L’alfabeto di Oslo, linguaggio della colonizzazione

Professor Kamel Hawwash –Middle East Monitor

Sabato 23 gennaio 2016

Le prime tre lettere dell’alfabeto, A, B e C, sono diventate il marchio dell’occupazione e della strisciante colonizzazione della Palestina da parte di Israele. Le linee che delimitano queste aree sono state tracciate negli accordi di Oslo II firmati a Taba nel 1995. Dividono la Cisgiordania in tre zone, con Israele e la Palestina che beneficiano di differenti livelli di diritti amministrativi e relativi alla sicurezza in ognuna di queste.

L’area che copre tutte le città della Cisgiordania e la maggior parte della popolazione palestinese è stata etichettata come A, con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che gode del controllo “integrale”, sia amministrativo che per quanto riguarda la sicurezza. L’area B include vaste zone rurali con l’ANP che ha diritto solo al controllo amministrativo. Il rimanente 60% è stato denominato area C e ricade sotto il totale controllo israeliano, tranne per quello che riguarda i servizi educativi e quelli medici. Significativamente, Israele controlla tutte le questioni relative alla terra, comprese l’assegnazione e le pratiche per la costruzione sia di strutture private che di infrastrutture.

Per completare il quadro del controllo coloniale che Israele esercita sulla Cisgiordania, bisogna aggiungere l’impatto del Muro o Barriera, che Israele ha costruito dopo gli accordi di Oslo e le strade che servono alle colonie, molte delle quali possono solo essere utilizzate dai coloni, nella versione israeliana dell’apartheid.

E’ importante capire che le aree A, B e C non sono tre zone geografiche separate che sono facilmente identificabili, ma piuttosto una divisione amministrativa definita in pratica da Israele per perseguire i propri progetti espansionistici e coloniali. Basta fare un passo fuori dalle città palestinesi e ci si trova quasi sicuramente nell’area C e quindi sotto il totale controllo israeliano. L’area C è abitata da un numero stimato di 300.000 palestinesi, che vivono per lo più in piccoli villaggi e comunità, e di 350.000 coloni israeliani, che vivono in 135 insediamenti e 100 avamposti. Una parte delle terre palestinesi più fertili si trova nella valle del Giordano, che rientra nell’area C.

I 22 anni da Oslo e gli inutili negoziati per raggiungere un accordo finale sono passati con Israele che non ha rispettato neppure questa vergognosa divisione della Cisgiordania. Ogni pretesa di una zona palestinese libera dalle ingerenze israeliane è un mito.

Questa è la terza Intifada?

Le crescenti tensioni nei Territori Occupati hanno portato a dozzine di morti e a centinaia di scontri. Stiamo assistendo ad una terza Intifada?

Prendiamo l’area A, che include tutte le città palestinesi. L’ANP è responsabile della sicurezza e pertanto si potrebbe presumere che le forze di occupazione israeliane non possano entrarvi in nessun caso. Tuttavia si tratta di un mito. Le forze [di sicurezza] israeliane entrano regolarmente a Ramallah, Nablus, Hebron e Jenin per arrestare, ferire e mutilare. Hanno rapito membri del parlamento [palestinese], compreso la sua presidentessa e deputata del FPLP [Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, gruppo politico palestinese di sinistra. Ndtr.] Khalida Jarrar. Più di recente, il primo ministro israeliano Netanyahu ha detto di aver chiamato il presidente dell’ANP Abbas per scusarsi perché le forze di occupazione israeliane hanno condotto attività nei pressi della sua casa e si sono scontrate con la sua guardia presidenziale. Al tempo stesso, le forze di sicurezza palestinesi non possono arrestare nessun colono israeliano che abbia commesso violenze in qualunque parte della Cisgiordania e ogni colono che si sia casualmente avventurato nell’area A è stato rapidamente messo al sicuro e consegnato alle forze di occupazione.

Nell’area C le attività di colonizzazione di Israele abbondano, in quanto gode del controllo sia amministrativo che per la sicurezza. Qui la messa in pratica di alcune norme per i palestinesi e di altre per le colonie illegali è più evidente. I palestinesi non possono costruire, ampliare o migliorare le proprie case o le proprie attività senza l’interferenza da parte di Israele, che è spesso violenta. Il rifiuto praticamente certo da parte di Israele della concessione di autorizzazioni per la costruzione di case, scuole, strutture commerciali e agricole non lascia ai palestinesi altra possibilità che costruire senza permessi. Il risultato quasi inevitabile è la demolizione. L’ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha descritto come 5.000 palestinesi dell’area C vivono nelle denominate “zone di fuoco” e si prevede che lascino le loro case per ore o giorni durante le esercitazioni militari israeliane. L’OCHA inoltre descrive la terribile situazione dei beduini, continuamente soggetti alla minaccia di deportazione dalle loro terre contro la loro volontà.

Anche altre comunità, oltre ai beduini, hanno ripetutamente subito la minaccia di ricollocamento. Un esempio particolarmente chiaro è stato quello della comunità di Susyia, sulle colline di Hebron, i cui membri hanno affrontato tre deportazioni in tre decenni per permettere che una colonia, che ha praticamente lo stesso nome, si installasse e poi che si espandesse.

In anni recenti, un certo numero di politici israeliani che si oppongono radicalmente all’esistenza di uno Stato palestinese hanno invocato l’annessione di ampie zone, se non di tutta l’area C. L’attuale ministro dell’Educazione, Naftali Bennet, ha persino chiesto che ai 300.000 palestinesi che vi vivono venga concessa la nazionalità israeliana. Pensa che il fatto che i rimanenti palestinesi della Cisgiordania potrebbero gestire i propri affari e una piena indipendenza sarebbe impossibile. Altri politici israeliani non sono magari stati altrettanto espliciti come Bennet nel chiedere l’annessione di aree della Cisgiordania, tuttavia è ora difficile trovarne uno che sostenga una onesta soluzione dei due Stati che porti ai palestinesi una qualche speranza della fine dell’occupazione.

Più di recente, il Coordinatore Israeliano delle Attività di Governo nei Territori (COGAT) ha annunciato che intende confiscare 370 acri [149 ettari. Ndtr.] di terra nel distretto di Gerico, dichiarandoli “terra dello Stato”. Questo tipo di iniziative rende la designazione di un lotto di terreno come A, B o C totalmente insensato. Israele agisce con totale impunità. Se decide di dichiarare la sede dell’Autorità Nazionale Palestinese a Ramallah zona militare chiusa o zona di fuoco, chi lo più impedire?

A Oslo i negoziatori palestinesi non solo hanno accettato di riconoscere Israele senza un concomitante riconoscimento della Palestina, hanno anche concordato l’ulteriore spartizione in queste tre aree del 22% di quella che hanno accettato come “Palestina”. La realtà è stata che palestinesi e coloni hanno vissuto in tutte e tre le aree e che Israele ha utilizzato questa designazione perché si adattasse ai propri piani. Gli accordi di Oslo sono stati pensati come temporanei, dovevano portare a un accordo negoziale entro cinque anni. A fronte di ciò, i negoziatori palestinesi devono aver pensato che tutte e tre le aree sarebbero state restituite alla fine dei cinque anni, libere di coloni, per far parte dello Stato funzionante e con continuità territoriale che loro avevano sognato. Tuttavia, 22 anni dopo, non è stato raggiunto nessun accordo e in pratica Israele ha quotidianamente violato l’accordo provvisorio indistintamente nelle aree A, B e C. Questa denominazione è diventata un ulteriore ostacolo per la pace e non cambierà rapidamente senza una pressione esterna. Perché si ottenga la pace in terra santa, devono essere esercitate su Israele chiare e non ambigue pressioni per porre fine all’occupazione, spedendo l’alfabeto della colonizzazione nella pattumiera della storia.

Il professor Kamel Hawwash è un docente universitario anglo-palestinese in ingegneria presso l’università di Birmingham. E’ un commentatore di questioni mediorientali e vice presidente della campagna di solidarietà con la Palestina. Qui ha scritto a titolo personale.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 7

di Belal Shobaki

Maannews .  da Al-Shabaka

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la settima parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questo pezzo è stato scritto da Belal Shobaki, assistente e professore nel Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Hebron, Palestina e membro dell’Associazione americana di studi politici

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L’attuale movimento popolare rende ancora più urgente che i partiti politici abbandonino i propri interessi e contribuiscano alla crescita della partecipazione della società civile. Fatah e Hamas hanno un’occasione d’oro per attivarsi al di là delle loro preoccupazioni riguardo alle questioni istituzionali della gestione dell’Autorità nazionale palestinese e per agire in modo consono alla loro identità di movimenti di liberazione sotto occupazione. Tutte le fazioni dovrebbero unirsi nel proporre un programma nazionale che faccia a meno di Oslo e delle strutture istituzionali che rendono inefficace la lotta dei palestinesi. Possono usare la loro struttura mediatica per ricostruire una cultura politica, economica e sociale che sostenga la sollevazione piuttosto che per opporsi uno all’altro e mobilitarsi per la propria fazione. Ciò comporterebbe un mutamento nelle tranquille abitudini consumistiche dei palestinesi specie in Cisgiordania.

Fatah potrebbe trovarsi in difficoltà ad agire in tal modo, dato che si identifica con le istituzioni dell’Autorità nazionale palestinese. Tuttavia, Fatah avrebbe ancora di più da perdere se non riuscisse a cambiare [atteggiamento]. L’umore complessivo dell’opinione pubblica palestinese, compreso l’elettorato di Fatah, dissente completamente dal pensiero della dirigenza politica secondo cui gli attuali avvenimenti sono solamente “un’ondata di rabbia” che può essere controllata dalle forze di sicurezza e sfruttata per riprendere i negoziati con Israele. L’incapacità delle fazioni palestinesi a mobilitarsi per un aperto scontro contro l’occupazione mentre la sollevazione dei giovani continua produrrà senza dubbio dei dirigenti sul campo che saranno più capaci di dirigere gli avvenimenti rispetto a quelli che siedono nei loro uffici. Ciò porterà a una divaricazione ancora più ampia tra le forze che stanno agendo senza condizionamenti, vincoli di appartenenza e burocrati governativi.

Un simile movimento dovrebbe guardare al di là dell’alternativa tra Fatah e Hamas. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e la Jihad islamica potrebbero promuovere cortei e manifestazioni di grande impatto contro l’occupazione. Entrambi godono del rispetto del popolo palestinese e sono più liberi di Hamas, che in Cisgiordania è stato oggetto di una campagna di repressione sia da parte di Israele che dell’ANP. Queste due organizzazioni potrebbero lavorare con altre fazioni per sostenere un confronto aperto con l’occupazione israeliana e prendere l’iniziativa per la formazione di comitati di coordinamento per gestire la sollevazione. Questi comitati dovrebbero evolvere in seguito in una dirigenza condivisa che successivamente aderirebbe all’OLP come parte del programma per riformare l’organizzazione.

Tuttavia, creare una nuova area [politica] è condizionata rispetto al superamento della passata esperienza e in particolare della formula di Oslo per una soluzione a due Stati. Coloro che attualmente hanno il monopolio delle istituzioni politiche palestinesi sono gli stessi che sostengono ancora questa ipotesi. Se l’opinione pubblica trasforma la sollevazione in un rifiuto di Oslo, oltre alla lotta contro l’occupazione, o emergeranno nuovi dirigenti che perseguiranno nuove alternative oppure gli attuali dirigenti si sentiranno obbligati a cambiare il loro comportamento a parole e nella prassi politica.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 3

di Nijmeh Ali

da Al-Shabaka Ma’an News

La gioventù palestinese che è scesa nelle strade sta dando inizio ad un’importante fase nella risposta all’occupazione israeliana e all’ingiustizia, indicando il ruolo significativo che la generazione dei più giovani potrebbe svolgere, sostituendo l’attuale leadership.

Tuttavia rimane un problema: la nuova generazione è in grado di spostare la rivolta o l’ondata di rabbia dalle strade agli ambiti politici o diplomatici? Il problema sta nel fallimento della rivolta contro le tradizionali leadership palestinesi di Fatah, di Hamas e della sinistra: è questo ciò che occorre per trasformare lo spirito della rivoluzione in risultati diplomatici e politici.

I partiti politici palestinesi si comportano normalmente come i partiti di tutto il mondo: valutano i vantaggi politici che possono ricavare da questa ondata di rabbia, in termini di ripresa dei negoziati con Israele. Non agiscono come partiti rivoluzionari che combattono una lotta di liberazione, e non sono in linea con sentire popolare. Così, i partiti erigono ostacoli piuttosto che appoggiare la rivolta dei giovani o qualunque altra azione al di fuori della cornice istituzionale prestabilita, come i gruppi armati delle fazioni. Le azioni incontrollate non avvantaggiano i partiti politici, perché (i partiti) non possono dirigerle.

La questione non è creare un nuovo spazio all’interno o all’esterno dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Sta anche nel cambiare il comportamento politico dei palestinesi come popolo subordinato agli attuali apparati politici. E’ indispensabile superare le strette affiliazioni di parte che hanno rafforzato la divisione interna tra palestinesi ed indebolito l’OLP. L’ondata di rabbia popolare è un’aperta ribellione contro tali strette affiliazioni ed è un’espressione della necessità di rafforzare il livello nazionale in quanto opposto alle affiliazioni di parte.

Tuttavia, data la realtà esistente e la crescente divisione tra fazioni, sarebbe stato più opportuno che i giovani si fossero ribellati contro l’attuale leadership politica e l’avessero rimpiazzata con leader più giovani che avessero energia politica, credibilità e vigore.

I leader locali non sono mai stati isolati dalla loro leadership centrale: Fatah e Hamas, per esempio, sono movimenti politici di massa piuttosto che partiti politici in senso tradizionale. Perciò non ci si deve prospettare uno scenario in cui potrebbe emergere un movimento popolare indipendente, anche se possono essere istituiti dei comitati popolari, come successe nella prima intifada. Vale la pena di notare che la leadership nazionale unificata di quell’intifada era stata formata da attori politici che perseguivano obbiettivi politici comuni ed una visione incentrata sulla fine dell’occupazione come tappa fondamentale verso la liberazione.

In breve, abbiamo bisogno di una primavera palestinese all’interno dei partiti, piuttosto che di strutture politiche alternative che rafforzerebbero la divisione e la miope partigianeria. In assenza di una ribellione dei giovani all’interno dei partiti politici palestinesi, nessuna rivolta otterrà un reale cambiamento politico. I sacrifici del popolo palestinese andranno sprecati, aumentando la frustrazione ed il senso di impotenza. Sarebbe davvero preoccupante se questa frustrazione sopprimesse lentamente la fiducia dei palestinesi nella loro capacità di liberarsi.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. L’intera versione è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

Traduzione di Cristiana Cavagna




I residenti di Gerusalemme est sentono di non avere più niente da perdere

Anche quando non sono d’accordo con chi lancia pietre, i palestinesi di Gerusalemme est dicono che la loro esistenza è costantemente minacciata.

di Amira Hass

Haaretz

Rami ha ottenuto la cittadinanza israeliana due anni fa. E’ uno studente nel mezzo dei suoi vent’anni, nato e abitante a Gerusalemme est. Avverso al lancio delle pietre, ha intrapreso una cosciente e autonoma scelta di “israelizzazione” fin dalla scuola superiore.

Rami (non è il suo vero nome) è arrivato alla conclusione che non sarebbe andato avanti nella vita senza imparare l’ebraico, familiarizzare con la cultura ebraica e addirittura farsi degli amici ebrei, e proseguire gli studi e cercare opportunità di lavoro attraverso le istituzioni israeliane. Ha inoltrato due richieste di cittadinanza al Ministero dell’Interno, che le ha respinte entrambe. Solo dopo aver pagato ad un avvocato una cospicua cifra che lo ha indebitato, ha ottenuto la cittadinanza.

Non è patriottismo israeliano ciò che ha motivato Rami a diventare cittadino. Come tanti palestinesi di Gerusalemme che sono riusciti o hanno provato ad ottenere la cittadinanza israeliana, lo ha fatto per poter studiare e vivere all’estero senza il timore di non ricevere il permesso di ritornare alla sua città e alla sua casa. “La nostra esistenza a Gerusalemme è costantemente minacciata”, dice Rami, che si definisce un arabo di Gerusalemme, piuttosto che un palestinese.

Variazioni su questo tema emergono in ogni conversazione con residenti di Gerusalemme est, specialmente nel corso degli attuali ben noti scontri tra polizia e giovani. Giorno e notte, ogni palestinese di Gerusalemme vive e respira il desiderio degli israeliani, che si percepiscono nelle politiche dello Stato, che loro lascino la città e se ne vadano all’estero o a Ramallah. In quanto residenti ma non cittadini, sono soggetti alle leggi di ingresso israeliane – come se avessero chiesto di andare là e non fossero stati annessi. La residenza fuori città – per studio, lavoro o soggiorno in Cisgiordania – li mette a rischio di perdere lo status di residenti di Gerusalemme ed essere espulsi, con l’approvazione dell’Alta Corte.

La costante minaccia di Israele alla loro esistenza nella città è un punto cardine per capire la situazione di Gerusalemme est, anche se c’è chi dice – come la psicologa Rana Nashashibi, il dott. Muhammad Jadallah e Nasser Kos dell’associazione dei Prigionieri Palestinesi – che chiunque volesse e potesse andarsene lo ha già fatto. Così è. I 303.000 palestinesi che vivono a Gerusalemme est (il 75% di loro sotto la soglia di povertà) non se ne andranno, nonostante le pressioni e l’oppressione.

Sotto molti aspetti, Muhammad (ha chiesto di non rivelare il suo nome completo) è l’opposto di Rami, benché abbiano la stessa età. Ha tirato pietre, è stato ferito, catturato, arrestato e bandito dalla moschea di Al-Aqsa per un anno. La sua casa si trova a circa 50 metri da una delle entrate di Haram al-Sharif (Monte del Tempio). Al contrario di Rami, Muhammad ha dei dubbi sul legame ebreo con quel luogo.

Se una volta vi era un tempio, Allah ha voluto che fosse distrutto, e gli angeli hanno posto le fondamenta per una moschea”, ha detto questa settimana con convinzione.

Invece Rami ha scoperto in giovane età di non credere in dio, però entrambi parlano delle loro esperienze con il razzismo israeliano.

Gerusalemme est chiude alle cinque. Se vogliamo uscire un po’, è impossibile nella parte occidentale della città. Non è sicuro trovarsi là dopo le otto o le nove di sera. Quelli di destra danno la caccia ed inseguono chiunque identifichino come arabo, e di giorno qualunque poliziotto di frontiera può fermarti ed umiliarti”, dice Muhammad. “Perciò noi andiamo a Ramallah e a Betlemme.”

Ma la strada è piena di posti di blocco militari e di ingorghi di traffico a causa di essi, e quando riescono ad arrivare, la loro invidia è acuta. Nelle enclaves dell’Autorità Palestinese non si sperimenta ogni momento l’oppressione israeliana, come accade a Gerusalemme est. Là non c’è il timore di venire aggrediti. Nello scorso anno, dice Rami, tutti a Gerusalemme est hanno avvertito il razzismo e la discriminazione in due principali situazioni: in contrasto con le tempestive condanne comminate a palestinesi, i processi agli imputati per aver bruciato il giovane Muhammad Abu Khdeir a metà del 2014 sono ancora in corso. I palestinesi di Gerusalemme est traggono la conclusione che l’intenzione sia di emettere sentenze risibili. In secondo luogo, “una decina di palestinesi di Gerusalemme sono stati arrestati e processati per dei post su Facebook, mentre tutti sanno che i post razzisti degli ebrei non provocano arresti o processi”, dice Rami.

Rami non chiede ai ragazzi del vicinato che tirano pietre perché lo fanno, in quanto porre una simile domanda lo farebbe considerare uno fuori dal giro. Ma la verità è che lui si sente un estraneo nell’affollato quartiere in cui la sua famiglia si è trasferita 15 anni fa, quando lui era alle elementari, a causa dell’aumento dei prezzi di affitto nel loro vecchio quartiere. La costante minaccia all’esistenza dei palestinesi nella città si manifesta non solo nel precario status di residenza, ma anche della grave carenza di alloggi. Questo non avviene dal nulla. Israele ha espropriato circa un terzo delle riserve di terra che erano annesse a Gerusalemme nel 1967 ai loro proprietari palestinesi a beneficio dei quartieri ebraici e dei programmi pubblici al servizio soprattutto della popolazione ebraica. Sul terreno rimanente sono state imposte rigide restrizioni all’edificazione, probabilmente per preservare il “carattere rurale” dei quartieri, e nel centro di essi vi sono dei terreni destinati a costruzioni fortificate per gli ebrei.

La paura di perdere lo status di residenza e la costruzione del muro dopo il 2000 hanno riportato in città migliaia di persone che avevano migliorato la propria situazione abitativa trasferendosi nei quartieri adiacenti, come Bir Naballah e A-Ramm, che si trovano fuori dalla zona annessa a Gerusalemme. Il risultato è un’alta densità di popolazione, esorbitanti prezzi di acquisto o di affitto delle case, edificazioni senza permesso, ordini di demolizione e demolizioni di case.

Nasser Kos ricorda un ragazzino di 12 anni che al ritorno da scuola ha trovato la sua casa demolita. “Ha gridato ‘vendetta’ in modo che tutti potessero sentirlo e poi è andato a tirare una bomba incendiaria”, dice Kos. “Oggi ha 18 anni ed è ancora in prigione.” Anche chi non è d’accordo con la sua azione lo può capire. Persino Rami comprende quelli che tirano pietre.

Kos dice di essere diventato un militante di Fatah 30 anni fa, in modo che i suoi figli potessero vivere meglio. Non poteva mai immaginare che le loro vite non avrebbero avuto alcuna prospettiva né personale né politica di miglioramento o cambiamento.

Il ragazzo vede picchiare sua madre, vede il vecchio sulla via per Al-Aqsa colpito da un poliziotto”, dice Kos. “Non può sopportarlo. Dà sfogo alla sua rabbia.” Quindi i bambini e i giovani che tirano pietre finiscono per rappresentare tutta la popolazione.

Tutti noi sentiamo che abbiamo raggiunto il limite della nostra capacità di sopportare i sistematici attacchi contro di noi a Gerusalemme”, dice Nashashibi. “Israele è riuscita a far diventare le difficoltà della vita un problema quotidiano per ogni residente di Gerusalemme. Ogni conversazione inizia con ‘hai sentito lo sparo, ero soffocato dal gas, non ho potuto arrivare alla città vecchia, ho ricevuto una multa per niente, un funzionario comunale mi ha trattato sgarbatamente, il ragazzo ha abbandonato la scuola perché il livello è scarso e non ci sono i soldi per una scuola privata, la città non ripara il sistema delle acque di scarico.”

Lei è convinta che “se non fossimo così profondamente frustrati, andremmo tutti in strada.” Gli adulti hanno motivazioni concrete che impediscono loro di esprimere la propria continua rabbia, o come dice Nashashibi: “I bambini ed i giovani non sono condizionati dalle valutazioni e dalla paura degli adulti che non ci si guadagna niente, che si è ormai tentato di tutto e nulla è cambiato.”

La nuova politica israeliana di repressione delle manifestazioni e di punizioni più severe avrà effetto?

La morte non ci spaventa”, dice Kos. “Io sto parlando con te e sono morto. Io muoio mentre vivo. Noi moriamo ogni giorno. Perciò non abbiamo niente da perdere. Ecco perché i giovani sono pronti a morire.”

Sia Jadallah che Ziyyad Hammouri, direttore del Centro per i Diritti Sociali ed Economici di Gerusalemme, dicono che le autorità hanno già inasprito le misure punitive. “Anche persone che non hanno partecipato alle manifestazioni e al lancio di pietre sono state gravemente ferite dai colpi israeliani”, dice Hammouri. “Sono state comminate multe ed è stata cancellata l’assicurazione per le famiglie dei prigionieri. Quindi quale effetto deterrente potrà avere inserire queste misure in una legge?”

Nashashibi dice: “Quel che gli israeliani non capiscono è che nessun ragazzo tra i 12 e i 20 anni di età pensa che quello che è successo ad altri succederà a lui. Hanno la mentalità da “superpotere”. E’ tipico di quella fascia di età. Pensano che ciò che è successo agli altri (arresto, ferimento) è successo perché non hanno fatto le cose abbastanza bene, mentre loro possono fare meglio.

I genitori che hanno paura per i propri figli, per le multe o per la perdita di benefici sociali non possono fermare i ragazzi perché, secondo Nashashibi, “ il regime di discriminazione israeliano ha talmente indebolito l’istituzione familiare palestinese, l’autorità del padre, che essi per lo più non hanno influenza sui figli. Padri che non riescono a guadagnare il necessario per vivere, genitori picchiati dalla polizia di fronte ai loro figli, coppie che si sono sposate quando erano giovani e non lavorano. Tutto ciò ha condotto all’assenza di una figura autorevole all’interno della famiglia.”

Da un lato non vi è una famiglia forte. Dall’altro, non c’è un’organizzazione politica che coordini il lancio di pietre e le dimostrazioni, o che ordini di smettere. La gente ha perso fiducia nelle organizzazioni politiche, inclusa Fatah, dice Kos. I giovani decidono per conto loro.

Il poliziotto che picchia, il colono che visita la moschea di Al-Aqsa o controlla Silwan (quartiere alle porte di Gerusalemme, ndt.) e l’ispettore comunale che emette un ordine di demolizione sono quelli che hanno organizzato i ragazzi e li hanno mandati a tirare pietre”, dice. Rifiuta l’accusa che Fatah non sia interessata alla lotta e che i suoi membri pensino solo ai propri salari dell’Autorità Palestinese. La prova è che i segretari di Fatah nella città – precedente ed attuale – sono stati arrestati.

Molti dei dimostranti che dicono di manifestare per Al-Aqsa, compresi quelli che si sono scontrati coi poliziotti all’interno del cortile e della moschea, non sono particolarmente religiosi. “Alcuni di loro non sanno neanche come si prega”, dice Jadallah, che lavora in una clinica sul monte.

Gli arresti mostrano che non vi è un’associazione specificamente religiosa o organizzata”, concorda Kos. “La moschea di Al-Aqsa attira chiunque – il musulmano e il comunista, il militante e il commerciante, il tossicomane e l’insegnante.”

Diversamente dalle enclaves dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Gaza, non c’è separazione tra i giovani e l’occupazione israeliana e non vi è luogo in cui sia possibile far finta che l’occupazione non esista. Non ci sono forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese che impediscano che i giovani palestinesi si scontrino con la polizia israeliana, come accade a Betlemme e Nablus.

Forse c’è qualcosa di più sano in questo”, conclude Nashashibi, “perché puoi sfogare la tua rabbia e dimostrare che non c’è nulla di normale in una città occupata.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)