale e di “migliorare il mondo” (tikkun olam). 

Com’è possibile che il mio popolo possa omettere la verità riguardo all’apartheid e all’occupazione israeliane? Mi è stato insegnato che Israele venne fondato su un pezzo di terra vuoto, non che le bande terroristiche sioniste fecero irruzione nei villaggi uccidendo 15.000 palestinesi e cacciandone altri 750.000 durante la Nakba [la pulizia etnica del 1947-49, ndt.]. Semplicemente non ne sapevano niente, come me?

L’inganno sionista

La posizione secondo cui “chiunque critichi Israele è antisemita” è diventata sempre più debole di fronte alla crescente lista di crimini di guerra commessi da Israele. Se tutto quello che mi era stato detto riguardo a Israele non era vero, cos’altro era falso?

E cosa significa continuare a far parte della comunità ebraica, dato che di fatto tutti i miei coetanei ebrei sono ancora tacitamente o attivamente coinvolti nella menzogna del nazionalismo sionista?

Una volta svanita la negazione, è arrivata la rabbia. Persone di cui ci fidavamo ci avevano mentito; siamo stati ingannati in modo che sostenessimo uno Stato di apartheid che maltratta minorenni e tortura senza pietà nel nostro nome. Giovani ebrei, compresa me, sono stati coinvolti in un continuo genocidio contro il popolo palestinese durato 75 anni.

Ci sono state terribili, inimmaginabili violazioni dei diritti umani commesse con la scusa di proteggere le vite degli ebrei, quando in realtà una tranquilla pace coloniale è possibile solo attraverso la continua repressione dei palestinesi. Non c’è nessuna sicurezza per chi è sotto occupazione.

Ci è stato insegnato che Israele rappresenta una speranza di rifugio ritagliato per gli ebrei dopo l’Olocausto, qualcosa di prezioso che dobbiamo proteggere a ogni costo. Era “l’unica Nazione per il popolo ebraico”, la nostra patria, il nostro retaggio: Israele.

Ci è stato insegnato [che abbiamo] un intrinseco diritto su un pezzo di terra dall’altra parte del mondo. Israele era una seconda, possibile patria per noi, ma la storia guarda caso ometteva il fatto che la Palestina è l’unica patria per i palestinesi, che hanno posseduto la terra per generazioni.

Israele continua a negare ai palestinesi il diritto di visitarla e il diritto inalienabile di tornare inpatria, ma in quanto ebrea nata in California posso visitarla quando voglio e Israele mi pagherà persino per andarci a vivere su terra rubata ai palestinesi.

Non ci è stato insegnato che Israele è totalmente finanziato dagli USA e funge da avamposto strategico dell’Occidente imperialista per l’estrazione di materie prime, la sperimentazione di armi, l’addestramento della polizia statunitense e altro. Nessuno mi ha detto che la nascita di Israele ha richiesto la morte di palestinesi, una pulizia etnica opportunamente nascosta sotto il tappeto in modo che il popolo ebraico possa avere qualcosa di scintillante e pulito; che è una Nazione militarizzata fondata su mucchi di corpi di palestinesi bruciati, una patria ebraica costruita su fosse comuni di nativi.

Lotta per la libertà contro la colonizzazione

La storia di Israele non è nuova. È ben nota ai popoli colonizzati in tutto il mondo. Perpetua lo stesso suprematismo bianco, la menzogna colonialista che i coloni arrivati all’isola della Tortuga (nel Nord America) dissero a se stessi per giustificare il genocidio dei popoli indigeni: in nome del progresso, della modernità e della democrazia il colonizzatore deve demolire, uccidere e distruggere.

In base a questa menzogna il colonizzatore deve saccheggiare la terra come destino manifesto, dall’Atlantico al Pacifico, e uccidendo violentemente quanti più “terroristi nativi selvaggi” possibile per espandere le conquiste territoriali e costruire case sicure per le famiglie di coloni.

La Palestina non è impegnata in una guerra santa, è una lotta per la libertà dal colonialismo. I palestinesi non hanno scelto il popolo ebraico perché colonizzasse la loro terra e hanno il diritto morale e giuridico di resistere all’occupazione indipendentemente da chi sia l’occupante. La sicurezza degli ebrei è destinata al fallimento finché continuerà la violenta occupazione della Palestina. La nostra liberazione è strettamente collegata a ciò.

Siamo in un momento senza precedenti nella storia. Si sta svolgendo un genocidio davanti ai nostri occhi, mentre corpi sono ammassati in fosse comuni fuori dagli ospedali bombardati e dai campi profughi. Un movimento di solidarietà globale con la Palestina ha penetrato il velo di benessere occidentale, un’evasione dalla prigione dell’assedio.

E mentre l’esercito israeliano appoggiato dagli USA continua a far piovere bombe sul popolo di Gaza assediato, molti del mio popolo ebraico stanno seduti a guardare, o lo stanno appoggiando attivamente.

Con il nostro silenzio noi popolo ebraico nel mondo siamo co-firmatari di questo genocidio. Molti hanno considerato che è “troppo complicato”, con la minaccia di essere allontanati da amici, famiglia e colleghi. Non vogliamo rischiare conseguenze concrete.

Deludente asimmetria

Ma famiglie palestinesi vengono uccise nel sonno, brutalizzate con il fosforo bianco incendiario, prese di mira da cecchini nei reparti di maternità degli ospedali, fatti morire di fame e disidratati, senza acqua potabile e obbligati a marce della morte. Stanno estraendo morti, bambini insanguinati dalle polverose rovine di macerie bombardate.

Eppure i miei coetanei ebrei in Occidente dicono che sono loro a temere un genocidio. Questa deludente asimmetria deve finire, in modo che possiamo concentrare risorse e attenzione verso quelli che affrontano una minaccia concreta di eliminazione in questo massacro della dignità umana assolutamente evitabile.

La richiesta dei palestinesi in questo momento è chiara: cessate il fuoco subito. Fine dell’assedio contro Gaza e dell’occupazione illegale. Rispetto del diritto al ritorno. I palestinesi ci stanno chiedendo di testimoniare il loro genocidio, fare pressione sui nostri rappresentanti per un immediato cessate il fuoco e boicottare quanti stanno traendo profitto dall’occupazione illegale. Ogni giorno senza cessate il fuoco il numero di morti aumenta e Israele cancella altre famiglie dall’anagrafe.

La Palestina è il genocidio che il popolo ebraico può fermare. Non abbiamo potuto intervenire per bloccare la morte dei nostri predecessori nei campi della morte, ma possiamo e dobbiamo fermare questo genocidio dal continuare un giorno in più. Non sprechiamo il nostro urgente e sacro dovere sfruttando la sofferenza degli ebrei come scudo e clava per la violenza contro i palestinesi.

Se vi considerate persone ebree con una coscienza comprenderete che questo massacro non ha una giustificazione morale o giuridica. Questo è il momento di parlare. I palestinesi non possono aspettare che la storia li risarcisca, perché, mentre scrivo questa lettera di amore e rabbia a voi, miei fratelli ebrei, i bombardamenti aerei continuano a colpirli.

Non possiamo consentire che l’anima morale dell’ebraismo perisca con il suono del nostro silenzio collettivo sul genocidio. La nostra voce sia una preghiera per i nostri antenati ebrei e una benedizione per i nostri discendenti dicendo una volta per tutte: mai più.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Amanda Gelender è una scrittrice ebrea americana antisionista che vive in Olanda. Fa parte del movimento di solidarietà con i palestinesi dal 2006.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




500 arrestati al Campidoglio tra gli attivisti ebrei che chiedono il cessate il fuoco a Gaza

Michael Arria

19 ottobre 2023 – Mondoweiss

Se non recuperiamo la nostra comune umanità non credo che potremo mai tornare indietro da tutto questo”, ha detto ai manifestanti la deputata Rashida Tlaib. “E al nostro Presidente: voglio che sappia che come palestinese-americana e persona di fede musulmana, non dimenticherò. E credo che molte persone non dimenticheranno.”

Cinquecento persone, comprese due dozzine di rabbini, sono state arrestate mercoledì a Washington quando attivisti ebrei hanno guidato una protesta dentro e fuori Capitol Hill. I manifestanti chiedevano ai deputati di appoggiare un cessate il fuoco a Gaza.

Centinaia di manifestanti sono entrati nella rotonda dell’edificio principale della Camera dei Rappresentanti dove hanno cantato, scandito slogan ed esposto cartelli che chiedevano un immediato cessate il fuoco. Gli attivisti indossavano magliette con davanti la scritta “Non in nostro nome” e “Gli ebrei dicono cessate il fuoco adesso”.

La polizia del Campidoglio ha comunicato che stava chiudendo le vie intorno al Campidoglio per garantire la sicurezza dei manifestanti all’esterno.

Al mattino presto più di 5.000 ebrei americani e loro alleati si sono radunati sul National Mall (il viale monumentale). La folla era guidata dalle deputate Rashida Tlaib (del Minnesota) e Cori Bush (del Montana). “Ringraziamo la nostra comunità ebraica per essere qui a dire ‘Mai più’ “, ha detto Bush.

Il 16 ottobre Tlaib, Bush e diversi altri rappresentanti progressisti hanno presentato una risoluzione che chiede all’amministrazione Biden di premere per un immediato cessate il fuoco a Gaza.

L’impegno legislativo è appoggiato da decine di associazioni per i diritti umani, comprese Adalah Justice Project, American Muslims for Palestine (AMP) e U.S.Campaign for Palestinian Rights (USCPR).

Se non recuperiamo la nostra comune umanità non credo che potremo mai tornare indietro da tutto questo”, ha detto Tlaib. “E al nostro Presidente: voglio che sappia che come palestinese-americana e persona di fede musulmana, non dimenticherò. E credo che molte persone non dimenticheranno.”

Jewish Voice for Peace’ ha messo in evidenza l’azione in un post su Twitter:

Oggi 500 ebrei sono stati arrestati e 10.000 sono scesi in strada per sostenere e chiedere un cessate il fuoco e la fine del genocidio palestinese. Fermiamo il congresso per attirare una massiccia attenzione alla complicità degli USA nella continua oppressione di Israele sui palestinesi. Ma il nostro lavoro non è finito.

Possiamo fermare il genocidio a Gaza e lo faremo. Ma questa orribile situazione è stata resa possibile solo grazie al lavoro di fondo condotto dallo Stato israeliano da 75 anni. Dal 1948 il governo israeliano ha costruito un sistema di apartheid e di occupazione illegale.

Così come chiediamo la fine del genocidio a Gaza, dobbiamo compiere lo stesso sforzo per smantellare il sistema di sionismo, apartheid e colonialismo che ci ha portati a questa situazione.

L’unica strada per la pace e la sicurezza – per tutti – passa attraverso la giustizia e l’uguaglianza per tutti. Ciò significa essere solidali con i palestinesi. Significa costruire un mondo al di là del sionismo. Significa creare sistemi di sicurezza attraverso la solidarietà. Volete unirvi a noi?

La manifestazione di mercoledì si è svolta solo due giorni dopo che attivisti ebrei avevano bloccato tutti gli ingressi alla Casa Bianca, chiedendo a Biden di sostenere un cessate il fuoco.

Fin da bambini molti di noi si sono detti che non sarebbero stati a guardare se fossero mai stati testimoni di violenza genocida. Ci siamo detti che avremmo alzato la voce. Ci siamo detti che avremmo frapposto i nostri corpi. Abbiamo promesso che tali orrori non sarebbero mai più avvenuti sotto i nostri occhi”, ha detto la scrittrice e attivista Naomi Klein, che ha parlato anch’essa ai manifestanti. “Il ‘mai più’ di tutta la nostra vita sta accadendo proprio adesso a Gaza. E noi ci rifiutiamo di stare a guardare.”

La sezione di Washington della Anti-Defamation League (ADL) [associazione ebraica contro l’antisemitismo, fondata negli USA, ndt.] ha calunniato i manifestanti in una dichiarazione e ha affermato che gli anti-sionisti sono antisemiti. L’amministratore delegato dell’ADL Jonathan Greenblatt in un tweet ha paragonato gli attivisti ai suprematisti bianchi.

L’ADL è spaventata perché loro, come altre organizzazioni ebraiche istituzionali, hanno la sensazione di perdere il controllo di chi può parlare a nome degli ebrei americani”, ha scritto Ben Lorber, un membro di IfNotNow (Se non ora) e JVP (Jewish Voice for Peace). “Francamente, fanno bene a spaventarsi. Il loro fallimentare centrismo è il passato e le associazioni come IfNotNow e JVP sono il presente e il futuro.”

Michael Arria è il corrispondente USA per Mondoweiss.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)





Dei coloni ebrei hanno rubato la mia casa. Non è colpa mia se sono ebrei

Mohammed el Kurd 

 26 SEtTEMBre 2023, Mondoweiss

Ai palestinesi viene detto che le parole che usiamo minimizzano i decenni di violenza messa in atto contro di noi dall’autoproclamato Stato ebraico. Un drone va bene, ma gli stereotipi… uno stereotipo è inaccettabile. Ora basta.

Mentre crescevamo nella Gerusalemme occupata, le persone che cercavano di espellerci dal nostro quartiere erano ebrei e le loro organizzazioni spesso avevano “ebraico” nel nome. Lo stesso vale per le persone che ci hanno rubato la casa, buttato i nostri mobili per strada e bruciato la culla della mia sorellina. Anche i giudici che battevano il martelletto a favore della nostra espulsione erano ebrei, così come lo erano i legislatori le cui leggi facilitavano e sistematizzavano la nostra espropriazione.

Il burocrate che rilasciava – e talvolta revocava – le nostre carte d’identità blu era un ebreo, e io lo detestavo soprattutto perché un tratto della sua penna si frapponeva tra mio padre e la città dei suoi avi. Per quanto riguarda i soldati che ci perquisivano per controllare quei documenti, alcuni di loro erano drusi, altri musulmani, la maggior parte ebrei, e tutti loro, secondo mia nonna, erano “bastardi senza Dio”. Quelli che gestivano i fucili e le manette, quelli che redigevano meticolosi e sanguinari piani urbanistici erano … avete indovinato.

Non era un segreto. Vivevamo sotto il dominio dell’autoproclamato “Stato ebraico”. I politici israeliani hanno abusato di questa storia mentre i loro colleghi internazionali annuivano. L’esercito si è dichiarato esercito ebraico e ha marciato sotto quella che ha chiamato bandiera ebraica. I consiglieri comunali di Gerusalemme si vantavano di “prendere casa dopo casa” perché “la Bibbia dice che questo paese appartiene al popolo ebraico”, e i membri della Knesset intonavano canti simili. Quei legislatori non erano marginali o di estrema destra: la legge israeliana sullo Stato nazionale sancisce esplicitamente “l’insediamento ebraico” come un “valore nazionale… da incoraggiare e promuovere”.

Tuttavia, sebbene questo non fosse un segreto, ci veniva detto di trattarlo come tale, a volte dai nostri genitori, a volte da attivisti solidali ben intenzionati. Ci è stato detto di ignorare la Stella di David sulla bandiera israeliana e di distinguere gli ebrei dai sionisti con precisione chirurgica. Non importava che i loro stivali fossero sul nostro collo e che i loro proiettili e manganelli ci colpissero. Il nostro essere apolidi e senzatetto erano irrilevanti. Ciò che contava era il modo in cui parlavamo dei nostri guardiani, non le condizioni in cui ci tenevano – bloccati, circondati da colonie e avamposti militari – o il fatto stesso che ci tenessero.

Il linguaggio era un campo minato peggiore del confine tra la Siria e le alture del Golan occupate, e noi, all’epoca bambini, dovevamo aggirarlo, sperando di non calpestare accidentalmente uno stereotipo esplosivo che ci avrebbe screditato. Usare le “parole sbagliate” aveva la magica capacità di far scomparire le cose:gli stivali, i proiettili,i manganelli e i lividi diventano tutti invisibili se dici un qualcosa per scherzo o con rabbia. Ancora più pericoloso credere nelle “cose sbagliate”: ti rende meritevole di quella brutalità. La cittadinanza e il diritto alla libertà di movimento non erano gli unici privilegi che ci venivano derubati, anche la mera ignoranza era un lusso.

Come palestinesi comprendiamo fin da giovani che la violenza semantica che pratichiamo con le nostre parole fa impallidire decenni di violenza sistemica e materiale messa in atto contro di noi dall’autoproclamato Stato ebraico. Va bene un drone, ma uno stereotipo… lo stereotipo è inaccettabile. Impariamo a interiorizzare la museruola.

Quindi ho dato ascolto a quei messaggi – cos’altro dovrebbe fare un bambino di 10 anni? – e ho imparato a conoscere Hitler e l’Olocausto, ho imparato a riconoscere gli stereotipi del naso, i pozzi avvelenati, i banchieri, i vampiri, i serpenti e le lucertole (ho appena scoperto la piovra), e ho imparato che, quando parlo con i diplomatici in visita a quello zoo che è un nostro quartiere, i coloni che occupano casa nostra devono essere argomento secondario nella mia esposizione, dopo un’accalorata denuncia dell’antisemitismo globale. E quando mia nonna ottantenne si rivolgeva a quei visitatori stranieri, la interrompevo per correggerla ogni volta che descriveva i coloni ebrei in casa nostra come, be’, ebrei.   

Più di un decennio dopo non è cambiato molto. Lo stivale resta lì, lo stesso vale per i proiettili e i manganelli (e sarei negligente se non parlassi del genio creativo delle armi da fuoco robotiche azionate dall’Intelligenza Artificiale recentemente aggiunte all’arsenale dello Stato ebraico).

Il governo chiama il suo progetto in Galilea “l’ebreizzazione della Galilea” e le sue quasi-istituzioni fanno lo stesso. Per quanto riguarda i membri del consiglio che hanno promesso di prendere “casa dopo casa”, oltre al loro successo nel rubare case a Sheikh Jarrah, nella Città Vecchia, a Silwan e altrove, marciano regolarmente nelle nostre città con megafoni e bandiere cantando “vogliamo una Nakba ora.” I giudici continuano a battere martelletti per garantire la continuazione di questa Nakba, governano ancora a favore della supremazia ebraica. E, nonostante il disaccordo con la Corte Suprema su vari aspetti, i parlamentari legiferano in conformità con questo atteggiamento suprematista. Alcuni affermano apertamente che la vita ebraica è semplicemente “più importante della [nostra] libertà” (e talvolta sono anche così gentili da scusarsi con i presentatori televisivi arabi mentre gli comunicano questa dura verità).

Più di un decennio dopo lo status quo rimane immutato. E noi, e mi si spezza il cuore, continuiamo a ballare tra le mine. Continuiamo a puntare sulla moralità e sull’umanità così come loro puntano sulle loro armi.

Qualche settimana fa 16 agenti di polizia israeliani hanno spento le loro telecamere e hanno marchiato, intendo dire inciso fisicamente, la Stella di David sulla guancia del 22enne Orwa Sheikh Ali, un giovane arrestato nel campo profughi di Shufat.

Sempre poche settimane fa, MEMRI, un gruppo di controllo dei media co-fondato da un ex ufficiale dell’intelligence militare israeliana, ha pubblicato filmati del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas che affermava che gli europei “hanno combattuto [gli ebrei] a causa della loro posizione sociale” e dell’ ”usura” e “non a causa della loro religione”.

In risposta, un gruppo di rinomati intellettuali palestinesi, molti dei quali ammiro e rispetto, ha pubblicato una lettera aperta “condannando senza mezzi termini” – indovinate un po’? – i “commenti moralmente e politicamente riprovevoli” di Abbas.

Forse si può definire la loro dichiarazione congiunta una mossa “strategica” per confutare la convinzione che i palestinesi nascano intolleranti. Altri potrebbero dire che rappresenti ciò che significa avere un “codice morale coerente”. Sono certo che alcuni firmatari credono che la nostra cosiddetta autorità morale ci imponga di deplorare il revisionismo storico “rispetto all’Olocausto” e di dare l’esempio nel rifiutare ogni forma di razzismo, non importa quanto retorica.

Sia quel che sia, quando l’ho letta ho provato un senso di deja vu. Eccoci qui, presi ancora una volta in una crisi sconclusionata, a rispondere precipitosamente di crimini che non abbiamo commesso. La strategia di difenderci dall’accusa infondata di antisemitismo ci ha storicamente avvicinato ad essa. E soprattutto un simile impulso eleva inconsapevolmente la storia della sofferenza ebraica, che è certamente studiata e addirittura glorificata, molto al di sopra della nostra sofferenza odierna, una sofferenza negata e dibattuta.

Anche se i firmatari della lettera, alcuni dei quali criticavano l’Autorità Palestinese da prima che io nascessi, hanno denunciato “il governo sempre più autoritario e draconiano dell’Autorità Palestinese” e hanno preso atto delle “forze occidentali e filo-israeliane” che sostengono il mandato presidenziale scaduto di Abbas, nessuna di queste circostanze è servita da catalizzatore per quella che sembra essere la prima dichiarazione congiunta di condanna per Mahmoud Abbas. La lettera non menzionava nel titolo la sua collaborazione con il regime sionista, né la brutalizzazione di manifestanti e prigionieri politici, per non parlare dell’omicidio di Nizar Banat [militante e attivista per le libertà assassinato dalle Forze di Sicurezza Palestinesi, ndt.]

Il catalizzatore qui sono state le parole. Solo parole. Ed è sempre così. Ancora una volta, un drone va bene, ma uno stereotipo è vietato.

Ironicamente, sia la lettera congiunta che il discorso di Abbas cercavano di prendere le distanze dall’antisemitismo. Verso la fine del filmato, Abbas ha voluto “chiarire” che ha detto ciò che ha detto riguardo “gli ebrei d’Europa che non hanno nulla a che fare con il semitismo” perché dovremmo “sapere chi dobbiamo accusare di essere nostro nemico”. “

Che impeto impegnativo. Non solo viviamo nella paura di essere evacuati per mano di un colonialismo che si professa ebraico, non solo il nostro popolo è bombardato da un esercito che marcia sotto quella che sostiene essere la bandiera ebraica, e non solo i politici israeliani enunciano ossessivamente l’ebraicità delle loro azioni, ci viene detto di ignorare la Stella di David che sventola sulla loro bandiera – la Stella di David che incidono sulla nostra pelle.

Questo impeto è vecchio di decenni, se non di un secolo. Nella trascrizione manoscritta di un discorso tenuto al Cairo nell’ottobre 1948, lo studioso palestinese Khalil Sakakini cancellò un frammento di frase che diceva “… la lotta tra arabi ed ebrei” per sostituirla con “la lotta tra noi e gli invasori .” Gli accademici palestinesi, l’Istituto per gli studi sulla Palestina e il Centro di Ricerca sulla Palestina dell’OLP (che fu saccheggiato e bombardato ripetutamente negli anni ’80) hanno dedicato articoli, libri e volumi allo studio dell’antisemitismo, delle sue radici europee e delle sue manifestazioni, europee e non – e la sua fusione con l’antisionismo.

Il popolo palestinese ha continuamente chiarito che il nostro nemico è l’ideologia colonialista e razzista del sionismo, non gli ebrei. La nostra capacità di cogliere tale distinzione è ammirevole e impressionante, considerando la mano pesante con cui il sionismo tenta di farsi sinonimo di ebraismo.

Tuttavia, questa distinzione non è nostra responsabilità e, personalmente, non è fra le mie priorità. Il risentimento provato da un palestinese non ha il sostegno di una Knesset che lo codifichi in legge. Gli stereotipi non sono droni, né si possono convertire le teorie della cospirazione in armi nucleari. Siamo oltre i primi del ‘900. Le cose sono diverse, il potere è cambiato. Le parole non ammazzano.

Nei giorni trascorsi tra il gesto di 16 soldati che marchiano la Stella di David sul volto di un uomo e la pubblicazione della lettera congiunta, un soldato israeliano ha ucciso un adolescente disabile vicino a un posto di blocco militare a Qalqilya; un altro ha sparato alla testa a un bambino a Silwan; un giovane già colpito durante un raid israeliano nel campo profughi di Balata è morto per le ferite riportate; un cecchino ha sparato alla testa di un giovane palestinese a Beita; un diciassettenne è stato ucciso a colpi di arma da fuoco a sud di Jenin; un altro giovane è morto a causa delle ferite riportate in seguito all’invasione del campo profughi; famiglie di palestinesi i cui cadaveri sono trattenuti dalle autorità di occupazione avevano marciato con bare vuote a Nablus; un soldato ha ucciso un uomo vicino a Hebron; la polizia ha giustiziato un ragazzo di 14 anni a Sheikh Jarrah tra gli applausi di centinaia di coloni; la polizia ha poi lanciato gas lacrimogeni sulla sua famiglia a Beit Hanina; un palestinese è stato ucciso dopo aver speronato soldati israeliani a Beit Sira uccidendone uno; nel nord di Gerico un palestinese è stato ucciso e un soldato è rimasto ferito in uno scontro a fuoco; un soldato ha sparato alla testa a un uomo a Tubas, uccidendolo – e questa è solo la punta dell’iceberg.

Quale di questi eventi ha causato un ampio dibattito? Nessuno. C’è stato molto dibattito in televisione riguardo all’affermazione di Itamar Ben-Gvir secondo cui la vita ebraica è “più importante della libertà [palestinese]”, molto meno riguardo al marchio della Stella di David e, naturalmente, Mahmoud Abbas ha ricevuto la reazione più rumorosa di tutte. (Questo vale in generale, non solo nel caso della lettera aperta).

Tutti e tre questi esempi riguardano l’estetica. Le dichiarazioni di Ben-Gvir erano concrete e vere: la vita ebraica vale più della nostra sotto il dominio israeliano, ma è stata la sua esplicita orazione a scatenare l’indignazione, piuttosto che le politiche istituzionalizzate che hanno reso le sue osservazioni razziste la realtà materiale sul campo. Anche la deformazione fisica del volto di un palestinese è risultata degna di nota solo per ciò che l’incisione simboleggiava, non per l’incisione stessa: se i soldati avessero inciso dei segni senza significato sulla sua guancia dubito del tutto che la cosa avrebbe attirato l’attenzione.

Per quanto riguarda la morte dei palestinesi, è quotidiana e trascurabile. Se siamo fortunati, i nostri martiri vengono comunicati in cifre sulle pagine dei resoconti di fine anno. Il “revisionismo”, d’altro canto, merita una cacofonia di condanne.

E questa è la mia posizione. C’è un ebreo che vive – con la forza – in metà della mia casa a Gerusalemme, e lo fa per “decreto divino”. Molti altri risiedono – con la forza – in case palestinesi mentre i loro proprietari restano nei campi profughi. Non è colpa mia se sono ebrei. Non ho alcun interesse nel ripetere a memoria o chiedere scusa per i luoghi comuni secolari creati dagli europei, o nel dare alla semantica più peso di quanto gli spetti, soprattutto quando milioni di noi affrontano un’oppressione reale e tangibile, vivendo dietro muri di cemento, o sotto assedio, o in esilio, e convivendo con pene troppo grandi per essere riassunte. Sono stanco dell’impulso a prendere preventivamente le distanze da qualcosa di cui non sono colpevole, e particolarmente stanco del presupposto che io sia intrinsecamente fazioso. Sono stanco della pretesa fintamente inorridita secondo cui se tale animosità esistesse, la sua esistenza sarebbe inspiegabile e senza radici. Soprattutto, sono stanco della falsa equivalenza tra violenza semantica e violenza sistemica.

So che questo saggio è già di per sé un campo minato. Che verrà estrapolato dal contesto e divulgato, ma io non sarò mai la vittima perfetta: non si può sfuggire all’accusa di antisemitismo. È una battaglia persa e, cosa ancora più importante, un’evidente diversivo. Ed è ora di riconsiderare questa tattica. Ci sono cose migliori da fare: abbiamo delle bare da trasportare. Abbiamo dei parenti nelle camere mortuarie israeliane che dobbiamo seppellire.

Questo saggio è stato ispirato dallo storico articolo di James Baldwin del 1967 “I negri sono antisemiti perché sono anti-bianchi”.

Mohammed el-Kurd (1998-) è uno scrittore e poeta palestinese che risiede a Sheikh Jarrah, Gerusalemme Est. Prima della crisi Israele-Palestina del 2021 stava conseguendo un master negli Stati Uniti ma è tornato per protestare contro lo sfratto dei palestinesi dalle loro case a Gerusalemme Est da parte di Israele.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“Giovani contro la dittatura”: ecco la nuova categoria di obiettori di coscienza israeliani

Oren Ziv

5 settembre 2023, +972

Otto nuovi renitenti alla leva parlano dell’occupazione, delle proteste contro la riforma giudiziaria e dell’obiezione di coscienza come strumento di protesta.

Domenica pomeriggio centinaia di israeliani si sono riuniti davanti al liceo Herzliya Hebrew Gymnasium nel centro di Tel Aviv per pubblicizzare la nuova lettera dei giovani obiettori di coscienza sotto lo striscione “Giovani contro la dittatura”. Nonostante le pressioni dell’estrema destra e del Ministero dell’Istruzione, e nonostante la decisione del consiglio del liceo di annullare l’evento, centinaia di persone sono accorse per ascoltare la lettura della lettera, partecipare a seminari e sostenere i 230 giovani che hanno firmato la lettera e che intendono rifiutare l’arruolamento nell’esercito israeliano.

A differenza delle precedenti cosiddette “lettere refusenik” (della dissidenza), l’attuale lettera collega l’opposizione alla riforma giudiziaria del governo con l’obiezione di coscienza legata all’occupazione. Alcuni firmatari con cui +972 ha parlato hanno affermato di aver deciso di rifiutarsi di servire nell’esercito per protestare contro l’occupazione ancor prima che si formasse l’attuale governo.

Altri hanno deciso di farlo negli ultimi mesi, dicendo che è stato questo governo, il più estremista della storia israeliana, a far pendere l’ago della bilancia e spingerli al rifiuto. Alcuni di loro hanno spiegato che è stata la presenza del “blocco anti-occupazione” alle manifestazioni settimanali contro la riforma giudiziaria che li ha spinti a prendere la decisione, e che nel clima dell’opinione pubblica di oggi l’obiezione di coscienza è più accettata che in passato, soprattutto dopo il rifiuto di massa da parte dei riservisti dell’esercito seguìto alla riforma.

Nella dichiarazione si legge: “Come giovani donne e uomini che stanno per essere arruolati nel servizio militare israeliano diciamo NO alla dittatura in Israele e nei Territori palestinesi occupati. Con la presente dichiariamo che ci rifiutiamo di arruolarci nell’esercito finché la democrazia non sarà assicurata a tutti coloro che vivono all’interno della giurisdizione del governo israeliano.”

Nonostante sei mesi di lotta ostinata per una vera democrazia condotta nelle strade quasi ogni giorno, il governo continua a perseguire il suo rovinoso programma. Temiamo davvero per il nostro futuro e per il futuro di tutti coloro che vivono qui. Alla luce di ciò non abbiamo altra scelta che adottare misure estreme e rifiutarci di prestare servizio nell’esercito. Un governo che distrugge la magistratura non è un governo per cui possiamo prestare servizio. Un esercito che occupa militarmente un altro popolo non è un esercito al quale possiamo unirci”.

Abbiamo intervistato otto adolescenti che hanno firmato la lettera e parlato della loro decisione di rifiutarsi di servire nell’esercito.

Nuri Magen, 17 anni

Nuri Magen. (Oren Ziv)

Anche dopo che il governo aveva iniziato ad approvare la legge sul principio di ragionevolezza [per cui le disposizioni di legge devono essere adeguate al fine limitando le scelte arbitrarie, ndt.] pensavo che mi sarei arruolato. Prima di allora ero contrario all’occupazione, ma pensavo che avrei prestato servizio in una posizione in cui non sarei stato direttamente coinvolto. Pensavo di prestare servizio in Marina e in un certo senso potevo giustificarlo. Questo prima che iniziassero ad approvare le leggi.

Soprattutto mi spaventavano gli orrori che avrebbero potuto accadere in uno, due anni, mentre sarei stato bloccato [nell’esercito]. Non voglio sentirmi parte di questa cosa. Man mano che la situazione si fa più grave, anche le persone senza opinioni politiche o coloro che sono su posizioni di centro si stanno aprendo a opinioni che fino a poco tempo fa erano considerate “estreme”. Due anni fa gli obiettori di coscienza erano una piccolissima minoranza. Ora abbiamo occupato la scuola e organizzato un evento con centinaia di persone e i media; non era mai successo.

Sofia Orr, 18 anni

Sofia Orr. (Oren Ziv)

Ho firmato la lettera perché mi oppongo alla dittatura e voglio lottare per una vera democrazia per tutti, sia in Israele che nei territori occupati. Per me è stato importante firmare questa lettera perché stabilisce questo collegamento, che per me è evidente, che la riforma e l’occupazione non possono essere separate.

Penso che questo evento e il numero dei firmatari dimostrino come queste opinioni stiano lentamente iniziando a diventare opinione pubblica, o almeno che la pubblica opinione è pronta ad ascoltarle e ad essere coivolta. Questa è davvero una benedizione. Mostra il cambiamento che sta ora accadendo. Dobbiamo andare avanti e non lasciare che ci zittiscano. Cercare di metterci a tacere fa parte di quella politica dittatoriale a cui ci opponiamo.

Itay Gavish, 17 anni

Itay Gavish. (Oren Ziv)

Durante le proteste mi sono imbattuto nel blocco anti-occupazione, e lì ho capito che non volevo prendere parte all’occupazione e che mi sarei rifiutato di arruolarmi nell’esercito. Ho firmato la lettera per dimostrare che io e centinaia di altri giovani non avremmo prestato servizio nell’esercito di occupazione. In queste manifestazioni ho sentito che era legittimo uscire allo scoperto per protestare.

Penso di aver avuto paura di essere troppo radicale, e il blocco anti-occupazione era un luogo dove potevi andare a manifestare con gli altri sionisti e poi fare qualcosa di più. La lotta contro la riforma giudiziaria è fatta anche da persone che non hanno per forza a che fare con l’occupazione e non si preoccupano necessariamente del fatto che il rifiuto alla leva sia un importante strumento di protesta.

Lily Hochfeld, 17 anni

Lily Hochfeld. (Oren Ziv)

Mi sono chiesta quale fosse il mio limite, se fossi disposta a prestare servizio in qualsiasi esercito di qualsiasi paese. Ho deciso che ci sono eserciti in cui voglio credere che non mi sarei arruolata. Per me dare pieno sostegno alla violenza dei coloni, a decenni di governo militare e alla riforma giudiziaria che dà tutto il potere a politici corrotti e clericali supera totalmente il mio limite. Non posso più arruolarmi in un tale esercito senza temere per il mio futuro e per quello del mio Paese.

Le proteste hanno aperto il vaso di Pandora. All’improvviso, una mattina ci siamo svegliati e al governo sedevano persone che un tempo erano fuori dalla legalità anche per la destra, come [Itamar] Ben Gvir, che continua sulle orme di [Meir] Kahane [rabbino ortodosso, scrittore e politico ultranazionalista già parlamentare poi condannato per atti di terrorismo, ndt.] Il nuovo governo ha reso tutto chiaro: abbiamo capito le loro vere intenzioni.

Tal Mitnick, 17 anni

Tal Mitnick. (Oren Ziv)

Io e altri giovani ci siamo resi conto che la dittatura che esiste in Israele e la dittatura che esiste da decenni nei territori occupati sono inseparabili. Il maggior obiettivo dei politici e dei coloni è quello di intensificare l’occupazione e l’oppressione di più popolazioni all’interno di Israele e nei territori occupati, e di annettere l’Area C della Cisgiordania [che è sotto il pieno controllo militare israeliano].

Per molti di noi queste manifestazioni sono state una rivelazione. Non ero politicamente attivo prima delle proteste. Mi hanno fatto capire cosa significa manifestare come coscritti con centinaia di altri prima di essere arruolati e dichiarare “non faremo il servizio militare”.

Ella Greenberg Keidar, 16 anni

Ella Greenberg Keidar. (Oren Ziv)

Siamo stati intervistati dai media prima dell’evento di oggi. In quasi tutte le interviste, gli intervistatori hanno cercato di cogliere l’attimo [e chiederci]: “Sei contro l’occupazione o sei contro la riforma?” Perché, dicono, opporsi all’occupazione è irrilevante: è una notizia vecchia. Ciò che ci interessa sono coloro che rifiutano la riforma giudiziaria. Cosa c’entra l’occupazione? Questo è il tipo di discorso che fanno i manifestanti che vengono al blocco anti-occupazione con le bandiere israeliane.

L’opposizione all’occupazione è incompleta senza l’opposizione alla riforma giudiziaria e viceversa. Le persone che promuovono la riforma – Simcha Rothman, Itamar Ben Gvir, Bezalel Smotrich, sono coloni. La loro agenda è quella dei coloni, che prevede l’espansione dell’occupazione, la pulizia etnica e le espulsioni. La riforma ha lo scopo di ripulire l’Area C dai palestinesi, legalizzare nuovi avamposti e garantire ancora più privilegi, sanciti per legge, agli insediamenti e ai coloni. Voglio dire ai media e al pubblico di Kaplan [arteria principale nel centro di Tel Aviv dove si sono svolte le manifestazioni, ndt.] che queste cose sono correlate.

Ayelet Kovo, 17 anni

Ayelet Kovo. (Oren Ziv)

Ho firmato la lettera perché non sono pronto a far parte del braccio violento dello Stato, utilizzato per opprimere le persone. Non sono pronto per essere una persona che opprime i palestinesi nei territori occupati, né per essere quello che opprime il popolo ebraico e palestinese nelle manifestazioni in Israele. So che qui non c’è mai stata democrazia o parità di diritti, e non sono pronto ad arruolarmi per un paese che è fondamentalmente discriminatorio.

Iddo Elam, 17 anni

Iddo Elam. (Oren Ziv)

Ho firmato la lettera perché non accetterò di arruolarmi in questo esercito. È un esercito che occupa la Cisgiordania e milioni di palestinesi, l’esercito di un governo di estrema destra che cerca di portare la dittatura dai territori occupati in Israele. Lo vediamo bene in queste ultime settimane, con le minacce alla nostra manifestazione al liceo e con le violenze della polizia contro i manifestanti.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un comitato dell’ONU pubblica un esaustivo studio sulla legalità dell’occupazione di Israele 

Jeff Wright

4 settembre 2023,  Mondoweiss

Lo studio è la più esaustiva e persuasiva analisi del perché l’occupazione di Israele è ora diventata illegale”, afferma l’ex Relatore Speciale dell’ONU Michael Lynk. “Sarà a lungo il punto di riferimento intellettuale e politico sulla Palestina e il diritto internazionale.”

La settimana scorsa il Comitato ONU per l’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese (CEIRPP) ha pubblicato uno studio durato due anni: ‘La legalità dell’occupazione israeliana dei territori occupati, compresa Gerusalemme est.’

Il Presidente del Comitato ambasciatore Cheikh Niang ha presentato lo studio commissionato dal CEIRPP ed elaborato dal Centro Irlandese per i Diritti Umani dell’Università Nazionale di Irlanda a Galway. Niang ha detto: “L’importanza e l’urgenza di questo studio non possono essere sovrastimate…E’ un obbligo per noi, comunità internazionale, approfondire la nostra comprensione delle questioni giuridiche sollevate da questa prolungata occupazione e dal suo forte impatto sui diritti umani, la pace e la stabilità nella regione.”

Su invito del Comitato ONU l’ex Relatore Speciale per l’ONU sulla Palestina Michael Link ha fatto delle riflessioni sullo studio. Ha evidenziato molte delle sue conclusioni e lo ha descritto come “la più esaustiva, dettagliata, accurata documentazione che affronta le questioni che l’Assemblea Generale dell’ONU ha posto di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia per il suo parere consultivo sulla legalità dell’occupazione della Palestina da parte di Israele, che dura ormai da più di 56 anni.”

Il rapporto di 106 pagine è uno studio esaustivo (ricco di oltre 700 note a margine) che conclude che la condotta di Israele incorre in “due chiari presupposti del diritto internazionale che stabiliscono quando un’occupazione belligerante può essere definita illegale.” (Un’occupazione belligerante, il termine più spesso usato nel diritto internazionale, è chiamata più comunemente occupazione militare ed è definita come il controllo militare da parte di una potenza dominante su un territorio al di fuori del territorio sovrano di tale potenza).

Lo studio conduce il lettore nei meandri del diritto internazionale: le definizioni; i casi in cui un’occupazione permessa ai sensi del diritto internazionale può essere considerata illegale; casi analoghi portati davanti alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ); un’analisi – e confutazione – delle politiche e delle posizioni di Israele relativamente alla sua amministrazione del territorio palestinese; la presentazione della prova che l’occupazione belligerante è diventata illegale; un esame della responsabilità – in base al diritto internazionale – per la comunità internazionale di agire per porre termine all’occupazione.

E lo studio giuridico è accessibile a lettori profani. Coloro che sono ben informati sulla perdurante situazione in Palestina/Israele potranno corroborare le proprie conoscenze attraverso le tante risorse e conclusioni rivelate dallo studio.

Mentre riconosce che “la sede più appropriata per esaminare la legalità dell’occupazione è la Corte Internazionale di Giustizia”, lo studio, come si legge, “fornisce la base concreta per sostenere la conclusione che l’occupazione di Israele è illegale.”

A seguito della rilevazione di illegalità, lo studio conclude che, secondo il diritto internazionale, la conseguenza dovrebbe essere l’immediato, incondizionato e totale ritiro delle forze militari di Israele; l’allontanamento dei coloni; lo smantellamento del regime amministrativo militare, con chiare indicazioni che l’annullamento della violazione di un atto illecito a livello internazionale non è soggetto a negoziato. Dovrebbero essere accordate piene e proporzionate riparazioni a singoli individui, corporazioni ed enti palestinesi coinvolti, per il danno generazionale causato dalle appropriazioni di terra e proprietà da parte di Israele, dalle demolizioni di case, spoliazione di risorse naturali, negazione del ritorno ed altri crimini di guerra contro l’umanità organizzati per gli obbiettivi di colonizzazione e di annessione di un occupante illegale.

Si prevedono discussioni all’Aja la prossima primavera da parte della ICJ sulla legalità dell’occupazione israeliana e sulle conseguenze legali spettanti alla comunità internazionale.

Mondoweiss ha intervistato telefonicamente il professor Lynk, ora in pensione, dopo la riunione del comitato.

Mondoweiss: come è nato lo studio, perché il Centro Irlandese per i Diritti Umani?

Michael Lynk: L’idea dello studio è nata tramite il Comitato ONU sull’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese e la Divisione per i Diritti dei Palestinesi. Hanno individuato la necessità di uno studio ad ampio raggio, sia per la formazione pubblica che per promuovere i passi diplomatici per l’autodeterminazione palestinese.

Per molte ragioni aveva senso contattare il Centro Irlandese. Anzitutto perché l’Irlanda, tra tutti gli Stati europei, ha assunto una posizione molto buona relativamente alle iniquità collegate all’occupazione. In secondo luogo, il Centro ha formato parecchi studiosi di legge che hanno continuato a scrivere molto sulla Palestina. Molti sono andati a lavorare con organizzazioni in Palestina ed Israele su questioni riguardanti l’occupazione e il diritto internazionale. Perciò il Centro aveva la disponibilità, la conoscenza dell’occupazione e la competenza giuridica per essere in grado di condurre lo studio.

Lasciatemi dire che sono una persona profondamente impegnata ad occuparsi di diritto internazionale e di Palestina. Eppure ho imparato moltissimo dallo studio. Vi sono molte fonti e molte conclusioni e molte, molte argomentazioni che non mi erano consuete. E’ rivoluzionario. Nel prossimo periodo sarà il punto di riferimento intellettuale e politico sulla Palestina e il diritto internazionale.

Quali sono alcune delle caratteristiche importanti dello studio?

Una è la visione in gran parte del nord globale – USA, Canada e molti Paesi europei: “Si, ci possono essere illegalità o atti illegittimi da parte di Israele nella gestione dell’occupazione: le colonie, l’annessione di Gerusalemme est, il muro.” Ma complessivamente questi Paesi hanno sempre ritenuto che l’occupazione fosse legale. Dicono: “Stiamo solo aspettando la giusta…magica salsa diplomatica per mettere insieme le parti a negoziare la fine di questo.”

Lo studio dice che non solo ci sono significative illegalità correlate all’occupazione, ma l’occupazione stessa è oggi illegale…

Tutto quel che dovete fare è ascoltare i commenti dei nuovi leader israeliani per capire che l’occupazione non finirà grazie a Israele. Naftali Bennet, quando era Primo Ministro due anni fa, disse: “Sono contrario ad uno Stato palestinese e sto rendendo impossibile condurre negoziati diplomatici che possano portare ad uno Stato palestinese.” Benjamin Netanyahu ha detto – e sto parafrasando: “Il massimo che possiamo offrire ai palestinesi è un non-Stato. Cioè avranno il potere di raccogliere la loro immondizia, pulire le loro strade e gestire il loro servizio idrico. Per il resto, noi controlliamo il territorio dal Mediterraneo al Giordano.”

Quale spera sarà l’impatto dello studio?

Dovrebbe essere una pietra miliare nel pensiero diplomatico riguardo a come affrontare e come porre fine all’occupazione israeliana, obbiettivo dichiarato da tutti gli Stati del mondo, a parte Israele. Se l’occupazione stessa è illegale, questo alza l’asticella della responsabilità in capo alla comunità internazionale, in particolare il nord globale, di ammettere finalmente che l’occupazione non finirà da sola. Non finirà ripetendo il mantra dei “negoziati per una soluzione a due Stati”, quando non viene fatto niente da parte del nord globale per imporre un costo diplomatico… un costo economico ad Israele che sta facendo il possibile per scrivere il necrologio dell’autodeterminazione palestinese.

Quanto all’udienza che si terrà davanti alla ICJ, quale conclusione pratica, concreta possiamo prevedere?

A dicembre dello scorso anno l’ONU ha adottato una risoluzione che chiedeva alla Corte Internazionale di Giustizia un parere consultivo su una serie di questioni – se la prolungata occupazione è sempre illegale, quali sono le conseguenze giuridiche che emergono dall’adozione da parte di Israele delle relative misure discriminatorie, quali sono le conseguenze giuridiche per la comunità internazionale e per le Nazioni Unite. Ricorderete che l’ICJ è la più alta istanza giuridica nel sistema delle Nazioni Unite. Nel 2004 emise un parere consultivo che stabilì che il muro di separazione israeliano era illegale.

Ora, molti Paesi – in primis del sud globale – hanno inviato dichiarazioni scritte alla ICJ, sostenendo che l’occupazione è divenuta illegale e che deve finire immediatamente. Alcuni hanno argomentato che Israele ha violato le norme fondamentali del diritto internazionale istituendo l’apartheid. Solo un piccolo gruppo di Stati – che comprende gli Stati Uniti, Israele, il Regno Unito e il Canada – ha inviato dichiarazioni in cui si chiede che la ICJ non risponda alla richiesta dell’Assemblea Generale di un parere consultivo, sostenendo che tutto dovrebbe invece essere posto ad un tavolo negoziale.

Il solo modo in cui i palestinesi possono mai sperare di trattare veramente ad un tavolo negoziale è se la comunità internazionale insistesse che qualunque negoziato tra Israele e Palestina sia condotto totalmente in un quadro basato sui diritti, con la richiesta centrale che Israele ponga completamente fine all’occupazione, immediatamente e senza condizioni. E che Israele sia responsabile delle riparazioni verso i palestinesi per ciò che è accaduto negli ultimi decenni.

Qualche riflessione personale sul suo lavoro?

Considero un onore nella mia vita l’aver ricoperto il ruolo di Relatore Speciale dell’ONU per sei anni (2016-2022). Prima della mia nomina avevo svolto una notevole quantità di lavoro su Palestina e Israele, avevo vissuto nei territori occupati e lavorato alle Nazioni Unite, avevo fatto ampie letture sulla Palestina. Ma l’opportunità come Relatore Speciale di parlare a livello internazionale sul peggioramento della situazione dei diritti umani, di incontrare le coraggiosissime organizzazioni palestinesi, israeliane e internazionali per i diritti umani che hanno fatto un enorme lavoro su questa questione, è stata la più significativa esperienza della mia carriera giuridica.

Aggiungerò questo: quei sei anni hanno segnato un importante punto di svolta. All’improvviso potevi iniziare a vedere l’enorme cambiamento di direzione. Nel 2016 era un’eresia pronunciare la parola apartheid. Al momento in cui me ne sono andato nel 2022 il termine apartheid era stato adottato da tutte le importanti organizzazioni per i diritti umani internazionali e regionali per descrivere ciò che avveniva nei territori occupati…oltre a ciò che è accaduto dopo il mio periodo in carica: l’avvento di questo nuovo governo israeliano estremista, l’inasprimento dell’atteggiamento internazionale verso l’occupazione. Penso che l’atteggiamento internazionale stia cambiando, e cambiando rapidamente. Non sarebbe cambiato senza tutte queste organizzazioni per i diritti umani che agiscono sul campo in Palestina ed Israele, che hanno fatto un lavoro così eroico per cambiare il vocabolario, per cambiare la consapevolezza di ciò che sta accadendo.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Le forze israeliane uccidono tre palestinesi in un attacco nella Cisgiordania occupata

Redazione di Al Jazeera

6 agosto 2023 – Al Jazeera

I soldati hanno aperto il fuoco su un veicolo vicino al campo profughi di Jenin, uccidendo tre passeggeri che secondo l’esercito israeliano stavano pianificando un attacco.

Le forze israeliane nella Cisgiordania occupata hanno ucciso a colpi di arma da fuoco tre palestinesi che secondo l’esercito stavano per compiere un attacco.

In un comunicato l’esercito ha affermato che domenica i soldati hanno aperto il fuoco su un veicolo e ucciso tre passeggeri.

Sostiene di aver eliminato una squadra di terroristi del campo profughi di Jenin identificata mentre si recava a compiere un attacco.

Tra i morti c’è Naif Abu Tsuik, 26 anni, che secondo l’esercito era un “importante esponente militare del campo profughi di Jenin.

L’esercito ha dichiarato che era “coinvolto in azioni militari contro le forze di sicurezza israeliane e in attività militari in fase avanzata dirette dai terroristi nella Striscia di Gaza”, l’enclave costiera controllata dall’organizzazione Hamas.

Secondo Quds News Network il veicolo è stato crivellato da più di cento proiettili.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha elogiato le forze di sicurezza e ha affermato che Israele “continuerà ad agire ovunque e in qualsiasi momento contro coloro che minacciano la nostra vita “.

Hazem Qasem, un portavoce di Hamas da Gaza, ha detto che le morti non rimarranno impunite.

“Il nemico, che ha assassinato tre dei nostri palestinesi, non eviterà di pagare il prezzo dei suoi crimini”, ha affermato in una dichiarazione.

In un reportage dalla Gerusalemme est occupata, Mohammed Jamjoom di Al Jazeera ha detto che il ministero della Salute palestinese ha confermato le morti nell’attacco a sud di Jenin.

“L’esercito israeliano ha detto di aver trovato nel veicolo anche un M-16 [arma d’assalto] “, ha affermato Jamjoom.

Tutto questo si aggiunge all’estrema tensione già presente in loco. Arriva 24 ore dopo un attacco avvenuto a Tel Aviv, in cui un giovane palestinese di Jenin ha sparato sulla gente. Ciò aggiunge molta preoccupazione per ciò che questo fatto potrebbe significare nei giorni a venire.

Mustafa Barghouti, capo del partito Iniziativa Nazionale Palestinese, ha affermato che l’uccisione dei tre palestinesi equivale a un “omicidio extragiudiziale”.

Quello che Israele ha fatto oggi è un altro atto di uccisione extragiudiziale di giovani palestinesi”, ha detto Barghouti ad Al Jazeera. “È un’esecuzione illegale di persone senza alcun tipo di processo giudiziario”.

L’anno più mortale

Più di 200 palestinesi sono stati uccisi quest’anno nei territori palestinesi occupati e le Nazioni Unite hanno avvertito che il 2023 è sulla buona strada per essere l’anno più mortale per i palestinesi da quando esse ha iniziato a registrare il numero delle vittime.

Barghouti ha affermato che queste uccisioni sono una “guerra del terrore” contro la popolazione civile palestinese, che continuerà finché continuerà l’occupazione israeliana.

“L’occupazione esiste da 56 anni, la pulizia etnica dei palestinesi esiste da 75 anni, e senza porre fine a questi due processi ovviamente non ci sarà mai pace in questa regione”, ha affermato.

Jenin è stata un punto critico e teatro di numerosi raid israeliani – molti mortali – negli ultimi mesi. Il più grande raid israeliano del campo in quasi 20 anni ha avuto luogo a giugno, uccidendo 12 palestinesi e costringendo migliaia di persone a fuggire dalle loro case.

Sabato 5 agosto, Kamel Abu Bakr, di Jenin, ha aperto il fuoco nel centro di Tel Aviv e ha ucciso un ispettore della polizia israeliana prima di essere ucciso da un agente che ha risposto al fuoco.

All’inizio di questa settimana, un violento attacco dei coloni nella Cisgiordania occupata ha ucciso il 19enne palestinese Qusai Jamal Maatan, mentre i soldati israeliani hanno sparato a un altro giovane palestinese, il 18enne Mahmoud Abu Sa’an, durante una delle loro incursioni notturne nella Cisgiordania occupata.

L’attacco dei coloni, ha detto Barghouti, è stato effettuato da un uomo che fa parte del governo israeliano.

Il leader politico ha aggiunto che quindi ciò che questo comporta riguardo al rapporto tra i coloni e l’attuale governo di estrema destra israeliano è che “questo governo israeliano è un governo fascista.”

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)