I palestinesi a Gaza soffrono già abbastanza senza dover essere anche diffamati come devianti sessuali e malati di mente.

Brian K. Barber e Yasser Abu Jamei

21 novembre, 2017,Haaretz,Palestine Square

L’intervista di Haaretz dell’11 novembre a uno psicologo che saltuariamente visita la Striscia di Gaza (I bambini di Gaza vivono all’inferno: Uno psicologo racconta di dilaganti abusi sessuali, droghe e disperazione.) ritrae la società di Gaza come una comunità che ha completamente perso le sue fondamenta morali – fino al punto che, afferma l’intervistato Mohammed Mansour, dilagano le violenze sessuali e l’abuso di droghe e, a tutti gli effetti, sono tutti malati di mente.

La nostra vasta e pluriennale esperienza come professionisti della salute mentale e ricercatori a Gaza è molto diversa.

In sostanza, tutte le asserzioni fatte nell’articolo sulla popolazione di Gaza nel suo complesso sono speculative, essendo basate o su nessuna prova o semplicemente su impressioni, aneddoti o esempi di casi dell’intervistato.

Questo è vero non solo per le asserzioni enormemente esagerate di abuso sessuale e di malattia mentale, ma anche per le seguenti affermazioni fatte da Mansour che, in base alla nostra esperienza, crediamo, fermamente, essere false:

– Che la comunità che si occupa di salute mentale a Gaza sia essa stessa complice dell’abuso sessuale;

– Che quell’abuso sia aumentato in modo misurabile dall’agosto di quest’anno;

– Che gli uomini sposati cerchino costantemente rapporti sessuali extraconiugali;

– Che i giovani uomini abusino sessualmente dei loro coetanei o dei bambini più piccoli per ottenerne il controllo;

– Che il noto abuso di tramadol aumenti la proporzione delle aggressioni sessuali;

– Che tutte le convenzioni sociali a Gaza siano andate in pezzi, che non ci si diverta, che Hamas sia l’unica barriera al collasso totale della società (senza cui non ci sarebbe altro che crimine), e che a Gaza ciascuno/a pensi soltanto a se stesso/a.

Nell’articolo viene ammesso che non esiste una ricerca sistematica sull’abuso sessuale a Gaza – il che rende ancora più curiosa la volontà di descrivere e pubblicare tale disinformazione.

Tuttavia, ignorata dall’articolo è l’attenta ricerca condotta da decenni su campioni ampi e rappresentativi dei quotidiani abitanti di Gaza – alcuni dei quali abbiamo noi stessi documentato – che ha dimostrato come, malgrado condizioni sempre più terribili per la salute e la vita, la stragrande maggioranza degli abitanti di Gaza non segnali alti livelli di malattia mentale e come le relazioni coniugali e genitore-figlio siano particolarmente solide.

Ignorati anche nell’articolo sono gli effetti perniciosi della continua occupazione, dell’assedio e delle limitazioni del movimento [da parte di Israele] come fonti fondamentali della sofferenza che gli abitanti di Gaza subiscono.

Sì, gli abitanti di Gaza parlano della stretta striscia di terra in cui vivono come di un “inferno”; sì, le condizioni economiche e di salute sono terribili; sì, c’è frustrazione e disperazione rapidamente crescente; e, sì, un numero crescente di giovani desidera ardentemente uscire da Gaza per cercare migliori opportunità altrove.

Ma descrivere Gaza come una società nel caos, disancorata dalla propria cultura storicamente forte di resilienza collettiva e fermezza, e in cui tutti cercano solo interessi personali, è semplicemente scorretto.

Almeno tre valori fondamentali hanno guidato e continuano a guidare gli abitanti di Gaza (e in generale i palestinesi): raggiungere il massimo livello di istruzione possibile, formare delle famiglie, e creare mezzi di sostentamento per sostenere quelle famiglie.

Non ci sono prove del fatto che l’impegno dei palestinesi nei confronti di questi valori sia diminuito, anche se le drastiche condizioni economiche rendono sempre più difficile la realizzazione di questi valori, cosa che causa profonda sofferenza soprattutto per i giovani di Gaza.

Tuttavia, essi continuano a lottare per soddisfare il maggior numero possibile, con i loro atteggiamenti caratteristici di “non c’è altra scelta che continuare” e “un giorno raggiungeremo la piena felicità”.

In effetti, gli abitanti di Gaza sono sopravvissuti a tutte le previsioni che sarebbero crollati dopo ogni successiva battuta d’arresto nel corso della loro vita. Così, dopo la guerra del 2008-9, si prevedeva che la società di Gaza si sarebbe sgretolata, e ancora di più dopo la guerra del 2014. Questo non è successo.

I bambini ridono, giocano e sciamano verso la scuola. Le scuole – dalle elementari alle università con laurea specialistica – traboccano di studenti. Giovani donne e uomini cercano ogni opportunità per promuovere la loro istruzione a Gaza e all’estero.

I giovani di Gaza hanno caro il matrimonio come un obiettivo e aspirano al giorno in cui potranno permettersi di costruire le loro famiglie. E si arrabattano in tutti i modi per guadagnare denaro – comprese innovative iniziative online – per sostenere le loro famiglie di origine e quelle a venire.

Agricoltori e pescatori lavorano ogni giorno sotto pesanti e minacciose restrizioni. Innumerevoli organizzazioni della società civile, ONG, strutture per la salute mentale e ospedali vanno avanti con il minimo di risorse.

Le famiglie si incontrano costantemente, osservano le feste, celebrano i successi dei bambini, accolgono nuovi figli e lamentano le perdite. Quando è possibile in un breve tempo libero, le famiglie vanno in spiaggia a rilassarsi.

Queste dinamiche sono evidenti a chiunque trascorra del tempo tra la popolazione in generale, come fa uno degli autori di questo pezzo, Yasser Abu Jamei, nel corso della sua vita quotidiana.

In una visita di un mese a Gaza nel maggio di quest’anno, un coautore di questo articolo, Brian Barber, per esempio, si è ripetutamente imbattuto in celebrazioni di ogni tipo: cerimonie di laurea, consegne di onorificenze accademiche a studenti meritevoli, riconoscimenti per vite spese nel servizio pubblico a Gaza, e così via. La visita ha compreso anche conversazioni interminabili nei salotti e nelle sale da pranzo delle famiglie, dentro e fuori i campi profughi, con genitori e loro figli delle scuole superiori, impazienti e ansiosi per i rigorosi imminenti esami tawjihi [di maturità] di ammissione al college. Ha compreso la convivenza con le famiglie e l’esperienza, sì, della frustrazione, ma anche dei modi creativi con cui le famiglie affrontano blackout di energia di più di 20 ore: con una gamma di dispositivi pronti per le poche ore di energia, quando arrivano, (torce elettriche, telefoni cellulari, carica-batterie di tutti i tipi), svegliandosi a qualsiasi ora per fare il bucato, stirare e fare il bagno, e tirare le corde di prolunga lungo i vicoli dei campi profughi per condividere l’elettricità con i vicini che non hanno quei dispositivi di backup. Ha compreso anche accompagnare per giorni il mukhtar (sindaco tribale) di uno dei più grandi clan di Gaza appena trovava il tempo, nel suo fitto programma di preside e studente di dottorato, per affrontare i bisogni della sua gente, a risolvere conflitti di ogni tipo facendo incontrare le parti e lavorando senza problemi con la polizia su questioni più serie. Questa è la Gaza che conosciamo come padre e psichiatra di Gaza e come psicologo sociale americano che ha trascorso molto tempo ogni anno a Gaza per 23 anni. Non stiamo cercando di nascondere le reali difficoltà incontrate dalla popolazione de facto incatenata di Gaza, ma non vogliamo neanche una rappresentazione della vita a Gaza priva di fondamento, del genere Hobbes-incontra-Il Signore della Mosche, per guadagnarsi una fama che non merita.

Questo articolo è stato pubblicato contemporaneamente su Haaretz e Palestine Square.

Informazioni su Yasser Abu Jamei, MD, MSc è il direttore generale del programma di salute mentale della comunità di Gaza, una ONG fondata nel 1993 dal compianto Eyad El-Sarraj. Con i suoi tre centri comunitari, è considerato uno dei principali fornitori di servizi sanitari nella Striscia di Gaza.

Brian K. Barber, PhD è Fellow di International Security Program presso New America e Senior Fellow presso l’Institute for Palestine Studies, entrambi a Washington, D.C., e Professore Emerito, Università del Tennessee. Twitter: @briankbarber

(Traduzione di Angelo Stefanini )




Perché la Palestina è ancora il problema

John Pilger

18 settembre 2017,Defend Democracy Press

Quando andai per la prima volta in Palestina come giovane reporter negli anni ’60, soggiornai in un kibbutz. Le persone che incontrai erano grandi lavoratori, coraggiosi e si definivano socialisti. Mi piacevano.

Una sera a cena domandai chi fossero le figure che si vedevano in lontananza, al di là dell’area (del nostro kibbutz).

Arabi”, mi dissero, “nomadi”. Le parole vennero quasi sputate. Israele, dissero, intendendo la Palestina, era per la maggior parte una terra deserta e una delle grandi opere dell’impresa sionista è stata rendere verde il deserto.

Portarono ad esempio il loro raccolto di arance di Jaffa, che veniva esportato nel resto del mondo. Che grande vittoria sulle bizzarrie della natura e l’incuria degli uomini.

Fu la prima menzogna. La maggior parte degli aranceti e dei vigneti appartenevano a palestinesi che avevano coltivato la terra ed esportato arance ed uva in Europa fin dal diciottesimo secolo. L’ex città palestinese di Jaffa veniva chiamata dai precedenti abitanti come “il posto delle arance tristi”.

Nel kibbutz il termine “palestinese” non veniva mai pronunciato. Chiesi il perché. La risposta fu un silenzio imbarazzato.

In tutto il mondo colonialista, la vera sovranità del popolo autoctono fa paura a coloro che non possono mai nascondere del tutto il fatto, ed il crimine, che vivono su una terra rubata.

La negazione dell’umanità della popolazione è il passo successivo – come il popolo ebraico sa fin troppo bene. Infamare la dignità, la cultura e l’orgoglio del popolo viene di conseguenza, in modo altrettanto logico della violenza.

A Ramallah, dopo un’invasione della Cisgiordania da parte del defunto Ariel Sharon nel 2002, camminavo attraverso strade costellate da automobili sfasciate e case demolite, verso il “Centro Culturale Palestinese”. Fino a quel mattino i soldati erano accampati là.

Mi accolse la direttrice del Centro, la scrittrice Liana Badr, i cui manoscritti originali erano sparsi e a pezzi sul pavimento. Il disco rigido contenente il suo romanzo ed una raccolta di racconti e poesie erano stati portati via dai soldati israeliani. Quasi ogni cosa era in frantumi e insudiciata.

Neanche un libro era rimasto integro; neanche una bobina di una delle migliori collezioni del cinema palestinese.

I soldati avevano urinato e defecato sui pavimenti, sui tavoli, sui ricami e i manufatti artistici. Avevano imbrattato di escrementi i dipinti dei bambini e avevano scritto – con le feci – “Nato per uccidere”.

Liana Badr aveva gli occhi pieni di lacrime, ma la schiena dritta. “Lo rimetteremo a posto di nuovo”, disse.

Ciò che fa imbestialire quelli che colonizzano ed occupano, rubano ed opprimono, vandalizzano e violano, è il rifiuto delle vittime di piegarsi. E questo è il prezzo che tutti noi dobbiamo pagare ai palestinesi. Il rifiuto di sottomettersi. Loro tirano dritto. Aspettano – finché ricominceranno la lotta. E fanno così anche quando chi li governa collabora con i loro oppressori.

Nel mezzo dei bombardamenti israeliani su Gaza del 2014, il giornalista palestinese Mohammed Omer non ha mai smesso di scrivere. Lui e la sua famiglia erano stati danneggiati; lui faceva la coda per il cibo e l’acqua e li trasportava attraverso le macerie. Quando gli telefonavo potevo sentire le bombe fuori dalla sua porta. Si è rifiutato di arrendersi.

Gli articoli di Mohammed, accompagnati dalle sue fotografie, sono stati un esempio di giornalismo professionale che faceva vergognare il giornalismo corrivo e codardo del cosiddetto ‘mainstream’ britannico e statunitense. Il concetto di obbiettività della BBC – che diffonde le falsità e le menzogne dell’autorità, prassi di cui si fa vanto – viene quotidianamente confutato da gente come Mohammed Omer.

Per oltre 40 anni ho constatato il rifiuto del popolo palestinese di piegarsi ai suoi oppressori: Israele, Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Europea.

Dal 2008 la sola Gran Bretagna ha assicurato licenze di esportazione di armi e missili, droni e fucili di precisione verso Israele per un valore di 434 milioni di sterline.

Quelli che hanno resistito a questo, senza armi, quelli che hanno rifiutato di piegarsi, sono tra i palestinesi che ho avuto il privilegio di conoscere:

Il mio amico, il defunto Mohammed Jarella, che lavorava per l’agenzia delle Nazioni Unite UNRWA [per i rifugiati palestinesi, ndt.], nel 1967 mi ha mostrato per la prima volta un campo profughi palestinese. Era un gelido giorno d’inverno e gli scolari tremavano di freddo. “Un giorno….”, diceva. “Un giorno…”

Mustafa Barghouti, la cui eloquenza rimane intatta, ha descritto lo spirito di tolleranza che c’era in Palestina tra ebrei, musulmani e cristiani fino a quando, come mi disse, “I sionisti pretesero uno Stato a spese dei palestinesi.”

La dottoressa Mona El-Farra, medico a Gaza, la cui passione era raccogliere denaro per la chirurgia plastica per i bambini sfigurati dalle pallottole e dalle granate israeliane. Il suo ospedale è stato raso al suolo dalle bombe israeliane nel 2014.

Il dottor Khalid Dahlan, psichiatra, i cui ambulatori per bambini a Gaza – bambini resi quasi pazzi dalla violenza israeliana – erano oasi di civiltà.

Fatima e Nasser sono una coppia la cui casa si trovava in un villaggio vicino a Gerusalemme, designato come “Zona A e B”, che significava che la terra era destinata ai soli ebrei. I loro genitori avevano vissuto là; i loro nonni avevano vissuto là. Oggi i bulldozer spianano strade per soli ebrei, protetti da leggi per soli ebrei.

Era passata la mezzanotte quando Fatima iniziò il travaglio del suo secondo figlio. Il bimbo era prematuro; quando arrivarono ad un checkpoint in vista dell’ospedale, il giovane israeliano disse che c’era bisogno di un altro documento.

Fatima stava perdendo molto sangue. Il soldato rideva e imitava i suoi gemiti e disse loro: ”Andatevene a casa”. Il bambino nacque là in un camion. Era cianotico per il freddo e in breve, senza cure, morì assiderato. Il suo nome era Sultan.

Per i palestinesi, queste storie sono consuete. La domanda è: perché non lo sono a Londra e Washington, a Bruxelles e Sydney?

In Siria una recente campagna progressista– una campagna di George Clooney – viene lautamente finanziata in Gran Bretagna e Stati Uniti, anche se i beneficiari, i cosiddetti ribelli, sono capeggiati da jihadisti fanatici, il prodotto dell’invasione di Afghanistan e Iraq e della distruzione della moderna Libia.

E ancora, non viene riconosciuta la più lunga occupazione dell’epoca moderna. Quando le Nazioni Unite improvvisamente si risvegliano e definiscono Israele uno Stato di apartheid, come hanno fatto quest’anno, si grida allo scandalo – non contro uno Stato il cui “obiettivo fondamentale” è il razzismo, ma contro una commissione dell’ONU che ha osato rompere il silenzio.

La Palestina”, ha detto Nelson Mandela, “è la più grande questione morale dei nostri tempi.”

Perché questa verità è negata, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno?

Su Israele – lo Stato di apartheid, colpevole di un crimine contro l’umanità e di violazioni del diritto internazionale più numerose di qualunque altro Stato – persiste il silenzio tra coloro che sanno ed il cui compito è di dire come stanno effettivamente le cose.

Riguardo a Israele, moltissimi giornalisti vengono intimiditi e controllati da un pensiero unico che chiede silenzio sulla Palestina, mentre il giornalismo onesto è diventato dissidenza: un metaforico movimento clandestino.

Una sola parola – “conflitto” – consente questo silenzio. “Il conflitto arabo-israeliano”, scandiscono i robot nelle loro suggestioni televisive. Quando un reporter della BBC di lunga esperienza, uno che conosce la verità, parla di “due narrazioni”, la distorsione morale è completa.

Non c’è un conflitto, non ci sono due narrazioni, con un proprio fulcro etico. C’è un’occupazione militare messa in atto da una potenza nucleare appoggiata dal potere militare più grande al mondo; e c’è un’enorme ingiustizia.

Il termine “occupazione” può essere bandito, cancellato dal vocabolario. Ma la memoria della verità storica non può essere cancellata: quella della sistematica espulsione dei palestinesi dalla loro patria. Gli israeliani nel 1948 l’hanno chiamata “Piano D”.

Lo storico israeliano Benny Morris racconta di quando uno dei suoi generali domandò a Ben-Gurion, il primo capo del governo israeliano: “Che cosa dobbiamo fare degli arabi?”

Il Primo Ministro, ha scritto Morris, “fece uno sprezzante e vigoroso gesto con la mano”. “Espelleteli!” disse.

Settant’anni dopo, questo crimine è sparito dalla cultura intellettuale e politica dell’Occidente. Oppure è opinabile, o semplicemente controverso. Giornalisti ben pagati accettano volentieri i viaggi, l’ospitalità e le lusinghe offerti dal governo israeliano, poi sono durissimi nel professare la propria indipendenza. Il termine “utili idioti” è stato coniato per loro.

Nel 2011 mi ha colpito la leggerezza con cui uno dei più famosi scrittori britannici, Ian McEwan, un uomo intriso dell’alone di illuminismo borghese, ha accettato il Jerusalem Prize per la letteratura nello Stato dell’apartheid.

McEwan sarebbe andato a Sun City nel Sudafrica dell’apartheid? Anche là attribuivano premi, con tutte le spese pagate. McEwan giustificò il suo comportamento con parole evasive circa l’indipendenza della “società civile”.

La propaganda – del tipo che McEwan ha espresso, con la sua simbolica tirata d’orecchi per i suoi deliziati ospiti – è un’arma in mano agli oppressori della Palestina. Come lo zucchero, oggi permea quasi ogni cosa.

Il nostro compito più importante è comprendere e decostruire la propaganda statale e culturale. Stiamo andando velocemente verso una seconda guerra fredda, il cui scopo finale è sottomettere e balcanizzare la Russia e intimidire la Cina.

Quando Donald Trump e Vladimir Putin hanno parlato in privato per oltre due ore al meeting del G20 di Amburgo, apparentemente della necessità di non entrare in guerra tra loro, gli oppositori più accesi sono stati quelli che si sono appropriati del liberismo, come il commentatore politico sionista del Guardian.

Non c’è da stupirsi che Putin sorridesse ad Amburgo”, ha scritto Jonathan Freedland. “Sa di aver raggiunto il suo principale obbiettivo: ha reso l’America di nuovo debole.”

Questi propagandisti non hanno mai conosciuto la guerra, ma amano il gioco imperialista della guerra. Ciò che McEwan chiama “società civile” è diventata una ricca fonte di propaganda ad esso connessa.

Prendete un termine spesso usato dai tutori della società civile – “diritti umani”. Come un altro nobile concetto, “democrazia”, “diritti umani” è stato semplicemente svuotato del suo significato e del suo scopo.

Così come il “processo di pace” e la “road map”, i diritti umani in Palestina sono stati sequestrati dai governi occidentali e dalle ONG da loro finanziate, che si arrogano un’utopica autorità morale.

Perciò quando Israele viene richiamata da governi ed ONG a “rispettare i diritti umani” in Palestina, non succede niente, perché tutti sanno che non c’è niente da temere; niente cambierà.

Notate il silenzio dell’Unione Europea, che accontenta Israele mentre rifiuta di mantenere gli impegni verso la popolazione di Gaza – come mantenere aperto il varco del confine di Rafah: una misura concordata come parte del suo ruolo nel cessate il fuoco del 2014. [Il progetto di] un porto marittimo per Gaza – concordato da Bruxelles nel 2014 – è stato abbandonato.

La commissione dell’ONU di cui ho parlato – il suo nome esatto è Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale – ha descritto Israele come, e cito testualmente, “finalizzato all’obiettivo fondamentale” della discriminazione razziale.

Milioni di persone lo capiscono. Ciò che i governi a Londra, Washington, Bruxelles e Tel Aviv non possono controllare è che l’opinione pubblica sta cambiando, forse come mai prima d’ora.

La gente ovunque si sta risvegliando ed è più consapevole, secondo me, di quanto lo sia mai stata prima d’ora. Alcuni sono già apertamente in rivolta. L’atrocità della Grenfell Tower [grattacielo con appartamenti popolari bruciato il 14 giugno 2017, ndt.] di Londra ha unificato la collettività in una attiva resistenza praticamente in tutta la Nazione.

Grazie ad una campagna popolare, la magistratura sta ora esaminando le prove di una possibile imputazione contro Tony Blair per crimini di guerra. Anche se questo non avverrà, si tratta di un importante sviluppo, che elimina un’ ulteriore barriera tra l’opinione pubblica ed il riconoscimento della natura vorace dei crimini del potere statale – il sistematico disprezzo dell’umanità perpetrato in Iraq, alla Grenfell Tower, in Palestina. Questi sono i punti che attendono di essere uniti.

Per la maggior parte del XXI secolo, l’imbroglio del potere delle imprese camuffato da democrazia ha poggiato sulla propaganda del diversivo: soprattutto su un culto dell’individualismo finalizzato a disorientare la nostra capacità di guardare agli altri e di agire insieme, il nostro senso di giustizia sociale e di internazionalismo.

Classe, genere e razza sono stati separati. Il personale è diventato politico e i media sono diventati il messaggio. La promozione dei privilegi borghesi è stata presentata come politica “progressista”. Non lo era. Non lo è mai stata. E’ la valorizzazione del privilegio e del potere.

Tra i giovani l’internazionalismo ha trovato una nuova vasta platea. Guardate l’appoggio a Jeremy Corbin e l’attenzione che ha ricevuto il G20 ad Amburgo. Se comprendiamo la verità e gli imperativi dell’internazionalismo, e rifiutiamo il colonialismo, comprendiamo la lotta della Palestina.

Mandela lo ha espresso così: “Sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi.”

Il cuore del Medio Oriente è la storica ingiustizia in Palestina. Finché questa non venga risolta e i palestinesi abbiano la loro libertà e la loro patria e ci sia eguaglianza di fronte alla legge tra israeliani e palestinesi, non vi sarà pace nella regione, o forse in nessun luogo.

Ciò che Mandela diceva è che la libertà stessa è precaria finché i governi potenti possono negare la giustizia ad altri, terrorizzarli, imprigionarli ed ucciderli, in nostro nome. Certamente Israele comprende il rischio che un giorno potrebbe dover essere normale.

Ecco perché il suo ambasciatore in Gran Bretagna è Mark Regev, ben noto ai giornalisti come propagandista di professione, e perché il “grande bluff” delle accuse di antisemitismo, come lo ha definito Ilan Pappe, ha potuto sconvolgere il partito laburista e indebolire Jeremy Corbin come leader. Il punto è che non ci è riuscito.

I fatti procedono in fretta adesso. La notevole campagna per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) sta funzionando, ogni giorno di più; città e comuni, sindacati e organismi studenteschi la stanno supportando. Il tentativo del governo britannico di impedire agli enti locali di sostenere il BDS è stato sconfitto nei tribunali.

Queste non sono parole al vento. Quando i palestinesi si solleveranno di nuovo, e lo faranno, potrebbero non vincere subito – ma alla fine vinceranno, se noi comprendiamo che loro sono noi, e noi siamo loro.

Questa è una versione ridotta dell’intervento di John Pilger al Palestinian Expo di Londra l’8 luglio 2017.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Dopo Balfour: cento anni di storia e le strade non intraprese

Zena Agha, Jamil Hilal, Rashid Khalidi, Najwa al-Qattan, Mouin Rabbani, Jaber Suleiman, Nadia Hijab 

31 ottobre 2017, Al-Shabaka

Sintesi

Un’ondata internazionale di analisi e di attivismo sta segnando il centesimo anniversario della dichiarazione Balfour, il 2 novembre 2017.

La dichiarazione fornì un imprimatur imperiale alla risoluzione del movimento sionista nella sua prima conferenza a Basilea del 1897 per “fondare una patria per il popolo ebraico in Palestina garantita dal diritto pubblico” e diede inizio ad una guerra e una violenza infinite e alla spoliazione, dispersione e occupazione del popolo palestinese.1

La storia avrebbe potuto prendere un’altra direzione? Durante il secolo scorso ci furono momenti in cui i palestinesi avrebbero potuto influenzare il corso degli eventi in una diversa direzione? Ci siamo rivolti agli storici ed analisti della rete politica Al-Shabaka e abbiamo chiesto loro di identificare e riflettere su un momento in cui le cose avrebbero potuto andare diversamente se il popolo palestinese avesse deciso un’altra linea d’azione e di trarne lezioni che possano essere messe in pratica in questa ricerca di autodeterminazione, libertà, giustizia ed uguaglianza.

La tavola rotonda inizia con Rashid Khalidi e con la sua incisiva riflessione sulla costante mancanza di comprensione da parte della dirigenza palestinese delle dinamiche del potere globale, utilizzando il “Libro Bianco” del 1939 [documento britannico in cui si prospettava un ribaltamento della posizione filosionista del potere coloniale inglese e la costituzione di uno Stato arabo in Palestina, ndt.] per illustrare questa debolezza fatale. Zena Agha prende le mosse dalla commissione Peel del 1936 – la prima volta in cui venne menzionata la spartizione [della Palestina in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo, ndt.] come soluzione – e mette in discussione che essa sia effettivamente inevitabile, anche oggi, come la commissione asseriva.

Jamil Hilal affronta lo stesso Piano di Spartizione – la risoluzione ONU 181 del 1947 [da cui è nato lo Stato di Israele, ndt.] – notando le ragioni della minoranza dei palestinesi che sostenevano di accettarla per guadagnare tempo al fine di recuperare la forza del movimento nazionale dopo che era stato represso dagli inglesi e dai sionisti. Traendo insegnamento da Balfour, dal piano di spartizione e da Oslo, Hilal chiede: “Quando chiediamo quali lezioni noi, in quanto palestinesi, possiamo trarre dalla storia, la domanda è sempre: chi trarrà le lezioni e come si può fare in modo che si intervenga su di esse?”

Quanto è stata importante la grande catastrofe dell’Olocausto nel portare alla creazione di Israele? Najwa al-Qattan afferma che, benché ci sia sicuramente una relazione storica, non c’è un rapporto di causa – effetto, e quindi auspica una lettura critica della storia per tracciare il futuro. Mouin Rabbani contesta la valutazione secondo cui la visita di Anwar Sadat a Gerusalemme del 1977 sia stata un’iniziativa promettente fallita, sottolineando che quando il leader egiziano escluse dalla discussione l’opzione militare araba contro Israele privò l’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, principale organizzazione politico militare palestinese, ndt.] e gli Stati arabi di un’opzione diplomatica credibile.

Jaber Suleiman fa un confronto tra il destino dell’Intifada contro l’occupazione israeliana del 1987 e quello della rivolta palestinese del 1936 contro l’occupazione britannica e ne trae una serie di lezioni, in particolare sull’importanza di legare la tattica a una chiara visione strategica nazionale che guidi la lotta palestinese in ogni suo stadio. La tavola rotonda è stata moderata da Nadia Hijab.

Rashid Khalidi: il “Libro Bianco” e una sistematica incomprensione del potere

Il “Libro Bianco” del 1939 avrebbe potuto essere un punto di svolta nella storia palestinese? 2 Al massimo sarebbe stato un punto di svolta secondario. Se la dirigenza palestinese avesse accettato il “Libro Bianco”, si sarebbe riposizionata rispetto al potere coloniale. Ciò avrebbe potuto giovare alla sua posizione alla fine della rivolta del 1936-39 e l’avrebbe schierata dalla parte degli inglesi quando i sionisti si ribellarono ad essi.

Tuttavia la Gran Bretagna era un potere in declino. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica stavano dietro le quinte e fecero irruzione sulla scena poco dopo. Nel 1941 i nazisti attaccarono l’URSS e il Giappone attaccò Pearl Harbor ed il mondo cambiò, per cui, qualunque cosa i palestinesi avessero potuto fare con la Gran Bretagna, probabilmente avrebbe avuto effetti limitati. In un certo senso la grande rivolta palestinese arrivò troppo tardi. Gli egiziani si ribellarono nel 1919, gli iracheni nel 1920 e i siriani nel 1925. Negli anni ’30, soprattutto una volta che i nazisti arrivarono al potere, il progetto sionista era pienamente radicato in Palestina.

Tuttavia ciò che quel periodo pose in chiara evidenza fu il problema cronico della dirigenza palestinese, che era, senza eccezioni, poco aiutata da una minima comprensione del rapporto di forze a livello mondiale. I palestinesi erano in competizione con un movimento colonialista che era sorto in Europa e negli USA ed era costituito da europei le cui lingue madri erano europee e che erano in rapporto con personaggi influenti sia in Europa che negli USA.

Per competere con un movimento come quello, i dirigenti palestinesi avrebbero dovuto avere persone con rapporti nel sistema che fossero capaci di parlare le lingue e comprendessero sia la politica locale che quella internazionale. I palestinesi durante il Mandato britannico non le ebbero – basta leggere le loro memorie. Alcuni avevano delle intuizioni, ma erano inadatti a competere prima e dopo la dichiarazione Balfour e prima e dopo il “Libro Bianco”. E non è cambiato molto negli ultimi 100 anni, soprattutto riguardo agli USA. L’OLP aveva una buona comprensione del Terzo Mondo e di come funziona, una buona comprensione dell’Unione Sovietica e una certa competenza riguardo all’Europa occidentale, che è la ragione per cui ottenne vittorie diplomatiche negli anni ’70. Ma non aveva la minima idea della politica USA, e non ce l’ha tuttora.

La generazione palestinese più giovane che è cresciuta negli USA e in Europa si trova in una posizione molto migliore. Ha i rapporti e comprende come funzionano queste società, a differenza dei dirigenti palestinesi, o di certo della generazione dei loro genitori. Quando questa generazione diventerà più ricca e influente in qualità di avvocati, dottori, professionisti dell’informazione e dirigenti finanziari, non avrà inibizioni nell’utilizzare il proprio potere e la propria influenza per promuovere la giustizia per i palestinesi.

Se questo breve dibattito permette di trarre una lezione dalla storia, questa è che non si è riusciti ad arrivare al vertice. Non si è parlato a lord Balfour o non si parla al segretario [di Stato americano] Tillerson. E’ la struttura del potere che devi comprendere – Balfour era parte del governo, di un partito politico, di una classe, di un sistema, e lo stesso vale per Tillerson. Devi capire quelle strutture, così come i mezzi di comunicazione, e avere una strategia per trattare con loro. L’idea che puoi arrivare al vertice è un’illusione che i palestinesi e gli arabi hanno avuto in genere a causa del modo in cui funzionano i sistemi governati da re e dittatori arabi. La dirigenza nazionale è ben lontana dall’avere una strategia per trattare con gli USA, è penoso. Al contrario, la società civile palestinese sta facendo un lavoro fantastico, sia quella della diaspora che in Palestina: sono gli unici che capiscono come va il mondo.

Zena Agha: la spartizione non era un pilastro della politica

La lunga e funesta storia della conquista coloniale della Palestina presenta molti errori e molte opportunità mancate. Nel contesto del centenario della dichiarazione Balfour, la commissione Peel – un rapporto prodotto dallo stesso potere coloniale della dichiarazione del 1917 – è un momento centrale, anche se trascurato, nella storia della ricerca palestinese dell’autodeterminazione.

Condotta sotto la direzione di lord Peel, la commissione era il risultato della missione britannica in Palestina nel 1936. Il suo intento dichiarato era di “accertare le cause alla base degli scontri” in Palestina in seguito allo sciopero generale arabo di sei mesi e per “indagare sul modo in cui il Mandato in Palestina è stato messo in pratica per quanto riguarda gli obblighi mandatari rispettivamente verso gli arabi e gli ebrei.”

In base al rapporto stilato nel giugno 1937, il conflitto tra arabi ed ebrei era irriconciliabile e, di conseguenza, la commissione raccomandava la fine del Mandato Britannico e la spartizione della Palestina in due Stati: uno arabo, l’altro ebraico. Si supponeva che la spartizione fosse l’unico modo per “risolvere” le legittime e antitetiche ambizioni nazionali delle due parti e per liberare la Gran Bretagna dalla sua difficile situazione.

Nonostante gli impegni indicati nella dichiarazione Balfour, nell’accordo Sykes-Picot [tra Gran Bretagna e Francia per la spartizione del Medio oriente, ndt.] e nella corrispondenza tra McMahon e Hussein [tra l’alto commissario britannico al Cairo e il principe hashemita per definire lo status politico dei territori arabi liberati dal dominio turco, ndt.], la raccomandazione della spartizione riconobbe ufficialmente l’incompatibilità degli obblighi britannici verso le due comunità. La commissione Peel rappresentò la prima ammissione, quasi 20 anni dopo la sua istituzione, che la premessa del mandato britannico era insostenibile. Fu anche la prima volta che la spartizione venne menzionata come una “soluzione” del conflitto che i britannici avevano creato.

Entrambe le parti rifiutarono le raccomandazioni della commissione. I dirigenti sionisti erano insoddisfatti delle dimensioni del territorio a loro destinato, nonostante appoggiassero la spartizione come soluzione. Dal punto di vista palestinese, la spartizione era una violazione dei diritti degli abitanti arabi della Palestina. Il rapporto della commissione scatenò la rivolta araba spontanea dal 1936 fino alla sua violenta repressione da parte dei britannici nel 1939.

È difficile dire quale forma avrebbe potuto prendere un corso degli avvenimenti alternativo. Dopotutto la rivolta araba (ed il fallimento della conferenza anglo-arabo-ebraica a Londra nel febbraio 1939) portò alla pubblicazione del “Libro Bianco” del 1939, che affermava: “Il governo di Sua Maestà quindi ora dichiara inequivocabilmente che non è parte della sua politica che la Palestina debba diventare uno Stato ebraico.” Sotto ogni aspetto questa fu una vittoria per la comunità palestinese. È stato quello che è venuto dopo, cioè la Seconda Guerra Mondiale e gli orrori dell’Olocausto, che ha drasticamente sovvertito questo equilibrio in favore di uno Stato ebraico in Palestina.

La commissione Peel e le sue conseguenze offrono un opportuno promemoria che la spartizione della Palestina non è mai stato un pilastro del Mandato Britannico. Piuttosto, la spartizione venne suggerita come una misura disperata per liberare la Gran Bretagna, come potere coloniale, dal pantano palestinese. Quella spartizione allora diventò l’ortodossia stabilita per le recentemente create Nazioni Unite, e da allora praticamente ogni negoziato fu assolutamente inevitabile nonché ragionevole. Se cerchiamo di trarre lezioni per il futuro, è forse il caso di rimuovere il finora ben consolidato mito che la spartizione della Palestina storica sia l’unico modo per garantire la pace, qualunque forma essa possa prendere.

Jamil Hilal: Il Piano di Spartizione e il bivio

Per comprendere le strade non percorse quando la risoluzione ONU 181 (nota anche come il Piano di Spartizione) è stata approvata nel 1947, si deve riprendere in considerzione la dichiarazione Balfour del 1917 e i suoi risultati. La dichiarazione rifletteva gli interessi britannici nella regione, cioè l’uso della Palestina come garanzia del controllo [britannico] sul canale di Suez e come zona cuscinetto contro le ambizioni francesi sul sud della Siria. Le preoccupazioni britanniche erano quindi sia economiche (l’accesso al canale e l’accesso e il controllo di petrolio e gas) sia politiche (il controllo sulla Palestina che era stato ottenuto dalla Società delle Nazioni). Questo controllo è la ragione per cui la Gran Bretagna si impegnò a creare un “focolare ebraico” in Palestina, piuttosto che uno Stato ebraico.

Il colonialismo di insediamento da parte degli ebrei europei contro i desideri degli arabi palestinesi nativi mise in pratica la dichiarazione. Questa colonizzazione europea della Palestina, istigata dalla Gran Bretagna, iniziò molto prima delle terribili atrocità commesse dal regime nazista nella Germania di Hitler. Contro questa doppia colonizzazione della Palestina ci fu molta resistenza palestinese, la più nota delle quali fu la grande rivolta del 1936-39. La dirigenza del movimento nazionalista palestinese, che lottò contro la colonizzazione sionista, era divisa sul giudizio in merito al dominio britannico sulla Palestina. Alcuni dirigenti pensavano che la Gran Bretagna avrebbe potuto essere convinta, mentre altri la consideravano il loro maggiore nemico. Questa divisione sul ruolo del potere imperiale contro il nemico diretto è evidente ancora oggi.

Le misure che le forze britanniche e sioniste presero per schiacciare la ribellione del 1936-39 lasciarono esausto il movimento nazionalista, la dirigenza dispersa e l’economia palestinese in rovina. In seguito non ci fu una chiara strategia, salvo la richiesta di indipendenza, anche questa una situazione che ha delle somiglianze con l’attualità.

La risposta palestinese al piano di spartizione delle Nazioni Unite rispecchiò la stanchezza del movimento nazionale. Non c’era una strategia unitaria e nessuna discussione per chiedere l’opinione del popolo sulla cosa migliore da fare, sia dal punto di vista tattico che strategico. Solo una piccola parte del movimento nazionalista era pronta ad accettare il piano. La maggioranza lo rifiutò, ma non propose una chiara alternativa. La minoranza che sosteneva l’accettazione da parte dei palestinesi credeva che avrebbe potuto sventare il progetto sionista di occupare quanta più terra possibile con il minimo di popolazione nativa. Questo gruppo credeva che l’accettazione avrebbe dato ai palestinesi tempo e spazio per ricostituire la propria forza e le proprie possibilità, costruire uno Stato e sviluppare relazioni con la regione e con il mondo. Altri affermavano che una simile mossa non avrebbe ostacolato il progetto sionista.

Il rifiuto del piano di spartizione era ovviamente comprensibile. Per i palestinesi questo significava consegnare più di metà della loro patria a un movimento colonialista di insediamento europeo che invadeva e colonizzava il loro Paese con la forza e con la protezione dell’impero britannico. Violava il loro diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza e la loro richiesta di uno Stato democratico che avrebbe garantito i diritti di tutti i cittadini indipendentemente dalla religione, dall’etnia e dalla razza. Inoltre il progetto britannico-sionista non era solo contro i palestinesi: tutta la regione araba era coinvolta.

Il movimento sionista colse il rifiuto del piano come il rifiuto di un accordo pacifico e una giustificazione per scatenare una guerra contro i palestinesi quando questi erano impreparati, disorganizzati e senza dirigenti.

Quindi non furono pienamente sviluppate e discusse alternative al piano di spartizione. Gli argomenti proposti da quelli che erano favorevoli ad accettare il piano non vennero sufficientemente discussi e non vennero fatti tentativi di articolare una nuova strategia di opposizione al movimento sionista. Un simile percorso avrebbe potuto avere un impatto su Israele e portare in seguito alla riunificazione della Palestina su basi democratiche. Queste idee erano almeno da discutere.

Ironicamente, alcuni degli argomenti di quel periodo vennero ripresi nel 1974 quando venne sostenuto il programma di transizione, noto anche come il programma di 10 punti, che intendeva fondare uno Stato su ogni parte della Palestina che fosse stata liberata. Il programma, che venne approvato dal Consiglio Nazionale Palestinese (CNP), favorì l’ingresso dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come membro senza diritto di voto.

Nel 1988 il CNP approvò la soluzione dei due Stati in un momento in cui la prima Intifada aveva mobilitato un grande appoggio globale alla causa palestinese. Tuttavia gli accordi di Oslo del 1993 e ciò che ne seguì rappresentarono una spartizione della Palestina ancora più dannosa persino del piano di spartizione originale e sono culminati nell’attuale situazione, in cui l’equilibrio di forze tra Israele e i palestinesi a livello locale, regionale e internazionale è pesantemente a favore di Israele.

Partendo dal fatto che gli accordi di Oslo non hanno dato vita a uno Stato palestinese indipendente, ci dobbiamo chiedere: i palestinesi devono insistere con il progetto dei due Stati, in attesa di un cambiamento nel rapporto di potere, o dovrebbero adottare una nuova strategia che chieda la costruzione di uno Stato unico democratico nella Palestina storica – lo slogan che elementi illuminati del movimento nazionalista palestinese proposero prima della Nakba e di nuovo all fine degli anni ’60? Questa volta, tuttavia, la domanda deve essere affrontata con una chiara visione e strategia e attraverso una decisione delle comunità palestinesi nella Palestina storica e nella diaspora.

Tuttavia non è sufficiente discutere. Quando chiediamo quali lezioni noi, come palestinesi, possiamo trarre dalla storia, la mia domanda è sempre: chi farà tesoro di queste lezioni? E quelli che hanno il potere sono disposti ad agire tenendo conto di queste lezioni? Spesso gli intellettuali pensano che le loro analisi raggiungeranno in qualche modo la classe politica che è nelle condizioni di prendere l’iniziativa. Ma senza l’azione di gruppi di pressione, movimenti sociali, partiti politici, sindacati e altre forme di potere, si potrà ottenere poco.

Najwa al-Qattan: leggere la storia attraverso le lenti della realtà

La nascita dello Stato di Israele nel 1948 fu la conseguenza di una serie di sviluppi storici iniziati nel XIX° secolo. Benché l’Olocausto abbia giocato un ruolo nella nascita di Israele, esso fu più simile a un’ostetrica che a un genitore. Ciononostante c’è la percezione, sia nell’Occidente che tra i palestinesi, che i due avvenimenti siano legati da un rapporto causale. Questa percezione non è semplicemente dovuta a un errore logico secondo cui post hoc ergo proctor hoc, ovvero B ha seguito A, quindi A ha causato B. In realtà sono proprio i sei corti anni che separano i due eventi che dovrebbero farci riflettere. Qui io contesto una relazione causale diretta tra i due avvenimenti, pur suggerendo anche le ragioni per cui nell’immaginazione popolare sono associati. Concludo con le lezioni che possono essere tratte da una storia più critica.

Quando David Ben Gurion annunciò la nascita di Israele nel maggio 1948, stava a malapena evocando uno Stato puramente immaginario. Semmai stava fissando l’obiettivo di 50 anni di tentativi sionisti. Israele era la conseguenza di sviluppi storici sia a lungo che a breve termine: l’antisemitismo razziale o moderno in Europa nel XIX° secolo; l’emergere del movimento sionista sia come una risposta all’antisemitismo moderno che ai movimenti nazionalisti in Russia e in Europa occidentale; il successo del primo sionismo nel tenere insieme il socialismo con il nazionalismo per colonizzare “una terra senza popolo” con “un popolo senza terra”; il Mandato britannico per la Palestina sotto il cui contesto protettivo – come sancito nella dichiarazione Balfour – ondate successive di immigrati ebrei europei costruirono istituzioni sociali, economiche, politiche e militari pre-statali.

Tra i circa 600.000 ebrei europei che erano immigrati in Palestina fino al 1948, i sopravvissuti [all’Olocausto] erano 120.000. La popolazione di Israele crebbe rapidamente nei primissimi anni della sua vita in quanto arrivarono nuovi immigrati. Nuove ondate di sopravvissuti all’Olocausto ammontarono a 300.000, ma c’erano anche oltre 475.000 ebrei del Medio Oriente e di altre provenienze. Considerando l’idea sionista che lo Stato ebraico dovesse offrire un rifugio dall’antisemitismo europeo e una patria per il popolo ebraico, questo era un colpo morale e politico per il sionismo. L’idea era che se l’avessero costruita, sarebbero arrivati, ma milioni [di ebrei] non lo fecero, anche dopo la catastrofe provocata dall’uomo dell’Olocausto, che sterminò sei milioni di ebrei.

Non si tratta di negare un rapporto storico tra i due fatti. Il primo collegamento tra l’Olocausto e la creazione dello Stato di Israele riguarda i tempi. Benché i fondatori dello Stato sionista dai primi decenni del XX° secolo fossero concordi riguardo all’obiettivo finale di costituire uno Stato ebraico in Palestina, dissentivano sul momento ideale (così come sull’estensione del suo territorio). In questo senso l’Olocausto sicuramente portò i dirigenti sionisti a sottolineare l’urgenza dello Stato, come durante il programma Biltmore [dichiarazione da parte di Ben Gurion durante la conferenza all’hotel Biltmore di New York sulla necessità di costituire lo Stato ebraico, ndt.] nel 1942, così come fece l’annuncio britannico dei piani di disimpegno dalla Palestina nel 1947. Tuttavia ciò non significa che uno fosse la causa dell’altro; i progetti e le attività relativi alla costituzione dello Stato all’epoca erano in fase avanzata.

Il secondo collegamento è una questione di propaganda politica: il legame tra l’Olocausto ed Israele è stato spesso utilizzato per denunciare le critiche di Israele come antisemitismo e per eliminare dalla narrazione la mancanza di uno Stato e la diaspora del popolo palestinese. Due anni fa il primo ministro Benjamin Netanyahu è arrivato a fare la falsa affermazione che furono i palestinesi che suggerirono l’idea della soluzione finale a Hitler.

Sotto occupazione o sparsi nella diaspora provocata da Israele, a volte i palestinesi immaginano che se l’Olocausto non fosse mai avvenuto non ci sarebbe neanche stato Israele. Piuttosto che reimmaginarci il passato, faremmo meglio a imparare da esso in modo da costruire un futuro pacifico e umano. In primo luogo, il segreto per costruire uno Stato palestinese (indipendentemente dalla sua forma) sono la densità e il benessere del suo popolo, delle sue istituzioni e della sua società civile, così come la determinazione della sua dirigenza politica e della società civile a sfidare l’occupazione e la negazione dei diritti palestinesi da parte di Israele. In secondo luogo, benché l’Olocausto non abbia provocato direttamente la nascita dello Stato di Israele, dovremmo desiderare che non ci fosse mai stato per l’unica ragione che conta: quella morale.

Mouin Rabbani: le ripercussioni della pace separata di Sadat

Sembra che il popolo palestinese abbia un rapporto difficile con gli anni che finiscono con il numero sette. Il primo congresso sionista si tenne nella città svizzera di Basilea nel 1897; il 1917 vide Arthut Balfour emanare la vergognosa dichiarazione che impegnava la Gran Bretagna a trasformare la Palestina in un focolare nazionale ebraico; la commissione Peel, che raccomandava che Londra adottasse la spartizione come politica ufficiale, pubblicò il suo rapporto nel 1937; la risoluzione 181 dell’assemblea generale dell’ONU che raccomandava la spartizione della Palestina venne adottata il 29 novembre 1947; il risultante staterello di Israele occupò ciò che restava della Palestina ed altri territori arabi nel 1967. Mezzo secolo dopo, nel 2017, sembra che vi si sia installato in modo più o meno permantente. L’importante eccezione a questa costante di sconfitte e tragedie è il 1987, l’anno in cui l’Intifada, la rivolta popolare nei Territori Palestinesi Occupati, scoppiò per dare ancora una volta ai palestinesi di ogni luogo la speranza di una liberazione nazionale.

Il 1977, l’anno in cui il leader egiziano Anwar Sadat lanciò la sua iniziativa per fare una pace separata con Israele, è spesso assente da questo elenco. L’auto-proclamato “pellegrinaggio” di Sadat verso l’abbraccio di Menachem Begin è normalmente presentato come l’inizio benaugurante di un processo di pace arabo-israeliano che in seguito è fallito. Non c’è bisogno del senno di poi per capire che non era, e non avrebbe mai potuto essere, niente del genere.

Sadat dedicò molti degli anni ’70, e in particolare quelli successivi alla guerra dell’ottobre 1973 [la guerra dello Yom Kippur, ndt.], a riconfigurare l’Egitto. Precedentemente centro di gravità del mondo arabo, che cercò e ottenne un’importanza globale, fu sotto la dirigenza di Sadat che l’Egitto venne gradualmente ridotto a Stato “cliente” di USA e Arabia Saudita. Le riforme socioeconomiche che ne derivarono – la politica dell’infitah [apertura neoliberista, ndt.] – per pagare il prezzo di ammissione aprirono le porte dell’Egitto ad ogni capitalista corrotto e ad ogni disponibilità clientelare. All’inizio del 1977 tali cambiamenti produssero anche un’esplosione di rivolta popolare, senza precedenti dal colpo di Stato del 1952, che per poco non portò alla fine del potere di Sadat. Il suo volo a Tel Aviv alla fine di quell’anno era un risultato diretto di quegli sviluppi. Eppure l’aria di inevitabilità di cui la sua iniziativa venne da allora rivestita – presentata come una conseguenza logica e necessaria del disimpegno [israeliano] dal Sinai nel 1974-75 in seguito alla guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973 – equivale a leggere la storia a posteriori. Per una buona ragione prese assolutamente di sorpresa allo stesso modo amici e nemici.

In un sol colpo lo stravagante e sempre più imprevedibile leader egiziano eliminò dalle possibilità l’opzione militare araba contro Israele. Così facendo privò anche l’OLP e gli Stati arabi di una credibile opzione diplomatica.

Le immediate conseguenze furono la devastante invasione del Libano nel 1982 e l’espulsione del movimento nazionale palestinese dal Libano. Un decennio dopo, gli accordi di Oslo del 1993 non furono altro che un’elaborazione del piano di autonomia inserito nel trattato di pace tra israeliani ed egiziani del 1979. Che Israele non abbia ancora dato il nome di Anwar Sadat a una sua colonia è uno dei grandi misteri della regione.

Se alla fine degli anni ’70 l’Egitto – come quasi fece – avesse resistito alla tentazione di una pace separata con Israele, il Medio Oriente oggi sarebbe un posto molto diverso e quasi sicuramente molto migliore. I palestinesi e gli Stati arabi avrebbero conservato un’opzione diplomatica credibile e sarebbero stati nelle condizioni di esercitare significative pressioni militari se Israele avesse rifiutato di fare altrettanto.

Jaber Suleiman: reimparare la lezione della prima Intifada

La prima Intifada del 1987 fu un brillante modello di lotta palestinese contro l’occupazione israeliana. Impegnò tutti gli strati della popolazione palestinese e fu caratterizzata da unità, organizzazione e creatività. Rivitalizzò con successo anche la causa palestinese a livello internazionale dopo che l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) venne espulsa da Beirut nel 1982, perdendo la propria base.

Da allora ogni volta che i palestinesi si ribellano contro l’occupazione israeliana ci chiediamo: ci sarà una nuova Intifada – una terza Intifada, dato che l’Intifada degli anni 2000 fu la seconda? Qualche analista usa sbrigativamente il termine “intifada” per riferirsi a qualunque promettente azione popolare, come il movimento dei giovani nel 2015 e, più recentemente, l’”ondata di rabbia” di Gerusalemme, che continua in modo intermittente nel 2017. Ciò sottolinea la posizione centrale della prima Intifada, che durò tre anni. Infatti è comparabile solo con la grande rivolta palestinese del 1936-39. Sia l’Intifada che la rivolta andarono incontro allo stesso tragico destino, benché nel contesto di circostanze storiche diverse.

La dirigenza palestinese degli anni ’30 rispose all’appello dei leader arabi di fermare la rivolta per “dare ascolto alle buone intenzioni del nostro alleato britannico”, che si era impegnato a rispettare le richieste arabe. Nel 1988, durante la 19° sessione del Consiglio Nazionale, l’OLP decise di capitalizzare politicamente la prima Intifada per ottenere libertà e indipendenza. Credeva di appropriarsi della lotta e che l’Intifada avesse fornito la spinta necessaria per mettere in atto il programma politico provvisorio che aveva adottato nel 1974, che comprendeva la formazione di un’entità palestinese su ogni parte della Palestina che fosse stata liberata. Il risultato fu uno Stato abortito come conseguenza degli accordi di Oslo.

Dato che le circostanze della rivolta del 1936 non portarono alla realizzazione del diritto palestinese all’auto-determinazione, perché la prima Intifada non fu in grado di avvalersi di questa ricca esperienza per evitare il suo tragico destino? Anzi, la prima Intifada soffrì lo stesso destino perché fu coinvolta troppo frettolosamente negli accordi di Oslo, e il popolo palestinese continua a raccoglierne le amare conseguenze. Ciò include la divisione, la frammentazione e la debolezza del suo movimento nazionale dopo che negli anni ’70 aveva guadagnato un posto di rilievo tra i movimenti di liberazione nazionale mondiali.

Questa domanda è diventata ancora più pressante nel centenario della dichiarazione Balfour, in quanto lo sventurato processo di pace di Oslo è arrivato alla fine dopo più di due decenni di futili negoziati. I fatti sul terreno determinati dalle colonie israeliane – e il rifiuto israeliano di ritirarsi dalla terra occupata nel 1967 – hanno reso impossibile la soluzione dei due Stati. Oggi è urgente chiedersi come le lezioni della prima Intifada ed i suoi risultati possano essere messi in pratica per una giusta soluzione del conflitto arabo-israeliano.

  • La storia svela l’importanza per la lotta nazionale palestinese di avere una chiara visione strategica e di essere sicuri che le mosse tattiche si inseriscano in quelle strategiche, e viceversa, durante tutte le fasi della lotta e alla luce dei cambiamenti sul terreno e delle alleanze globali. Ciò garantisce che, qualunque sia la fase della lotta, l’opportunismo politico non abbia la priorità sugli obiettivi finali.

  • È fondamentale sostenere le basi giuridiche del conflitto, fondate sui principi di giustizia contenuti nella Carta delle Nazioni Unite, che sostituisce le leggi internazionali in base all’articolo 1 della Carta. Ciò garantisce che le basi legali dei diritti dei palestinesi non vengano manipolate e che quei diritti rimangano il punto di riferimento per ogni negoziato. Non è stato così nel caso di Oslo.

  • La dirigenza palestinese – attuale o futura – dovrebbe ispirarsi allo spirito combattivo che il popolo ha dimostrato durante un secolo di resistenza al progetto sionista. La resistenza dovrebbe imparare da queste esperienze storiche per rafforzare la propria fiducia nel potenziale rivoluzionario del popolo palestinese, ed evitare il meschino e miope sfruttamento politico di consistenti risultati nella lotta che leda i diritti nazionali dei palestinesi.

Notes:

  1. Al-Shabaka ringrazia gli sforzi dei sostenitori dei diritti umani di tradurre i suoi articoli, ma non è responsabile di eventuali cambiamenti del significato.

  2. Il governo britannico adottò il Libro Bianco nel 1939, e lo applicò fino alla fine del suo mandato nel 1948. Il “Libro Bianco” escluse la spartizione e affermò che il focolare nazionale ebraico avrebbe dovuto essere all’interno di una Palestina indipendente con limiti all’immigrazione [degli ebrei, ndt.].

Zena Agha è l’esperta di politica USA per Al-Shabaka. L’esperienza di Zena si concentra sulla politica, sulla diplomazia e sul giornalismo. In precedenza ha lavorato all’ambasciata irachena a Parigi, alla delegazione palestinese all’UNESCO e all’ “Economist”. Oltre ad editoriali su “The Indipendent”, le collaborazioni di Zena includono El País, i servizi internazionali di PRI [Public Radio International, rete radiofonica indipendente con sede negli USA, ndt.], i servizi esteri della BBC e la BCC in arabo. A Zena è stata assegnata una borsa di studio Kennedy per studiare all’università di Harvard, completando il suo master in studi sul Medio oriente. I suoi principali interessi di ricerca comprendono la storia moderna, memorie e produzioni narrative, prassi territoriali in Medio oriente.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Jamil Hilal è sociologo e scrittore indipendente palestinese e ha pubblicato vari libri e numerosi articoli sulla società palestinese, sul conflitto arabo-israeliano e sui problemi del Medio Oriente. Hilal ha ottenuto, e tuttora ricopre, il ruolo di ricercatore esperto in una serie di istituti di ricerca palestinesi. Le sue recenti pubblicazioni includono lavori sulla povertà, sui partiti politici palestinesi e sul sistema politico dopo Oslo. Ha pubblicato Where Now for Palestine: The Demise of the Two-State Solution [Dove va ora la Palestina: il fallimento della soluzione dei due Stati] (Z Books, 2007), e con Ilan Pappe ha pubblicato Across the Wall [“Attraverso il muro”] (I.B. Tauris, 2010).

Il commentatore politico di Al-Shabaka Rashid Khalidi è titolare della cattedra Edward Said di Studi Arabi al dipartimento di storia della Columbia University. È stato presidente dell’Associazione degli Studi sul Medio Oriente, consulente della delegazione palestinese per i negoziati di pace arabo-israeliani del 1991-93 ed è direttore del Journal of Palestine Studies. Khalidi è autore di Brokers of Deceit: How the U.S. has Undermined Peace in the Middle East (2013); Sowing Crisis: American Dominance and the Cold War in the Middle East (2009); The Iron Cage: The Story of the Palestinian Struggle for Statehood (2006); Resurrecting Empire: Western Footprints and America’s Perilous Path in the Middle East (2004); Palestinian Identity: The Construction of Modern National Consciousness (1997); Under Siege: PLO Decision-making during the 1982 War (1986); e British Policy towards Syria and Palestine, 1906-1914 (1980). Ha scritto oltre novanta articoli su aspetti della storia del Medio Oriente.

La commentatrice politica di Al-Shabaka Najwa al-Qattan è professoressa associata di storia alla Loyola Marymount University di Los Angeles. Si è laureata all’American University di Beirut, alla Georgetown e ad Harvard. Ha scritto sulla corte ottomana musulmana, su ebrei e cristiani nell’impero ottomano e sulla Grande Guerra.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Mouni Rabbani è uno scrittore ed analista indipendente specializzato in questioni palestinesi e nel conflitto arabo-israeliano. È ricercatore all’Istituto di Studi Palestinesi ed è un redattore di Middle East Report [rivista indipendente sul Medio Oriente, ndt.]. I suoi articoli sono apparsi anche su “The National [rivista in inglese degli Emirati Arabi Uniti, ndt.] ed è commentatore del The New York Times.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Jaber Suleiman è un ricercatore e consulente indipendente in studi sui rifugiati. Dal 2011 ha lavorato come consulente e coordinatore per il Forum di Dialogo libanese-palestinese presso l’Iniziativa per uno Spazio Comune, il progetto di supporto dell’UNDP [il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, ndt.]

sulla Costruzione di Consenso e Pace Civile in Libano. Tra il 2007 ed il 2010 ha lavorato come consulente per il programma palestinese dell’UNICEF nei campi di rifugiati palestinesi in Libano. È stato ricercatore ospite del programma di studi sui rifugiati dell’università di Oxford. È anche co-fondatore del gruppo e centro per i diritti dei rifugiati Aidoun e ha scritto numerosi studi riguardanti i profughi palestinesi e il diritto al ritorno.

Nadia Hijab è co-fondatrice e direttrice esecutiva di Al-Shabaka, scrittrice e commentatrice nei media. Il suo primo libro, Womanpower: The Arab debate on women at work [“Potere delle donne: il dibattito arabo sulle donne al lavoro”] è stato pubblicato dalla Cambridge University Press ed è coautrice di Citizens Apart: A Portrait of Palestinians in Israel [“Cittadini ai margini: un ritratto dei palestinesi in Israele”] (I. B. Tauris). E’ stata capo redattrice del giornale con sede a Londra “Middle East magazine”, prima di aver ricoperto un incarico alle Nazioni Unite a New York. È co-fondatrice ed ex-condirettrice della campagna USA per i diritti dei palestinesi, ed ora lavora nel suo comitato consultivo.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Una conferenza europea sull’attività di colonizzazione dichiara Israele un “regime di apartheid”

Ma’an News

10 novembre 2017

Betlemme (Ma’an) – Rappresentanti da 24 Paesi europei, compresi parlamentari, giuristi, giornalisti e attivisti, si sono incontrati a Bruxelles all’inizio della settimana nella prima conferenza europea sull’attività di colonizzazione di Israele, concordando una dichiarazione che accusa Israele di aver costituito un “regime di apartheid” in Cisgiordania.

Secondo un comunicato stampa, il testo approvato è stato denominato la “Dichiarazione di Bruxelles” e condivide le seguenti clausole:

1. Israele, il potere occupante dei territori palestinesi dal 1967, continua la sua politica di confisca, ebraicizzazione della terra palestinese e costruzione di colonie su di essa. Queste colonie, con il passare del tempo, sono diventate l’incubatrice di “organizzazioni terroristiche” di coloni come HiiltopYouth, Paying the Price and Revenge [rispettivamente “I giovani delle colline”, “Pagare il prezzo” e “Vendetta”, gruppi di coloni estremisti e violenti, ndt.].

2. Pertanto, con questa politica predeterminata di espansione delle colonie, è improprio parlare di smantellamento di colonie politiche o per la sicurezza, ma piuttosto occorre inquadrare questo movimento come una politica coloniale strutturale in grado di colonizzare una larga parte della Cisgiordania, non meno del 60% della sua estensione. Questa politica, di fatto, ha costituito un regime di apartheid, che viola la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, che nel suo articolo 8 stabilisce che le colonie sono un crimine di guerra, il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia emesso il 9 luglio 2004 riguardo al Muro dell’apartheid, che è stato definito una grave violazione delle leggi internazionali, e le risoluzioni ONU, soprattutto la risoluzione 2334 (2016) del Consiglio di Sicurezza. Questa risoluzione afferma chiaramente che ogni attività israeliana di colonizzazione nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme est, è illegale in base alle leggi internazionali e costituisce un ostacolo alla costituzione di uno Stato palestinese contiguo, sostenibile e pienamente sovrano.

3. La conferenza di Bruxelles, prendendo nota dei fatti summenzionati, considera che la continuazione delle attività di colonizzazione pone fine a ogni possibilità per una soluzione dei due Stati e piuttosto concretizza il sistema di apartheid attuato dalla politica di occupazione. La conferenza chiede la fine immediata di ogni attività di colonizzazione perseguita dallo Stato occupante nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est.

4. La conferenza di Bruxelles chiede alla comunità internazionale di assumersi le responsabilità giuridiche opponendosi a queste politiche razziste del potere occupante e imporre una seria pressione su di esso per il rispetto delle fondamentali leggi internazionali. L’Unione Europea, che ha intense relazioni e un accordo di associazione con lo Stato israeliano occupante, dovrebbe fare pressione su Israele in modo che essa [l’UE] si assuma la responsabilità di superare la differenza tra le sue parole e le sue azioni nel contesto della politica israeliana di colonizzazione, attivando l’articolo 2 dell’Accordo di Associazione per esercitare pressioni su Israele affinché rispetti i suoi obblighi in quanto potere occupante.

5. La conferenza di Bruxelles chiede anche ai Paesi dell’UE di far seguire alle parole i fatti, non solo rilasciando dichiarazioni di denuncia e di condanna, ma adottando piuttosto misure concrete per rendere Israele responsabile, imponendo un divieto assoluto su ogni attività finanziaria, economica, commerciale e di investimenti, diretta o indiretta, con le colonie israeliane finché non si atterranno alle leggi internazionali.

6. I partecipanti a questa conferenza, mentre condannano la politica di colonizzazione nei territori palestinesi occupati come una violazione del diritto internazionale, sottolineano al contempo l’importante ruolo che può essere giocato da forze politiche, parlamenti, organizzazioni dei diritti umani e della società civile nei Paesi dell’UE per opporsi ai progetti israeliani di espansione e di costruzione di colonie. Chiedono anche ai governi dell’UE e alle loro istituzioni costituzionali di rispettare le proprie responsabilità in base alla responsabilità collettiva di rifiutare le violazioni da parte di Israele dei diritti dei cittadini palestinesi sotto occupazione, in modo da obbligare Israele almeno a rispettare i suoi obblighi in base all’Accordo di Associazione e da non permettere ai coloni e ai loro dirigenti di entrare nei Paesi dell’UE e da portarli davanti alla giustizia internazionale come criminali di guerra nel caso lo facciano.

7. I partecipanti alla conferenza chiedono ai popoli del mondo e alle loro forze democratiche amanti della pace di partecipare attivamente al movimento internazionale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, noto come BDS, e di fare pressione su Israele perché rispetti il diritto internazionale.

8. La conferenza afferma anche il proprio totale sostegno all’iniziativa palestinese di deferire alla Corte Penale Internazionale come crimini di guerra la costruzione di nuove colonie, l’espansione di quelle esistenti e la violenza dei coloni contro i palestinesi.

9. I partecipanti alla conferenza plaudono alla crescente solidarietà con il popolo palestinese e con la sua giusta causa. Elogiano anche il rifiuto da parte dei popoli del mondo delle politiche israeliane di pulizia etnica e di apartheid perseguite dallo Stato occupante israeliano.

10. I partecipanti alla conferenza chiedono di contrastare questa politica costituendo un comitato europeo di Paesi partecipanti rappresentati in questa conferenza per denunciare le continue violazioni da parte delle forze di occupazione e per rafforzare la pressione per perseguire i criminali di guerra israeliani finché Israele non rispetterà il diritto internazionale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Con uno sbadiglio – è così che la maggioranza degli israeliani risponde al furto di terre

Amira Hass

1 novembre 2017, Haaretz

Finché è ancora terra palestinese. Sanno che prima o poi potranno comprare a prezzo stracciato una villa con una fantastica vista su quella terra.

Cosa sarebbe successo se individui non identificati in Iran, Francia o Venezuela avessero aggredito commercianti ebrei e li avessero obbligati a chiudere i loro negozi? Quali scuse e manifestazioni di sconcerto i nostri diplomatici avrebbero chiesto all’Unione Europea, alle Nazioni Unite e chissà a chi altro? E con quanta esultanza vari ricercatori avrebbero tracciato un grafico dell’odio globale e sarebbero stati intervistati a lungo, con espressione seria, sulle inquietanti caratteristiche antisemite – così evocatrici di un oscuro passato – del privare ebrei dei loro mezzi di sostentamento e della distruzione delle loro proprietà?

Ma per noi israeliani questa domanda retorica ha perso il suo potere di educarci, di metterci in imbarazzo e di farci vergognare. Il fatto che così tanti israeliani siano coinvolti nel derubare così tanti palestinesi dei loro mezzi di sostentamento non è registrato neppure dai nostri sismografi. Questi sismografi sono calibrati per registrare, si dice, furti agricoli che sarebbero stati commessi da palestinesi. Al contrario, tutte le azioni che regolarmente noi portiamo a termine in modo che i palestinesi perdano le loro fonti di reddito provocano un grande sbadiglio. Ascolta, lo puoi già sentire.

Questa domanda retorica non è rivolta agli israeliani, perché essi sono i potenziali beneficiari del furto, se non quelli che già ne stanno beneficiando. Ecco un piccolo, parziale esempio recente: secondo rapporti complementari dell’Ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari e di due organizzazioni non governative, “Rabbini per i Diritti Umani” e “Yesh Din”, nelle ultime settimane individui non identificati hanno rubato olive da più di 1.000 alberi in 11 villaggi palestinesi in Cisgiordania – Azmut, Awarta, Yanun, Burin, Qaryut, Far’ata, Jit, Sinjil, Al-Magheir, Al-Jinya, Al-Khader. Inoltre individui non identificati, che sembravano ebrei, hanno aggredito raccoglitori dei villaggi di Deir al-Khattab, Burin, As-Sawiya e Kafr Kalil e li hanno cacciati dai loro campi.

A parte Burin, dove l’esercito ha individuato alcuni dei ladri ebrei e riportato il raccolto ai proprietari, questi furti significano che un investimento di tempo, denaro e fatica è andato in fumo. Nella maggioranza dei villaggi il saccheggio è avvenuto in zone che avamposti e colonie hanno recintato con l’uso di intimidazioni e violenze e in cui l’esercito, in cambio, ha punito i palestinesi limitandone l’accesso alle loro terre.

E’ così che ci garantiamo il fatto che nel giro di qualche anno ci saranno terre vuote su cui costruire un altro quartiere di lusso. Gli israeliani indifferenti sanno che presto là potranno comprarsi a prezzi stracciati una villa con una fantastica vista. Quindi sbadigliano.

Ci sono furti perpetrati in apparenza da singoli individui, e poi ci sono i furti di Stato – nel villaggio di Al-Walaja, per esempio. E’ molto probabile che questo sia l’ultimo anno in cui la raccolta delle olive vi abbia luogo come al solito. Il prossimo anno gli abitanti saranno soggetti a un sistema di permessi per poter raggiungere le loro terre attraversando un cancello agricolo nel muro di separazione, che verrà aperto quando l’ufficiale di stato maggiore per l’agricoltura dell’Amministrazione Civile israeliana in Cisgiordania deciderà che debba essere aperto – per due o tre mesi all’anno. La mattina verrà aperto e chiuso immediatamente, e così alla sera.

Venerdì scorso un abitante di Al-Walaja e volontari israeliani di Engaged Dharma, che stavano aiutando nella raccolta, hanno preferito parlare di cose piacevoli: della qualità dell’olio d’oliva, delle olive succose che stavano crescendo vicino alla cisterna, di quelle più avvizzite che erano state raccolte dalla terrazza inferiore, dell’ottimo sapore dei rapanelli e delle cipolle verdi che egli coltiva tra gli alberi. Ma il prossimo anno gli abitanti del villaggio dovranno fare i conti con le restrizioni per avere un permesso – condizioni in contraddizione con l’abitudine palestinese di lavorare collettivamente la terra e che molto probabilmente non consentiranno loro di continuare a coltivarvi ortaggi.

Quelli che sbadigliano stanno già facendo un giro sulle terre di Al-Walaja, che sono state dichiarate dagli ebrei parco nazionale per l’ozio e il relax, per giostre ed immersioni rituali. E, se dio vorrà, il prossimo anno, quando la costruzione del muro sarà completata, non vi si vedranno palestinesi – i proprietari legittimi della terra.

Qui il discorso chiarisce perché, diciamo, un boicottaggio europeo e sudamericano dei, diciamo, prodotti agricoli israeliani sia necessario e giustificato. Questa sarebbe l’unica cosa che potrà far smettere gli israeliani di sbadigliare.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché l’occupazione non è casuale

Rod Such

 18 settembre 2017 The Electronic Intifada

La più grande prigione al mondo: una storia dei territori occupati, di Ilan Pappe, Oneworld Books (2017)

Secondo “La più grande prigione al mondo”, il nuovo libro dello storico israeliano Ilan Pappe, fin dal 1963 – quattro anni prima della guerra del 1967 – il governo israeliano stava progettando l’occupazione militare ed amministrativa della Cisgiordania.

La pianificazione dell’operazione – nome in codice “Granit” (granito)- ebbe luogo durante un mese nel campus dell’università Ebraica nel quartiere di Givat Ram a Gerusalemme ovest. Gli amministratori militari israeliani responsabili del controllo dei palestinesi si riunirono con funzionari legali dell’esercito, figure del ministero dell’Interno e avvocati privati israeliani per stilare le norme giuridiche ed amministrative necessarie per governare sul milione di palestinesi che all’epoca vivevano in Cisgiordania.

Questi piani facevano parte di una strategia più complessiva per mettere la Cisgiordania sotto occupazione militare. Questa strategia era denominata in codice “Piano Shacham”, dal nome del colonnello israeliano Mishael Shacham che ne era l’autore, e venne ufficialmente presentata dal capo di stato maggiore dell’esercito israeliano il 1 maggio 1963.

Pappe ha sostenuto a lungo che la guerra del 1967 e l’occupazione che ne seguì non furono “l’impero casuale” descritto dai sionisti progressisti. Pappe ritiene che un “Grande Israele” fosse stato prospettato fin dal 1948, e la sua pianificazione sia avvenuta fin dalla guerra di Suez del 1956.

La novità contenuta in “La più grande prigione al mondo” è il resoconto dettagliato da parte di Pappe esattamente di quello che i pianificatori israeliani avevano stabilito nel 1963: ossia “la più grande mega-prigione per un milione e mezzo di persone – un numero che sarebbe cresciuto fino a quattro milioni – che sono ancor oggi, in un modo o nell’altro, incarcerati all’interno dei muri reali o virtuali di questa prigione.”

Sistema di controllo

La descrizione da parte di Pappe degli incontri di Givat Ram ricorda il modo in cui aprì il suo libro più venduto, “La pulizia etnica della Palestina”, con la sua descrizione della “Casa Rossa” a Tel Aviv in cui il “Piano Dalet” (il Piano D) – per espellere quasi un milione di palestinesi – fu ordito 15 anni prima.

E in un certo senso “La più grande prigione al mondo” completa una trilogia, che comprende anche “I palestinesi dimenticati: una storia dei palestinesi in Israele”, che include la storia del popolo palestinese sotto il sionismo dal 1948 ad oggi.

Pappe afferma che il governo israeliano comprese nel 1963 che non sarebbe stato in grado di condurre un’espulsione di massa delle dimensioni della Nakba, espulsione forzata dei palestinesi nel 1948, a causa del controllo internazionale. Ciò spiega perché cominciò a disegnare un sistema di controllo e di divisione che avrebbe garantito una colonizzazione di successo in Cisgiordania, avrebbe privato i palestinesi dei diritti umani fondamentali, non concedendo loro la cittadinanza, e avrebbe garantito che la loro condizione di non cittadini nel loro stesso Paese non sarebbe mai stata negoziabile.

Benché la guerra del 1967 abbia determinato l’espulsione di altri 180.000 palestinesi (secondo le Nazioni Unite) e forse addirittura 300.000 (secondo il libro di Robert Bowker “Palestinian refugees: Mythology, Identity, and the Search for Peace [Rifugiati palestinesi: mitologia, identità e la ricerca della pace]), secondo Pappe gli incontri di Givat Ram e quelli che seguirono prospettarono una specie di amministrazione carceraria per i palestinesi rimasti.

Già il 15 giugno, tre giorni dopo la fine della guerra, una commissione di direttori generali, compresi tutti i ministri del governo responsabili dei territori appena occupati, iniziò ad edificare quella che Pappe chiama una “infrastruttura per l’incarcerazione” dei palestinesi. Tutta questa pianificazione, egli scrive, ora si può trovare in due volumi di resoconti resi pubblici, per un totale di migliaia di pagine, derivanti dai verbali degli incontri del comitato.

Quasi subito dopo la conclusione della guerra, Israele iniziò a mettere in atto un piano ideato da Yigal Alon – membro del parlamento israeliano, la Knesset. Il piano era di creare dei “cunei” de-arabizzati, serie di colonie solo di ebrei in Cisgiordania “che avrebbero separato palestinesi da palestinesi ed essenzialmente annesso parti della Cisgiordania ad Israele.”

Questi cunei, inizialmente nella valle del Giordano e sulle montagne orientali, sarebbero stati più tardi perfezionati da Ariel Sharon, ministro dell’Edilizia di Israele e più tardi primo ministro. Alla fine avrebbero assunto le caratteristiche concrete di una prigione, nella forma di posti di blocco, di un muro dell’apartheid e di altre barriere fisiche.

Pappe contesta la tesi secondo cui le colonie israeliane, illegali secondo il diritto internazionale, siano state il risultato di un movimento messianico nazional –religioso, un argomento sostenuto in modo più articolato da Idith Zertal e Akiva Eldar nel loro libro “Lords of the Land: The War Over Israel’s Settlements in the Occupied Territories, 1967-2007.” [“Signori della terra: la guerra sulle colonie israeliane nei territori occupati, 1967-2007]. Al contrario fornisce prove che dimostrano il fatto che i governi sionisti laici, compreso quello di Golda Meir, del partito Laburista, corteggiarono questo movimento e lo utilizzarono per promuovere l’espansione coloniale da parte di Israele.

Percepibile

Non ci volle molto, comunque, prima che lo schema del governo provocasse una resistenza di massa, iniziata con la Prima Intifada del 1987-1993. Gli accordi di Oslo cercarono di affrontare questa resistenza. Pappe mostra che gli accordi di Oslo non ebbero mai l’obbiettivo di arrivare ad uno Stato palestinese e che definirono semplicemente la creazione di piccoli cantoni simili ai bantustan dell’apartheid sudafricano, con benefici aggiuntivi per il fatto che i costi e le responsabilità dell’occupazione vennero in larga misura trasferiti a importanti donatori ed organizzazioni internazionali – soprattutto l’Unione Europea – ed all’Autorità Nazionale Palestinese appena creata.

E’ qui che la metafora della prigione di Pappe diventa più percepibile. Finché l’ANP darà seguito alle proprie responsabilità riguardo alla sicurezza, la resistenza palestinese verrà messa a tacere, i palestinesi potranno vivere in una prigione di minima sicurezza “senza diritti civili ed umani fondamentali”, ma con l’illusione di una limitata autonomia. Appena la resistenza si manifesta, tuttavia, Israele impone i controlli di una prigione di massima sicurezza.

Quindi negli anni seguenti la Cisgiordania è diventata la prigione di minima sicurezza e Gaza- con Hamas alla guida della resistenza – è diventata quella di massima sicurezza. I palestinesi, scrive Pappe, “potrebbero essere sia i detenuti della prigione aperta della Cisgiordania o incarcerati in quella di massima sicurezza della Striscia di Gaza.” Tutto quello che è avvenuto dopo la guerra del 1967, nota Pappe, segue la “logica del colonialismo di insediamento” e quella logica prevede la possibile eliminazione dei palestinesi autoctoni. Tuttavia questo risultato non è inevitabile. Un’alternativa è possibile, afferma Pappe, se Israele smantella le colonie e apre la strada “alla logica dei diritti umani e civili.”

Rod Such è un ex curatore delle enciclopedie “World Boook” ed “Encarta” [una cartacea e l’altra digitale, entrambe pubblicate negli USA, ndt.]. Vive a Portland, Oregon, ed è attivo nella campagna di Portland “liberi dall’occupazione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un nuovo rapporto fornisce dettagli sul “vasto e sistematico abuso” da parte di Israele su minori a Gerusalemme est

Sheren Khalel

25 ottobre 2017, MondoWeiss

Un nuovo rapporto stilato dalle associazioni israeliane per i diritti umani ‘HaMoked:Centro per la difesa delle persone’ e B’Tselem, con l’appoggio dell’Unione Europea, ha rivelato “un vasto, sistematico abuso da parte delle autorità israeliane” nei confronti di centinaia di ragazzi detenuti a Gerusalemme est occupata.

Il rapporto, intitolato ‘Senza protezione: la detenzione degli adolescenti palestinesi a Gerusalemme est’, è stato diffuso mercoledì e riporta in dettaglio una ricerca su 60 dichiarazioni giurate raccolte tra maggio 2015 e ottobre 2016.

Le associazioni hanno riscontrato diversi casi di abuso su minori in custodia della polizia israeliana.

I ragazzi palestinesi di Gerusalemme est vengono tirati giù dal letto nel mezzo della notte, ammanettati senza che ve ne fosse la necessità, interrogati senza aver avuto la possibilità di parlare con un avvocato o con i loro familiari prima dell’inizio dell’interrogatorio e senza essere informati del loro diritto a rimanere in silenzio”, hanno riscontrato le associazioni. “Vengono poi tenuti in condizioni durissime, trattenuti ripetutamente in custodia cautelare per ulteriori periodi di giorni e persino di settimane, anche dopo che il loro interrogatorio è terminato. In alcuni casi, a tutto ciò si accompagnano insulti o minacce verbali e violenze fisiche.”

Mentre il rapporto raccoglie casi di un anno fa, questi arresti di ragazzi continuano. Per esempio, il 23 ottobre le forze israeliane hanno fatto irruzione nel villaggio di Issawiya a Gerusalemme est durante incursioni notturne, provocando scontri tra i giovani del luogo e le forze israeliane armate di tutto punto.

Gli scontri non sono una novità per il conflittuale villaggio, situato vicino all’università ebraica di Israele e all’ospedale Hadassah, ma quel che in genere finisce magari con qualche arresto e ferimento, ha invece provocato fino a 51 palestinesi arrestati e portati via dalle forze israeliane – 27 dei quali tra i 15 e i 18 anni di età, secondo le informazioni del Comitato palestinese per le questioni dei prigionieri.

Il rapporto diffuso mercoledì dà un’idea di ciò che quei ragazzi potrebbero stare affrontando adesso.

I ragazzi si trovano soli in una situazione minacciosa e sconcertante, senza che nessuno spieghi loro di che cosa sono sospettati, quali siano i loro diritti, con chi possano comunicare, quanto durerà il processo e quando potranno tornare alle loro case e famiglie,” afferma il rapporto. “Fino a quando non vengono rilasciati, non hanno accanto nessun adulto di cui si possano fidare e i loro genitori sono tenuti lontani. Queste prassi di arresto ed interrogatorio lasciano libere le autorità di far pressione sui minori detenuti perché confessino le accuse.”

Andare contro il protocollo

Analizzando la legislazione ed il protocollo israeliani, le associazioni hanno scoperto che in questi casi le forze israeliane hanno spesso violato le loro stesse regole.

Per esempio, mentre la legge israeliana prevede che le forze di polizia arrestino i giovani solo in casi estremi, le testimonianze raccolte da B’Tselem e HaMoked dimostrano che solo nel 13% dei casi “la polizia non ha proceduto all’arresto”, per cui le associazioni hanno potuto stabilire che gli arresti sono “la prassi di azione prevalente” della polizia israeliana, quando ha a che fare con minori palestinesi nella Gerusalemme est occupata.

Inoltre, in base alla procedura israeliana, la contenzione fisica dei giovani “può essere utilizzata sui minori solo in casi eccezionali”; tuttavia, nei 60 casi esaminati dal rapporto, almeno l’81% dei minori è stato ammanettato prima di essere caricato su un veicolo della polizia, mentre il 70% è rimasto in manette durante gli interrogatori.

La legge israeliana vieta anche che, tranne che in circostanze eccezionali, i minori siano interrogati di notte, ma il 25% dei minori ha riferito di interrogatori notturni e il 91% è stato arrestato nel proprio letto nel mezzo della notte.

Il rapporto ha documentato che “anche se, almeno in alcuni casi, i poliziotti hanno aspettato fino al mattino per iniziare l’interrogatorio, i ragazzi vi sono giunti stanchi e spaventati dopo una notte insonne.”

I minori, arrestati nel loro letto nel mezzo della notte, hanno potuto contattare le loro famiglie solo “in rari casi”. Consentire la presenza dei genitori non è previsto dalla legge israeliana dopo un arresto ufficiale e, pur se la polizia ha la discrezionalità di concederla, al 95% dei minori presi in considerazione nel rapporto non è stata consentita la presenza di un genitore dopo l’arresto.

Il rapporto ha scoperto che solo il 70% dei minori ha compreso di avere il diritto di rimanere in silenzio, perché temevano che gli venisse fatto del male se non avessero risposto alle domande dei poliziotti.

Mentre il 70% di loro ha potuto parlare con un avvocato durante o prima degli interrogatori, B’Tselem e HaMoked hanno rilevato che in molti casi ai ragazzi è stato dato il telefono privato di chi li stava interrogando per parlare con l’avvocato e le conversazioni erano “inadeguate ed inutili perché i minori capissero i propri diritti e ciò a cui andavano incontro.”

Sarebbe ovvio che il sistema di applicazione della legge trattasse questi ragazzi in un modo consono alla loro età, che tenga conto della loro maturità fisica e psichica, riconoscendo che ogni atto potrebbe avere ripercussioni a lungo termine sugli stessi adolescenti e sulle loro famiglie”, spiega il rapporto. “Sarebbe ovvio che il sistema trattasse i ragazzi umanamente e correttamente e fornisse loro le protezioni fondamentali. Ma non è così.”

Secondo il rapporto, il 25% dei minori interrogati ha detto che è stata usata violenza su di loro, benché il rapporto non fornisca dettagli specifici su quale tipo di lesioni siano state provocate.

Inoltre, più della metà dei ragazzi ha detto che quelli che li interrogavano gli urlavano minacce e offese verbali. A quasi un quarto di loro non è stato permesso di andare in bagno e non è stato fornito cibo quando lo chiedevano.

Negare ai ragazzi cibo ed acqua è stato uno dei metodi principali per farli confessare, in quanto l’83% dei minori ha detto che una delle principali ragioni per cui ha firmato le confessioni è stato che aveva fame – l’80% delle dichiarazioni di confessione era in ebraico, per cui i ragazzi non potevano leggere ciò che stavano firmando.

Dietro gli arresti

Secondo l’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer, vi sono diverse importanti ragioni per cui le forze israeliane fanno la scelta di arrestare minori nella Gerusalemme est occupata, oltre al mantenimento della legge e dell’ordine.

Addameer ritiene che i soldati e i poliziotti israeliani prendano di mira i giovani per esercitare pressione sulle famiglie e le comunità, spingendole a “interrompere la mobilitazione sociale” contro l’occupazione. Inoltre Addameer ha rilevato che l’arresto dei ragazzi quando sono giovani potrebbe dissuaderli dal partecipare a scontri e lanci di pietre – l’accusa più comune sollevata contro i giovani. Infine, Addameer riferisce di aver raccolto testimonianze che suggeriscono che i minori vengono “sistematicamente” arrestati e sollecitati a “divenire informatori” e a “fornire informazioni sia su importanti personalità coinvolte nelle attività militanti, sia su altri ragazzi partecipanti alle manifestazioni.”

Il rapporto di B’Tselem e HaMoked conclude che la politica israeliana nei confronti dei minori di Gerusalemme est è una politica appositamente creata e utilizzata dallo Stato per far pressione sui palestinesi della città perché se ne vadano, trattando la popolazione come se fosse esclusa dal sistema.

Il regime israeliano di applicazione della legge tratta i palestinesi di Gerusalemme est come membri di una popolazione ostile, che sono tutti, minori ed adulti, presunti colpevoli fino a che non si provi la loro innocenza, e mette in atto contro di loro misure estreme che non oserebbe mai impiegare contro altri settori della popolazione”, continua il rapporto. “Il sistema della giustizia di Israele sta, per definizione, da un lato della barricata e i palestinesi dall’altro: i poliziotti, gli agenti carcerari, i procuratori e i giudici sono sempre cittadini israeliani che arrestano, interrogano, giudicano e imprigionano ragazzi palestinesi che vengono considerati come nemici pronti a nuocere agli interessi della società israeliana.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Riflessioni pessottimistiche* da Gaza assediata.

Haidar Eid

20 Ottobre 2017, Mondoweiss

Non si può capire il mortale, medievale blocco imposto a Gaza avulso dal colonialismo di insediamento israeliano in Palestina. L’orrore inflitto a Gaza infatti è radicato nella frammentazione politica causata dall’apartheid israeliano, consolidato dagli accordi di Oslo e innescato dalle lotte delle fazioni per la conquista del potere di un bantustan trasformato in un campo di concentramento.

La ragione che sta dietro a questo blocco genocida, imposto dall’apartheid israeliano e sostenuto da un Quartetto del Medio Oriente [composto da Russia, Stati Uniti, Ue e Onu, ndt.] complice, è che ci si aspetta che noi, 2 milioni di gazawi, riconosciamo il diritto di Israele a esistere sui nostri villaggi, che hanno subito la pulizia etnica e da cui siamo stati espulsi nel 1948, e che rinunciamo alla nostra resistenza in quanto sarebbe una forma di violenza. E’ così che questo “crimine di punizione collettiva” viene giustificato. La comunità internazionale ci sta praticamente dicendo che dobbiamo collaborare con gli occupanti per essere accettati, che dobbiamo considerare normale l’apartheid e il colonialismo di insediamento. Se non lo facciamo allora siamo condannati e dobbiamo pagare un pesante prezzo riguardo alla vita dei nostri bambini.

Allora la domanda è se si sia chiesto alla popolazione nativa del Sud Africa di riconoscere il diritto all’esistenza dell’apartheid? O, per dirla più brutalmente, se ci si aspettava che le vittime ebree del nazismo collaborassero con il mostro nazista perché venissero accettate come esseri umani?!

Quanto i sionisti odiano la popolazione di Gaza si concretizza nel tentativo di Israele di affogare letteralmente Gaza nella merda! I bianchi suprematisti del Sud Africa, o i nazisti del Terzo Reich, o il Ku Klux Klan nel sud degli USA hanno mai pensato di costruire per quello scopo un cavolo di fogna che si è rotta ed ha versato il suo contenuto sulle loro vittime?

Ultimamente ci siamo ridotti a una vita vegetativa dentro a un campo di concentramento, la più grande prigione all’aria aperta del mondo.

Ma, a differenza delle vittime del nazismo, continuiamo a ricordare a noi stessi di stare abbastanza attenti da non cadere nella trappola di credere che la nostra causa sia un’eccezione, per quanto estrema.

Io appartengo alla generazione che non ha vissuto la Nakba, una generazione di cui si pensava che si sarebbe rassegnata a 50 anni di occupazione militare e a 69 anni di espropriazione e apartheid. Ma abbiamo deciso di sollevarci e resistere. Da qui il nostro appello per il BDS, in riferimento al movimento antiapartheid e ad altre lotte contro il colonialismo di insediamento.

Come lo vedo io, è che, permettendo a Israele di imporre un blocco senza precedenti su 2 milioni di civili e di intraprendere tre guerre di grandi proporzioni contro di loro nel 2008, 2012 e nel 2014, con il risultato di 4000 morti e il ferimento di decine di migliaia, oltre alla distruzione delle infrastrutture, la comunità post seconda guerra mondiale ha fallito nel salvaguardare i principi di giustizia e di pace. Tocca pertanto alla società civile prendere l’iniziativa. Da qui la speranza che è stata creata tra i palestinesi dall’enorme successo del movimento del BDS. Come continuo a ripetere, è l’unico barlume di speranza che noi, vittime dell’occupazione, dell’apartheid e del colonialismo d’insediamento, abbiamo nell’era di Donald Trump e di Benjamin Netanyahu.

*Il termine “pessottimista” è tratto dal capolavoro di Emile Habibi “La vita segreta di Saeed, il pessottimista”. È il risultato della fusione delle parole arabe pessimista (al-mutasha’em) e ottimista (al-mutafa’el)

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Dagli yemeniti ai palestinesi

Amira Hass

16 agosto 2017,Haaretz

Nella lotta contro la sottomissione ed il potere c’è la speranza che il confronto aiuterà più persone ad uscire allo scoperto – e non dopo 66 anni – per rompere il silenzio, resistere all’oppressione e formare una coalizione.

Lo scandalo del rapimento di bambini yemeniti (ed altri) per fortuna non si spegne, e più se ne parla e si ricorda, meglio è. Anche se i diretti responsabili non sono qui per rispondere delle loro azioni, è stato provato più volte quanto fossero giuste le denunce delle famiglie.

Questa volta è stato un articolo di venerdì su Yedioth Ahronoth che ci ha riportato la storia dei bambini yemeniti rapiti. Tamar Kaplansky ha intervistato Shulamit Malik, che all’inizio degli anni ’50 è stata un’educatrice in un asilo nido di Hapoel Hamizrahi [partito politico sionista religioso degli anni ’50, ndt.] nel campo di transito per immigrati di Yatziv. Malik ha preso l’inziativa dell’intervista; aveva letto un editoriale di Kaplansky e ha deciso di rompere il suo silenzio.

Risulta che Malik ha rotto il suo silenzio per la prima volta 20 anni fa. Contattò Rami Tzuberi, un avvocato che stava rappresentando alcune delle famiglie di bambini che erano scomparsi. Tzuberi disse di aver dato il nome di Malik alla commissione di inchiesta, ma non venne mai chiamata a testimoniare. Come educatrice si rese conto del rapporto tra le eleganti delegazioni che arrivavano a visitare la struttura ed i bambini sani che sparivano pochi giorni dopo. E dopo essere diventata nonna, si ricordò disperata dei genitori che arrivavano per prendere i loro figli – dopo una lunga giornata di lavoro – e scoprivano il letto vuoto.

La sua testimonianza non dice niente di nuovo sul fenomeno in sé. Conferma quanto fossero nel giusto le famiglie, per decenni, quando raccontavano della metodica sparizione dei bambini.

Le famiglie e gli attivisti, che non hanno lasciato cadere la questione, possono servire da modello per ogni gruppo dominato e ridotto al silenzio nella società. La vicenda è un’importante lezione per ogni giornalista e direttore di giornale: per favore, date ascolto alla gente. Soprattutto quando non sono persone importanti, ricche, famose, melliflue e dell’alta società. Ascoltatela anche se una cinepresa non documenta tutto quello che è successo e la gente non ha documenti ufficiali per confermarne i racconti. Mostrate un fondamentale scetticismo nei confronti di chiunque sia al potere. Hanno sempre qualcosa da nascondere, sotto un sacco di scherno e di arroganza.

La tentazione di tracciare un parallelo con i nostri palestinesi sottomessi – e non è solo un accenno – è grande. Perché non siamo qui solo per descrivere la realtà, ma soprattutto per cambiarla. Nella lotta contro la sottomissione ed il potere c’è la speranza che il confronto aiuterà più persone ad uscire allo scoperto – e non dopo 66 anni – per rompere il silenzio, resistere all’oppressione e coalizzarsi.

Ma la tentazione di non tracciare un parallelo è ancora più grande. Oggi la nostra cultura politica, con i crudeli amplificatori delle reti sociali, non consente che si senta la logica di un simile parallelo. Nel nostro tempo, il sistema di potere di quell’epoca iniziale che ha rapito soprattutto bambini ebrei arabi [provenienti dai Paesi arabi, ndt.] da un lato è immediatamente identificata istantaneamente con gli ashkenaziti [ebrei provenienti dall’Europa centro-orientale, ndt.], da una parte, e dall’altro con gli infidi sinistrorsi amanti degli arabi. E così per molti è apparentemente un semplice dettaglio insignificante il fatto che l’asilo nido in cui Malik lavorava fosse diretto da Hapoel Hamizrahi, che non era esattamente di sinistra, e da esso siano nati il partito Nazional Religioso e più tardi Habayit Hayehudi [“La casa ebraica”, partito di estrema destra dei coloni, ndt.], proprio come dice Kaplansky.

Né la nostra opinione pubblica ha recepito il fatto che l’establishment del Mapai-Mapam abbia utilizzato prassi socialiste (di sinistra) come uno strumento per raggiungere obiettivi ultranazionalisti, etnici (conquista del suolo, espulsione dei palestinesi). L’establishment intenzionato all’espulsione è rimasto quello che era: anche se oggi non include solo ashkenaziti, anche se i successori del Mapai ripudiano, e a buon diritto, il titolo di “sinistrorsi”, anche se bambini non sono rapiti ma lasciati con percorsi educativi a un livello più basso. La terminologia è così comunemente oscurata che la destra utilizza i bambini rapiti contro la sinistra anti-nazionalista; cioè, contro chi si oppone all’occupazione.

Non dobbiamo essere come loro. Il riconoscimento dell’ingiustizia metodica e calcolata che i dirigenti ashkenaziti (sì!) hanno perpetrato contro i bambini rapiti e le loro famiglie non è subordinato all’opposizione contro la metodica politica israeliana di sconfiggere i palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il Kansas non mi permette di formare insegnanti di matematica perché boicotto Israele

Esther Koontz

12 Ottobre 2017,

ACLU [American Civil Liberties Union, organizzazione USA che difende i diritti civili e le libertà individuali negli USA]

Faccio parte della Chiesa mennonita [confessione cristiana che discende dagli anabattisti olandesi, ndt.]. Sono anche stata un’insegnante di matematica per quasi un decennio. A causa delle mie opinioni politiche lo Stato del Kansas ha deciso che non posso contribuire alla formazione di altri insegnanti di matematica.

La scorsa primavera sono stata scelta per partecipare ad un progetto che forma insegnanti di matematica nelle scuole pubbliche in tutto il Kansas. In maggio, dopo aver terminato un corso di formazione di due giorni, ero pronta ad assumere l’incarico.

Ma in giugno il Kansas ha approvato una legge che chiede ad ogni singola persona o impresa che intendano concludere un contratto di appalto con lo Stato di non essere impegnate nel boicottaggio di Israele. Questa legge mi colpisce personalmente. Come membro della Chiesa mennonita degli USA e come persona preoccupata dei diritti umani di qualunque popolo – e soprattutto della continua violazione dei diritti umani dei palestinesi in Israele e in Palestina – ho scelto di boicottare beni di consumo prodotti da imprese israeliane e internazionali che traggono profitto dalla violazione dei diritti dei palestinesi.

Mi sono occupata per la prima volta della situazione in Israele e Palestina quando ho visitato la regione all’inizio degli anni 2000, mentre svolgevo un incarico di tre anni con la Comissione Centrale mennonita in Egitto. Questo interesse si è accresciuto lo scorso autunno, quando la nostra Chiesa ha ospitato una serie di seminari settimanali tenuti da un membro della nostra congregazione. Ci ha parlato del suo viaggio in Israele e Palestina su invito di un gruppo di cristiani palestinesi. E ci ha mostrato conferenze in video di organizzazioni non governative, sostenitori dei diritti dei bambini ed ex-soldati israeliani sul trattamento dei palestinesi da parte del governo israeliano.

Alla fine degli otto incontri abbiamo parlato di come il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni possano contribuire a mettere fine all’occupazione del governo israeliano, nello stesso modo in cui queste tattiche hanno aiutato a smantellare l’apartheid in Sudafrica. Ho lasciato l’incontro con la convinzione di dover fare la mia parte per appoggiare la lotta palestinese per l’uguaglianza, anche se questo dovesse solo significare non comprare l’hummus “Sabra” [crema di ceci tipica del Medio oriente, prodotto da questa ditta israeliana, che prende il nome dai primi sionisti insediatisi in Palestina, ndt.] o un apparecchio della SodaStream [impresa israeliana specializzata nella produzione di sistemi di filtraggio e potabilizzazione dell’acqua, ndt.].

Poi il 6 luglio 2017 la Chiesa mennonita USA ha approvato a stragrande maggioranza una risoluzione che invoca la pace in Israele e in Palestina. Ha chiesto ai mennoniti “di fare passi concreti e specifici per risolvere” l’”ingiustizia e la violenza” che sia i palestinesi che gli ebrei hanno subito. E ci invita “a evitare l’acquisto di beni associati ad azioni violente o politiche di occupazione militare, compresi quelli prodotti nelle colonie.” Questa risoluzione ha rafforzato la mia decisione di partecipare al boicottaggio.

Pochi giorni dopo ho ricevuto una mail da una funzionaria del Dipartimento dell’educazione dello Stato del Kansas. Diceva che, per partecipare al progetto di formazione in matematica dello Stato, avrei dovuto firmare un attestato in cui affermavo di non boicottare Israele. In particolare avrei dovuto sottoscrivere la seguente dichiarazione:

In quanto individuo o fornitore che inizia un contratto con lo Stato del Kansas, con la presente si certifica che l’individuo o l’impresa citata di seguito non sono attualmente impegnati in un boicottaggio di Israele.”

Ero sbalordita. Pare assurdo che la mia decisione di partecipare ad un boicottaggio politico possa avere un qualche effetto sulla mia possibilità di lavorare per lo Stato del Kansas.

Dopo aver aspettato per alcune settimane ed aver preso in considerazione le alternative a mia disposizione, ho risposto con una mail ed ho detto al funzionario che non potevo firmare il certificato per una questione di coscienza. Avrei potuto ancora partecipare al programma di formazione dello Stato? Mi ha risposto che, sfortunatamente, non avrei potuto. Avrei dovuto firmare la dichiarazione per essere pagata.

Sto sfidando questa legge perché credo che il Primo Emendamento [della Costituzione USA, ndt.] protegga il mio diritto, ed il diritto di ogni americano, a prendere delle decisioni come consumatore in base alle mie convinzioni politiche. Non c’è bisogno di condividere le mie opinioni o essere d’accordo con le mie decisioni per comprendere che questa legge viola la mia libertà di parola. Lo Stato non dovrebbe dire alle persone quali cause possano o non possano appoggiare.

Sono anche dispiaciuta di non poter essere una formatrice in matematica per lo Stato del Kansas a causa delle mie opinioni politiche sui diritti umani nel mondo. Le due cose sembrano assolutamente slegate e non in rapporto tra loro. Il mio attivismo a favore della libertà per tutti, israeliani e palestinesi, non dovrebbe incidere sulla mia capacità di formare insegnanti di matematica. Spero che questa legge sia riconosciuta come una violazione della Costituzione.

Esther Koontz è una formatrice alla scuola “Horace Mann Dual Language Magnet” di Wichita, Kansas, è membro della Chiesa mennonita degli USA. Le opinioni espresse in questo messaggio sono dell’autrice: l’ACLU non prende posizione sul boicottaggio di Israele.

(traduzione di Amedeo Rossi)