L’eroe sionista progressista Barak si vanta che la sinistra israeliana ha “liberato” i territori occupati per gli ebrei

Jonathan Ofir

 30 settembre 2017, Mondoweiss

Questa settimana l’ex-primo ministro israeliano ‘di sinistra’ Ehud Barak ha seriamente vuotato il sacco riguardo all’occupazione del 1967 da parte di Israele, esprimendo in termini non ambigui che non si tratta di una questione esclusivamente della destra, come i suoi critici spesso amano dire. Barak ha dimostrato che è qualcosa di cui la “sinistra” è integralmente partecipe. E lo abbiamo sentito dalla bocca del diretto interessato – il diretto interessato chiamato ‘fulmine’ (in ebraico ‘Barak’ vuol dire fulmine).

Nel suo articolo su Haaretz, Barak ha lamentato il fatto che nella recente manifestazione che ha festeggiato i 50 anni dell’occupazione (pubblicizzata con lo slogan “Siamo tornati a casa”), non ci fossero abbastanza esponenti di ‘sinistra’. Barak ha detto che non c’era una rappresentanza sufficientemente nazionale: “Una cerimonia nazionale avrebbe sottolineato quello su cui siamo d’accordo e che ci unisce, piuttosto che quello che ci divide e separa,” ha scritto.

Sì, Barak sente che la ‘sinistra’ è esclusa, e non le viene riconosciuto a sufficienza il merito per la sua parte nell’occupazione e nel progetto di colonizzazione!

Una commemorazione nazionale avrebbe dovuto sottolineare che le persone che hanno costruito l’esercito israeliano e guidato la guerra per la liberazione di quelle parti della terra erano Yitzhak Rabin, Haim Bar-Lev, Motta Gur ed altri (che in seguito si rivelarono essere ‘di sinistra’, dio ce ne scampi), e che il partito che consolidò e guidò l’impresa di colonizzazione per un decennio, soprattutto in base a considerazioni relative alla sicurezza, furono l’odiato ‘Allineamento’ [significato della parola ebraica “Maarakh”, nome della coalizione israeliana di centro sinistra al potere in Israele dal 1969 al 1991, ndt.], il precursore del partito Laburista,” ha scritto.

Ah! L’ironia non potrebbe essere maggiore. Barak, nel suo patetico tentativo di giocare un ruolo centrale in qualunque cosa sia “nazionale”, in realtà finisce per sentirsi escluso, in quanto ‘di sinistra’, dai festeggiamenti. Nel suo sproloquio finisce per confermare che non c’è una reale differenza tra destra e sinistra sioniste – né storicamente, né nell’attualità.

Ciò è quello che il giornalista di “Haaretz” Gideon Levy sta sottolineando ormai da un po’ di tempo, e la sua risposta è arrivata il giorno dopo con l’articolo intitolato “Quale opposizione? Ehud Barak si adegua a Netanyahu ed ai coloni”, sottotitolato “Il valoroso ‘campo della pace’ di Israele è orgoglioso del numero di colonie che ha costruito, un tasso di costruzione all’anno che Netanyahu potrebbe solo sognarsi.”

Levy nota come Barak stia utilizzando lo stesso linguaggio degli estremisti di destra del governo, con frasi come “noi siamo orgogliosi del nostro ruolo nel ritorno in ogni parte della terra e nell’ impresa di colonizzazione che è indispensabile alla nostra sicurezza”, e Levy conclude che “questo è il segno distintivo di sinistra del partito Laburista, praticamente l’unica opposizione che Netanyahu abbia. Eppure è dubbio che Netanyahu si esprimerebbe in modo diverso.”

Di certo, come conclude Levy, l’articolo di Barak è “sorprendente” e dovrebbe essere ricordato e sottolineato in futuro come il vero volto della sinistra israeliana senza maschera. Barak nel suo articolo entra in dettagli per suggerire quali oratori avrebbero potuto essere scelti per rappresentare la ‘sinistra’:

Una commemorazione nazionale avrebbe dovuto includere sul palco il generale (della riserva) Elad Peled, un uomo che ha liberato Safed all’età di 21 anni, come capo di un’unità del Palmach [brigata d’elite facente parte dell’Haganah, milizia sionista durante il mandato britannico, ndtr.], e poi ha liberato tutta la Samaria [zona settentrionale della Cisgiordania nella denominazione ebraica, ndt.] all’età di 40, come capo della 36ima divisione,” scrive.

Ha liberato tutta la Samaria” – è chiaro?

Barak continua suggerendo persone come Dalia Rabin, la figlia del “capo di stato maggiore dell’esercito israeliano che ha presieduto alla vittoria”, Isaac Herzog, “leader dell’opposizione e figlio dell’ex capo dell’intelligence militare ed ex presidente Chaim Herzog, che dissipò i timori dell’opinione pubblica prima e durante la guerra con apparizioni in televisione – all’epoca un nuovissimo mezzo di comunicazione – e ricoprì il ruolo di primo governatore di Gerusalemme unificata,” così come Hila Elazar- Cohen, “la figlia maggiore del generale David Elazar, che pretese l’attacco e la conquista delle Alture del Golan fin dal primo giorno di guerra, e lo guidò dal quarto.”

Barak poi plaude al “Piano Allon”, proposto dal dirigente di sinistra Yigal Allon in seguito alla guerra del 1967 per conservare grandi parti della Cisgiordania e colonizzarle:

Una cerimonia statale avrebbe profuso elogi alla lungimiranza del “Piano Allon” e alla logica interna della fondazione di blocchi di colonie, di costruire quartieri ebraici a Gerusalemme est e di stabilire colonie lungo il fiume Giordano –una dimensione imposta da una seria prospettiva per la sicurezza e condivisa da tutti gli strati della società,” scrive.

Barak ha assolutamente ragione – il progetto di occupazione e di colonizzazione non è cosa che sia successa solo a causa di qualche colono messianico di destra – è stato un progetto premeditato in cui la destra e la sinistra sono state coinvolte fin dall’inizio.

La differenza tra Barak e i coloni di destra è piuttosto cavillosa a questo riguardo – riguarda le colonie isolate che non si trovano nei ‘blocchi di colonie’, che Barak vede come non utili per la sicurezza, ma che esistono piuttosto solo per rispettare il comandamento religioso di ‘colonizzare la terra’. Barak pensa che quello che realmente unirebbe tutti gli israeliani, piuttosto che separarli, sarebbe “innanzitutto la sicurezza, la convinzione che l’unità del popolo ha la precedenza sull’unità della terra, ed i valori della “Dichiarazione di indipendenza” – al contrario di “un progetto reazionario, nazionalista, macchiato di messianismo che minaccia tutto il nostro futuro.”

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Barak è un uomo di molti miti, ed ha avuto un ruolo centrale nella creazione di parecchi di essi. Ha uno status mitologico in quanto militare più decorato di Israele, noto come il “signor Sicurezza”, un uomo che venera la ‘sicurezza’ come se fosse un dio. Ha anche creato il mito dell’’offerta generosa’ che avrebbe fatto nel 2000 ad Arafat – un’offerta che era essenzialmente equivalente a bantustan [zone destinate ai neri nel Sudafrica dell’apartheid, ndt.]. Al contempo ha creato il mito correlato che, poiché Arafat ha rifiutato questa ‘offerta generosa’, ciò era la prova che “non c’era nessun interlocutore”.

La nozione di ‘sicurezza’ di Barak è quella classica sionista quando si tratta di palestinesi – controllo, ‘autonomia’, accerchiamento e, cosa più importante, separazione. Separazione oggi è la parola d’ordine della sinistra israeliana, e molti dimenticano che apartheid significa ‘separazione’. Il risultato concreto dei bantustan e della ‘separazione’, come la mette in pratica Israele, è l’apartheid, e lo abbiamo visto per moltissimi decenni. Tutto quello che Barak vuole è conservare la capacità di nasconderlo meglio e quei coloni ‘messianici’ di destra stanno fuorviando la richiesta di ‘sicurezza’.

Ma la richiesta di ‘sicurezza’ di Barak è fuorviata anche dalla sua stessa gente. Il suo stesso ministro degli Esteri nel 1999-2001, Shlomo Ben-Ami, chiama ‘mitica’ la richiesta di sicurezza nella valle del Giordano. Eppure i dirigenti di sinistra confermano la volontà di Barak di ‘legittimare’ i ‘blocchi di colonie’, che è la ragione per cui il leader della sinistra Isaac Herzog si è lamentato della risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dello scorso anno, che ha condannato tutte le colonie (comprese quelle di Gerusalemme est) come “flagranti violazioni” delle leggi internazionali. Herzog era arrabbiato per il danno che questo ha causato ai “blocchi di colonie” – il danno fatto alla loro legittimità.

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Dopo tutto quello che è stato detto e fatto, l’unica differenza tra Barak ‘di sinistra’ e i coloni ‘messianici’ è che egli cerca di mettersi al servizio della vera religione di Stato di Israele – il sionismo – in base alla nozione più laica di ‘sicurezza’, mentre i coloni più di destra sono più interessati alle questioni della promessa divina.

In fin dei conti il “ritorno ad ogni parte della terra” di Barak non è poi così diverso dallo slogan ufficiale della cerimonia: “Siamo tornati a casa”. Il suo “liberata tutta la Samaria” non è poi così diverso dal “questa terra è nostra, tutta è nostra” dell’alta diplomatica israeliana Tzipi Hotoveli [vice-ministra degli Esteri e deputata del Likud, ndt.]. A volte succede che i principali dirigenti della sicurezza di Israele sputino il rospo in questo modo. Uno dei più rappresentativi uomini della sicurezza di Israele, Moshe Dayan, lo ha fatto parecchie volte. Una delle sue ammissioni più gravi è stata sulla guerra del 1967 e sulla fase preparatoria ad essa, che aveva più a che fare con le scaramucce con la Siria sul confine del Golan e nelle zone smilitarizzate. Nel 1976 disse al generale Israel Tal che i siriani il quarto giorno non erano “una minaccia per noi”, e spiegò come avvenne la maggioranza delle schermaglie:

So come iniziò là almeno l’80% degli scontri. Secondo me, più dell’80%, ma parliamo di circa l’80%. Successe così: mandavamo un trattore per arare una certa zona dove non si poteva fare niente, nell’area smilitarizzata, e sapevamo in anticipo che i siriani avrebbero iniziato a sparare. Se non sparavano, avremmo detto al trattore di andare ancora più avanti, finché i siriani si sarebbero infastiditi e avrebbero sparato. E allora avremmo utilizzato l’artiglieria e poi anche le forze aeree, e fu così che andò,” disse Dayan (come documentato da Serge Schmemann sul New York Times nel 1997).

Dayan spiegò anche a Tal che la vera ragione che stava dietro le provocazioni e la successiva conquista era in realtà solo l’avidità – l’avidità di terra:

Là gli abitanti dei kibbutz vedevano terra buona per l’agricoltura,” disse. “E bisogna ricordare che quello era un periodo in cui la terra agricola era considerata la cosa più importante e di valore.”

Tal si stava chiedendo se là non ci fosse veramente un problema di ‘sicurezza’. “Quindi tutto quello che volevano gli abitanti dei kibbutz era la terra?” chiese.

Dayan, pur confermando che naturalmente loro “volevano levarsi di torno i siriani”, tuttavia disse:

Le posso dire con assoluta sicurezza: la delegazione che andò a convincere Eshkol [all’epoca primo ministro israeliano, ndt.] di conquistare le Alture non stava pensando a queste cose. Stava pensando alla terra delle Alture. Senta, anch’io sono un coltivatore. Dopo tutto sono di Nahalal, non di Tel Aviv, e ne so qualcosa. Li vidi e parlai con loro. Non cercarono neanche di nascondere la loro avidità per quella terra.”

Come documentato in “1967” di Tom Segev, p. 388, la delegazione che descrive Dayan era stata inviata su ordine del generale David Elazar, capo del comando settentrionale al tempo della conquista. È lo stesso generale che Barak suggerisce che avrebbe dovuto essere rappresentato dalla sua figlia maggiore.

Barak può continuare a rimproverare quelli di destra perché sono troppo fanatici sulla questione della terra, ma lui è in realtà altrettanto avido di essa. Sta solo nascondendo l’avidità con la ‘sicurezza’, ed è quello che i sionisti hanno fatto da sempre.

Jonathan Ofir

  • Musicista, direttore d’orchestra, scrittore/blogger israeliano residente in Danimarca.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ambasciatore di Trump in Israele esce dai ranghi

Maureen Clare Murphy

29 settembre 2017,Electronic Intifada

Qual’è la politica di Donald Trump riguardo ad Israele e i palestinesi? Nessuno all’interno dell’amministrazione del presidente sembra in grado di dirlo.

In un’intervista ad un sito di informazioni israeliano, David Friedman, ambasciatore di Trump a Tel Aviv, ha avanzato ipotesi in contraddizione con decenni di politica statunitense e con le posizioni sostenute dall’amministrazione.

La risposta del Dipartimento di Stato ai suoi commenti dà ulteriormente l’impressione di una politica estera in totale confusione.

Alla domanda sulle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, Friedman ha risposto a ‘Walla! News’[portale di notizie israeliano legato al gruppo editoriale di Haaretz, ndt.]:

Penso che le colonie siano parte di Israele. Penso che ci si aspettasse questo quando fu adottata la risoluzione 242 nel 1967.”

Friedman, a lungo avvocato fallimentare di Trump, si riferiva ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che, di fatto, sottolinea “l’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la guerra” e chiede il ritiro di Israele dal territorio occupato nella guerra del 1967.

L’interpretazione di Friedman contraddice direttamente diverse successive risoluzioni che riaffermano esplicitamente l’illegalità delle colonie israeliane in Cisgiordania.

Il trasferimento da parte di Israele della sua popolazione civile in un territorio che occupa è una violazione della Quarta Convenzione di Ginevra e quindi è un crimine di guerra.

Friedman, tra l’altro, è un importante finanziatore di una di quelle colonie.

Cambiamento radicale

L’ambasciatore ha minimizzato l’importanza delle colonie, affermando: “Voglio dire, stanno semplicemente occupando il 2% della Cisgiordania.”

Era totalmente fuori strada.

La realtà è che Israele dispone di un massiccio sistema di colonie da insediamento in tutta la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est. Più della metà della Cisgiordania è stata confiscata per le colonie o interdetta in altro modo ai palestinesi.

Per decenni la politica USA è stata di considerare le colonie come un ostacolo ad uno Stato palestinese indipendente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. E lo scorso dicembre gli USA hanno permesso che il Consiglio di Sicurezza approvasse una risoluzione che riaffermava l’illegalità di tutte le colonie.

Ma l’opposizione a parole degli Stati Uniti alle colonie non ha mai coinciso con i fatti: le diverse amministrazioni hanno continuato a staccare assegni in bianco ad Israele, mentre gli insediamenti continuavano ad espandersi. I commenti di Friedman rappresentano un cambiamento radicale di quella politica, per quanto inefficace possa essere stata.

Alla domanda di ‘Walla!’ se sarebbe mai arrivato a pronunciare forte e chiaro le parole “soluzione dei due Stati”, Friedman ha detto che l’espressione ha perso ogni significato perché “significa cose differenti per gente diversa.”

Quanto al significato che ha per lui, ha glissato. “Non ha significato, non ho certezze. Per quanto mi riguarda, non mi interessano le etichette, mi interessano le soluzioni”, ha detto.

E’ uscito dai ranghi?”

Nella conferenza stampa di giovedì la portavoce del Dipartimento di Stato Heather Nauert ha faticosamente cercato di riconciliare quanto detto da Friedman con la politica dell’amministrazione che rappresenta.

Le sue affermazioni – e intendo essere estremamente chiara su questo punto – non devono essere lette come un modo per pregiudicare l’esito di qualunque negoziato che gli Stati Uniti possano avere con israeliani e palestinesi. Non devono neanche segnalare un mutamento nella politica USA”, afferma Nauer.

E’ uscito dai ranghi?”, chiede un giornalista.

E’ almeno la seconda volta che da questa tribuna lei ha dovuto in qualche modo smentire le notazioni dell’ambasciatore Friedman, quando ha tirato fuori la ‘presunta occupazione’”, dice un altro giornalista, riferendosi ad un recente commento di Friedman al giornale di destra Jerusalem Post, in cui insinuava che gli Stati Uniti non considerano Cisgiordania e Gaza occupate da Israele.

E aggiunge: “Anche se non si tratta di un cambio di posizione, la sensazione che l’ambasciatore in Israele sia di parte relativamente a questo conflitto sta creando problemi agli USA?”.

Abbiamo alcuni dirigenti e rappresentanti del governo USA molto efficienti, compresi Jason Greenblatt e Mr. Kushner, che dedicano un’enorme quantità di tempo alla regione”, risponde Nauert, riferendosi a due dei consiglieri di Trump.

Il giornalista dell’Associated Press Matt Lee sottolinea che “il problema nasce dal fatto che Friedman è l’ambasciatore confermato dal Senato. Né Greenblatt né Kushner lo sono…

Si presume che gli ambasciatori in qualunque Paese parlino in nome e con l’autorità del presidente degli Stati Uniti. Non pensa che questo generi confusione?”

Ambasciatore di chi?

Bella domanda. Durante l’intervista Friedman si è comportato come se fosse l’ambasciatore di Israele negli USA, invece che l’ambasciatore degli USA in Israele.

Ha ribadito che l’amministrazione Trump trasferirà l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme – un’altra rottura rispetto a decenni di politica statunitense e consenso internazionale. Si trattava di una promessa fatta durante la campagna elettorale di Trump, ma su cui poi egli ha fatto marcia indietro, una volta entrato in carica.

Alla domanda se l’ambasciata verrà trasferita nel corso della presidenza Trump, Friedman ha risposto: “Sicuramente lo spero. Questo era uno degli impegni del presidente e lui è un uomo che mantiene la parola…La questione non è se, ma quando.”

Friedman ha affermato che un accordo di pace potrebbe essere raggiunto entro alcuni mesi, ma che non avrebbe fornito alcun dettaglio sui criteri dei presunti negoziati di pace.

Riguardo alla sfiducia da parte palestinese a causa dei suoi finanziamenti alle colonie, l’ambasciatore si è vantato di aver incontrato Majid Faraj, il capo della polizia segreta del leader dell’ANP Mahmoud Abbas, ed il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat.

Penso che comprendano il mio punto di vista,” ha detto Friedman, aggiungendo: “Non credo sia un problema di diffidenza, credo che abbiano avuto a che fare in precedenza con persone che hanno quelle idee.”

Benché dica che è Trump che prende le decisioni nella sua cerchia ristretta, il riferimento di Friedman al “mio punto di vista” suggerisce che l’ambasciatore stia lavorando a briglia sciolta. Ma si comporta ancora come avvocato di Trump.

Sulla questione posta da Walla! circa la molto criticata difesa da parte di Trump di una mobilitazione di nazionalisti bianchi a Charlottesville il mese scorso, che ha causato la morte di una contro-manifestante, Friedman ha detto: “Non ho dubbi che lui non sia minimamente in nessun modo ed in nessuna forma, razzista, misogino, antisemita, omofobo, o qualunque altro aggettivo possiate inventare. Quello non è lui.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 




Rilasciato dal carcere dell’ANP, Issa Amro avverte che la legge di censura sul web minaccia l’ultima linea di difesa contro Israele

Sheren Khalel,

20 settembre 2017, Mondoweiss

Rilasciato dal carcere una settimana fa, Issa Amro è immediatamente tornato al lavoro. In una casetta sulla collina nel quartiere di Tel Rumeida a Hebron, che funge da quartier generale per ‘Youth Against Settlements’ (YAS) (‘Giovani contro le colonie’, ndt.), un’organizzazione fondata e guidata da Amro, sedeva circondato da un gruppo di militanti, operatori di ONG, un avvocato e amici che bevevano il caffè all’ombra degli alberi nel cortile davanti alla casa.

L’argomento, come sempre, era l’occupazione israeliana – comunque la scorsa settimana Amro non è stato rilasciato da un carcere israeliano, ma da quello dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e non è stato arrestato a causa del suo attivismo a Hebron, ma per un post su Facebook in difesa di un uomo con cui è politicamente in disaccordo.

Amro è stato arrestato il 4 settembre, un giorno dopo aver utilizzato i social media per criticare l’ANP in merito all’arresto di Ayman al-Qawasmeh, un giornalista palestinese direttore di Radio al-Hurriyeh (Radio Libertà) ad Hebron, ed è stato rilasciato dopo una settimana.

“Ad essere sincero, non ho un buon rapporto con Ayman”, ha detto francamente Amro. “Non sono affatto d’accordo con lui, in realtà quando Radio Hurriyeh mi ha chiamato non ho mai accettato di fare un’intervista con loro, ma per me si tratta di una questione di principio – i giornalisti devono essere rispettati – il governo non dovrebbe arrestare i giornalisti. Non dovrebbe arrestare nessun palestinese che abbia semplicemente espresso la propria opinione, ognuno ha la libertà di parola per dire che Abu Mazen (il presidente palestinese Mahmoud Abbas) non lo rappresenta, è una nostra libertà, abbiamo questo diritto. Quando hanno arrestato Ayman (al-Qawasmeh) hanno lanciato il messaggio che avrebbero arrestato altri giornalisti, ed è ciò che stanno facendo – è ciò che hanno fatto.”

Inizialmente Radio al-Hurriyeh è stata chiusa dalle forze israeliane con l’accusa di istigazione. Frustrato dall’incapacità dell’ANP di proteggere la popolazione palestinese da simili azioni da parte delle forze israeliane, al-Qawasmeh ha messo su Facebook un caustico post in cui chiedeva le dimissioni del presidente Mahmoud Abbas, del primo ministro Rami Hamdallah e del governatore di Hebron Kamel Hmeid. Tre giorni dopo è stato arrestato dalle forze dell’ANP.

“Quando ho visto che era stato arrestato ed ho scritto il post contro l’arresto, l’ANP ha pensato che avrei iniziato a mobilitare la gente contro l’arresto di Ayman. Sanno che sono in grado di mobilitare i media e lo temevano – ma alla fine il lavoro l’hanno fatto loro, arrestandomi hanno mobilitato loro stessi i media. Quando mi hanno arrestato li ho avvertiti che era una cattiva idea. Ho detto: ‘Non arrestatemi, interrogatemi e portatemi in tribunale, ma non arrestatemi, perché questo danneggerà l’ANP.’”

Amro ha detto che era preoccupato che il suo arresto potesse portare l’attenzione sul suo lavoro al di fuori di Israele, puntando i riflettori sull’ANP, un obiettivo più facile, ma che lui considera secondario rispetto all’occupazione.

“Ho cercato di spiegare che non avevo mai avuto intenzione di spostare tutta la solidarietà nei miei confronti che è contro Israele dirigendola contro l’ANP, perché so che la solidarietà collegata a me contro Israele non sarebbe nulla in confronto alla solidarietà che potrei sollevare contro l’ANP, ma ciò non è mai stato quello che volevo. Ho spiegato loro che la solidarietà contro di loro sarebbe stata dieci volte più forte perché molti hanno paura di Israele”, ha detto, spiegando che molte istituzioni, organizzazioni e figure diplomatiche americane ed europee non vogliono criticare pubblicamente Israele a causa della loro politica interna, mentre è facile per loro prendere di mira l’ANP.

“Ero anche preoccupato che l’opposizione palestinese potesse usarmi come veicolo contro altri palestinesi – ecco perché ho mantenuto un basso profilo quando sono stato rilasciato – il mio nemico principale è l’occupazione e il mio principale impegno è contro Israele, non contro l’ANP, anche se sono molto in disaccordo con la sua politica. Non intendo attaccare l’ANP mentre Israele è qui ad occupare la mia terra ed a far pressione sull’ANP perché faccia ciò che sta facendo. Voglio contrastare la causa principale, non l’effetto collaterale.”

Durante la settimana di detenzione, Amro è stato interrogato quotidianamente, con l’ANP che insinuava che l’attivista fosse una spia straniera, una tattica utilizzata dai governi totalitari in tutto il mondo.

Ha detto: “Sono stato a lungo interrogato sul fatto se io do informazioni a organizzazioni europee o delle Nazioni Unite o ad altre organizzazioni internazionali. Volevano sapere se io do giudizi sul lavoro dell’ANP, o delle sue forze di sicurezza. Mi hanno chiesto tante volte se sono una spia delle agenzie internazionali o dei servizi segreti internazionali che lavoravano contro l’ANP, passando informazioni su di essa. Hanno cercato di impostare le cose in modo da farmi ammettere che forse sono una vittima di questo genere di gruppi, insinuando che magari erano venuti a farmi delle domande e io non avevo capito che cosa stesse accadendo.”

La legge sui reati informatici

Amro è stato incarcerato in base alla nuova legge dell’ANP sui reati informatici, che prevede pesanti sanzioni pecuniarie e l’arresto per chiunque critichi sul web l’ANP – compresi giornalisti e informatori.

In ultima analisi, Amro è convinto che l’ANP l’abbia arrestato per due motivi: primo, lui pensa che il governo gli stia alle costole da tempo perché si è sempre rifiutato di inserire il suo movimento, “YAS”, rispettato a livello internazionale, all’interno del partito Fatah; secondo, pensa che, arrestando una persona politicamente rilevante come lui, l’ANP abbia voluto mandare il messaggio che “nessuno è al sicuro” dall’essere perseguito in base alla nuova legge dell’ANP sulla censura.

“Pensano che noi siamo contro l’ANP, ma non è vero. Noi siamo contro la corruzione e contro la legge sull’informatica – come tutti i palestinesi – e contro l’arresto e l’intimidazione dei giornalisti,” ha detto. “Sosteniamo la libertà di parola, la libertà di stampa, la libertà di espressione, questo è ciò che dichiariamo. Nello YAS non abbiamo reali posizioni politiche perché siamo per l’unità, non siamo per o contro Fatah, siamo per la Palestina e contro l’occupazione, questo è il nostro unico obbiettivo.”

Abbas ha promulgato la “Legge sui reati informatici” a luglio con un decreto presidenziale. La legge è stata criticata da ONG e organizzazioni umanitarie di tutto il mondo, compresa Amnesty International, che ha documentato che essa è sufficientemente estensiva da poter essere usata contro normali cittadini che mettono post sui social media, che potrebbero ricadere sotto di essa per aver semplicemente ritwittato notizie o i post di altre persone.

Secondo Amnesty International, in base alla nuova legge chiunque sia accusato di violare la norma postando qualcosa che potrebbe costituire turbativa dell’“ordine pubblico”, dell’ “unità nazionale” o della “pace sociale”, potrebbe essere condannato al carcere e fino a 15 anni di lavori forzati.

Amro ha detto che la legge è un perfetto esempio di come l’ANP si aggrappi a varie alternative nel contesto di un’amministrazione sempre più impopolare.

“Durante il mio interrogatorio, mi hanno detto di considerare quanti attacchi ricevesse l’ANP dalla gente e mi hanno chiesto in quale altro modo avrebbero potuto fermarli se non con una legge come questa,” ha detto. “Ho detto loro che non avrebbero dovuto fermarli, ma lasciare che le persone esprimano la propria opinione e che dovrebbero cercare di comportarsi meglio, e ancora che quello che le persone dicono è affar loro, dovrebbero dare spazio alla gente perché condivida le proprie idee ed imparare da essa.”

A luglio almeno dieci giornalisti sono stati convocati dall’ANP per essere interrogati, mentre in agosto almeno sei giornalisti sono stati arrestati. Inoltre l’ANP ha chiuso o bloccato l’accesso ad almeno 29 siti web, la maggior parte dei quali sono siti di informazione collegati a rivali di Fatah.

Al-Qawasmeh è stato rilasciato il 6 settembre, dopo aver trascorso tre giorni nel carcere dell’ANP. La sua stazione radio rimarrà chiusa per almeno sei mesi. Anche se Amro raramente concorda con il punto di vista di al-Qawasmeh, ha detto che i palestinesi devono agire insieme per difendere il diritto alla libertà di parola per tutti.

“Con questa legge sulla censura ci stanno distruggendo. Noi usiamo i diritti umani e la libertà di espressione come strumenti per attaccare l’occupazione, per distruggere la falsa immagine che Israele ha costruito – stiamo usando le nostre voci per mostrare che Israele è un Paese occupante e che eseguendo questo tipo di arresti contro attivisti, giornalisti ed altri gruppi ci stanno togliendo questo strumento, perché il popolo si ritroverà perseguitato da entrambi i governi,” ha detto. “Come può il popolo sostenere l’ANP, se arrestano le persone che lo difendono? Stanno attaccando uno dei pochi strumenti che ancora possiamo usare contro Israele – la nostra voce.”

Mentre è stato rilasciato su cauzione, l’attivista ha ancora delle imputazioni da parte dell’ANP, compresi il disturbo dell’“ordine pubblico”, l’“aver provocato conflitti” e l’“oltraggio alle massime autorità”.

L’ANP non ha ancora fissato un processo. Inoltre Amro ha a suo carico 18 imputazioni da parte di Israele per il suo attivismo, comprese, fra le altre, quelle di “manifestazione non autorizzata”, “ingresso in zona militare chiusa”, “istigazione” e “intralcio a pubblico ufficiale”.

Amro ha affermato di non aver intenzione di lasciare che il suo arresto impedisca il suo lavoro o influenzi il suo normale comportamento.

“ Niente di tutto ciò mi fermerà, perché questo è il mio compito ed ho i miei principi – sono un difensore dei diritti umani – non posso essere tale ed al tempo stesso avere paura di Israele e dell’ANP”, ha detto Amro. “Sono certo che ci sarà un prezzo, c’è sempre, per ottenere un cambiamento bisogna pagare un prezzo, e se non lo si vuole pagare non si può essere un leader del cambiamento.”

Sheren Khalel è una giornalista multimediale freelance, che si occupa di Israele, Palestina e Giordania. Il suo interesse si incentra sui diritti umani, le questioni femminili ed il conflitto israelo-palestinese. Khalel ha lavorato per l’agenzia Ma’an News a Betlemme ed attualmente vive a Ramallah e Gerusalemme. La si può seguire su Twitter all’indirizzo @Sherenk

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il BDS è l’unico nostro strumento contro l’occupazione e l’apartheid israeliani

Ruchama Marton

26 settembre, 2017 | Haaretz

Pensare che Israele possa rimediare a un regime coloniale e di apartheid senza un aiuto esterno è un’illusione pericolosa fondata sull’ orgoglio machista israeliano.

Nel suo articolo su Haaretz, Uri Avnery risponde a quello che ho detto alla mia festa di compleanno degli 80 anni. “Alcuni dei miei amici pensano che la lotta sia persa, che non sia più possibile cambiare Israele ‘dal di dentro’, che solamente una pressione dall’esterno può aiutare e che la pressione esterna in grado di fare questo è il movimento del boicottaggio, disinvestimento e sanzioni. Uno di questi amici è la dottoressa Ruchama Marton”, egli scrive.

Avnery afferma: “Prima di tutto respingo decisamente l’idea che non c’è nulla che noi possiamo fare per salvare lo Stato, e che noi dobbiamo confidare negli stranieri perché facciano il lavoro per noi. Israele è il nostro Stato. Abbiamo la responsabilità di questo”.

Ecco la mia risposta

Non ho mai detto in qualunque momento o posto che io, o noi, la sinistra non sionista definita radicale, vogliamo o ci aspettiamo che qualcuno nel mondo faccia il nostro lavoro per noi. Non soltanto non è etico, è anche stupido e non praticatibile. Dalla guerra civile in Spagna, una guerra che è stata persa, al Sud Africa, una guerra che ha vinto, e a tutte le altre lotte, i nativi hanno sempre lottato e sono stati uccisi insieme ai loro sostenitori in giro per il mondo, mai separatamente. Sotto questo profilo, la sinistra radicale in Israele è in ottima compagnia. Avnery non ha alcun diritto di dire di me o di noi che aspettiamo qualcuno da fuori Israele che lotti per noi. Questo è sicuramente sbagliato.

La lotta corretta, secondo me, è la lotta anti colonialista e anti apartheid. Chiunque si illuda di poter vincere questa battaglia senza l’aiuto esterno cade in un errore, in un’illusione pericolosa fondata sull’orgoglio machista sionista israeliano. Io e solo io.

Oggi la questione della pace non è rilevante. È piuttosto un argomento di convenienza, troppo bello e al momento non praticabile. Schierarsi per la pace non è una posizione politica ma è un’adesione di facciata. Avnery conosce qualcuno di destra o di sinistra che si oppone alla pace? La questione attuale è quella dell’occupazione e dell’apartheid.

La lotta anti coloniale ha una tradizione rispettabile e quella contro l’apartheid ha una strategia che ha funzionato. È vero che quelli che hanno lottato per un cambiamento politico reale e non solo per salvare il Paese, hanno avuto bisogno di rinunciare ai privilegi a loro garantiti dal regime di apartheid.

Il diritto alla politica è il diritto più importante. Senza questo è come “Lasciate in pace gli animali”. Lottare per un ambulatorio nei territori occupati è come lottare per una mangiatoia per un cavallo. Il regime totalitario riduce il cittadino “ad avere diritti”, il diritto al cibo, alla casa, all’istruzione e alla salute. Quando il diritto alla politica è negato, la persona è ridotta allo stato di animale. Chiunque non abbia voglia di combattere per il diritto alla politica, lotta solo per il proprio corpo. Vale la pena chiedersi – siamo solo l’aspirina dell’occupante?Un cerotto dell’apartheid?

Voglio dare ai giovani che desiderano lottare gli strumenti per pensare criticamente. In altre parole, non stare al gioco del governo e al suo progetto. Dobbiamo imparare a dire che non accettiamo più le leggi del governo. Ciò significa assumere dei rischi e rinunciare ai nostri privilegi, che stanno dentro le regole dettate dal regime. Come ha detto Ralph Waldo Emerson: “Gli uomini validi non devono obbedire troppo bene alle leggi.”

Fintantochè gli ebrei israeliani che non sostengono il BDS pensano che sia possibile cambiare dall’interno, essi sono come la parabola della lepre che voleva cambiare dall’interno il leone. Così il leone l’ha mangiata. La lepre è entrata nel leone ma la sua storia è finita. Oggi cambiare dall’interno è un’illusione, la sinistra radicale non può pensare e agire in questo modo.

La sinistra sionista ha paura del radicalismo perché ha paura di rimanere sola, senza una tribù. Il problema è che esiste un’altra tribù, una più grande, e che si trova all’esterno. Per esempio, la tribù internazionale del BDS in crescita. È il nostro alleato perché non abbiamo alleati all’interno della nostra tribù nativa. Dobbiamo essere consapevoli che, dall’interno siamo troppo pochi e troppo deboli. Senza i nostri alleati di fuori non possiamo fare molto. I traditori di oggi saranno gli eroi di domani.

Avenery dice: “Penso che boicottare proprio Israele sia uno sbaglio. Porterebbe l’intera opinione pubblica israeliana nelle braccia dei coloni, mentre il nostro compito sarebbe di isolare i coloni nei territori occupati e di separarli dall’opinione pubblica israeliana. Il nostro compito qui è di raggruppare, riorganizzare e raddoppiare i nostri sforzi per sconfiggere l’attuale governo e portare l’area pacifista al potere”

Io gli rispondo: Stai argomentando in base ad un presupposto senza fondamento circa il futuro, basato solamente sulla paura di rimanere solo, perché l’opinione pubblica israeliana nella sua interezza si unirà ai coloni. La maggior parte lo ha già fatto. Il BDS è l’unica arma nonviolenta che può indurre la società israeliana ebraica a prendere consapevolezza del dominio e della sofferenza dell’occupazione quando venga costretta a pagarne il prezzo.

Se l’occupazione e l’apartheid portano a una sofferenza economica, culturale e diplomatica a causa di un boicottaggio internazionale, è molto probabile che possa avvenire un cambiamento nella visione israeliana che è basata da un lato sull’enorme beneficio che deriva al Paese e ai suoi cittadini ebrei dall’occupazione e dalla separazione, dall’altro sulla vigliaccheria di quella che viene definita la sinistra israeliana, o campo pacifista.

Dr.Ruchama Marton è la fondatrice e presidentessa di Physicians for Human Rights – Israel [Medici per i Diritti Umani-Israele]. Le sue opinioni non rappresentano quelle dell’associazione.

Questo articolo è stato precedentemente pubblicato sul sito Haokets.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Crimini di guerra e ferite aperte: la dottoressa che ha sfidato la segregazione israeliana

Alon Mizrahi

 12 settembre 2017,+972

In occasione dei suoi 80 anni, Ruchama Marton, la fondatrice di “Physicians for Human Rights-Israel”, parla delle atrocità di cui è stata testimone quando era soldatessa, del duraturo potere del femminismo e perché solo un aiuto dall’esterno ha la possibilità di porre fine al dominio militare israeliano sui palestinesi.

Ruchama Marton viene dalla generazione che si potrebbe chiamare 1.5 degli attivisti israeliani contro l’occupazione. Era un po’ troppo giovane per partecipare al piccolo gruppo di avanguardia che fondò la rivoluzionaria organizzazione socialista Matzpen negli anni ’60, ma abbastanza grande da aver preso lezioni da una testa calda, il professor Yeshayahu Leibowitz [grande intellettuale e teologo ebreo israeliano, molto critico con gli esiti del sionismo, ndt.] a Gerusalemme. Là, mentre frequentava la facoltà di medicina, ha rivoluzionato la procedura di ammissione per le studentesse, che portò all’abolizione delle quote di ammissione. E quando scoprì che nella facoltà di medicina c’era un bando contro le donne in pantaloni, si ribellò anche contro di esso.

Marton ha fondato “Physicians for Human Rights-Israel” [“Medici per i Diritti Umani – Israele”] durante la Prima Intifada, portando il termine “diritti umani” nel discorso politico israeliano. Nata in Israele, dove ha passato tutta la sua vita, è stata per più di 40 anni una psichiatra impegnata. Il suo rapporto con questo posto è complicato e doloroso, quasi impossibile.

Marton non modera le sue parole quando si tratta delle organizzazioni di sinistra e per la pace, che vede come una specie di “società umanitaria”, attribuendo scarsa importanza ad un attivismo che non faccia i conti direttamente con la violazione dei diritti umani, il cui nucleo centrale sono i diritti politici.

Per tutta la sua vita si è indignata per l’ingiustizia e la segregazione. Tra la lotta contro lo sciovinismo, il patriarcato e quella di tutta una vita contro l’occupazione, rifiuta di rimanere in silenzio.

Ho incontrato Marton per un’intervista nella sua casa di Tel Aviv in occasione dei suoi 80 anni. Avevo previsto che non mi sarebbe stato facile. Avevo ragione.

Come psichiatra con anni di esperienza voglio iniziare con quella che ritengo una grande domanda. Perché siamo così ossessivamente legati alla disumanizzazione degli arabi? Perché sembra che il maggior desiderio di questo posto sia negare ai palestinesi qualunque tipo di riconoscimento e di legittimazione? In fin dei conti a questo punto non ha uno scopo concreto, abbiamo già vinto.

Cosa intende con ‘non ha uno scopo concreto?’ Non ha senso. Serve agli interessi sionisti. A ogni singolo [interesse].

Mi spieghi

Innanzitutto, siamo colonialisti. Il sionismo è colonialista. E la prima cosa che un buon colonialista fa è spogliare. Spogliare di cosa? Di tutto quello che può. Di quello che è importante, di tutto quello che gli serve. Della terra. Delle risorse naturali. E, naturalmente, dell’umanità. Dopotutto è ovvio che per controllare qualcun altro devi portargli via la sua umanità.”

Ma questo progetto non è terminato? Non è che noi adesso siamo in guerra e stiamo per conquistare un nuovo territorio. La “Guerra di indipendenza” [denominazione sionista della guerra contro palestinesi ed arabi nel 1947-48, ndt.] è finita molto tempo fa. Abbiamo vinto. Abbiamo già tracciato dei confini. Perché abbiamo ancora bisogno di quella mentalità?

Quali confini? Non ci sono confini, non ci saranno confini, e non vedo che ci sia una qualunque intenzione di tracciarli ora. Ma, oltre a ciò, la spoliazione è un compito senza fine. Quel popolo occupato, quel popolo spogliato, che sia all’interno o all’esterno della Linea Verde [il confine tra Israele e Giordania fino alla guerra del ’67 e all’occupazione israeliana della Cisgiordania, ndt.], non è d’accordo. Non si arrende. Non accetta di essere spogliato della sua terra, della sua acqua, della sua umanità. Come ha detto Hannah Arendt: “Senza diritti politici non c’è essere umano. I diritti politici vengono prima di ogni altra cosa. Prima del diritto di proprietà, di movimento, di riunione e associazione. Quelli sono tutti molto belli, ma sono secondari. Senza diritti politici, tutto quello che fai è beneficienza. Senza diritti politici, non c’è niente.”

La famiglia di Ruchama è arrivata in Israele da una regione rurale della Polonia. Entrambi i suoi genitori sono cresciuti in famiglie religiose, come la maggioranza degli ebrei in quei tempi, sicuramente quelli che vivevano fuori dalle grandi città. Dice che suo padre era così affascinato dalle idee comuniste che per mesi risparmiò segretamente denaro per poter andare in Russia negli anni ’20.

La notte prima che se ne andasse,” racconta, “suo padre entrò nella sua stanza e disse: ‘So che hai risparmiato denaro e so per fare cosa. Voglio chiederti che tu mi prometta una cosa. Vuoi andartene? Vai. Vai in America, vai in Palestina. Promettimi solo che non andrai in Russia. Ti uccideranno.’ Mio padre fece la promessa e la mantenne.”

I suoi genitori si sono stabiliti nel quartiere di Geula a Gerusalemme. Lei è nata nel 1937. Si ricorda il Mandato britannico a Gerusalemme?

Certo. Ricordo i soldati australiani che pattugliavano le strade, e che camminavo verso il “Muro del Pianto” con mia nonna. Avremmo camminato attraverso la Città Vecchia, oltre il mercato arabo; non avevamo paura. Non c’era neanche una grande amicizia, ma non c’era paura.

A Gerusalemme ogni notte c’era il coprifuoco. Ricordo una notte in cui rimasi a dormire da un’amica fin dopo il coprifuoco, scesi in strada e iniziai a camminare verso casa. Un soldato australiano mi chiamò, ma non capii quello che mi stava dicendo, in quanto non parlavo inglese. Mi raggiunse e cercò di capire cosa stessi facendo là, dove stessi andando.

Era un gigante, probabilmente alto 2 metri. Non so come successe, ma mi prese per mano e mi accompagnò a casa. Una ragazzina con un gigantesco soldato australiano.

La nonna che soleva portarmi con sé verso il Muro del Pianto venne uccisa da una bomba all’inizio della Guerra di Indipendenza. Uscì per prendere acqua con un secchio da un vicino che aveva bambini piccoli e venne colpita da una bomba sparata dagli arabi. Poco dopo ci spostammo a Tel Aviv, che era un mondo totalmente diverso.

Tel Aviv era molto diversa da Gerusalemme. Aveva un’atmosfera di stravaganza e di sfrenatezza. Vivevamo in una zona ai confini della città: c’erano pochissime case là. Era circondata da orti, da giardini arabi e da campi di canna da zucchero che crescevano lungo il fiume Yarkon [in arabo El-Auja, il “sinuoso”, ndt.]. Era un altro mondo.”

Aveva degli amici a Tel Aviv? Non deve essere stato facile.

Io non conoscevo nessuno lì, ovviamente. E genitori e figli di quella generazione difficilmente parlavano tra loro. Ma nella casa di fronte a noi, l’unica casa vicina, c’era una famiglia araba. Avevano un orto, un giardino e un piccolo gregge di pecore e capre.

Avevano due bambini, Zeidin, che aveva circa un anno meno di me, e Fatima, che era un po’ più grande di me. Erano i miei migliori amici. Eravamo soliti giocare insieme, passare insieme le giornate negli orti e in mezzo alla natura. Gli volevo bene.

Alla fine del 1947 arrivarono dei soldati e cacciarono la famiglia. Mi ricordo che stavo lì a guardare svolgersi quella scena. Caricarono i loro pochi averi e la vecchia nonna su un asino e partirono verso l’est. La loro casa esiste ancora – è stata trasformata in una sinagoga.”

Anche durante la guerra del Sinai del 1956 [combattuta da Francia, Inghilterra ed Israele contro l’Egitto di Nasser, che aveva nazionalizzato il canale di Suez, ndt.] lei ha assistito a scene che l’hanno profondamente segnata.

L’assassinio di prigionieri da parte dei soldati della mia unità, la ‘Givati’.”

Cosa successe lì?

Nei giorni che seguirono l’invasione israeliana della penisola del Sinai, i soldati egiziani continuavano ad arrendersi. Venivano fuori dalle dune di sabbia, a volte a piedi nudi, bruciati dal sole del deserto, sporchi e sudati, con le mani in alto.

I nostri soldati gli sparavano. A decine di loro, forse più. E’ proprio quello che ho visto. Scendevano dalle dune e i soldati prendevano i fucili e li uccidevano.”

E cosa ne facevano? Li lasciavano semplicemente lì sulla sabbia?

Sì. Questo mi fece stare male. Fisicamente male. Vomitai ed ero in uno stato terribile. Andai dal mio comandante e gli chiesi di andarmene. Gli raccontai che era a causa di quello che era successo. Non c’è bisogno di dirlo, lui “non sapeva” assolutamente di cosa stessi parlando. Ma mi autorizzò ad andarmene e chiesi un passaggio per tornare a casa.

Volevo parlare di quello che era successo. Volevo pubblicarlo, ma nessuno accettò. Mi dissero di lasciar perdere. Avevo amici che lavoravano per dei giornali, e pensai, ingenuamente, che avrebbero voluto pubblicarlo. Nessuno accettò di occuparsene. Quando avevo 19 anni sapevo già che quello che mi dicevano del sionismo e dell’esercito era un sacco di menzogne.”

Una ricerca su internet sull’uccisione di prigionieri durante la guerra del Sinai porta a una serie di siti, compresa un’intervista al generale Arieh Biro, che ammise che lui e i suoi soldati uccisero prigionieri egiziani durante la guerra. Posso solo presumere che le uccisioni che ebbero luogo furono molto più frequenti e gravi di quelle scoperte dall’ “inchiesta” ordinata da Shimon Peres nel 1995.

Dopo l’esercito lei è andata alla facoltà di medicina. All’epoca c’erano quote per le donne. 

Sì. C’era un numero stabilito e non volevano che molte donne diventassero medico. Per cui le limitavano a una quota del 10%. Ho condotto una lotta contro ciò insieme ad altri studenti e membri della facoltà, che portò alla cancellazione della quota. Da allora le donne sono ammesse alla facoltà di medicina in Israele in base ai loro titoli, proprio come gli uomini.”

Dopo tutti i suoi anni di lavoro con la psicologia umana e il conflitto, vede qualche cambiamento? Se ho capito bene [quello che lei ha detto], nonostante tutte le notevoli capacità propagandistiche che Israele ha sviluppato, nonostante il continuo lavaggio del cervello, da quanto sta dicendo sembra che fosse lo stesso negli anni ’50.

In primo luogo il sionismo e quello che un essere umano è sono due cose che non si incontrano. Ma qui non c’è stato un cambiamento essenziale. E’ sempre lo stesso. E’ vero che la macchina della propaganda sionista renderebbe orgogliosi i sovietici, ma l’essenza delle convinzioni su questioni fondamentali, sul trattamento degli arabi e sul loro posto – queste convinzioni non sono cambiate.”

Una salute mentale rivoluzionaria

A 80 anni Marton è ancora una psichiatra in attività. Nei suoi molti anni di professione ha sostenuto e fatto campagna per portare la cura della salute mentale fuori dagli ospedali psichiatrici e all’interno della società.

Sono rimasto molto sorpreso che ci fosse qualcuno in Israele che parlasse di cure psichiatriche come parte della comunità. Ciò significa davvero normalizzare la salute mentale.

Perché non ci dovrebbe essere un consultorio psichiatrico all’interno degli ambulatori di quartiere? Ci dovrebbero essere un optometrista, un otorinolaringoiatra e uno psichiatra. Esattamente nello stesso posto, allo stesso piano, nello stesso corridoio, in base allo stesso concetto.”

Lei ha creduto in questo fin dall’inizio della sua carriera e ha fatto passi concreti per realizzarlo.

Sono stata la prima persona in Israele che ha fatto una proposta al sistema sanitario – sono andata fin da Shimon Peres e da altri, ho detto loro che i consultori psichiatrici non devono essere all’interno degli ospedali psichiatrici. Non è altro che un disastro. Le persone hanno un terribile stigma che le scoraggia dall’entrare in un ospedale psichiatrico.

C’era un direttore, Davidson (il prof. Shamai Davidson, direttore dell’ospedale “Shalvata” dal 1973 al 1986. Arrivò in Israele da Dublino nel 1955), era veramente un santo, comprese veramente e appoggiò l’idea di cure psichiatriche inserite nella comunità. Il concetto di comunità è una cosa che si era portato dalla diaspora. Mi stette ad ascoltare con il cuore aperto e fu colui che portò avanti quella rivoluzione e che portò all’apertura di un ambulatorio per il trattamento psichiatrico a Morasha, e poi a Ramat Hasharon, e da lì si è diffuso.

A tutt’oggi il progetto non è stato completato. Ma abbiamo rotto quel muro iniziale.

Sa quante persone non chiedono un aiuto perché l’ambulatorio è situato all’interno di un ospedale psichiatrico? E quindi cosa succede? Crollano e vengono ospedalizzate. Grandioso! Abbiamo ottenuto quello che volevamo.”

Sto ascoltando quello che dice, e penso: c’è qualcosa di giustificato in merito al timore della gente nei confronti del sistema psichiatrico. Qualcosa riguardo alla percezione di se stesso e del paziente da parte del sistema – è qualcosa di insano.

E’ verissimo. Quello era ciò per cui stavo lottando. Ma oggi i miei giorni di lotta sono passati. Dopo 30 o 40 anni ne ho avuto abbastanza. Forse non sono riuscita in tutto, ma in alcune cose sì. Sono molto orgogliosa di questo.”

Lei pensa al conflitto israelo-palestinese o alla storia del sionismo in termini psicologici? La storia dell’uccisione di prigionieri, per esempio, simile a quello che ho sentito da persone a me vicine, mi riempie di profonda vergogna.

Sono affascinata dall’argomento della vergogna. E’ un sentimento su cui ho lavorato per la maggior parte degli anni. Credo che senza vergogna non ci sia speranza per il mondo – non ci sia essere umano. Senza vergogna una persona può fare qualunque cosa. Una delle cose che ci sono successe è che abbiamo perso ogni vergogna. I soldati che sparavano ai prigionieri non si vergognavano. E’ per questo che fecero quello che fecero.”

In quale altro posto lei vede esempi di questa mancanza di vergogna?

Nella mia professione. I palestinesi coinvolti nel terrorismo, o quanto meno accusati di questo, sono mandati ad un esame psichiatrico. Si sorprenderà di saperlo, ma semplicemente non ci sono palestinesi con problemi mentali – almeno non del tipo che gli impedisca di essere giudicati da Israele. I palestinesi non hanno il diritto di essere pazzi.”

Psichiatri israeliani esaminano imputati palestinesi e sanno che soffrono di vari problemi psichiatrici, eppure li dichiarano in grado di essere processati?

Certo che lo sanno. E come so che loro lo sanno? Perché dopo che sono stati giudicati e mandati in carcere, ricevono medicine per la schizofrenia. E non si tratta di errori dovuti all’ignoranza. Sto parlando di bravi medici. Ciononostante fanno diagnosi ridicole e sbagliate.

Ci sono andata ed ho visto con i miei occhi. Ho parlato ai prigionieri. All’epoca ho scritto di questo sul giornale. Sono stata sanzionata dall’ordine dei medici israeliani per aver fatto i nomi dei medici coinvolti in queste diagnosi. Avevano intenzione di denunciarmi, ma hanno deciso di lasciar perdere per non rendere noti tutti gli sporchi trucchi che si svolgono a porte chiuse. Allora sono stata obbligata a scrivere una lettera di scuse. Ho scritto la lettera, che includeva due righe di scuse, seguite da un resoconto completo delle cose che ho saputo, comprese le diagnosi sbagliate e quello che c’era dietro. Finora quella lettera non è mai stata pubblicata.”

Quella non è stata la fine dei problemi di Marton e “Physicians for Human Rights-Israel” (PHRI) con l’ordine dei medici israeliani e con le istituzioni israeliane. Nel 2009 l’ordine ha annunciato che avrebbe rotto i rapporti con “PHRI” dopo che l’organizzazione ha accusato dottori israeliani di partecipare alle torture. Inoltre l’amministrazione tributaria ha rifiutato di rinnovare lo status come associazione pubblica dell’organizzazione per fini fiscali, da quando ha pubblicato una dichiarazione secondo la quale l’occupazione è una violazione dei diritti umani – compreso il diritto alla salute. Secondo l’amministrazione tributaria, queste affermazioni sono ritenute “politiche”.

La medicina è una questione politica

Com’è nato “Medici per i Diritti Umani – Israele”?

Quando ho deciso di fare qualcosa di concreto, qualcosa di politico, ho utilizzato quello che avevo a disposizione: la medicina. Ho contattato un’organizzazione di medici palestinesi. Volontari palestinesi andavano sul terreno a curare le persone, e mi sono unita a loro.

In seguito ho iniziato ad organizzare volontari israeliani. Ho dovuto pregare persone di venire con me il sabato mattina. All’inizio sono riuscita a trovare due persone, che sembravano un grande risultato. Ora vanno (in Cisgiordania) circa 30 volontari con un ambulatorio mobile.

Ho stabilito io le regole dell’organizzazione: siamo sempre insieme noi e i palestinesi. Non è mai una delegazione di bianchi colonialisti che vanno a salvare i nativi. Lavoriamo insieme in pieno accordo con i nostri colleghi palestinesi: sono loro a dire dove hanno bisogno di noi e nell’assoluta maggioranza dei casi è lì che andiamo.”

E dove lavorate? Non è che abbiano ambulatori organizzati.

Ambulatori? C’è a malapena qualche ambulatorio in quei villaggi, e quelli che ci sono sono piccoli e inutilizzabili per gruppi numerosi come il nostro. Utilizziamo scuole e uffici delle amministrazioni locali. E non c’è bisogno di fare grandi annunci – la voce gira nel villaggio e in quelli vicini. La prima cosa il sabato mattina è che c’è già troppa gente.”

Che tipo di cure fornite?

Tutto quello che si può fare sul campo, compresi interventi chirurgici relativamente semplici. Portiamo con noi medicine regalate, e scriviamo prescrizioni per quelle che non abbiamo. Quando c’è la necessità di esami complicati li inviamo a diversi ospedali dell’Autorità Nazionale Palestinese e in Israele. Anche ciò ha implicato molti anni di lotta.”

Lo Stato di Israele non si è mai ritenuto responsabile della salute di quelli che occupa.

E’ vero. Ma fino a Oslo, o alla Prima Intifada, c’erano ospedali palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, che dopo il 1967 erano diventati ospedali pubblici israeliani. C’era un bilancio molto ridotto per la salute, niente a che vedere con un Paese normale. Ma, per esempio, c’era uno stanziamento di fondi per le vaccinazioni. Paradossalmente nei campi dei rifugiati la situazione era molto migliore, dato che erano sotto la responsabilità dell’UNRWA [l’agenzia ONU per i profughi palestinesi, ndt.].

Quando scoppiò la Prima Intifada una delle decisioni prese dall’allora ministro della Difesa Yitzhak Rabin fu di bloccare il bilancio dei servizi medici palestinesi. Quando lo venni a sapere mi precipitai a Londra e mi presentai agli uffici della BBC. Parlai loro della situazione nei territori occupati e inviarono un’equipe per fare un breve servizio sulla decisione e sulle sue conseguenze, ossia gente che moriva in casa per la mancanza di cure mediche. Il clamore convinse Rabin a ripristinare almeno una parte degli stanziamenti.”

Vai a casa, vestiti

Pochi giorni fa sul giornale c’era una foto del capo del Mossad che visitava la casa del consigliere per la sicurezza nazionale degli USA. Nella foto tutte le persone erano uomini. Sono molto contento di dire che una simile foto oggi mi sembra strana.

Ciò mi riporta all’argomento della segregazione. E’ così che alle persone si insegna a pensare di se stesse. Quella separazione, il fatto che ci sia una tribuna per le donne (nella sinagoga) ed ora vogliano la separazione [tra i sessi] anche nell’esercito e nelle università. La segregazione è la radice di ogni male.

Le mie prime battaglie non sono state sul problema palestinese. Sono state femministe, anche se all’epoca non le chiamavo così.

Lei è una donna orgogliosa.

Non abbastanza. Sono troppo orgogliosa per chiedere un riconoscimento e a volte sono piena di risentimento per non averlo ottenuto. Per esempio, sono stata la prima ad introdurre il concetto di “diritti umani” nel dibattito israeliano. Prima c’erano i “diritti civili”, ma i diritti umani come concetto politico sono stati merito mio.”

Eppure lei ancora non se la sente di chiedere che le venga riconosciuto.

E’ vero. Forse è il risultato della mia educazione femminile. Non femminista, femminile. Quella che insegna alle donne a non farsi notare. Ad essere gentili, a sorridere, a non essere arrabbiate. A non iniziare mai una frase con la parola “Io”. E’ così che sono educate le donne.”

Lei è indignata dallo sciovinismo [maschile]. Non è molto diverso dalla sua indignazione contro l’occupazione.

Per tutta la mia vita ho dovuto lottare contro stigmi e norme separate per le donne. Con il fatto che alle donne non fosse permesso mettersi i pantaloni nella facoltà di medicina nella fredda Gerusalemme. Quando mi sono presentata con i pantaloni una docente mi ha detto: ‘Tu, signorina, vai a casa, vestiti come si deve e torna indietro.’ Sono andata a casa e non sono tornata. Ho scatenato un putiferio ed alla fine ho vinto.”

Critiche a ogni parte

Lei è molto critica con la Sinistra israeliana e con il modo in cui si oppone all’occupazione.

Non c’è una Sinistra israeliana. Quello che dobbiamo fare è ricostruire da zero le organizzazioni dei diritti umani israeliane in modo che siano disposte a lottare per porre fine all’apartheid. Apartheid che distingue tra quelli che hanno tutto e quelli che non hanno niente. Quelli a cui è consentito tutto e quelli a cui tutto è proibito. Se non vogliono intraprendere questa lotta, per cosa stanno lottando? Per la loro stessa immagine.

Non puoi combattere contro il colonialismo, l’occupazione, l’apartheid – chiamalo come vuoi- avendo un ruolo alla corte del governo, in base al programma del governo. Devi rompere questi confini.”

Effettivamente il partito Laburista ha mantenuto l’occupazione per ben 10 anni e non ha fatto niente a questo proposito.

Non dica che il Mapai [il predecessore del partito Laburista, in cui è confluito nel 1968, ndt.] non ha fatto niente. Sono stati quelli che hanno fondato le colonie. Begin [fondatore del Likud e dal 1977 al 1983 primo capo del governo israeliano di destra, ndt.] è stato l’unico leader giusto che abbiamo avuto. Dico sul serio. Sotto il suo governo la tortura è stata totalmente vietata. Quando il capo dello Shin Bet andò da lui e gli chiese: ‘Signore, neanche uno schiaffo?’ disse: ‘No, neanche uno schiaffo.’”

Begin vietò di demolire case, vietò le espulsioni. E’ stato l’unico uomo giusto a Sodoma. Non c’è mai stato un solo uomo giusto né prima né dopo di lui.”

Ho sempre pensato, ed ancora penso, che la normale Destra revisionista [i seguaci della corrente di destra del sionismo, ndt.] moderata sia il campo con le migliori possibilità di trattare gli arabi in modo umano.

Non voglio un trattamento umano degli arabi. Voglio diritti politici. Poi puoi essere umano o quello che vuoi. Senza diritti politici continui ad essere un colonialista, un occupante, un sostenitore dell’apartheid.

Un’organizzazione dei diritti umani che non voglia lottare per questo sta ululando alla luna. E’ priva di senso.”

In un certo senso lei sta parlando anche di se stessa. E’ una resa dei conti personale.

E’ vero. Le sto parlando dopo 30 o forse 50 anni di lotta contro l’occupazione. Abbiamo bisogno di aiuto esterno. E sto parlando soprattutto di una cosa: il BDS [il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele, ndt.].”

Lavorare per questa causa in Israele non è facile.

Ride. “E’ una questione che riguarda i traditori, e i traditori di oggi sono gli eroi di domani. Chiunque non voglia pagare quel prezzo non sa come lottare. Se non paghi un prezzo tu stai lottando solo per la tua bella immagine. Finché l’occupazione continuerà, finché continuerà l’apartheid, non importa se tu sei un po’ più o un po’ meno bello.”

Si ferma un momento a pensare.

Dobbiamo lottare contro l’idea della segregazione, perché è una separazione tra me e la politica, tra gli arabi e la loro terra, tra gli arabi e la loro dignità umana. La segregazione è la ferita. E’ l’asse attorno al quale girano le cose.”

Anche se gli ebrei portarono qui con sé l’idea della segregazione. In fin dei conti, c’è ogni sorta di segregazione tra gli stessi ebrei, in base a divisioni etniche, religiose e politiche.

Sicuramente qui c’è segregazione a tutti i livelli. Dopotutto, qui siamo divisi tra ebrei di prima e di seconda categoria, e sotto di loro ci sono i palestinesi cittadini di Israele, e i palestinesi in Cisgiordania sono ancora più in basso. E proprio in fondo alla scala ci sono i richiedenti asilo e i rifugiati (“Medici per i Diritti Umani” ha una “clinica aperta” che fornisce cure mediche ai rifugiati e ai richiedenti asilo).

La segregazione esiste all’interno della nostra società come un principio politico fondamentale. Se cancelliamo la segregazione, poi che succede? Sarà un disastro politico per il regime – non solo per la Destra.

Se penso a quello che la mia organizzazione ha fatto – ai viaggi a Gaza, alla distribuzione di medicinali per la solidarietà, al tentativo di infrangere la segregazione – quello è stato il nostro maggior risultato.”

Alon Mizrahi è uno scrittore e un blogger presso “Local Call” [“Chiamata locale, sito in ebraico di +972, ndt.], dove il suo articolo è stato per la prima volta pubblicato in ebraico. E’ stato tradotto dall’originale in ebraico da Shoshana London Sappir.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




L’arresto del militante della Cisgiordania Issa Amro rivela il comune interesse dell’ANP e di Israele nel dissuadere azioni di disobbedienza civile

Amira Hass, 11 settembre 2017,Haaretz

Si dice che il coordinamento della sicurezza palestinese con Israele sia stato drasticamente ridotto su ordine del Presidente Mahmoud Abbas. Allora perché l’Autorità Nazionale Palestinese ha arrestato Issa Amro, una delle costanti spine nel fianco del potere occupante israeliano ad Hebron?

Attraverso il suo arresto l’ANP ha palesato i suoi interessi comuni con Israele ed ha dimostrato ancora una volta che la sua stessa esistenza è diventata la sua ragion d’essere. Ha inoltre rivelato stupidità politica e disprezzo per la lotta popolare palestinese contro chi ruba la terra ed espelle la popolazione.

La scorsa settimana un tribunale palestinese a Hebron ha prorogato la sua detenzione di quattro giorni, prima di rilasciarlo domenica su cauzione. Amro è accusato di turbare la quiete pubblica, in in base alla controversa nuova ‘legge elettronica’ approvata recentemente dal governo di Ramallah. E’ accusato anche di aver provocato disordini interni e di aver offeso i più alti vertici dell’ANP.

Amro è co-fondatore di ‘Giovani contro le colonie’. Il gruppo documenta il folle comportamento dei coloni di Hebron e dei soldati che li difendono. Ha anche dato vita ad iniziative sociali per rafforzare la presenza palestinese nella Città Vecchia [di Hebron].

‘Giovani contro le colonie’ costituisce un modello di disubbidienza civile e mette un bastone tra le ruote ai piani israeliani di espulsione [dei palestinesi]. E’ un piccolo gruppo con grandi idee, divisioni, fallimenti e successi. Ha anche fatto crescere la consapevolezza tra gli ebrei della diaspora riguardo alla folle forma di apartheid che l’esercito, l’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano nei territori palestinesi occupati, ndt.] ed i coloni di Hebron hanno creato.

Non per niente Israele arresta gli oppositori contro l’occupazione a Hebron e disperde con la forza le loro marce di protesta (che a volte coinvolgono attivisti israeliani). Non per niente un anno fa il procuratore militare israeliano ha costruito accuse contro Amro sulla base di vecchi reati (risalenti a prima del 2013), come manifestazioni, contestazioni ai soldati, spintoni al coordinatore della sicurezza militare della colonia di Kiryat Arba e incidenti simili, che solo una giunta militare potrebbe trasformare in un’incriminazione.

Poiché i presunti crimini sono stati commessi tanto tempo fa, il tribunale non ha potuto disporre l’arresto di Amro fino al termine delle procedure. A volte l’imbarazzo lega le mani anche alla giunta.

L’incriminazione israeliana nei confronti di Amro è finalizzata soprattutto a dissuadere altri giovani palestinesi dall’ unirsi alla disobbedienza civile a Hebron, dall’ osare resistere ai coloni ed alla loro costante violenza razzista e dall’ incrementare la loro presenza nella vecchia e tormentata Hebron.

L’esercito israeliano, i coloni e la polizia preferiscono i giovani palestinesi disperati ed isolati che, senza un piano, una strategia o una prospettiva, vanno ai checkpoint a suicidarsi per mano di un soldato o di un colono.

Il vero pericolo per l’esercito a difesa dei coloni sono i militanti che possono aprire un varco alla speranza, che possono pianificare diversi passi avanti e mirare ad una partecipazione di massa.

Il lavoro sporco, a quanto sembra, viene fatto anche da altri. I servizi di sicurezza palestinesi hanno arrestato Amro lo scorso lunedì mattina. Il giorno prima aveva pubblicato due moderati post su Facebook, invocando il rispetto dei principi di libertà di espressione e opinione. L’espressione più forte nel suo post affermava che i servizi di sicurezza palestinesi arrestano la gente sulla base di ordini dall’alto. Si riferiva all’arresto di uno dei dirigenti della stazione radio Minbar Al Hurriya [una delle radio più seguite a Gaza, ndt.], alcuni giorni dopo che l’esercito israeliano l’aveva chiusa.

Il direttore, Ayman al-Qawasmi aveva invitato Abbas ed il primo ministro palestinese Rami Hamdallah a dimettersi in quanto incapaci di difendere le istituzioni palestinesi. Qawasmi è stato rilasciato mercoledì scorso. Come già detto, domenica il tribunale palestinese ha rilasciato Amro su cauzione di 5.000 shekels (1.190 €).

Giovedì, diplomatici, rappresentanti di Amnesty International e giornalisti esteri si sono presentati alla prima udienza della causa di Amro – lo stesso gruppo che assiste alle udienze contro di lui nei tribunali militari israeliani. Tuttavia la causa presso il tribunale di Hebron si è tenuta a porte chiuse, per cui hanno dovuto restare fuori.

Nonostante il tribunale palestinese sia tornato sulle sue decisioni, il danno è stato fatto. L’ANP ha già fatto un regalo ai sostenitori israeliani delle espulsioni. Dal punto di vista dell’ANP, l’arresto di Amro è stato una follia perché, più di ogni altro atto antidemocratico, era chiaro che avrebbe attirato l’attenzione generale e gettato su di esso una luce negativa. Fosse anche solo per ragioni di convenienza, l’ANP avrebbe dovuto ricordarsi che stava arrestando un militante molto noto, la cui attività gode di grande rispetto all’estero.

Se l’ANP avesse tenuto in qualche conto la lotta popolare, avrebbe capito sin dall’inizio che un simile arresto l’avrebbe danneggiata. Ma alla fin fine l’ANP rifiuta le lotte popolari come strumento di cambiamento. Se ne serve solo come un ornamento per recuperare la reputazione di Fatah e dell’ANP come soggetti esclusivi della lotta per l’indipendenza.

Le autorità che lo hanno arrestato, dal vertice alla base, hanno pensato solo a sé stesse; alla loro sopravvivenza come apparato di comando; ai loro stipendi; alle loro promozioni. Le critiche esplicite deturpano la parvenza dell’apparato come rappresentante patriottico del popolo. Le critiche sono a volte indirizzate alla mancanza di libertà di espressione, a volte alla sospensione o ai brogli delle elezioni e a volte ai vantaggi economici di una ristretta classe al potere.

Quelle voci devono essere messe a tacere per il bene del sistema, che dipende direttamente dal mantenimento degli accordi eternamente temporanei con Israele. Perciò la lotta popolare ed i suoi militanti devono essere controllati e contenuti, in modo che non creino situazioni che minaccino accordi scaduti da molto tempo e che servono solo alla perpetuazione dell’occupazione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Jewish Voice for Peace  invita i giovani ebrei a boicottare “Birthright Israel”

Allison Kaplan Sommer – 2 settembre 2017,Haaretz

La campagna #ReturnTheBirthright dichiara che “è fondamentalmente ingiusto che a noi venga concesso un viaggio gratis in Israele mentre i rifugiati palestinesi non possono tornare alle loro case”

Il discusso gruppo filo-palestinese “Jewish Voice For Peace” [Voci Ebraiche per la Pace, ndt] ha lanciato una campagna per convincere giovani ebrei a non partecipare ai viaggi di “Birthright Israel”  [“Diritto di Nascita Israele”, ndt.], proprio mentre gli studenti dei college stanno tornando nei campus e riprendono le iscrizioni per le visite invernali.

Con lo slogan “#ReturnTheBirthright” [“Restituisci il diritto di nascita”], JVP sta lavorando per convincere ebrei dai 18 ai 26 anni, che possono essere scelti per un viaggio di 10 giorni gratis, a rifiutare l’allettante offerta.

Un “giuramento” sul suo sito web prende la forma di una petizione online in cui giovani ebrei dichiarano: “Non parteciperemo a un viaggio “Birthright” perché è fondamentalmente ingiusto che a noi venga concesso un viaggio gratis in Israele mentre i rifugiati palestinesi non possono tornare alle loro case. Ci rifiutiamo di essere complici di un viaggio di propaganda che maschera il razzismo sistematico e la quotidiana violenza che i palestinesi che vivono sotto un’occupazione senza fine devono affrontare. Il nostro ebraismo è fondato su valori di solidarietà e di liberazione, non di occupazione e di apartheid. Su queste basi restituiamo il “Birthright”, e chiediamo ad altri giovani ebrei di fare altrettanto.”

Birthright Israel” invia giovani adulti ebrei a fare un viaggio di dieci giorni in Israele con l’obiettivo di rafforzare l’identità ebraica e il rapporto con lo Stato ebraico. I viaggi sono finanziati attraverso una collaborazione tra lo Stato di Israele e un gruppo di donatori nordamericani. I primi finanziatori del progetto sono stati Michael Steinhardt e Charles Bronfman, ma negli ultimi anni Sheldon Adelson, miliardario delle case da gioco, grande donatore del partito Repubblicano e sostenitore del primo ministro Benjamin Netanyahu, ha inondato il progetto con 250 milioni di dollari, diventando il suo principale benefattore.

Ben Lorber, responsabile di JVP per i campus, ha affermato che la nuova campagna nazionale è sorta da un certo numero di iniziative contro “Birthright Israel” in singoli campus, che hanno suggerito al gruppo di estendere il movimento ai campus di tutto il Paese.

E’ una cosa di cui gli studenti ebrei stanno discutendo e che stanno facendo da tempo,” ha detto Lorber. “E’ un’ingiustizia fondamentale che a noi, in quanto giovani ebrei, venga offerta la possibilità di questi viaggi gratis e che possiamo diventare cittadini di Israele se in seguito lo decidiamo, mentre ai nostri amici e compagni di classe palestinesi viene negata la stessa relazione con la terra da cui provengono i loro genitori o i loro nonni.”

La campagna, ha aggiunto, è rivolta, oltre che agli studenti, ai giovani adulti ebrei che hanno terminato l’università che potrebbero star pensando a viaggiare con “Birthright”. Lorber, che ha quasi trent’anni, ha detto di aver deciso per parte sua di non viaggiare con “Birthright” negli anni in cui poteva essere scelto.

E’ stata una decisione cosciente. Ero molto contrariato dall’annuncio pubblicitario che mi diceva: ‘Guarda questo bel viaggio gratis, puoi andare in spiaggia, fare un’escursione a Masada, metterti in rapporto con la tua patria,’ mentre i palestinesi che conosco hanno parenti che sono stati bombardati a Gaza, e non possono visitare Gerusalemme.”

Per contro, il capo di un’altra organizzazione studentesca ebraica, “J Street U”, che si definisce “filo-israeliana, per la pace”, ha detto di non credere che i giovani ebrei debbano essere dissuasi dal viaggiare in Israele grazie a “Birthright”.

Ben Elkind, direttore di “J Street U”, afferma che per lui fare un viaggio con “Birthright” è stato “una parte importante del mio impegno riguardo a Israele e al più generale conflitto israelo-palestinese” e di credere che “sia importante incoraggiare gli studenti a impegnarsi piuttosto che a non impegnarsi” sulla questione.

Mi sento profondamente coinvolto nelle questioni e nelle preoccupazioni” espresse dalla campagna di JVP, dice. “Penso che (gente come) Adelson non sia stata una forza produttiva nelle politiche su questo problema, e ritengo che ci siano ragioni per essere veramente preoccupati per la mancanza di libertà di movimento a danno dei palestinesi. Ma non sono sicuro che la risposta debba essere il boicottaggio di “Birthright”. Penso che potenzialmente ci siano iniziative alternative più utili.”

Elkind dice che “andare con “Birthright” non significa che la gente ne esca con le posizioni politiche di Sheldon Adelson.”

A questo scopo “J Street U” incoraggia i propri membri a rimanere in Israele oltre il periodo di viaggio con “Birthright” e ad approfittare del crescente numero di “programmi integrativi” in cui chi rimane dopo il tour con “Birthright” risulta “più profondamente impegnato nelle politiche della Cisgiordania.”

Mentre Lorber concorda con il fatto che  sia “uno sviluppo positivo” che alcuni dei giovani ebrei che vanno con “Birthright” prolunghino il proprio soggiorno con programmi alternativi e si informino ulteriormente sul dramma dei palestinesi, egli crede comunque che sia meglio rifiutare del tutto il viaggio. “Per noi si torna all’ingiustizia fondamentale. Accettando questo viaggio, diventi complice delle relazioni pubbliche di “Birthright” e sei parte di un viaggio che i palestinesi non possono fare.”

Il “manifesto” della campagna approfondisce con ulteriori dettagli queste ragioni: “Fare un viaggio di “Birthright” oggi significa giocare un ruolo attivo nell’aiutare la promozione da parte dello Stato del ‘ritorno’ degli ebrei, respingendo il diritto al ritorno dei palestinesi. Non è sufficiente accettare quest’offerta del governo israeliano e conservare una prospettiva critica durante il viaggio. Rifiutiamo l’offerta di un viaggio gratis da parte di uno Stato che non ci rappresenta, un viaggio che è ‘gratis’ solo perché è stato pagato con la spoliazione dei palestinesi.”

Il manifesto “supplica” i giovani ebrei di stare lontani da “un viaggio sponsorizzato da donatori reazionari e dal governo israeliano, dove la continua oppressione e l’occupazione dei palestinesi vi verranno nascoste, solo perché è gratis. Ci sono altri modi per noi di rafforzare la nostra identità ebraica, insieme con quelli che condividono i nostri valori.”

JVP si definisce contraria al “fanatismo e all’oppressione contro ebrei, islamici e arabi” e “chiede la fine dell’occupazione israeliana in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme est; sicurezza ed autodeterminazione per israeliani e palestinesi; una soluzione giusta per i rifugiati palestinesi basata sui principi stabiliti dalle leggi internazionali; la fine delle violenze contro i civili; pace e giustizia per tutti i popoli del Medio Oriente.”

Il gruppo è stato frequentemente e duramente criticato dalla maggior parte della comunità ebreo-americana per la sua partecipazione attiva alla campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS). Secondo l’“Anti-Defamation League” [“Lega contro la Diffamazione”, potente gruppo filo-israeliano statunitense, ndt.] “Jewish Voice for Peace (JVP) è il maggiore e più influente gruppo ebraico anti-sionista negli USA. Nonostante il tono neutrale del suo nome, JVP lavora per dimostrare l’opposizione ebraica allo Stato di Israele e per allontanare l’appoggio dell’opinione pubblica dallo Stato ebraico.”

Birthright Israel” non ha risposto alla richiesta da parte di Haaretz di una replica.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 

 




“Fanculo, spazzate via Gaza”, dice un portavoce della nuova campagna UE

Ali Abunimah e Dena Shunra – 3 agosto 2017, Electronic Intifada

L’Unione Europea ha ingaggiato come volto di una nuova campagna promozionale un israeliano che invoca una violenza genocida contro i palestinesi.

Avishai Ivri compare in un video postato lo scorso mese dall’ambasciata dell’UE a Tel Aviv sulla sua pagina Facebook.

“L’Unione Europea. Pensate che sia contro Israele, vero?” Inizia a dire Ivri. “Lasciate che vi sorprenda.”

Ivri allora elenca statistiche sui rapporti commerciali e turistici, intese a convincere gli spettatori israeliani di quanto l’Unione Europea favorisca Israele. Ha anche vantato che l’UE è un acquirente dell’industria bellica di Israele, sopratutto droni.

L’UE “è il miglior vicino che abbiamo,” ha concluso Ivri.

Appoggio il genocidio

Ivri era un autore di “Latma”, un spettacolo di sketch ormai terminato che rifletteva punti di vista di estrema destra e razzisti, come raffigurare migranti e rifugiati dai Paesi africani come scimmie.

Ma questa è solo la punta dell’iceberg.

Durante l’attacco israeliano del novembre 2012 che uccise 174 palestinesi [si riferisce all’operazione “Pilastro di difesa”, ndt.], Ivri auspicò che fosse ancora più violento.

“C’è una strategia che non è ancora stata sperimentata; 1.000 arabi uccisi per ognuno dei nostri morti,” twittò. “Penso che dalla scorsa settimana siano in debito con noi di 5.000 [morti].”

Durante lo stesso attacco Ivri raccomandò: “Fanculo, spazzate via Gaza.”

Ivri è un convinto sostenitore della soluzione dello Stato unico, ma in cui palestinesi e israeliani non avrebbero gli stessi diritti. Al contrario, appoggia l’eliminazione dei palestinesi come intero popolo – un obiettivo che corrisponde alla definizione del diritto internazionale di pulizia etnica e probabilmente di vero e proprio genocidio.

Nel gennaio 2013 Ivri ha twittato che “Giudea e Samaria” – il nome che Israele utilizza per la Cisgiordania occupata – “possono sempre essere annesse, punto e basta.” Se i palestinesi oppongono resistenza, avverte, “saranno portati via, su camion. La forza è sempre un’opzione, ma preferiamo una soluzione concordata (ma sennò, la forza).”

“Non esiste una cosa come una nazione palestinese e sicuramente non ha interesse in uno Stato,” a twittato in febbraio.

“Nello Stato di Israele a 500 anni da oggi nessuno ricorderà che ci fosse una cosa chiamata palestinesi, ” ha twittato in maggio.

“I palestinesi sono una Nazione?” chiese nel 2012, prima di rispondersi: “Sono merda.”

Ivri vede i continui attacchi israeliani contro i palestinesi come la possibilità per Israele di mettere in atto il suo progetto violento teso ad eliminare la Palestina.

Durante l’attacco israeliano dell’estato 2014 contro Gaza che ha ucciso più di 2.200 palestinesi [si riferisce all’operazione “Margine protettivo”, ndt.], compresi 550 bambini, Ivri ha invocato la conquista totale del territorio costiero – così come della Cisgiordania.

Ivri ha twittato: “In 10 anni, quando Israele sarà il potere sovrano sia a Gaza che in Giudea e Samaria, ci domanderemo a cosa abbiamo pensato per 30 (o 60) anni e perché non lo abbiamo fatto parecchi anni fa.”

“Nessuno governerà Gaza per Israele. Solo Israele lo può fare,” ha twittato durante lo stesso attacco israeliano, aggiungendo che “i giorni al potere” del capo dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas “sono contati, e dopo che se ne sarà andato Israele governerà anche sulla Giudea e Samaria.”

Durante l’attacco Ivri ha anche diffuso un articolo in cui sosteneva che Israele sarebbe stato giustificato se avesse tagliato le forniture idriche ed elettriche a Gaza – cosa che è stata fatta, violando le leggi internazionali.

Disumanizzare i palestinesi

Ivri giustifica questo tipo di violenza che sostiene lo sterminio con la demonizzazione e disumanizzazione totale delle vittime del regime di occupazione e di apartheid israeliano. Ironicamente, a volte riconosce l’esistenza dei palestinesi unicamente per individuarli come demoni.

“I palestinesi sono gli eredi dei nazisti,” ha twittato nel maggio 2016, aggiungendo che la bamdiera palestinese “significa una sola cosa = un appello per uccidere ebrei, ovunque siano.”

Questo è stato un argomento costante. Nell’ottobre 2014 ha offerto una “sintesi: i palestinesi sono nazisti.”

Non hanno ancora costruito camere a gas,” ha affermato, perché “la cosa più moderna che hanno avuto a disposizione sono ordigni esplosivi artigianali. Ma sono assolutamente nazisti.”

Durante l’attacco del 2014 contro Gaza, ha twittato che “Hamas è nazista. Non come loro, non approssimativamente, non qualcosa di simile. Nazisti.”

Nell’ottobre 2015, quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha provocato uno scandalo internazionale assolvendo Hitler dall’ideazione dello sterminio di milioni di ebrei europei e accusando invece un palestinesi [il Gran Muftì di Gerusalemme, ndt.], Ivri ha detto la sua appoggiandolo palesemente.

“I palestinesi si sono offerti volontari per aiutare Hitler,” ha affermato Ivri. “E’ una cosa ben nota.”

Di norma, ci si aspetterebbe che la UE rifiutasse paragoni gratuiti di altri avvenimenti con il genocidio nazista. Ma a quanto pare ciò va bene purché il bersaglio siano i palestinesi.

L’istigazione di Ivri non prende di mira solo i palestinesi nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Odia anche i palestinesi cittadini di Israele, riferendosi ai beduini come a una “bomba ad orologeria”.

Si fa anche promotore della discriminazione razziale nelle assunzioni: “Un datore di lavoro non può sapere se i suoi dipendenti potenziali sono coinvolti nel terrorismo. Cosa dovrebbe fare? Chiaramente non vorrebbe assumere per niente arabi. Mettetevi per un attimo nei suoi panni.”

Sostegno a favore di crimini di guerra

Il sostegno di Ivri a favore di crimini di guerra contro palestinesi è costante e disinvolto. Quando nel marzo 2016 Elor Azarya ha giustiziato a sangue freddo il palestinese ferito e impossibilitato a nuocere Abd al-Fattah Yusri al-Sharif – un omicidio per cui al medico dell’esercito è stato comunque data una lieve condanna – Ivri l’ha approvato.

“Un esercito veramente etico si assicura che i terroristi siano morti,” ha twittato.

Dal 2016, Israele ha incrementato la sua campagna contro i difensori dei diritti umani. Persino l’UE ha cercato di sollevare una timida protesta contro la cosiddetta legge israeliana della “trasparenza”, che inasprisce i controlli sui gruppi per i diritti umani che ricevono finanziamenti dai governi europei.

Ivri si è unito agli attacchi senza sosta del governo israeliano contro i gruppi, compreso l’israeliano B’Tselem, che documentano soprusi contro i palestinesi.

Lo scorso dicembre ha twittato che “B’Tselem e il resto delle organizzazioni europee operanti in Israele sono un’ulteriore arma nell’arsenale degli odiatori degli ebrei e di Israele nel mondo.”

L’UE promuove l’odio

Una richiesta via mail di “The Electronic Intifada” all’ambasciata UE di Tel Aviv includeva una domanda su quanto denaro dei contribuenti europei abbia ricevuto come compenso Ivri per il video.

L’ambasciata non ha risposto a questa domanda né alle altre sul costante incitamento di Ivri al razzismo ed alla violenza, compresi crimini di guerra.

Ma in precedenza l’ambasciatore dell’UE a Tel Aviv non ha fatto segreto del suo punto di vista estremista a favore di Israele.

In una lettera aperta che riflette sull’imminente fine dei suoi quattro anni come ambasciatore, Lars Faaborg-Andersen ha ricordato che da giovane negli anni ’70 passò un periodo in un kibbutz – una forma di colonia sionista che giocò un ruolo cruciale nella pulizia etnica dei palestinesi, ma che godette di una rosea reputazione progressista tra occidentali ingenui o complici [del sionismo].

“In quei giorni giovani europei e americani affluivano in Israele per partecipare all’esperimento dei kibbutz socialisti e dimostrare la propria solidarietà con David nella sua lotta per la sopravvivenza contro i Golia arabi che lo circondavano, ” ha scritto Faaborg-Andersen, facendo rispuntare la mitologia sionista che toglie di mezzo la Nakba, l’espulsione da parte di Israele della grande maggioranza della popolazione palestinese nel 1948, così come la successiva occupazione e colonizzazione della terra palestinese.

Durante il suo incarico come ambasciatore, Faaborg-Andersen e i suoi colleghi dell’UE hanno fatto tutto il possibile per promuovere la guerra di Israele contro la lotta palestinese per la sopravvivenza e la libertà, compreso il finanziamento dell’industria bellica e i torturatori israeliani, partecipando agli attacchi di Israele contro il movimento nonviolento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni e continuando ad essere pienamente complici del brutale assedio israeliano contro Gaza.

L’ambasciata dell’UE a Tel Aviv ha anche svolto il ruolo di campo di addestramento per membri della lobby di Israele a Bruxelles.

Ma sicuramente il risultato personale più vergognoso di Faaborg-Andersen sarà di essersi calato nella parte di aperto sostenitore della violenza genocida come il volto dell’Unione Europea e dei suoi molto strombazzati “valori”.

Ofer Neiman ha contribuito alla ricerca.

Ali Abunimah è direttore esecutivo di Electronic Intifada. Dena Shunra è traduttrice ed autrice.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Giornalisti del NYT, della Reuter e dell’Economist autocensurano i propri articoli da Israele in modo da non essere “brutalmente presi di mira”- John Lyons

Philip Weiss – 26 luglio 2017,Mondoweiss

Negli USA la lobby israeliana viene citata di rado in modo critico sui media più importanti. Ma controllate questo brano del programma politico ” Drum ” [“Tamburo” in inglese] della ABC australiana di due giorni fa: i corrispondenti, veterani del Medio Oriente, Antony Loewenstein e John Lyons descrivono le incessanti pressioni da parte di Israele e della sua lobby su giornalisti che sono critici nei confronti di Israele.

La conduttrice del programma Ellen Fanning ha notato che nel nuovo libro di Lyons (“Balcony Over Jerusalem: A Middle East Memoir” [ “Balcone su Gerusalemme: ricordi del Medio Oriente”]) egli ricorda di essersi incontrato con un importante corrispondente dell’agenzia di stampa France-Presse e di avergli chiesto: “Quanti corrispondenti dall’estero si autocensurano? “

Lyons:

“Ha risposto: ‘Tutti’, e lui è uno dei più duri capi redazione in circolazione. Come parte del libro ho intervistato The New York Times, the Economist, Reuters, AFP, ed ho scoperto una caratteristica comune. La Reuters [agenzia di stampa inglese, ndt.] ha persino proprie parole specifiche che si possono utilizzare per non far arrabbiare gli israeliani. Sono andato là con l’idea che se fossi stato a Washington e a New York avrei raccontato quello che vedevo. Ma ogni volta che avessi voluto parlare di colonie, qualcosa di reale, sarei stato preso di mira, in quanto giornalista.”

“Se racconti la verità su quello che vedi davanti a te in Israele e in Cisgiordania, sarai brutalmente preso di mira.”

Lyons è un giornalista di grande esperienza. E’ stato corrispondente per sei anni da Gerusalemme per “The Australian” [principale quotidiano australiano, ndt.] ed ora è co- direttore editoriale del giornale.

Gli attacchi non vengono solo da Israele, ma dalla lobby filo-israeliana globale. Lyons:

“Beh, nel libro ho scritto un capitolo intitolato ‘La lobby”, che riguarda essenzialmente la lobby australiana, prende in considerazione i numerosi viaggi che ogni sorta di politici e giornalisti e tutti quanti fanno. Incessanti carovane che attraversano Gerusalemme, che è una parte ridotta di ciò…Ma posso dire…in base alla mia esperienza personale nell’ “Autralian”, che è un giornale molto filo-israeliano, eppure i miei direttori, la pressione su di loro, di cui hanno parlato per il libro – la pressione c’è, è chiaro che non sono contenti di quello che hai fatto, e delle infinite lamentele –

Due o tre anni fa ho fatto un reportage per “Four Corners” [“Quattro angoli”, importante programma televisivo australiano di attualità politica, ndt.]. E allora ho dovuto difenderlo per mesi e mesi. Alla fine ci siamo difesi da ogni obiezione…Ancor prima che “Four Corners” andasse in onda, uno dei gruppi di Melbourne ha fatto circolare: ‘Questo è il link per le proteste, clicca qui, e invia una protesta automatica alla ABC’.”

Per cui i viaggi sono solo la parte “delicata” di ciò!”

Ecco il reportage di “Four Corners” del 2014: documenta il fatto che l’esercito israeliano stava prendendo di mira ragazzini palestinesi per arrestarli e incarcerarli e “minacciando i bambini di violentarli”, nel tentativo di rendere insopportabile la vita ai palestinesi in Cisgiordania. Queste pratiche ovviamente non sono terminate ( e ricordate che su “60 minuti” [programma televisivo statunitense di notizie della CBS, ndt.] cinque anni fa il defunto Bob Simon [giornalista americano della rete televisiva CBS, ndt.] ha protestato contro Michael Oren [politico, diplomatico, scrittore e storico israeliano nato negli USA, dirigente del partito centrista “Kulanu”, ndt.] perché si era rivolto ai suoi superiori nel tentativo di interferire sul suo reportage a proposito dei cristiani che lasciano la Palestina).

Anche Antony Loewenstein è un giornalista con molta esperienza. Ha pubblicato vari libri sulla Palestina e su altre questioni internazionali, e recentemente ha concluso una missione di un anno e mezzo a Gerusalemme.

Egli afferma:

“Quello che dice John è vero. Ho scritto di questo per 15 anni. Il modo in cui spesso funziona è che un giornalista che è critico – ebreo, non-ebreo, musulmano, palestinese, cristiano, qualunque cosa sia – se è critico contro le colonie, contro l’occupazione, contro il governo israeliano, contro il modo in cui la lobby israeliana in Australia, secondo me in modo dannoso e disonesto, fa pressione sul sistema dei media, ABC ed altri, e sui governi, sarà preso di mira in privato e in pubblico.”

Cosa dire della lobby palestinese? Chiede Fanning. Loewenstein:

“Esiste una lobby, è ridotta ma in crescita. Ha influenza ma è relativamente insignificante. E’ più che altro il modo in cui penso funzioni il potere politico in questo Paese.

Chiunque passi del tempo in Israele o in Cisgiordania o a Gaza, che, come dice John, sono state occupate per 50 anni…Secondo me ora è permanente. Ci dobbiamo chiedere perché così tanta gente nei media e nelle elite politiche rifiuta di parlare della realtà. Un’occupazione permanente è un orrore…

Occorre essere molto più sinceri con i nostri politici ed essere giornalisti che non cedono alle intimidazioni della lobby israeliana, cosa che succede continuamente.”

Però Loewenstein in seguito osserva che l’opinione pubblica si è spostata in modo evidente, nonostante i media siano decisamente a favore di Israele.

E conclude:

“La lobby ha il diritto di esistere. La questione è che gruppi come AIJAC (Australia/Israel & Jewish Affairs Council [Consiglio Australia/Israele e delle questioni ebraiche]) sono così bellicosi e di estrema destra, stanno appoggiando le politiche del governo israeliano che sono a favore delle colonie, dell’occupazione, anti-arabe e profondamente razziste.”

La lobby israeliana in Australia ha già attaccato Loewenstein per i suoi commenti durante il programma.

Non c’è neanche bisogno di dire che la lobby israeliana continuerà ad esercitare un potere spropositato finché giornalisti e politici si rifiuteranno di parlarne apertamente. Cosa che non sta succedendo negli USA.

Grazie ad Ofer Neiman [probabilmente si tratta di uno dei leader del movimento BDS israeliano “Boycott from Within”, “Boicottaggio dall’interno”, ndt.]

(traduzione di Amedeo Rossi)




Coloni israeliani tentano di prendere il controllo di una casa palestinese ad Hebron

25 luglio 2017 Ma’an News

Hebron (Ma’an) – Secondo quanto raccontato a Ma’an da alcuni residenti, martedì sera decine di coloni israeliani hanno fatto irruzione in una casa palestinese nei pressi della moschea di Ibrahim [“Tomba dei Patriarchi” nella denominazione israeliana, ndt.] nella città di Hebron, nella zona meridionale della Cisgiordania, nel tentativo di prendere il controllo dell’edificio.

Gli abitanti della casa della famiglia Abu Rajab sono stati coinvolti per anni in una disputa giuridica con coloni israeliani, dopo che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato la propria intenzione di incoraggiarvi la fondazione di una nuova colonia israeliana illegale, con il nome di “Beit Hamachpela.”

Tuttavia le autorità israeliane non hanno concesso l’autorizzazione di costruire la colonia sulla base del fatto che i coloni non sono stati in grado di dimostrare il presunto acquisto della casa palestinese, in quanto i palestinesi li hanno accusati di aver falsificato i documenti.

Hazem Abu Rajab al-Tamimi, un abitante della casa, ha affermato che più di 50 coloni hanno fatto irruzione nella casa e che i soldati israeliani li hanno aiutati durante l’incursione.

Al-Tamimi ha detto a Ma’an che i soldati israeliani e le guardie di frontiera sono state schierate davanti alla casa durante le scorse 48 ore prima di consentire alla fine ai coloni di farvi irruzione martedì.

In risposta ad una richiesta di fare un commento, una portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Ma’an che decine di israeliani sono entrati “in un piccolo edificio” adiacente alla moschea, ma ha negato che i soldati fossero presenti durante l’incursione dei coloni.

Ha detto che le forze israeliane sono arrivate sul luogo dopo che ciò era avvenuto ed erano attualmente presenti nella zona alle 21,30 circa.

“Al momento non c’è la decisione di farli sloggiare,” ha detto la portavoce, ed ha sottolineato che la situazione era in evoluzione.

Mercoledì mattina l’esercito israeliano ha detto a Ma’an che la casa era stata dichiarata zona militare chiusa, ma non ha potuto confermare se i coloni erano stati espulsi dall’edificio oppure no.

I coloni israeliani hanno sostenuto di aver comprato la casa dai proprietari, tuttavia i proprietari palestinesi hanno citato in giudizio i coloni israeliani e li hanno accusati di aver falsificato i documenti nel tentativo di impossessarsi della casa.

La casa della famiglia Abu Rajab è costituita da tre piani. Al-Tamimi ha detto che, in seguito al caso in corso relativo alla casa, il tribunale israeliano ha deciso che nessuno possa entrare al secondo e al terzo piano dell’edificio finché non verrà stabilita una decisione del tribunale.

Ha affermato che il tribunale ha anche deciso di mettere la casa sotto la “protezione” dell’esercito israeliano e dell’Amministrazione Civile [il governo militare nei territori palestinesi occupati, ndt.] israeliana.

L’Ong e osservatorio sulle colonie israeliano “Peace Now” ha rilasciato una dichiarazione in cui conferma che circa 15 famiglie di coloni sono entrate nella casa senza autorizzazione.

“La lunga controversia legale su chi sia il proprietario non è ancora arrivata alla fine, ma ciò non ha impedito ai coloni di invaderla oggi,” afferma il comunicato.

“Peace Now” ha spiegato che la commissione del registro dell’Amministrazione Civile israeliana ha rigettato le affermazioni dei coloni di averla acquistata, e i coloni che hanno impugnato la decisione stavano aspettando di comparire di nuovo davanti alla commissione.

“Finora i coloni non sono stati in grado di dimostrare la proprietà e i palestinesi sostengono che non è stata acquistata. Oltretutto i coloni rivendicano solo una proprietà parziale dell’immobile. Inoltre, anche se alla fine i coloni provassero di avere la proprietà, ciò non rappresenterebbe una ragione sufficiente per fondare un nuovo insediamento nel cuore della città palestinese di Hebron” afferma “Peace Now”.

La dichiarazione continua: “La fondazione di un nuovo insediamento a Beit HaMachpela ostacolerebbe seriamente la libertà di movimento dei palestinesi e si aggiungerebbe alla crescente tensione nella zona.”

“Chiediamo che il governo ordini l’immediata evacuazione dei coloni che hanno invaso Beit HaMachpela. Dopo che le loro pretese di proprietà sono state rigettate, i coloni hanno deciso di farsi giustizia da soli e di costituire una colonia illegale che potrebbe incendiare la regione. Chiediamo al Primo Ministro e al Ministro della Difesa di rispettare la legge e gli interessi israeliani e di evacuare senza indugio gli intrusi.”

Situata nel centro di Hebron – una delle maggiori città della Cisgiordania occupata – la Città Vecchia è stata divisa tra zone sotto controllo palestinese e sotto il controllo israeliano, note come H1 e H2, in seguito al massacro della moschea di Ibrahim [nel 1994 un colono israeliano entrò nella moschea vestito da soldato ed uccise 29 palestinesi in preghiera prima di essere linciato dalla folla, ndt.].

Circa 800 coloni israeliani notoriamente molto aggressivi vivono ora sotto la protezione dell’esercito israeliano nella Città Vecchia, circondati da più di 30.000 palestinesi.

I residenti palestinesi della Città Vecchia devono fare i conti quotidianamente con una massiccia presenza di militari israeliani, con almeno 20 check point situati alle entrate di molte strade, così come della stessa moschea di Ibrahim.

(traduzione di Amedeo Rossi)