Rivendicare la dimensione politica della narrazione palestinese

Hazem Jamjoum

12  settembre 2018, Al Shabaka

Nota del redattore: questo articolo inaugura il “Circolo sulle Politiche di narrazione e dibattito” di Al-Shabaka, un gruppo di analisti politici di Al-Shabaka che collabora al di là dei confini per affrontare la questione se i palestinesi debbano avere una sola e legittima narrazione e, se sì, quale dovrebbe essere. Il circolo politico di Al-Shabaka è un tentativo metodologico specifico di coinvolgere un gruppo di analisti in studi e riflessioni sul lungo periodo intorno ad un punto di fondamentale importanza per il popolo palestinese.

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), un tempo incarnazione del movimento di liberazione palestinese, si è praticamente trasformata in un’entità non sovrana – l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) – che che svolge il ruolo di carceriere di un arcipelago di prigioni nella Cisgiordania occupata. La frattura prodotta da questa trasformazione si è manifestata nella società palestinese in tutto il mondo in una serie di gravi lacerazioni nella narrazione storica palestinese. Nel 25° anniversario dell’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, questo articolo fa il punto su uno scenario fra i più significativi per il prosieguo della lotta di liberazione, nonostante la resa dell’OLP a Oslo, e cioè gli approcci alla liberazione basati sui diritti, e ne valuta i pro e contro.1

Trattando di comunità di persone, “narrazione” è la “nostra” storia, chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando e perché.

Ovunque vi sia stata una dominazione straniera, sono invariabilmente emersi movimenti nazionali anticolonialisti, rivendicando spesso la narrazione immaginaria di un idilliaco passato pre-coloniale (e anacronisticamente nazionale). Questo passato, ci dice la narrazione, è stato lacerato dalla brutalità del colonizzatore e può essere superato solo da un’eroica lotta anti-coloniale che conduca alla liberazione. Questa liberazione è spesso immaginata nella forma di uno Stato indipendente, sovrano e immancabilmente nazionale.

Il “politico” è espressione del potere in un corpo sociale. Per quanto esteso possa essere questo potere, si coagula in specifici assi di interazione che creano gerarchie complesse e concentrate di privilegi e marginalità, condizionando così il limite entro cui gruppi e individui possono costruire la propria storia.2

In effetti, il politico è un luogo di lotta in costante cambiamento. Nei contesti coloniali le linee di potere nazionali e razziali diventano così importanti nelle narrazioni tanto dei colonizzatori quanto dei colonizzati da appiattire sia le società coloniali che quelle native: le strutture interne di subordinazione – come la supremazia maschile in entrambe le società – sono superate dalla narrazione nazionale e rimandate ad una utopica data futura, al “Giorno dell’Indipendenza”, quando l’asse di subordinazione ” principale” (leggi: coloniale) cesserà di esistere.

Nella maggior parte dei casi in Asia, Africa e America Latina, la transizione postcoloniale ha comportato la trasformazione delle leadership della liberazione in un nuovo genere di dispotismo.3 Questi gruppi dirigenti hanno indossato il mantello della lotta mentre svolgevano corrotte attività di autoritarismo in quanto Stati sovrani in un contesto neo-coloniale – e dal 1980, anche neoliberista. Per i palestinesi queste nuove forme di dominazione e immiserimento strutturali agiscono aggravando la brutalità dell’espansione coloniale in corso, intensificata dal fatto che le strutture dell’Autorità Nazionale Palestinese sono la prima linea di difesa di Israele, in conformità agli accordi di pace di Oslo.

L’approccio basato sui diritti: cedere la politica all’Autorità Nazionale Palestinese

Cercando di superare l’impasse costituito dagli accordi di Oslo e dal grave squilibrio di potere militare e diplomatico che ha portato a quello storico atto di sottomissione, alcuni palestinesi inseriti strategicamente nel fiorente settore delle ONG hanno visto nel sistema giuridico internazionale una possibilità di liberazione. Mosso dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale, quest’ultimo ha sottolineato il diritto di individui e comunità ad essere liberi da crudeltà e dominazioni arbitrarie. L’adozione da parte palestinese di una strategia “basata sui diritti” per contrastare l’impasse di Oslo aveva lo scopo di aggirare il monopolio internazionale dell’ANP come rappresentante dei palestinesi.

Questo approccio ha riunito insieme gruppi e individui dell’intero spettro politico e istituzionale in un amalgama che è arrivato ad autodefinirsi “società civile” palestinese. Questa tendenza ha evitato di rivendicare una rappresentanza politica dei palestinesi, concentrandosi invece sulla rappresentanza “civile”, morale-giuridica. L’ANP e la “società civile” hanno quindi iniziato una elegante ‘dabka’ (danza palestinese, ndtr.): la difesa basata sui diritti eviterebbe di pestare i piedi ai politici, lasciando all’ANP la scelta delle campagne che rientrano nella propria narrazione in quanto tutore delle preoccupazioni nazionali palestinesi, pur mantenendo i piedi ben piantati nei pragmatici anti-principi della divisione e dell’irrisolto processo di pace.

Questa strategia della società civile basata sui diritti ha avuto un grande successo, come ben si vede nel prolungato slancio delle campagne di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), nonostante che la crisi di legittimazione della leadership sia dell’OLP che dell’ANP abbia contrassegnato gli ultimi decenni di politica palestinese. Sottolineo la parola “nonostante” perché la dirigenza dell’Autorità Palestinese ha regolarmente adottato misure per sabotare l’azione della campagna BDS. I successi basati sui diritti, tuttavia, hanno avuto un costo: spostando l’enfasi sull’ambito giuridico, la lotta palestinese, almeno su scala internazionale, rischia di perdere di vista la sua natura fondamentalmente politica.

Questo è esemplificato dalla frase: “Chiediamo il diritto al ritorno”. È  una formula che omette di dire che i palestinesi espulsi hanno già diritto al ritorno. La richiesta politica dovrebbe essere il ritorno effettivo dei palestinesi e, insieme ad esso, tutte le conseguenze politiche per un progetto coloniale che nega questo ritorno per scopi di ingegneria demografica di supremazia razziale. Se qualcuno ti sequestra, il problema non è che il tuo diritto alla libertà sia stato violato, ma che non sei più libero.

Le implicazioni più generali del cedere “il politico” all’ANP nell’arena internazionale non si limitano al modo in cui concettualizziamo e formuliamo obiettivi di liberazione della Palestina, quali esigere il ritorno oppure rivendicare il diritto al ritorno. Dato il primato del nazionalismo nella narrazione OLP-ANP (“Siamo la Nazione palestinese, abbiamo diritto a uno Stato palestinese”), quali sedi abbiamo per discutere di classe, genere e liberazione sessuale all’interno della società palestinese in tutto il mondo?

Come ci relazioniamo con le lotte regionali e globali per la giustizia socio-politica, e come vogliamo che si relazionino con noi? È una questione di particolare importanza, poiché la maggior parte dei palestinesi ha sperimentato le deportazioni della perdurante Nakba e continua a condurre la lotta di liberazione oltre i confini del territorio sotto il controllo coloniale israeliano.

A un certo livello, concentrare l‘attenzione sul formalismo del diritto ci priva del linguaggio e dello spazio per pensare sino in fondo a queste domande. Ad un altro livello, questi ambiti giuridici hanno un significativo effetto determinante su quali movimenti e strutture politiche scegliamo come alleati e, soprattutto, su come e su quali basi impostiamo tali alleanze e rapporti di solidarietà. La ben nota American Civil Liberties Union [Unione Americana per le Libertà Civili, potente Ong statunitense che si occupa di diritti civili e libertà individuali, ndtr.] (ACLU) può essere un alleato potente e molto apprezzato per arginare l’ondata di violazioni dei diritti costituzionali che, per esempio, gli organizzatori BDS devono affrontare negli Stati Uniti. Tuttavia, c’è una chiara linea oltre la quale un’istituzione professionale con un mandato legale come l’ACLU non può andare – una linea che si ferma molto prima di porre pubblicamente la propria autorità a favore di una “causa controversa” come la liberazione palestinese.

Un movimento popolare organizzato come i “Dream Defenders” [‘Difensori di Sogni’, organizzazione americana per i diritti umani, ndtr.], al contrario, , non si pone simili limiti. Non si impegna per la liberazione palestinese in quanto galvanizzato dalle sfumature dell’esegesi del diritto internazionale sfornata dalla società civile palestinese. Secondo l’analisi dei ‘ “Dream Defenders”, la lotta palestinese è una lotta politica contro l’ingiustizia di un colonialismo di insediamento razzista, che assomiglia e gode di una “relazione speciale” con lo Stato coloniale razzista che i “Dream Defenders” contrastano con la propria lotta. La linea che distingue il sostegno istituzionale dalla solidarietà nella lotta raramente è sottile: segna la differenza tra i contributi attentamente pianificati da parte di soggetti consolidati e la solidarietà che rischia in prima persona di coloro che non hanno nulla da perdere se non le proprie catene.

La politica dei diritti, dei gentleman della legge e delle istituzioni legali, ha offerto alla “società civile” palestinese un modo per aggirare l’impasse di Oslo permettendo ai suoi leader – e ai nostri unici legittimi rappresentanti – l’accesso alla buona società.4 Questo è potuto accadere a costo di abbassare la guardia, e cioè ad una condizione per cui l’ordine legale internazionale stabilisce non solo un limite alle nostre richieste politiche, ma anche il linguaggio che usiamo nel ragionarci immaginando cosa possa significare per noi liberazione. Questo basso livello, o “giuristizzazione” e depoliticizzazione della politica palestinese ha fatto sì che istituzioni ben finanziate e altamente professionalizzate – quelle, come l’ACLU, con il massimo da perdere in termini di accessi, finanziamenti e problemi di pubbliche relazioni – diventino sia partner privilegiati che modelli per la nostra stessa organizzazione politica quando ci imbarchiamo in una “difesa” basata sui diritti.

È un’ulteriore ragione per cui l’Autorità Nazionale Palestinese non percepisce alcuna minaccia al suo ruolo in prima linea di difesa del colonialismo israeliano di insediamento dalle campagne basate sui diritti: tali campagne operano con la stessa logica, linguaggio e limiti del compromesso tra gentiluomini che l’OLP ha adottato nella sua metamorfosi in ANP. Faremmo bene a ricordare che ogni grande vittoria palestinese non avrebbe potuto essere raggiunta senza i sacrifici dei poveri “Andala” [popolare figura di bambino palestinese ideata dal famoso artista vignettista Naji Al- Ali, ucciso nel 1987, ndtr.] della società palestinese, all’interno e all’esterno del territorio della Palestina del Mandato [britannico]. Anche se alcuni indossano collane con Andala, che valgono più di tutto quello che ci vuole a mantenere per diversi mesi la famiglia di un bambino rifugiato, ciò non dovrebbe farci dimenticare che ogni grande resa palestinese è stata il prodotto dei compromessi fra gentleman della buona società.

Consideriamo, ad esempio, la centralità dei lavoratori e dei contadini nello sciopero generale del 1936 e la rivolta armata che durò fino al 1939, e il ruolo delle grandi famiglie di proprietari terrieri palestinesi nel porre fine a entrambi i movimenti di massa. Si potrebbe anche confrontare il servizio di intelligence libanese (il temuto deuxième bureau [secondo ufficio]) – contro il quale si ribellò il movimento dei rifugiati palestinesi perché venisse cacciato dai campi in Libano negli anni Sessanta – all’attuale ruolo dell’ “ambasciata” dell’OLP in Libano, che agevola la raccolta di informazioni e il monitoraggio dei palestinesi in quel paese. È molto più importante in questo articolo contrapporre il movimento di massa dei palestinesi da entrambi i lati della “Linea Verde” [il confine tra Israele e i Territori Palestinesi Occupati, ndtr.] iniziato negli anni Settanta e culminato nell’Intifada del 1987 al ruolo della danarosa élite palestinese nel sostenere “la pace dei coraggiosi” [definizione data da Arafat agli accordi di Oslo, ndtr.].

Cosa succede alle campagne BDS? Al massimo, ci dovrebbe essere maggiore partecipazione e sostegno al BDS, specialmente da parte di coloro che ne riconoscono le possibilità politiche e i limiti nella cornice legale. È ben oltre il mandato delle campagne BDS affrontare le politiche sociali delle comunità palestinesi, per non parlare della politica delle strategie di liberazione e delle “soluzioni”. Le organizzazioni BDS non pretendono di essere organizzazioni rappresentative o assemblee, anzi, non possono esserlo, e dal momento che prendono di mira prevalentemente terze parti –imprese, fondi di investimento, istituzioni culturali, accordi interstatali – che non sono né lo Stato israeliano né il regime collaborazionista palestinese, non possono essere ritenute responsabili dei fallimenti del movimento di liberazione in generale.

È altrettanto importante rendersi conto che il tentativo di rendere Israele moralmente e legalmente responsabile a livello internazionale non è una politica in sé e per sé, meno che mai una strategia di liberazione. È una tattica ausiliaria che, al massimo, contribuisce a creare le giuste condizioni per una lotta politica che ponga fine al progetto sionista di insediamento coloniale che ha istituito uno Stato etnico esclusivista e patriarcale in Palestina. Ciò che ho cercato di evidenziare qui sono le insidie dell’elevare una tattica – l’uso di forum e istituzioni legali internazionali a sostegno degli obiettivi di liberazione – allo stato di strategia della liberazione. Vale la pena notare che la tattica della “lotta armata” ha goduto di una simile esaltazione in quanto soluzione mirabolante che avrebbe liberato la Palestina.

Alla ricerca di una narrazione della mobilitazione politica per arrivare alla liberazione

Come accennato, quando i movimenti di liberazione basano le loro strategie di liberazione e le loro narrazioni sulla solidarietà delle istituzioni internazionali, sono costretti a rispettare la lingua e la logica di quelle istituzioni. Una delle migliori illustrazioni storiche di ciò viene proprio dall’esperienza dell’OLP. Dopo la guerra del 1967, il principio della spartizione della Palestina raggiunse lo status del “consenso internazionale” attraverso le interpretazioni della risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite [che prevedeva il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati e il reciproco riconoscimento degli Stati, ndtr.]. Molti Stati arabi erano davvero ansiosi di sottoscriverlo, per eludere l’OLP e parlare in nome dei palestinesi accettando quel consenso a nome dei palestinesi. La spartizione è stata praticamente data come precondizione per il riconoscimento internazionale dell’OLP come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese, e la leadership dell’OLP ha visto quella legittimazione come condizione preliminare per la liberazione. In altre parole, non ci sarebbe stato alcun discorso di “pistola e ramo d’ulivo” da parte di Yasser Arafat all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel novembre 1974 se la Lega Araba non avesse appoggiato l’OLP come detentore del monopolio politico palestinese al summit di Rabat un mese prima. Tale riconoscimento, a sua volta, non si sarebbe verificato se l’OLP non avesse avallato ufficialmente la spartizione della Palestina nel suo programma di dieci punti del giugno 1974.

Anche con il senno di poi, non possiamo biasimare del tutto Arafat per aver riconosciuto sia la debolezza dell’OLP nello squilibrio internazionale del potere quanto il pericolo che altre entità più potenti potessero usurpare il diritto ad una rappresentanza autonoma che i palestinesi avevano faticato tanto a conquistare. Allo stesso modo, i rappresentanti politici palestinesi negli anni 2000 hanno dovuto trovare un modo per eludere la dura realtà dei fatti, cioè che il programma del 1974 avesse dato il via alla trasformazione della leadership politica palestinese in un’appendice del potere coloniale di insediamento mantenendone il monopolio sulla rappresentanza politica palestinese. Analogamente, posto che operare nell’ambito della società civile globale richiede il linguaggio del diritto internazionale e il consenso internazionale come base comune per la comunicazione e il processo decisionale, non possiamo criticare i sostenitori delle campagne basate sui diritti di fare tutto il possibile per usare l’accordo internazionale riguardo ai diritti umani per accusare Israele delle sue violazioni.

Piuttosto che cercare un capro espiatorio, spero invece di trasmettere l’urgenza di promuovere forum e azioni in cui le questioni politiche siano al centro dell’attenzione, al di sopra e al di là delle limitazioni a livello nazionale o del consenso dell’opinione pubblica internazionale. Non è un invito ad abbandonare il diritto internazionale. Piuttosto, si vuole sostenere il ritorno allo spirito originario dell’Intifada del 2000, quando i leader che sarebbero diventati la “società civile palestinese” stavano formulando insieme sia gli inizi del BDS che i modi di usare il regime legale internazionale per aggirare l’impasse politica di Oslo.

Nel 2004, quando la Corte Internazionale di Giustizia emise il suo verdetto [di condanna, ndtr.] sulle conseguenze del muro di separazione di Israele, l’ormai famoso romanziere China Miéville [scrittore, fumettista, saggista ed attivista britannico, ndtr.] stava concludendo il suo libro Between Equal Rights. Dopo essersi informato sul modo in cui gli organizzatori politici palestinesi cercavano di rispondere alla storica sentenza, prima che andasse in stampa Miéville ha aggiunto al manoscritto quanto segue:

… proprio memori della realtà politica che sta alla base della concezione e stesura del diritto internazionale, i palestinesi sono pronti a mettere da parte la “legalità internazionale” della loro stessa vittoria giudiziaria internazionale per tentare invece di usarla per mobilitare l’opinione pubblica extra-legale. È la consapevolezza che è la pressione popolare dal basso piuttosto che il diritto internazionale a rappresentare la migliore speranza per la causa palestinese e che la sentenza giudiziaria internazionale più “progressista” funziona meglio fuori dal campo del diritto internazionale.”

La scelta di Miéville dell’espressione “opinione pubblica” rappresenta il tipo di mobilitazione politica di massa a cui in quegli anni ci si riferiva a livello internazionale con “globalizzazione dell’intifada” – una mobilitazione che andasse ben oltre la lotta per ottenere uno Stato in cui i VIP palestinesi potessero sfruttare persone molto poco importanti senza interferenze da parte del colonialismo di insediamento. La globalizzazione dell’intifada è stata la politica delle manifestazioni per il ritorno dei rifugiati nel 2011, ed è stata la politica delle “Marce del Ritorno” simili ma ben più estese nella Striscia di Gaza degli ultimi mesi.

Questa mobilitazione ha distrutto la narrazione illusoria del conseguimento dello Stato attraverso le sottigliezze di un ordine internazionale che non ha mai mostrato alcuna propensione a far valere i propri standard morali-legali nei confronti di Israele. Ancora una volta, erano gli esausti Andala a gettare in campo i propri corpi mentre i gentiluomini sfruttavano ciò che rimaneva dei loro cadaveri a brandelli per farne miglior uso nei salotti VIP.

È tempo che la politica che sta alla base dell’intifada globale sia considerata fondamentale nel plasmare il modo in cui usiamo il diritto internazionale come uno dei tanti strumenti di lotta, non il contrario. La narrazione che ci aiuta a vedere e ad agire chiaramente ai fini della mobilitazione politica verso la liberazione deve essere messa al centro dell’attenzione – non la narrazione che esibisce la nostra vittimizzazione nazionale “basata sui diritti” di fronte alla piccola nobiltà della buona società, nella speranza che l’élite palestinese possa assicurarsi un buon posto da cui godersi la grottesca orgia dello sfruttamento che consuma il nostro mondo.

Hazem Jamjoum

Membro del gruppo di commentatori politici di Al-Shabaka, Hazem Jamjoum è laureato in Modern Middle East History presso la New York University. I suoi testi si concentrano, tra gli altri temi, sugli approcci politico-economici al colonialismo israeliano e alla formazione delle élite palestinesi, e sulle critiche alle “soluzioni” di gestione del conflitto basate sulla spartizione.

(traduzione di Luciana Galliano)

1 Al-Shabaka è grato per gli sforzi compiuti dai difensori dei diritti umani per tradurre i suoi pezzi, ma non è responsabile di alcun cambiamento di significato.

2 L’importanza di questi elementi – come classe, genere, razza, abilità, sessualità e così via – non risiede nel loro essere identità che esistono in natura, ma nella loro costruzione sociale come identità che conferiscono uno status ai loro possessori. In altre parole, il loro significato è funzione dei regimi di disuguaglianza che li rendono significativi come categorie politiche, non come singoli indicatori di identità di per sé.

3 Fra le analisi più profonde rimangono quelle scritte come predizioni: Frantz Fanon, The Pitfalls of National Consciousness (Grove Press 1961 – Le insidie della coscienza nazionale), I dannati della terra (Einaudi 2007, ed. orig. The Wretched of the Earth, Grove Press 1961).

4 In un passaggio memorabile dell’autobiografia di Shafiq al-Hout [scrittore e politico dell’OLP, ndtr.] (che non c’è nella traduzione inglese), l’importante personaggio, all’opposizione nell’OLP, racconta di essere stato scherzosamente sgridato per aver criticato la quantità di tempo trascorso dai leader dell’OLP nei salotti VIP. Chi lo ha redarguito ha cinicamente spiegato che l’accesso dell’OLP nei salotti VIP è stato il principale, se non l’unico, esito positivo del sacrificio dei martiri palestinesi.




Un “accordo tra gentiluomini”: come Israele ha ottenuto quello che voleva a Oslo

Jonathan Cook

14 settembre 2018,Midddle East Eye

Venticinque anni dopo, alcuni analisti ritengono che Oslo non sia stato un fallimento: in realtà l’accordo ha offerto ad Israele una formula per bloccare la nascita di uno Stato palestinese e rafforzare la sua occupazione.

Questa settimana non ci sono state commemorazioni per ricordare la firma del primo accordo di Oslo a Washington 25 anni fa. Si tratta di nozze d’argento per le quali non ci sono festeggiamenti pubblici, né tazze commemorative, né monete coniate appositamente.

I palestinesi hanno praticamente ignorato questo anniversario storico, mentre la commemorazione di Israele non è stata altro che una manciata di tristi articoli sulla stampa israeliana su quello che è andato storto.

L’avvenimento più importante è il documentario “I diari di Oslo” (“Al cuore degli accordi di Oslo”), trasmesso dalla televisione israeliana e la cui diffusione è prevista questa settimana negli Stati Uniti. Ripercorre gli avvenimenti riguardanti la creazione degli accordi di pace, firmati dal dirigente palestinese Yasser Arafat e dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin a Washington il 13 settembre 1993.

Secondo la maggior parte degli osservatori l’euforia causata dal processo di pace iniziato dalla Norvegia un quarto di secolo fa sembra ormai del tutto superata. Il ritiro per fasi dai territori palestinesi occupati promesso da Israele è rimasto fermo ad uno stadio iniziale.

E i poteri dell’Autorità Nazionale Palestinese, futuro governo palestinese creato da Oslo, non sono mai andati oltre la gestione dell’assistenza sanitaria e la raccolta della spazzatura nelle zone palestinesi densamente popolate, garantendo al contempo il coordinamento con Israele in materia di sicurezza.

Tutti gli sforzi attuali per trarre una lezione da questi sviluppi sono giunti alla stessa conclusione: Oslo fu un’occasione mancata per la pace, gli accordi non sono mai stati correttamente applicati e i negoziati sono stati spazzati via dagli estremisti palestinesi ed israeliani.

Una riorganizzazione dell’occupazione

 

Tuttavia gli analisti interpellati da Middle East Eye adottano un punto di vista molto diverso.

È errato pensare che Oslo sia fallito o cercare di identificare il momento in cui il processo di Oslo è morto”, sostiene Diana Buttu, avvocatessa palestinese ed ex-consigliera dell’Autorità Nazionale Palestinese. “Oslo non è mai morto. Continua a fare oggi esattamente quello per cui è stato creato.”

Michel Warschawski, attivista israeliano per la pace che ha sviluppato stretti legami con i dirigenti palestinesi nel corso degli anni di Oslo, concorda totalmente.

Quasi tutti quelli che conoscevo all’epoca ed io stesso siamo rimasti sedotti dal battage mediatico che annunciava che l’occupazione sarebbe ben presto finita. Ma in realtà Oslo stava per riorganizzare l’occupazione, non per farla terminare. Ha creato una nuova divisione del lavoro.

A Rabin non importava sapere se i palestinesi avrebbero ottenuto una sovranità simbolica – una bandiera e forse persino un seggio all’ONU.

Ma Israele era determinato a continuare a controllare le frontiere, le risorse dei palestinesi, la loro economia. Oslo ha cambiato la divisione del lavoro, subappaltando ai palestinesi stessi la parte difficile della sicurezza di Israele.”

Gli accordi sono stati firmati all’indomani di parecchi anni di rivolta palestinese nei territori occupati – la prima Intifada – che si sono rivelati costosi per Israele, sia in termini di vittime che di denaro.

Grazie ad Oslo, le forze di sicurezza palestinesi si sono messe a pattugliare le strade delle città palestinesi, sotto la supervisione e in stretto coordinamento con l’esercito israeliano. Quanto al conto, è stato pagato dall’Europa e da Washington.

In un’intervista rilasciata la settimana scorsa al giornale [israeliano di centro sinistra, ndtr.] “Haaretz”, Joel Singer, l’avvocato del governo israeliano che ha contribuito alla stesura degli accordi, ha ammesso la stessa cosa. Rabin, ha dichiarato, “pensava che, se fossero stati i palestinesi a combattere Hamas, ciò avrebbe rafforzato la sicurezza (israeliana).”

Come ha fatto notare l’ex primo ministro israeliano, l’occupazione non sarebbe più stata considerata responsabile davanti ai “cuori sensibili” della Corte Suprema israeliana e della comunità attiva a favore dei diritti dell’uomo in Israele.

Non un vero Stato

Secondo Buttu, anche l’ipotesi largamente diffusa secondo la quale Oslo avrebbe dato come risultato uno Stato palestinese era errata.

L’avvocatessa rileva che da nessuna parte negli accordi veniva menzionata l’occupazione, uno Stato palestinese o la libertà per i palestinesi. E non venne presa nessuna misura contro le illegali colonie di insediamento di Israele – il principale ostacolo alla creazione di uno Stato palestinese.

Invece l’obiettivo dichiarato del processo di Oslo era l’applicazione di due risoluzioni delle Nazioni Unite [rimaste] in sospeso – la 242 e la 338. La prima riguardava il ritiro dell’esercito israeliano dai ‘territori’ occupati durante la guerra del 1967, mentre la seconda esortava a negoziati che portassero a una ‘pace giusta e durevole’.

Ho parlato con Arafat e con Mahmoud Abbas (suo successore alla presidenza palestinese) a questo proposito,” spiega Buttu. “Essi pensavano che un linguaggio più esplicito riguardo allo Stato palestinese e all’indipendenza non sarebbe mai stato approvato dalla coalizione di Rabin.

Dunque Arafat ha trattato le risoluzioni 242 e 338 come parole in codice. I dirigenti palestinesi hanno definito Oslo ‘un accordo tra gentiluomini’. Il loro approccio andava oltre l’ingenuità: era sconsiderato. Si sono comportati come dilettanti.”

Secondo Asad Ghanem, professore di scienze politiche all’università di Haifa ed esperto del nazionalismo palestinese, fin dall’inizio i dirigenti palestinesi erano coscienti che Israele non offriva un vero Stato.

Nelle sue memorie Ahmed Qoreï (uno dei principali architetti di Oslo per quanto riguarda i palestinesi) ha ammesso il suo stupore quando ha cominciato ad incontrare il gruppo di negoziatori israeliani”, spiega Ghanem.

Uri Savir (il capo negoziatore israeliano) ha dichiarato con tutta franchezza che Israele non era favorevole a uno Stato palestinese e che proponevano qualcosa di meno. L’atteggiamento degli israeliani era ‘prendere o lasciare’.”

Simpatia verso i coloni

Tutti gli analisti concordano che fin dall’inizio era del tutto evidente una mancanza di buona fede da parte d’Israele, in particolare per quanto riguardava la questione delle colonie.

Così, invece di bloccare o d’invertire l’espansione delle colonie durante il presunto periodo di transizione di cinque anni previsto dall’accordo, Oslo ha permesso alla popolazione di coloni di crescere a un ritmo notevolmente accelerato.

L’incremento quasi del doppio del numero di coloni in Cisgiordania e a Gaza per raggiungere i 200.000 alla fine degli anni ’90 è stato spiegato in un’intervista del 2003 da Alan Baker, consigliere giuridico del ministero israeliano degli Affari Esteri dopo il 1996 e lui stesso colono.

La maggior parte delle colonie è stata presentata all’opinione pubblica israeliana come dei ‘blocchi’ israeliani, fuori del controllo della neonata Autorità Nazionale Palestinese. Con la firma degli accordi, ha dichiarato Baker, “noi non siamo più una potenza occupante, ma siamo presenti nei territori con il loro (dei palestinesi) consenso e in base al risultato dei negoziati.”

Recenti interviste realizzate da “Haaretz” a dirigenti dei coloni lasciano ugualmente trasparire la simpatia ideologica tra il governo cosiddetto di sinistra di Rabin e il movimento dei coloni.

Israel Harel, che all’epoca dirigeva il Consiglio Yesha, l’organismo dirigente dei coloni, ha giudicato Rabin “molto disponibile”. Ha sottolineato che Zeev Hever, un altro leader dei coloni, aveva lavorato con i responsabili della pianificazione dell’esercito israeliano quando crearono una ‘carta di Oslo’ tagliando la Cisgiordania in diverse aree di controllo.

In merito alle colonie che, secondo la maggior parte degli osservatori, sarebbero state smantellate in base agli accordi, Harel ha constatato: “Quando (Hever) è stato accusato (da altri coloni) di collaborazionismo, ha risposto che ci aveva salvati da un disastro. Loro (l’esercito israeliano) hanno segnato le zone che avrebbero potuto isolare dalle colonie e farle scomparire.

L’avvocato israeliano di Oslo, Joel Singer, ha confermato la reticenza dei dirigenti israeliani ad affrontare il problema delle colonie.

Ci siamo battuti con i palestinesi, per ordine di Rabin e di (Shimon) Peres, contro un congelamento delle colonie,” ha dichiarato ad “Haaretz”. “Fu un grave errore consentire alle colonie di continuare ad espandersi.”

Il rifiuto di Rabin ad agire

Neve Gordon, professore di scienze politiche all’università Ben Gurion, nel sud di Israele, spiega che la prova fondamentale della volontà di Rabin di occuparsi delle colonie si è presentata meno di un anno dopo il processo di Oslo, quando Baruch Goldstein, un colono, ha ucciso e ferito più di 150 musulmani palestinesi durante una preghiera nella città palestinese di Hebron.

Ciò forniva a Rabin l’occasione per espellere i 400 coloni estremisti che si trovavano nel centro di Hebron,” ha detto Gordon a MEE. Ma non lo fece. Gli permise di restare.”

La mancata risposta di Israele alimentò ‘come rappresaglia’ una campagna di attentati suicidi organizzati da Hamas, attentati che a loro volta vennero utilizzati da Israele per giustificare il suo rifiuto di ritirarsi dalla maggior parte dei territori occupati.

Warschawski afferma che Rabin avrebbe potuto smantellare le colonie se avesse agito rapidamente. “I coloni erano in ritirata all’inizio di Oslo, ma egli non agì contro di loro.”

Dopo l’assassinio di Rabin alla fine del 1995 da parte di un ebreo israeliano contrario a Oslo, il suo successore Shimon Peres, anche lui considerato l’architetto del processo di Oslo, secondo Warschawski cambiò tattica: “Peres preferì mettere l’accento sulla riconciliazione interna (tra israeliani) invece che sulla riconciliazione con i palestinesi. Dopo di che il discorso religioso dei coloni estremisti diventò dominante.”

Ciò diede luogo qualche mese più tardi al trionfo elettorale della destra sotto l’egida di Benjamin Netanyahu.

Il differenziale demografico

Gordon sostiene che, per quanto Netanyahu avesse fatto una violenta campagna elettorale contro gli accordi di Oslo, questi ultimi si rivelarono perfetti per il genere di politica di rifiuto che egli coltivava.

Dietro la facciata di vaghe promesse in merito a uno Stato palestinese, secondo il docente universitario “Israele poté rafforzare il progetto di colonizzazione. Le statistiche mostrano che quando ci sono dei negoziati, la crescita demografica della popolazione delle colonie in Cisgiordania aumenta. I coloni crescono rapidamente. E quando c’è un’intifada, le cose rallentano.

Dunque Oslo era ideale per il progetto israeliano di colonizzazione.”

E ciò non è semplicemente dovuto al fatto che, sotto la pressione di Oslo, i coloni religiosi si affrettarono ad ‘appropriarsi delle colline’, come lo presentò Ariel Sharon, celebre generale diventato più tardi primo ministro. Gordon fa riferimento a una strategia del governo, consistente nel reclutare dei coloni di un tipo nuovo nel corso dei primi anni successivi ad Oslo.

All’inizio degli anni ’90, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, Sharon e altri responsabili tentarono di sistemare dei nuovi immigrati russofoni nelle grandi colonie come quella di Ariel, nel centro della Cisgiordania. “Il problema era che molti russi avevano un solo figlio,” spiega Gordon.

Così, al loro posto, Israele iniziò a spostare degli ultraortodossi nei territori occupati. Questi ebrei fondamentalisti che fanno parte della comunità più povera di Israele hanno in genere sette o otto figli. Cercavano disperatamente delle soluzioni abitative, sottolinea Gordon, e il governo non esitò a mettere in opera degli incentivi per attirarli in due nuove colonie ultraortodosse, Modiin Illit e Beitar Illit.

In seguito a questo fatto,” continua Gordon, “Israele non ebbe più bisogno di reclutare molti nuovi coloni. Bastava solo guadagnare tempo con il processo di Oslo e la popolazione dei coloni si sarebbe sviluppata da sola.

Gli ultraortodossi diventarono la principale arma demografica di Israele. In Cisgiordania, i coloni ebrei hanno in genere due figli in più rispetto ai palestinesi – questo differenziale demografico ha un impatto enorme nel corso degli anni.”

Dipendenza palestinese

Secondo Diana Buttu un altro fattore mostra che Israele non ha mai voluto che gli accordi di Oslo dessero luogo a uno Stato palestinese. Poco prima di Oslo, a partire dal 1991, Israele introdusse delle restrizioni alla circolazione dei palestinesi molto più rigide, soprattutto un sistema di permessi sempre più perfezionato.

Gli spostamenti da Gaza verso la Cisgiordania diventarono impossibili se non in caso di necessità,” spiega. “Non erano più un diritto.”

Questo processo, rileva il professor Ghanem, si è radicato nel corso dell’ultimo quarto di secolo e alla fine ha dato come risultato una completa separazione fisica e ideologica tra Gaza e la Cisgiordania, ormai governate rispettivamente da Hamas e dal Fatah di Abbas.

Come ha osservato Gordon, le disposizioni economiche di Oslo, rette dal Protocollo di Parigi del 1995, hanno privato i palestinesi anche della loro autonomia finanziaria.

I palestinesi non hanno ottenuto una moneta propria, hanno dovuto utilizzare lo shekel israeliano. Anche un’unione doganale ha relegato i palestinesi in un mercato dipendente dai prodotti israeliani e ha permesso a Israele di percepire dei diritti doganali per conto dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il rifiuto di trasferire questo denaro è una minaccia che Israele brandisce regolarmente contro i palestinesi.”

Secondo gli analisti, i dirigenti palestinesi che, come Arafat, furono autorizzati dal processo di Oslo a ritornare dal loro esilio in Tunisia – a volte indicati come ‘stranieri’ – ignoravano totalmente la situazione sul terreno.

Neve Gordon, che all’epoca dirigeva la sezione israeliana di “Medici per i diritti umani”, si ricorda di aver incontrato al Cairo dei giovani americani e canadesi di origine palestinese per discutere di accordi ulteriori in materia di salute di cui sarebbe stata responsabile l’Autorità Nazionale Palestinese.

Erano colti e brillanti, ma ignoravano quello che succedeva sul terreno. Non avevano alcuna idea di quello che era necessario esigere da Israele,” afferma.

Invece Israele aveva degli esperti che conoscevano profondamente la situazione.”

Warschawski ha ricordi simili. All’epoca accompagnò un palestinese di alto rango appena arrivato da Tunisi per una visita alle colonie. Seduto in macchina, il responsabile rimase a bocca aperta durante tutto il percorso.

Conoscevano dei dati, ma non sapevano fino a che punto le colonie fossero radicate ed integrate nella società israeliana,” spiega. “Fu in quel momento che cominciarono a capire per la prima volta la logica delle colonie e a rendersi conto delle reali intenzioni di Israele.”

Attirati in una trappola

Warschawski osserva che l’unica persona del suo ambiente che aveva rifiutato fin dall’inizio il battage pubblicitario riguardo agli accordi di Oslo era Matti Peled, un generale diventato attivista pacifista che conosceva bene Rabin.

Quando ci incontrammo per discutere degli accordi di Oslo, Matti ci prese in giro. Disse che non ci sarebbe stato alcun Oslo, non ci sarebbe stato nessun processo che avrebbe portato alla pace.”

Secondo Ghanem, i dirigenti palestinesi finirono per rendersi conto di essere stati attirati in una trappola.

Non potevano procedere verso la formazione di uno Stato perché Israele gli sbarrava la strada,” spiega. “Ma allo stesso modo non potevano neppure rinunciare al processo di pace. Non osarono smantellare l’Autorità Nazionale Palestinese e quindi Israele prese il controllo della politica palestinese.

Se se ne va Abbas, qualcun altro prenderà il suo posto alla testa dell’Autorità Nazionale Palestinese e il suo ruolo continuerà.”

Perché i dirigenti palestinesi entrarono nel processo di Oslo senza prendere maggiori precauzioni?

Secondo Diana Buttu Arafat, come gli altri dirigente dell’OLP che vivevano in esilio a Tunisi, aveva motivi per sentirsi in pericolo all’idea di stare fuori dalla Palestina, una questione che sperava di veder risolvere con Oslo.

Voleva rimettere piede in Palestina,” sostiene. “Si sentiva gravemente minacciato dai dirigenti ‘dall’interno’, anche se gli erano fedeli. La prima Intifada aveva dimostrato la loro capacità di guidare una rivolta e di mobilitare il popolo senza di lui.

Aveva anche un grande bisogno di un riconoscimento internazionale e di legittimità.”

Una guerra di trincea

Secondo Gordon, Arafat pensava di poter ottenere alla fine delle concessioni da Israele.

La vedeva come una guerra di trincea. Una volta nella Palestina storica, avrebbe avanzato da trincea a trincea.”

Warschawski nota che Arafat e altri dirigenti palestinesi gli dissero che pensavano di poter esercitare un’influenza importante su Israele.

Pensavano che Israele avrebbe posto fine all’occupazione in cambio di una normalizzazione dei rapporti con il mondo arabo. Arafat si considerava come il ponte che avrebbe portato a Israele il riconoscimento che esso desiderava. La sua posizione era che Rabin avrebbe dovuto baciargli la mano in cambio di un successo così grande.

Aveva torto.”

Gordon fa riferimento al discorso iniziale sui vantaggi economici di Oslo, secondo cui si pensava che la pace avrebbe aperto il commercio di Israele con il mondo arabo trasformando Gaza nella Singapore del Medio Oriente.

Questo ‘dividendo della pace’ è stato tuttavia contrastato da un ‘dividendo della guerra’ altrettanto attraente.

Ancora prima dell’11 settembre, l’esperienza di Israele nei campi della sicurezza e della tecnologia si era dimostrata redditizia. Israele capì che c’era parecchio denaro da guadagnare nella lotta contro il terrorismo.”

In realtà Israele è riuscito a trarre vantaggio dal dividendo della pace come da quello della guerra.

Diana Buttu ha rilevato che più di 30 Paesi, tra cui il Marocco e l’Oman, avevano sviluppato rapporti diplomatici o economici con Israele in seguito agli accordi di Oslo. Gli Stati arabi rinunciarono alla loro politica di boicottaggio e di opposizione alla normalizzazione e le grandi compagnie straniere smisero di temere di essere penalizzate dal mondo arabo se avessero commerciato con Israele.

Il trattato di pace (del 1994) tra Israele e la Giordania non avrebbe mai potuto essere concluso senza Oslo,” sottolinea.

Invece di denunce chiare contro l’occupazione, i palestinesi si sono ritrovati di fronte al vocabolario dei negoziati e dei compromessi per la pace.

I palestinesi sono diventati un problema di carattere umanitario, chiedono l’elemosina al mondo arabo perché l’Autorità Nazionale Palestinese possa aiutare a mantenere l’occupazione invece di guidare la resistenza.

Grazie a Oslo, Israele ha normalizzato i suoi rapporti nella regione, mentre paradossalmente i palestinesi sono diventati un corpo estraneo.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




‘Punizione collettiva’ e ‘ricatto’: i palestinesi condannano la decisione di Trump di chiudere l’ufficio dell’OLP a Washington

Allison Deger eYumna Patel

10 settembre 2018 Mondoweiss

Oggi l’amministrazione Trump ha ordinato all’ufficio di rappresentanza palestinese di chiudere, ponendo fine a quasi 25 anni di presenza diplomatica della missione dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) a Washington.

La portavoce del Dipartimento di Stato Heather Nauert stamattina ha detto ai giornalisti che la decisione è stata presa dopo che i dirigenti palestinesi hanno rifiutato di “promuovere l’avvio di negoziati diretti e significativi con Israele”, promossi dal primo consigliere della Casa Bianca e genero del presidente, Jared Kushner, e dall’inviato speciale Jason Greenblatt.

Nauert ha detto che i dirigenti palestinesi hanno respinto il piano di Kushner e Greenblatt, un ampio accordo di pace che era circolato nelle scorse settimane ma non era mai stato reso pubblico dopo il rigetto da parte dei dirigenti arabi.

La dirigenza dell’OLP ha condannato un piano di pace USA che non ha ancora visto ed ha rifiutato di impegnarsi con il governo USA relativamente agli sforzi di pace e in altro modo. Stando così le cose, e recependo le preoccupazioni del Congresso, l’Amministrazione ha deciso che l’ufficio dell’OLP a Washington a questo punto dovrà chiudere”, ha proseguito Nauert.

Il Washington Post ha riferito, citando una copia preliminare del suo discorso, che il consigliere di Trump per la sicurezza nazionale John Bolton dovrebbe annunciare la chiusura in un discorso lunedì prossimo, insieme alle intenzioni del governo USA di imporre sanzioni alla Corte Penale Internazionale (CPI) se procederà con le indagini contro gli USA o Israele.

Non collaboreremo con la CPI. Non forniremo assistenza alla CPI. Lasceremo che la CPI muoia per conto suo. Del resto, all’atto pratico, per noi la CPI è già morta”, reciterebbe il testo della bozza.

L’anno scorso gli USA hanno detto che avrebbero chiuso l’ufficio dell’OLP a Washington come misura punitiva dopo che il presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva chiesto alla CPI di indagare e perseguire Israele per presunti crimini di guerra.

Trump alla fine ha fatto marcia indietro, limitando le attività dell’ufficio agli “sforzi per raggiungere la pace con Israele.”

Lista dei desideri” di Israele

Dato che la missione dell’OLP a Washington era stata aperta nel 1994 durante i negoziati con Israele in base agli accordi di pace di Oslo per promuovere una soluzione di due Stati, Nauert ha detto che la chiusura di oggi non pregiudica quel percorso.

Gli Stati Uniti continuano a credere che negoziati diretti tra le due parti siano l’unica strada percorribile. Questa azione non deve essere strumentalizzata da coloro che cercano di agire come guastatori per sviare l’attenzione dall’imperativo di raggiungere un accordo di pace”, ha detto.

La reazione di Ramallah è stata dura. L’ambasciatore dell’OLP negli USA, Husam Zomlot, che lo scorso maggio è stato richiamato in Cisgiordania dopo che è stata aperta l’ambasciata USA a Gerusalemme, oggi ha detto in una dichiarazione che l’iniziativa è “ sconsiderata” e si inchina alla “lista dei desideri” di Israele.

Zomlot ha aggiunto che l’amministrazione Trump ha inteso punire i dirigenti palestinesi per aver perseguito un’ inchiesta per crimini di guerra contro Israele presso la Corte Penale Internazionale, dove sono stati inoltrati documenti su presunti crimini di Israele contro l’umanità.

Restiamo fermi nella nostra decisione di non collaborare con questa continua campagna per eliminare i nostri diritti e la nostra causa. I nostri diritti non sono in vendita e fermeremo ogni tentativo di intimidazione e ricatto affinché rinunciamo ai nostri diritti legittimi e condivisi a livello internazionale”, ha detto Zomlot.

Zomlot ha aggiunto che la chiusura dell’ufficio è un affronto al processo di pace ed ha accusato gli Stati Uniti di “minare il sistema internazionale di legittimità e legalità.” Ha promesso di “intensificare” gli sforzi nella comunità internazionale. “Questo ci conferma che siamo sulla strada giusta”, ha detto.

Il governo palestinese ha sospeso ufficialmente i contatti con i dirigenti USA dopo che Trump a dicembre ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, scatenando vaste proteste tra i palestinesi, che considerano Gerusalemme est occupata come la capitale di un futuro Stato palestinese.

L’Autorità Nazionale Palestinese da allora ha boicottato il piano di pace di Trump – il cosiddetto “accordo del secolo” – stilato principalmente da suo genero Jared Kushner, la cui famiglia è collegata al finanziamento delle colonie israeliane illegali.

In una dichiarazione il portavoce dell’ANP Yousef al-Mahmoud ha detto che la chiusura dell’ufficio dell’OLP “è una dichiarazione di guerra agli sforzi di portare pace nel nostro Paese e nella regione”, e incoraggia ulteriormente le violazioni da parte dell’occupazione israeliana contro i diritti umani dei palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate e nella Striscia di Gaza.

Il ministero degli Esteri palestinese ha definito l’iniziativa “parte della guerra aperta condotta dall’amministrazione USA e dalla sua squadra sionista contro il nostro popolo palestinese, la sua causa e i suoi giusti e legittimi diritti.”

È la continuazione della politica USA di dictat e ricatti contro il nostro popolo per costringerlo ad arrendersi”, continua la dichiarazione.

Punizione collettiva”

L’iniziativa giunge al culmine di una serie di colpi inferti dall’amministrazione ai palestinesi. Nel mese scorso gli USA hanno bloccato tutti gli aiuti all’UNRWA, hanno tagliato 200 milioni di dollari di finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese e aiuti per 25 milioni di dollari agli ospedali palestinesi a Gerusalemme est.

Recentemente, dirigenti dell’amministrazione Trump hanno anche messo pubblicamente in questione il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, che è sancito dal diritto internazionale.

I palestinesi hanno già cominciato a sentire gli effetti dei massicci tagli del budget USA, soprattutto a Gaza, dove una crescente crisi umanitaria si è aggravata nei mesi scorsi.

A luglio centinaia di dipendenti dell’UNRWA sono stati licenziati come diretta conseguenza dei tagli dei finanziamenti USA. Il mese scorso migliaia di malati di tumore a Gaza sono stati lasciati in un limbo, quando gli ospedali hanno chiuso i propri dipartimenti di oncologia, a causa di pesanti carenze di farmaci chemioterapici in seguito all’assedio israeliano contro Gaza, in continuo peggioramento.

Questa è un’altra dimostrazione della politica dell’amministrazione Trump di punizione collettiva del popolo palestinese, anche attraverso il taglio agli aiuti finanziari per i servizi umanitari, comprese salute e educazione”, ha dichiarato l’alto dirigente dell’OLP Saeb Erekat.

Questa pericolosa escalation dimostra che gli Stati Uniti intendono smantellare l’ordine internazionale per proteggere i crimini israeliani e gli attacchi contro la terra ed il popolo della Palestina, come anche contro la pace e la sicurezza nel resto della regione”, ha detto Erekat.

Inoltre ha detto: “Ammainare la bandiera della Palestina a Washington significa molto più che un nuovo schiaffo da parte dell’Amministrazione Trump alla pace e alla giustizia; rappresenta l’attacco degli USA al sistema internazionale nel suo complesso, compresi tra gli altri la convenzione di Parigi [che ha istituito l’UNESCO, agenzia dell’ONU, ndtr.], l’UNESCO e il Consiglio [ONU] per i Diritti Umani.”

Allison Deger è vice caporedattore di Mondoweiss.net

Yumna Patel è giornalista multimediale con sede a Betlemme, Palestina.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gli aiuti per indebolire i palestinesi,riprendiamo il controllo

Alaa Tartir

29 agosto 2018, Nena News da Middle East Eye

Ramallah, 29 agosto 2018, Nena News – Nel 2006, dopo la vittoria di Hamas alle giuste e democratiche elezioni parlamentari palestinesi, i principali donatori dell’industria internazionale degli aiuti hanno interrotto i finanziamenti ai Territori Occupati di Cisgiordania e Gaza per protesta verso i risultati del voto.

In quel periodo, mentre lavoravo in una nota università palestinese, abbiamo ricevuto lettere su lettere dei donatori che ci informavano che i nostri progetti comuni sarebbero terminati, che la cooperazione era sospesa e che i fondi venivano tagliati.

La brutta faccia degli aiuti

Siamo andati nel panico e ci siamo preoccupati per i progetti che stavamo realizzando; ci siamo sentiti umiliati dal ricevere via fax – nemmeno in un incontro o con una telefonata – una notizia che decideva il nostro futuro. Quell’esperienza ci ha mostrato la brutta faccia dell’industria degli aiuti e ci ha fatto capire quanto cattiva fosse l’idea di lasciare a qualcun altro decidere il nostro destino.

Ci ha anche mostrato che gli aiuti sono un “regalo” due volte dannato: maledice il donatore e il ricevente. Ma ci ha anche insegnato un’importante lezione: se noi palestinesi non diamo dignità al nostro sviluppo, nessuno lo farà.

Questa lezione non è stata compresa bene dalla leadership politica palestinese e da allora gli aiuti internazionali hanno continuato a essere sprecati invece di essere utilizzati efficacemente per trasformare la vita della gente. L’ultimo episodio risale all’inizio dell’anno quando il presidente statunitense Donald Trump ha minacciato di ritirare gli aiuti all’Autorità Nazionale Palestinese.

Non solo taglia i fondi, ma ha anche trasferito l’ambasciata americana a Gerusalemme, riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e attaccato l’Unrwa (agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, ndt) e l’inalienabile diritto al ritorno palestinese.

A parte qualche focosa dichiarazione e una brillante retorica, la leadership politica palestinese non ha compiuto alcuna azione di senso per controbattere agli Stati Uniti e al loro trumpismo. La scorsa settimana l’amministrazione Usa ha deciso di tagliare oltre 200 milioni di dollari degli aiuti palestinesi, eppure la risposta dei leader palestinesi continua a essere solo a parole, inefficace, dichiarazioni di condanna ma nessuna azione.

A seguire quattro azioni di buon senso che la leaderhip politica palestinese potrebbe considerare per rispondere ai recenti tagli degli aiuti Usa.

Stop al coordinamento alla sicurezza con Israele

Primo, interrompere tutte le relazioni e la cooperazione con l’Uss, il Coordinatore alla Sicurezza Usa. Sarebbe una mossa in armonia con la decisione dell’Olp, le richieste di tutti i partiti politici palestinesi e quelle del popolo palestinese, interrompere il coordinamento alla sicurezza con Israele e modificare le dinamiche del dominio securitario.

Il coordinamento alla sicurezza è stata la principale ragione della creazione dell’Ussc, più di dieci anni fa. L’Ussc non solo viola i principi chiave internazionali sulla consegna degli aiuti perché il suo intervento continua a danneggiare la popolazione ricevente, ma agisce anche come braccio complementare dell’occupazione coloniale israeliana.

Gli aiuti consegnati dagli Usa attraverso l’intervento dell’Ussc non sono aiuti per la Palestina o i palestinesi. Sono aiuti che sostengono le azioni brutali del loro oppressore (l’occupazione israeliana) e aiuti ai contractor amerciani e al loro personale alla sicurezza.

In aggiunta, l’intervento Ussc non è solo diretto a proteggere la sicurezza dell’oppressore, ma ha anche portato a un ulteriore repressione del popolo oppresso (i palestinesi) rendendo le forze di sicurezza dell’Anp più autoritarie del normale, dietro il pretesto di garantire stabilità e ordine pubblico.

I danni causati dalla missione di sicurezza Usa sono evidenti e palesi ed è tempo di riconoscerli responsabili e rifiutarne l’intervento.

Un intervento dannoso

Secondo, chiudere i progetti Usaid. La penetrazione di Usaid nella società palestinese è stata profonda e dannosa fin dall’inizio. Le condizioni imposte sui palestinesi e il tipo di intervento che persegue non solo hanno condotto a una dipendenza nociva dagli aiuti e al sostegno del deleterio status quo, ma ha anche distorto la struttura della società civile palestinese, i suoi valori, le fondamenta e i sostegni del contratto sociale tra governanti e governati.

Per invertire queste tendenze, è tempo di impedire a Usaid di causare ulteriori danni. Il suo intervento futuro rischia di essere ancora più pericoloso perché implementerà la visione politica dell’amministrazione Usa che non fa presagire nulla di buono per ogni tipo di sviluppo positivo, prosperità o pace.

È tempo di femare il solito business di Usaid e riconoscerli responsabili se è la dignità del popolo palestinese che interessa. Se non sarà possibile contrastare lo storico danno causato, sarà un’occasione d’oro per impedirne altri in futuro e la via maestra per farlo è chiudere i progetti di Usaid.

Obiettivi di buon senso

Terzo, tagliare i rapporti con l’ambasciata Usa a Gerusalemme e con il suo staff, il suo supporto, i suoi progetti, il suo personale. Non è intelligente mantenere stretti rapporti e accogliere a braccia aperte un’entità che chiaramente e palesemente dichiara guerra a te, al tuo popolo e ai tuoi diritti fondamentali.

Neppure i principi basilari di diplomaziona scusano un simile atteggiamento. Controbattere e resistere è la reazione naturale. Mentre l’ambasciata Usa a Gerusalemme continua a celebrare le borse di studio che offre a giovani e brillanti palestinesi, agisce senza dubbio come ombra e braccio del governo statunitense nei Territori Palestinesi Occupati per implementare le sue politiche, strategie e visioni politiche.

La mera indifferenza per le azioni dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, come ha deciso di fare la leadership politica palestinese, non è né sufficiente né efficace nel modificare le dinamiche di potere.

Quarto e ultimo, tagliare i costi (200 milioni di dollari) dal gonfio budget del settore della sicurezza dell’Autorità Palestinese. Visto che il principale costo nel budget è la sicurezza, che mangia circa il 30% del bilancio ma dà molto poco in termini di sicurezza e protezione al popolo palestinese, questa recente decisione dell’amministrazione Trump offre alla leadership politica palestinese l’opportunità di rivedere le sue priorità e di abbandonare il paradigma che l’ha costretta ad essere solo il subappaltatore all’occupazione israeliana.

Tagliare quei 200 milioni e condividere con il popolo palestinese le prove di quel taglio manderà un messaggio chiaro all’amministrazione Usa e agli attori dell’industria degli aiuti: è tempo di cambiare marcia per assicurare dignità, auto-determinazione e proprietà locale della consegna degli aiuti ai palestinesi.

Ovviamente questi quattro obiettivi proposti sono politici di per sé e avranno conseguenze sul presente e il futuro della leadership palestinese creando sofferenza nel breve termine. Ma, dall’altra parte, sono azioni di buon senso che la maggior parte dei palestinesi aspettano.

(Traduzione a cura della redazione di Nena News)




‘Legge dello Stato-Nazione’ di Israele: “L’apartheid è un processo”

Edo Konrad

19 luglio 2018, + 972

Con l’approvazione della “Legge dello Stato-Nazione ebraico” Israele ha inserito la discriminazione nei confronti della propria popolazione palestinese a livello costituzionale. “Non dobbiamo continuare a cercare politiche che assomigliano alle ‘Leggi Jim Crow’,” dice l’avvocato Fady Koury.

Nelle prime ore di giovedì il parlamento israeliano ha approvato la “Legge dello Stato-Nazione ebraico”, definendo Israele come Stato-Nazione esclusivamente del popolo ebraico e degradando lo status ufficiale dell’arabo.

Quasi immediatamente politici palestinesi e gruppi per i diritti hanno iniziato a parlare della legge in termini inequivocabili. Il segretario generale dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina] Saeb Erekat ha detto che la legge “trasforma un regime di apartheid de facto in una realtà de iure per tutta la Palestina storica”.

Hassan Jabareen, presidente di “Adalah”, il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele, ha affermato che la legge “contiene elementi chiave dell’apartheid” e che approvandola Israele ha “reso la discriminazione un valore costituzionale e ha affermato il proprio impegno nel favorire la supremazia ebraica come fondamento delle proprie istituzioni.”

Secondo l’avvocato di “Adalah” Fady Khoury la legge rafforza l’identità dello Stato di Israele come Stato per il popolo ebraico, trasformandolo in titolare della sovranità, escludendo al contempo la popolazione palestinese dalla stessa definizione di sovranità.

La legge stessa non menziona neppure una volta la parola ‘democrazia’,” spiega Khoury.

Psicologicamente avrà un fortissimo impatto sugli israeliani quando saranno chiamati a definire cosa sia o non sia democratico.”

La rivista +972 ha parlato con Khoury per comprendere meglio il confronto con l’apartheid, e perché la legge in generale sia così problematica.

(La seguente intervista è stata pubblicata integralmente]

La gente la chiama la ‘legge dell’apartheid’. Perché?

L’apartheid in Sud Africa è stato un processo. Era un sistema che ci ha messo degli anni a svilupparsi ed è stato costruito con il lavoro di accademici e teologi che dovevano creare le giustificazioni per la supremazia dei bianchi. Era un sistema gerarchico, in cui c’era un gruppo con tutto il potere e un altro senza alcun potere.”

In Israele la nuova legge definisce esplicitamente il popolo ebraico come il solo gruppo con l’unico potere di autodeterminazione, mentre nega i diritti del popolo autoctono. Ciò crea un sistema di gerarchia e supremazia. Non viviamo in un tempo in cui rivendicazioni esplicite di supremazia sono legittime come lo erano in Sud Africa, ma stiamo arrivando agli stessi risultati attraverso un linguaggio diverso.”

L’analogia tra Israele e Sud Africa non riguarda solo comunità o strade separate, riguarda un modo di pensare. Riguarda l’idea di classificare gruppi diversi. È l’idea di un regime di supremazia che favorisce gli interessi di un gruppo, anche se ciò avviene a spese dei più basilari diritti di un altro gruppo. Non dobbiamo continuare a cercare politiche che assomiglino alle ‘Leggi Jim Crow’ [leggi segregazioniste applicate nel Sud degli USA contro i neri, ndtr.] – quel modo di pensare non esiste solo ai margini della politica israeliana, ma anche nella sua parte maggioritaria.”

La formulazione originaria della legge includeva un articolo che consentiva alle comunità di essere segregate in base a criteri religiosi o ‘nazionali’. Cosa dice la versione finale in merito alla segregazione?

La precedente versione della legge includeva un articolo che consentiva allo Stato di autorizzare nuove comunità sulla base della religione o della nazionalità. Si basava sul principio di ‘separati ma uguali’, espresso nell’idea che così facendo sarebbe stato un bene per tutti – ebrei e palestinesi. Il linguaggio è stato cambiato in quanto era troppo vicino al tipo di palese segregazione che abbiamo visto negli USA. Hanno riscritto l’articolo in modo che lo Stato possa ‘promuovere insediamenti ebraici’. Ciò crea un tipo di paradigma segregazionista totalmente diverso, di ‘separati ma diseguali’.

Pensalo in questo modo: immagina se gli Stati Uniti abbiano approvato una legge che promuove ‘insediamenti di bianchi’ – ci farebbe rabbrividire. Ma dopo 70 anni di Stato ebraico e democratico, l’idea di insediamenti ebraici è diventata così diffusa che non sembra un problema. In questo senso il cambiamento è di facciata. Ma quello che la Destra vuole raggiungere è la stessa cosa: ebraicizzare il Paese incentivando la costruzione di comunità solo per cittadini ebrei.”

Quali sono gli effetti potenziali che questa legge potrebbe avere sul sistema giuridico?

Questa è una legge che definirà l’identità costituzionale dello Stato. Finora è stata la Corte Suprema che ha avuto il ruolo di interpretare quale fosse il vero significato della frase ‘ebraico e democratico’. Ora abbiamo una legge che assegna status costituzionale all’identità ebraica dello Stato.”

(La legge) sarà fondativa. Diventa una fonte di interpretazione delle leggi e del sistema giuridico. Le implicazioni non saranno limitate a pochi settori: avranno conseguenze sul sistema giuridico dalla radice, soprattutto se la Destra continua a nominare alla Corte Suprema giudici conservatori che utilizzeranno questa nuova norma costituzionale per interpretare le leggi.”

La nuova legge rappresenta l’accelerazione di un processo che ha avuto luogo recentemente o sancisce un regime discriminatorio che qui è sempre esistito?

Penso che stiamo assistendo a un’escalation che non inizia con la nuova Legge Fondamentale, ma è piuttosto il risultato della contraddizione tra le identità fondamentali dello Stato come ebraico e democratico. Quello a cui stiamo assistendo ora è che l’identità ebraica sta invadendo sempre più la vita sociale e politica dei cittadini di Israele, mentre l’identità ‘democratica’ dello Stato sta sperimentando una regressione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




‘Per molti giovani ebrei americani l’asse Trump-Bibi [Netanyahu] è il nemico’

Edo Konrad

2 Luglio 2018, +972

Bradley Burston ribadisce che le sue opinioni su Israele non sono cambiate da quando si è trasferito qui negli anni ’70. È Israele che è cambiato. ‘Mi piacerebbe avere due Stati. Ma centinaia di migliaia di israeliani hanno detto ‘non puoi averli’, e loro governano il Paese’, dice in un’ intervista ad ampio raggio su Israele, sulla Nakba e sulle trasformazioni nella comunità ebraica americana.

Tra gli ebrei americani ci sono sempre state correnti di dissenso a proposito di Israele. Dopotutto, sono stati gli ebrei americani progressisti, radicalizzati dalla nuova sinistra degli anni ’60, che sono diventati l’avanguardia della sinistra ebraica americana, che chiedeva che il governo di Israele tenesse colloqui con l’OLP, decenni prima che questo divenisse la politica israeliana. Sono stati gli ebrei americani che, dieci anni dopo aver manifestato contro la guerra in Vietnam, hanno incominciato a protestare di fronte alle ambasciate e ai consolati israeliani durante la prima guerra del Libano.

Decenni dopo, stiamo sentendo parlare spesso dei mutati rapporti tra gli ebrei americani ed Israele, sia da parte di chi si sente deluso, tradito dalle storie e mitologie diffuse dalle proprie stesse comunità, sia da parte di chi semplicemente si allontana del tutto dallo Stato ebraico.

Ciò di cui sentiamo parlare molto meno sono gli ebrei americani progressisti che hanno scelto di vivere in Israele. Cosa provano oggi riguardo a Israele gli americani con cittadinanza israeliana, soprattutto quegli influenti intellettuali che hanno contribuito ad informare molta gente sui cambiamenti che ribollono tra i loro parenti rimasti negli USA?

Per Bradley Burston, far sentire la propria voce ebraica americana è diventata una specie di missione – anche quando nessuno la ascoltava veramente. Burston è diventato una delle voci più importanti del sionismo progressista (lui rifiuta questo termine, definendosi “qualcosa di più di un personaggio-etichetta”), attraverso la sua rubrica su Haaretz, “Un posto speciale all’inferno”. Molto prima che ‘SeNonOra, Voci ebraiche per la pace’, J Street e Peter Beinart [giornalista liberal americano, ndtr.] sollevassero il coperchio di una crisi latente tra gli ebrei americani e Israele, i suoi scritti sono stati un rifugio per chi si sentiva preso in mezzo tra i propri valori e Israele.

Più la dittatura militare sui palestinesi si consolidava, più le rubriche di Burston diventavano taglienti, mettendo in guardia gli israeliani – ed i loro paladini ebrei americani – sulle sue tragiche conseguenze. Perciò è piuttosto incredibile sentire Burston dichiarare che le sue opinioni riguardo a Israele non sono cambiate dal 1971. Dopotutto, soprattutto per la sua indignazione, il suo nome è diventato sinonimo di una tendenza di sionismo liberale che ha lottato per continuare ad essere significativo nell’era Natanyahu – che crede nella soluzione di due Stati, in uno Stato ebraico che rispetti e dia importanza alle sue minoranze, e in un sano rapporto con il resto del mondo.

Nonostante le sconfitte politiche e le speranze svanite per i due Stati, Burston crede comunque che, in fondo, la maggioranza degli ebrei americani sia d’accordo con quell’ipotesi.

La maggioranza degli ebrei americani vuole vedere una democrazia qui, e sono terribilmente a disagio per come stanno andando le cose”, dice l’originario di Los Angeles, mentre siamo seduti per un’intervista a Giaffa, dove vive. “Sono preoccupati per la questione dei richiedenti asilo e per il rapporto tra Israele e la comunità ebraica americana. Per molti giovani ebrei americani, se non per la maggioranza, l’asse Trump-Bibi è davvero il loro nemico.”

Eppure, sulla questione palestinese, Burston crede che la maggior parte degli ebrei americani abbia ancora una strada da percorrere. E’ un processo lento, dice, ma è solo questione di tempo. “(Gli ebrei americani) hanno subito il lavaggio del cervello in modo da credere che gli israeliani sappiano qual è la cosa migliore. Ma è solo una questione di tempo. Se Netanyahu si aliena gli ebrei americani su una questione dopo l’altra, le cose cambieranno. Io spero che stiamo andando verso una situazione migliore – più sostenibile.”

Questo Paese è enormemente cambiato da quando ci sono arrivato a metà degli anni ‘70”, dice, lisciandosi la barba sale e pepe, come usa fare quando è immerso nei pensieri. “Eppure credo ancora in ciò in cui ho sempre creduto: che la soluzione migliore al conflitto israelo-palestinese sia quella dei due Stati, uno accanto all’altro. Il problema è che non penso sia più possibile.”

Come sei arrivato a renderti conto che non ci sarà una soluzione dei due Stati?

Mi piacerebbe che ci fossero due Stati. Ma centinaia di migliaia di israeliani hanno detto ‘non può essere’, e loro governano il Paese. Quando Netanyahu vinse le elezioni nel 2015 dopo una campagna razzista – è stato allora che ho capito che era finita. Ma non sarà per sempre.”

L’idea di uno Stato ebraico e democratico è sostenibile nel lungo termine?

Credo che ci possa essere una confederazione che renda possibile uno Stato ebraico e democratico. Non voglio buttare il bambino con l’acqua sporca, ma ritengo che ci sia qualcosa di positivo nella cultura ebraica e nel suo rinnovamento.

Bisogna ricordare che sta accadendo qualcosa agli ebrei in Israele – che vengano a viverci o no –  che è estremamente potente. Non si tratta dell’acqua sporca. L’acqua sporca è fascismo, è il dominio su un altro popolo. Per Netanyahu l’acqua sporca è l’essenza di questo Paese.”

Hai scritto che l’ideologia dominante del Paese è diventata simile al razzismo. Ti identifichi ancora come sionista?

Non sono sicuro di averlo mai fatto. Non ho alcun problema rispetto all’esistenza di uno Stato ebraico. Ho problemi con uno Stato ebraico oppressivo. Ho problemi con uno Stato ebraico che sopprime i propri tratti democratici. Ho problemi con uno Stato ebraico che è esclusivamente per ebrei di ogni genere. Se sionismo equivale al sostegno alle colonie o all’espulsione dei richiedenti asilo, diventa estremamente facile per me rispondere alla domanda. Se ciò è quello che [il sionismo] è, allora non sono sionista.”

Gli ebrei americani sono più che mai propensi a parlare della Nakba e dell’espulsione dei palestinesi. Come si possono conciliare idee progressiste come l’uguaglianza con la storia di come è stato fondato questo Paese?

La verità è che si tratta di un’incredibile confusione. Benny Morris ha condotto un immane studio su ciò che accadde nel 1948 e ciò che si capisce leggendolo è che ci furono circostanze di vera nobiltà e circostanze di tremende atrocità. Improvvisamente la gente ha avuto l’opportunità di essere sé stessa ed in molti casi questo ha portato ad un risultato terribile, in altri casi no.

È la tempesta perfetta. Gli ebrei erano legittimamente preoccupati di essere nuovamente sterminati. Se sono convinto che tutti stanno cercando di uccidermi, divento tremendo nei loro confronti. Ci sono abbastanza persone propense a dire che vogliono uccidere gli ebrei e che noi non abbiamo il diritto di stare qui, da fornire agli israeliani la giustificazione per usare modi terribili verso di loro.”

Questa mentalità è rimasta tale dal 1948?

Sì, e questo spiega perché oggi agli israeliani non importa nulla dei palestinesi uccisi al confine con Gaza. È stata l’idea geniale di tagliare ogni contatto tra israeliani e palestinesi, perché se davvero vuoi che la gente detesti e tema il campo avverso, allora devi assicurarti che non vi siano contatti. Ora noi non vediamo mai l’altra parte. Se io penso che l’altra parte mi vuole morto, farò cose terribili.

Nel bene o nel male, molti degli ebrei che sono venuti qui lo hanno fatto perché credevano profondamente in questo posto, di appartenere a questo posto, anche se non lo avevano mai visto. Proprio come i palestinesi che conservano le loro chiavi, che sono anch’essi di qui. L’ebreo estone che non poteva essere apertamente ebreo nell’Unione Sovietica – era di qui. Era disposto ad andare in prigione per vivere qui.”

Ma perché questo dovrebbe importare al palestinese che conserva la sua chiave?

L’unica cosa che non possiamo fare è rimuovere ingiustamente la portata del coinvolgimento totale ed emotivo di entrambe le parti rispetto a questo luogo. È il loro luogo, per entrambe le parti. E questo è il problema. Deve esserci qualche ragione per cui questo è il luogo più terribile del mondo eppure ha presa su di noi. In parte è una sorta di lavaggio del cervello che fa parte della cultura israeliana, ma non si tratta solo di questo. C’è qualche elemento mistico qui, a cui la popolazione è indissolubilmente legata. Il governo non può rovinare tutto.”

* * *

Alcune settimane dopo la nostra prima intervista, in un solo giorno i cecchini israeliani sul confine di Gaza hanno ucciso oltre 60 manifestanti che chiedevano il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi, e ne hanno feriti altri mille. Sono tornato ed ho chiesto a Burston se la carneficina avesse cambiato qualcosa per lui.

Non so come conviviamo con noi stessi, sapendo quello che sta accadendo a persone che sono praticamente vicine di casa. Non sto parlando in particolare dei morti e feriti nelle proteste della ‘Marcia del Ritorno’. Sto parlando di anni e anni che le hanno precedute. L’assedio di Gaza è stato ed è un terribile errore, il peggior errore che Israele ha fatto negli ultimi 12 anni, non solo in termini morali, ma anche tattici e strategici, per il futuro di Israele e dei palestinesi. Il governo lo sa.

Ma il governo ha troppa paura per fare qualcosa in proposito. L’esercito fa continue pressioni su Netanyahu per promuovere gli aiuti umanitari e lavorare con la cooperazione internazionale per ricostruire le infrastrutture essenziali che abbiamo bombardato fino a distruggerle, impianti energetici, impianti di depurazione, il sistema di acqua potabile. Ma Netanyahu ha troppa paura. È troppo occupato a guardarsi le spalle e a cercare di dimostrare che ha più testosterone di Bennett [ministro dell’Educazione e leader del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.], il quale cerca di dimostrare la stessa cosa riguardo alla propria virilità rispetto a Lieberman [ministro della Difesa e leader di un altro partito di estrema destra nazionalista “Israele Casa Nostra”, ndtr.].”

C’è un’altra cosa per cui mi dispero. Per alcuni leader della destra israeliana un alto numero di vittime palestinesi può in realtà essere considerato come una risorsa politica. Un sondaggio condotto dopo il massacro delle prime marce ha mostrato che il 100% degli intervistati che ha votato per il partito ‘Ysrael Beiteinu’ [‘Israele casa nostra’, ndtr.] del ministro della Difesa Lieberman approvava le azioni dell’esercito. Il cento per cento.”

* * *

Non pensi mai di tornare in America?

C’è stato un periodo durante la seconda Intifada in cui eravamo terrorizzati per la nostra personale incolumità o di lasciare che nostra figlia prendesse l’autobus a Gerusalemme. Ma penso che ci sia qualcosa che ci trattiene qui. Chiunque sia qui e sia un progressista deve essere un rivoluzionario completamente matto, perché altrimenti come potrebbe sopportarlo?”

Eppure la sensazione è che le cose stiano andando peggio.

Io spero ancora in qualcosa di meglio. Quando sono venuto in Israele ho detto ‘ci vado per un anno e poi vedo che cosa succede’.”

E hai continuato a dirlo da allora.

Esattamente. Ogni anno, più o meno ad ottobre, dico ‘E va bene, gli concedo ancora un anno’, ed eccomi qui.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I palestinesi sono stati abbandonati dai loro leader

Alaa Tartir

1 giugno 2018, Foreign Policy

Roma, 1 giugno 2018, Nena News – Quando l’amministrazione Trump ha deciso di trasferire l’Ambasciata USA a Gerusalemme, momento cruciale nella lotta del popolo palestinese per la libertà, i dirigenti dell’Autorità Palestinese non sono riusciti in alcun modo a dare una risposta significativa. Non sono nemmeno riusciti a evitare l’assassinio di civili a Gaza e, anzi, hanno mantenuto le politiche punitive contro i 2 milioni di palestinesi che vivono nella Striscia, tra cui quella di trattenere i salari dei dipendenti pubblici.

Dopo 22 anni di attesa dall’ultimo incontro, il Consiglio Nazionale Palestinese si è recentemente riunito a Ramallah per eleggere il Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e il suo presidente. L’incontro di quattro giorni, che si è tenuto tra il 30 aprile e il 3 maggio, è stato una dolorosa dimostrazione di come i leader palestinesi stiano minando la democrazia.

L’incontro si è concluso con l’annuncio di una nuova leadership palestinese, basata sul clientelismo e su meschine politiche tra fazioni. Le cosiddette elezioni hanno dimenticato l’elemento principale di ogni sistema politico funzionante: la gente, che è stata messa da parte, emarginata, e a cui è stata tappata la bocca in una terribile dimostrazione della crescente sconnessione tra governanti e governati. Anche se questo non è un fenomeno nuovo, il livello di arroganza della leadership è stato stupefacente.

Oltre all’occupazione israeliana del loro territorio, i palestinesi subiscono l’assenza di una guida legittima, di strutture politiche responsabili e inclusive e di una governance democratica, efficace e trasparente. Tutto ciò impedisce ai palestinesi di far fronte ai diversi livelli di oppressione e repressione che si trovano davanti. Rovesciare questo triste stato di cose è un obiettivo irraggiungibile, con il sistema politico palestinese attuale. Però è anche un presupposto indispensabile, se le future generazioni di palestinesi vogliono avere un futuro migliore.

Se spera di reinventare l’attuale sistema politico, il popolo palestinese e una nuova generazione di dirigenti devono smascherare le élite politiche di oggi che continuano a dividere, indebolire e emarginare la popolazione. Questo processo di reinvenzione va ben oltre la questione di sciogliere l’Autorità Palestinese (AP), l’accoppiata Fatah-Hamas e il quadro dettato dagli Accordi di Oslo venticinque anni fa. Richiederà una più alta rappresentanza politica, un approccio più inclusivo alla pianificazione nazionale e una buona dose di fantasia per superare le idee antiquate e la miope visione del mondo che attualmente domina il pensiero politico della leadership palestinese.

L’attuale leadership non è disponibile né interessata alle rivendicazioni del popolo, perché minacciano il dominio dell’AP in Cisgiordania (e quello di Hamas a Gaza). La leadership, quindi, continua ad agire in modo autoritario, cercando di mettere a tacere ogni voce che ne mette in dubbio la legittimità o sfida il suo monopolio in fatto di governance.

Negli ultimi dieci anni, molte organizzazioni locali e internazionali per i diritti umani hanno documentato l’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza palestinesi per mettere a tacere chi protesta. Ci sono state anche detenzioni politiche, limitazioni alla libertà di parola e di partecipazione politica e manifestazione, così come spionaggio, atti di tortura e gravi violazioni dei diritti umani in risposta all’attivismo politico in strada o sui social media.

Le recenti manifestazioni al confine di Gaza e gli scontri a Gerusalemme nell’estate del 2017 devono essere compresi nel loro contesto. La frustrazione per lo status quo e la mancanza di prospettive, insieme alle condizioni di vita disperate, hanno portato allo scontro alla barriera militare della Striscia di Gaza; a Gerusalemme Est, sono state le politiche esplicite sugli insediamenti, volte a incrementare la popolazione ebraica a causare gli scontri, e la repressione da parte sia di Israele che dell’Autorità Palestinese ha provocato la resistenza in Cisgiordania. La protesta collettiva palestinese, oggi, è un’espressione di resistenza alla violenza dell’occupante israeliano, ma anche alla leadership palestinese.

Non sorprende, quindi, che dopo il meeting dell’Autorità Palestinese del 30 aprile siano aumentate le tensioni. Anche se molti palestinesi – dato il ruolo storico dell’OLP nel portare la lotta palestinese sul piano mondiale – continuano a idealizzare l’organizzazione come “unica legittima rappresentante del popolo palestinese nel mondo”, i palestinesi hanno anche visto in diretta TV, come dice un giovane di Gaza, “quanto siano marci questo organismo e le sue istituzioni”. Ha aggiunto che “quando svanisce anche l’ultima speranza… ti metti a capo di una rivolta per essere ascoltato, visto, riconosciuto.”

Per le generazioni più giovani, la reazione alla frustrazione è stata organizzarsi e mobilitarsi.

Come sottolinea un altro giovane attivista di Gaza, “L’abbiamo visto nell’estate del 2017 a Gerusalemme, e adesso lo vediamo a Gaza. Anche se questi scontri ciclici non durano… solo la gente, non la leadership politica, potrà modificare gli squilibri di potere tra colonizzatori e colonizzati.”

Una terza giovane attivista sostiene, con rabbia, che “siamo noi, la gente, la generazione futura, i giovani, e non Hamas, quelli che stanno protestando”. La lotta, secondo lei, è una delle forme di “resistenza popolare contro ogni forma di controllo e dominazione, sia essa palestinese, israeliana, egiziana o qualsiasi altra… Ne abbiamo abbastanza del modello gerarchico che crea solo dittatori e élite VIP che ci fanno solo del male”.

È chiaro che c’è una nuova via d’accesso per i leader del futuro: un attivismo locale, dal basso, che generi leader legati alle loro cerchie sociali e alle battaglie quotidiane della gente, piuttosto che un’élite disinteressata e distante nei lussuosi uffici di Ramallah.

Le proteste di Gaza sono il risultato di questa rabbia popolare. Israele ha cercato di dare una falsa immagine del coinvolgimento di Hamas nelle dimostrazioni al confine per criminalizzare e screditare i manifestanti. Anche se Hamas non è l’organizzatore della marcia, è coinvolto direttamente e indirettamente perché è uno degli attori principali che governano Gaza. È fondamentale riconoscere che Hamas è parte integrante della scena politica palestinese a prescindere dal danno che causa (come anche Fatah) alla lotta palestinese per la libertà e indipendentemente dalle strategie, idee, o principi ideologici. Hamas ha semplicemente fatto ciò che avrebbe fatto qualsiasi partito politico: ha strumentalizzato le proteste per ricavarne un vantaggio politico.

Le manifestazioni a Gaza riguardano fondamentalmente gli innegabili e internazionalmente riconosciuti diritti del popolo palestinese nel suo insieme. Molti attori politici, oltre a Hamas, hanno partecipato alle marce, il che dimostra che esiste una nuova generazione di leader, non divisi in fazioni; una lezione che Fatah e Hamas farebbero meglio a imparare.

Anche se le marce potrebbero durare poco, la comunità internazionale una lezione l’ha imparata: le rivendicazioni dei semplici cittadini palestinesi dovrebbero essere prese sul serio. E questo non solo per il tragico bilancio delle vittime, ma anche perché gli attori internazionali capiscono che un movimento sociale palestinese dal basso potrebbe davvero destabilizzare e minacciare lo status quo, uno status quo che va benissimo alla maggioranza degli attori.

Se la futura generazione di leader palestinesi riuscirà ad ottenere una certa influenza, non potrà limitarsi a criticare e maledire lo status quo. Dovrà essere propositiva e immaginare un futuro ben determinato, e mettere in pratica quella visione con azioni concrete e realizzabili. Cambiare le politiche richiede saper fare politica, e cambiare le regole attuali richiede saper stare al gioco.

Sarà un processo complesso e caotico, ma i futuri leader palestinesi diventeranno visibili solo se formeranno nuovi partiti, proporranno liste di giovani alle elezioni, stabiliranno una cultura di responsabilità e creeranno un governo ombra guidato dai giovani che si metta in gioco in un dibattito nazionale sulle priorità del popolo palestinese.

“Ti spetta qualcosa in questo mondo, perciò alzati” ha detto una volta Ghassan Kanafani, scrittore e attivista politico palestinese assassinato dal Mossad, i servizi segreti israeliani. I palestinesi di Gaza, Haifa, Gerusalemme e ovunque stanno facendo proprio questo: si stanno alzando per la giustizia, la libertà, la dignità e l’autodeterminazione come valori fondamentali. Le forze che combattono questi valori, molto spesso con il pretesto della sicurezza, dovranno renderne conto finché non sosterranno pace e giustizia. Solo allora potremo parlare di un futuro di pace e prosperità per la Palestina. Nena News

Alaa Tartir è direttore editoriale di Al-Shabaka – The Palestinian Policy Network, ricercatore associato al CCDP (Centro su Conflitti, Sviluppo e Peacebuilding) di Ginevra e visiting professor alla Paris School of International Affairs, Sciences Po.

(Traduzione di Elena Bellini)

Print Friendly



Il sentore di antisemitismo nel discorso di Abbas non cambia il suo appoggio alla soluzione dei due Stati

Amira Hass

2 maggio 2018, Haaretz

Il discorso del presidente davanti al Consiglio Nazionale Palestinese ha rispecchiato il suo stile autoritario e il suo rifiuto di ascoltare le critiche.

La storia degli ebrei è stata imposta ai palestinesi e quindi questi ultimi l’affrontano in ogni occasione. Tutti i palestinesi si vedono come legittimati, e in effetti lo sono, a proporre la storia della propria terra e del proprio popolo – come un contrappeso rispetto alla narrazione sionista.

Questo è quanto fa anche il presidente palestinese Mahmoud Abbas nei suoi discorsi durante incontri pubblici, e lo ha fatto di nuovo lunedì pomeriggio all’apertura della 23^ sessione, attesa da tempo, del Consiglio Nazionale Palestinese, che dovrebbe essere il parlamento di tutti i palestinesi.

La sintesi di Abbas della storia di Israele è che la fondazione di uno Stato per gli ebrei è stato un progetto colonialista intrapreso da Nazioni cristiane e che i fautori del progetto erano antisemiti che non volevano che gli ebrei vivessero nei loro Paesi. Ma la legittima sintesi del presidente palestinese contiene imbarazzanti errori, importanti omissioni e anche un’opinione con un forte sentore di antisemitismo: in Europa gli ebrei erano odiati non per la loro religione, ma a causa delle loro attività che riguardavano l’usura e le banche.

Questa insistenza nel cadere nella trappola di dichiarazioni che aiutano l’hasbara (diplomazia pubblica) israeliana, che inoltre ignora totalmente i suoi importanti messaggi riguardanti il cammino verso la pace, rivela qualcosa riguardo all’uomo ed al suo stile di governo: è fermo sulle le sue posizioni, non ascolta le critiche e non si consulta con altri – oppure sceglie consiglieri che non gli dicano niente che lui non voglia sentire. Inoltre sceglie di essere aggiornato solo su quello che gli conviene.

Queste sono alcune delle caratteristiche di cui Abbas ha avuto bisogno per riuscire a diventare il leader autoritario di Fatah, dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ndt.] e dell’Autorità Nazionale Palestinese, insieme al suo controllo delle finanze e all’appoggio che continua a ricevere dai Paesi europei grazie al fatto di rimanere legato agli accordi di Oslo. Queste caratteristiche gli hanno consentito di continuare con quello che aveva iniziato Yasser Arafat: svuotare l’OLP del suo contenuto che riuniva tutti i palestinesi e, in pratica, subordinarla all’ANP. 

In quanto unico governante, Abbas ignora costantemente le decisioni delle istituzioni rappresentative. Di conseguenza il coordinamento sulla sicurezza tra gli apparati di sicurezza palestinese e Israele continua, nonostante le decisioni di porvi fine prese negli scorsi anni da Fatah e dall’OLP.

La parte storiografica del discorso di Abbas di lunedì non è quella importante. La sua sottesa minaccia agli abitanti della Striscia di Gaza e ad Hamas di aver intenzione di non includerli più nel bilancio dell’ANP o di ridurre ulteriormente la quota che li riguarda, è molto più importante e ha preoccupanti conseguenze per il futuro.

Il presidente dell’ANP ha anche rilevato che “quelle che vengono chiamate Primavere Arabe” sono state notizie false, inventate dall’America come mezzo per smantellare i Paesi arabi. Una simile dichiarazione mostra un fondamentale, profondo disprezzo per le rivolte popolari e una sottovalutazione delle sofferenze dei civili sotto i loro regimi autoritari.

Data questa mancanza di rispetto, le affermazioni di Abbas secondo cui la strada per uno Stato palestinese passerà attraverso una lotta popolare (non armata) contro l’occupazione israeliana insieme ad iniziative diplomatiche possono essere interpretate come niente più che dichiarazioni di circostanza. Una lotta popolare è molto più di manifestazioni in aree di conflitto contro l’esercito israeliano e, come hanno detto importanti membri di Fatah, richiede un cambiamento fondamentale nell’atteggiamento dell’ANP verso gli accordi di Oslo. Il messaggio implicito dei giudizi di Abbas sulle Primavere Arabe è che, finché rimarrà al potere, un simile cambiamento non avverrà.

La sintesi storiografica di Abbas termina con questa conclusione: “Noi diciamo: non li espelleremo. Noi diciamo: vivremo insieme a voi sulla base dei due Stati.”

Nelle sue considerazioni ha ripetuto alcune volte che “ci impegniamo” per questa soluzione del conflitto con Israele (cioè all’interno dei confini del 1967), con Gerusalemme est come capitale dello Stato di Palestina. Qui il suo autoritarismo consente ad Abbas di attenersi a una soluzione a lungo proposta che ha perso il suo senso e la sua logica, soprattutto agli occhi della generazione più giovane.

Abbas ha affermato di basare le proprie opinioni su autori ebrei, e persino sionisti, a iniziare da Arthur Koestler il “sionista,” ha sottolineato, e sulla tesi proposta nel libro di Koestler “La tredicesima tribù”, secondo la quale gli ebrei askenaziti sarebbero discendenti del popolo khazaro [vissuto tra il Caucaso e l’Ucraina orientale fino al XIII secolo e convertitosi nel VIII secolo all’ebraismo, ndt.]. Questo popolo non è semita, ha affermato Abbas: “Non hanno alcun rapporto con i (popoli) semiti o con i nostri signori Abramo e Giacobbe.”

Questi ebrei (in altre parole, i khazari convertiti), ha aggiunto, si sono spostati nell’Europa orientale ed occidentale e, ogni 10 o 15 anni, hanno patito un massacro in un Paese o nell’altro, dall’XI secolo fino all’Olocausto. “E perché ciò è successo? Diranno “perché siamo ebrei”. E io vorrei presentare tre ebrei in tre libri, e sono: Giuseppe Stalin…”

A questo punto del discorso di Abbas, che avrebbe dovuto spiegare che gli ebrei sono stati perseguitati a causa delle loro attività nell’usura e nelle banche, c’è stato un mormorio; qualcuno gli ha sussurrato che Stalin non era ebreo. Nel testo scritto del discorso di Abbas di lunedì, rilasciato dall’agenzia ufficiale di notizie palestinese Wafa, Stalin era di nuovo definito un “autore ebreo.”

In seguito nel testo erano citati i nomi di “Abraham e Yishaq Notsherd” – due personaggi che chi scrive non conosce. Durante lo sproloquio del presidente dell’ANP, diffuso dal vivo sul canale palestinese, sembra che egli abbia detto Isaac Deutscher, uno storico marxista.

Abbas ha anche sottolineato che la fondazione di uno Stato per gli ebrei in Palestina è nata come idea dei cristiani e di statisti come Cromwell e Napoleone, e del “console americano a Gerusalemme nel 1850.” Prima che Arthur Balfour stilasse la sua famosa dichiarazione [che impegnò l’impero britannico a favorire la costituzione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndt.], ha detto Abbas, “egli aveva preso una decisione che avrebbe impedito l’ingresso degli ebrei in Gran Bretagna a causa del suo odio per loro” Si stava in realtà riferendo all’ “Aliens Act” [legge sugli stranieri] approvato nel 1905 dal parlamento inglese, quando Balfour era primo ministro. La legge limitava l’immigrazione da luoghi che non facessero parte dell’impero britannico ed intendeva essere una risposta all’immigrazione di massa di ebrei, in particolare dall’Europa orientale dal 1880 [in seguito a pogrom nell’impero zarista, ndt.]).

Tale interpretazione della dichiarazione Balfour e il suo rapporto con l’avversione di Balfour verso gli ebrei non è infrequente. Abbas non ha mancato di citare l’“Accordo di trasferimento” tra le autorità naziste e l’Agenzia Ebraica (o con la banca Anglo-Palestinese di Gerusalemme, come ha detto Abbas), che consentì ad ebrei benestanti di emigrare dalla Germania in Palestina.

Abbas non cambierà. Durante i quattro giorni di riunione del CNP, risulterà chiaro se i suoi critici si sono sbagliati quando hanno detto che egli aggraverà la divisione interna tra i palestinesi e, in pratica, seppellirà definitivamente l’OLP come organizzazione pluralistica e di tutti i palestinesi.

La sua implicita minaccia agli abitanti di Gaza e ad Hamas secondo cui intende smettere di includerli nel bilancio dell’ANP è più rilevante.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Ufficiale israeliano in carcere per nove mesi per aver ucciso un adolescente palestinese

Chloé Benoist

mercoledì 25 aprile 2018,Middle East Eye

La famiglia di Nadim Nuwara dice che ricorrerà in appello contro Ben Deri, che ha sparato alla schiena al figlio di 17 anni durante la marcia del 2014 per commemorare la Nakba.

Un poliziotto di frontiera israeliano sarebbe stato condannato a nove mesi di prigione e multato con il corrispettivo di 13.955 dollari per aver ucciso nel 2014 il ragazzo palestinese Nadim Nuwara durante una manifestazione in commemorazione della Nakba.

Il giornale israeliano Haaretz ha riportato che mercoledì un giudice della corte distrettuale di Gerusalemme ha condannato Ben Deri, riscontrando un “significativo livello di negligenza” e ne ha chiesto l’incarcerazione, pur specificando che Deri è “un eccellente ufficiale di polizia rispettoso degli ordini.”

Siyam Nuwara, padre di Nadim, ha detto a Middle East Eye che la famiglia stava pensando di presentare appello contro il verdetto e ha chiesto alla comunità internazionale di intervenire sul caso.

Non c’è giustizia in Israele,” ha detto. “Abbiamo raccolto tutte le prove, ma non c’è giustizia.”

Nuwara aveva 17 anni quando venne colpito alla schiena fuori dalla prigione di Ofer, l’unica prigione israeliana situata all’interno della Cisgiordania occupata, durante una protesta per ricordare il 66° anniversario della Nakba, l’espulsione di 750.000 palestinesi durante la creazione di Israele.

Telecamere di sicurezza e troupe televisive ripresero il momento in cui Nadim fu ucciso.

Quel giorno anche un altro giovane palestinese, Mohammed Odeh Abu al-Thahir, venne colpito ed ucciso, tuttavia le autorità israeliane non hanno aperto nessuna inchiesta giudiziaria sulla sua morte.

Alcuni gruppi per i diritti umani, compreso Human Rights Watch, hanno affermato che il ragazzo non costituiva una minaccia imminente quando è stato ucciso, e HRW ha definito il caso “un evidente crimine di guerra”.

Inizialmente le forze israeliane negarono che quel giorno fossero stati sparati proiettili veri, mentre alcune fonti ufficiali israeliane, tra cui l’allora ambasciatore negli Stati Uniti, Michael Oren, sostennero che le morti di Nuwara e al-Thahir erano una messa in scena.

L’esame autoptico dimostrò che Nuwara era stato colpito al torace. Deri venne arrestato sei mesi dopo e in un primo tempo accusato di omicidio.

La difesa di Deri si è imperniata sulla versione secondo cui un proiettile vero era caduto “accidentalmente” nel caricatore dell’arma dell’ufficiale, mentre lo stava caricando con pallottole di acciaio ricoperto di gomma.

All’inizio del 2017 Deri ha accettato un patteggiamento che ha derubricato l’imputazione contro di lui a omicidio colposo per negligenza.

La famiglia di Nuwara ha contestato il patteggiamento di fronte al tribunale, sostenendo che era stato raggiunto senza che loro ne fossero a conoscenza e che quel giorno Deri aveva usato consapevolmente proiettili veri.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’tselem ha affermato in un comunicato: “Il processo a Ben Deri esemplifica come il sistema investigativo e legale di Israele insabbi le continue uccisioni di palestinesi.”

Persino in questo caso, inusuale in quanto le accuse sono state formulate e si è persino arrivati al processo, l’insabbiamento continua. Il giudizio è finito con una sentenza vergognosamente mite, che serve solo a sottolineare il solito messaggio: le vite dei palestinesi sono a perdere.

Israele sicuramente si vanterà di questo processo come un chiaro esempio della sua capacità di fare giustizia. Al diavolo i fatti, quello che conta è la propaganda.”

L’udienza di mercoledì si è tenuta mentre Israele affronta le critiche per la politica di fuoco indiscriminato nella Striscia di Gaza assediata, dove dal 30 marzo l’esercito israeliano ha ucciso 39 palestinesi e ferito altre migliaia di manifestanti che partecipavano alla “Grande Marcia del Ritorno.”

Le autorità israeliane raramente incriminano soldati che hanno ucciso palestinesi. Quando membri delle forze israeliane sono imputati per queste morti, le condanne sono spesso brevi – creando quello che l’ong israeliana per i diritti umani Yesh Din ha chiamato un contesto di “quasi impunità”.

Hanan Ashrawi, membro direttivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha denunciato il doppio standard del sistema giudiziario israeliano.

È ridicolo che la ragazzina palestinese Ahed Tamimi, che ha affrontato un soldato israeliano che stava invadendo casa sua nella Cisgiordania occupata, sia stata obbligata a scontare otto mesi in una cella di un carcere israeliano,” ha detto.

Nel contempo il poliziotto di frontiera israeliano Ben Deri…ha avuto una sentenza di soli nove mesi.”

Finché la comunità internazionale rimarrà in silenzio, l’ingiustizia e l’oppressione del popolo palestinese continueranno senza sosta. Israele deve essere chiamato a rendere conto della sua violenza incontenibile e delle gravi violazioni contro il popolo palestinese.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Quello che i palestinesi ci possono insegnare sulla resistenza popolare

Ramzy Baroud

11 Aprile 2018, Al Jazeera

La gente di Gaza si è ribellata non per le fazioni politiche palestinesi, ma nonostante loro.

La continua mobilitazione popolare sul confine di Gaza è una reminiscenza di avvenimenti storici precedenti, in cui il popolo palestinese si è sollevato all’unisono per sfidare l’oppressione e chiedere la libertà.

La resistenza popolare palestinese non è né un fenomeno nuovo né estraneo. Scioperi generali di massa e disobbedienza civile, sfidando l’imperialismo britannico e gli insediamenti sionisti in Palestina, iniziarono circa un secolo fa, culminati nel 1936 con uno sciopero generale di sei mesi.

Da allora la resistenza popolare è stata un elemento fondamentale nella storia palestinese ed una caratteristica rilevante della Prima Intifada, la rivolta popolare del 1987.

È superfluo dire che i palestinesi non hanno bisogno di lezioni su come resistere all’occupazione israeliana, lottare contro il razzismo e sfidare l’apartheid. Loro, e solo loro, sono in grado di sviluppare la strategia adeguata e i mezzi che alla fine li porteranno alla vittoria. Oggi la necessità di questa strategia è più che mai urgente, e c’è una ragione di ciò.

Gaza viene soffocata. Il decennale blocco israeliano, insieme all’indifferenza araba e al prolungato conflitto tra le fazioni palestinesi, sono serviti a portare i palestinesi a un passo dal morire di fame e alla disperazione politica. Qualcosa si è spezzato.

Venerdì 30 marzo decine di migliaia di palestinesi si sono ammassati sul confine orientale di Gaza per iniziare una serie di proteste e veglie che dovrebbero durare fino al 15 maggio.

In quella data, settant’anni fa, Israele ha dichiarato l’indipendenza, obbligando centinaia di migliaia di palestinesi all’esilio. Per molti palestinesi la dichiarazione d’indipendenza di Israele, come risultato della distruzione della loro patria, è stato un crimine indimenticabile. Per gli israeliani il 15 maggio è una festa; per il popolo palestinese, è la nostra Nakba, o catastrofe.

Ma la continua mobilitazione di massa non è solo per sottolineare il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi (come sancito dalle leggi internazionali), né solo la commemorazione del “Giorno della Terra”, un evento che ha unito tutti i palestinesi dalle sanguinose proteste del 1976. La manifestazione riguarda la richiesta di un progetto che superi le lotte intestine e che ridia voce al popolo.

Ci sono parecchie somiglianze storiche tra questa mobilitazione e il contesto che ha preceduto la Prima Intifada nel 1987.

All’epoca in tutta la regione i governi arabi avevano largamente relegato la causa palestinese allo status di “problema di qualcun altro”. Alla fine del 1982 l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), già esiliata in Libano, venne espulsa insieme a migliaia di combattenti palestinesi ancora più lontano, in Tunisia, Algeria, Yemen e vari altri Paesi. Questo isolamento geografico rese irrilevante la dirigenza tradizionale della Palestina rispetto a quanto stava succedendo sul terreno, in patria.

Con scarse pressioni su Israele perché ponesse fine all’occupazione illegale di Gerusalemme est, di Gaza e della Cisgiordania, l’occupazione militare israeliana lentamente diventò lo status quo. I palestinesi divennero poco più che prigionieri in una serie di carceri urbane separate – controllati ad ogni incrocio stradale principale, sottoposti ad incursioni nelle loro case in modo prevedibilmente irregolare, e spiati giorno e notte da terra, aria e, nel caso di Gaza, dal mare.

Ma, in quel momento di apparente disperazione, scattò qualcosa. Nel dicembre 1987 la gente (per lo più bambini ed adolescenti) scese in strada con una mobilitazione prevalentemente non violenta che durò oltre sei anni. Ma la dirigenza palestinese non approfittò dell’energia di massa del suo popolo. Peggio, ne approfitto per arrivare alla firma degli accordi di Oslo nel 1993.

Oggi la dirigenza palestinese si trova in una situazione simile di crescente irrilevanza. Di nuovo isolata geograficamente (con Fatah che controlla la Cisgiordania e Hamas Gaza), ma anche dalle divisioni ideologiche.

È vero, ovviamente, che le divisioni politiche ed ideologiche sono tipiche di ogni lotta anticolonialista. Dall’India all’Algeria al Sud Africa, le divisioni interne sono state la norma, non l’eccezione, nei movimenti di liberazione di massa.

Ma mai prima d’ora queste divisioni interne sono state utilizzate come arma in modo così efficace dagli avversari della causa ed usate come argomento contro la causa primaria, per delegittimare la richiesta di un intero popolo per i diritti umani fondamentali: “I palestinesi sono divisi, per cui devono rimanere imprigionati.”

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah sta rapidamente perdendo credibilità tra i palestinesi, a causa delle prolungate accuse di corruzione, con molti che chiedono che il leader dell’ANP dia le dimissioni (tecnicamente il suo mandato è scaduto nel 2009).

Lo scorso dicembre il nuovo presidente USA Donald Trump ha accentuato l’isolamento dell’ANP, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele, sfidando le leggi internazionali e il consenso dell’ONU. Molti vedono questa come nient’altro che la prima di una serie di mosse destinate a marginalizzare ulteriormente l’ANP.

L’Autorità Nazionale non è l’unica fazione palestinese che sta diventando sempre più isolata.

Hamas – in origine un movimento di base nato nei campi di rifugiati di Gaza durante la Prima Intifada – ora è altrettanto indebolita dall’isolamento politico.

Per oltre un decennio, fin dalla sua sanguinosa presa del potere a Gaza nel 2007, la dirigenza di Hamas ha compiuto infinite manovre politiche per rompere l’assedio di Gaza, ma ha ripetutamente fallito. Finalmente ha iniziato a capire di non poter essere utile a quella causa nell’isolamento politico ed ha cominciato a prendere iniziative per la riconciliazione con Fatah. Più di recente, nell’ottobre dello scorso anno i due partiti hanno firmato al Cairo un accordo di riconciliazione.

Come precedenti tentativi di riconciliazione, quest’ultimo ha iniziato quasi subito a vacillare. Il principale ostacolo si è manifestato il 13 marzo, quando il corteo del primo ministro dell’ANP Rami Hamdallah è stato bersaglio di un apparente tentativo di assassinio. Hamdallah stava andando a Gaza attraverso un posto di frontiera israeliano. Subito l’ANP ha incolpato Hamas dell’attacco. Quest’ultimo l’ha fermamente smentito. La politica palestinese è tornata al punto di partenza.

Ma poi c’è stato il 30 marzo. Quando migliaia di palestinesi hanno camminato nella mortale “zona di sicurezza” lungo il confine di Gaza, cioè pacificamente e consapevolmente nel mirino dei cecchini israeliani, la loro intenzione era chiara: essere visti dal mondo come cittadini comuni, che finora sono rimasti invisibili dietro i politici.

I gazawi hanno eretto tende, cantato insieme e sventolato bandiere palestinesi – non quelle delle varie fazioni. Famiglie si sono riunite, bambini hanno giocato, sono comparsi persino dei clown da circo ed hanno fatto spettacoli. È stato un raro momento di unità.

La risposta dell’esercito israeliano è stata, bisogna dirlo, “degna del personaggio”. Uccidendo 17 manifestanti disarmati e ferendo migliaia di persone in un solo giorno, utilizzando le più moderne tecnologie in pallottole esplosive, hanno pensato di poter impartire una lezione ai palestinesi. Si è trattato del manuale 101 delle guardie carcerarie: picchiali, e picchiali di nuovo. Uccidili. Uccidili di nuovo. Persino giornalisti che hanno semplicemente cercato di informare il mondo su questo eroico ma tragico momento sono stati colpiti, feriti e uccisi.

Condanne per questo massacro sono piovute da personaggi rispettati di tutto il mondo come papa Francesco ed organizzazioni come Human Right Watch. Questo barlume di attenzione può aver fornito ai palestinesi un’opportunità di portare l’ingiustizia dell’assedio fino all’ordine del giorno della politica globale, ma sarà una magra consolazione per le famiglie delle vittime.

Consapevole di trovarsi al centro dell’attenzione internazionale, Fatah ha approfittato dell’opportunità di attribuirsi il merito di questo atto spontaneo di resistenza popolare. Il vice presidente, Mahmoud al-Aloul, ha affermato che i manifestanti si sono mobilitati per appoggiare l’ANP “di fronte alle pressioni ed alle cospirazioni architettate contro la nostra causa,” riferendosi senza dubbio alla strategia di isolamento contro l’ANP controllata da Fatah da parte di Trump. Anche Hamas ha cercato di sfruttarla allo stesso modo.

Ma niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Questa volta è il popolo palestinese, sono gli audaci ragazzi e ragazze di Gaza che stanno forgiando la propria strategia, indipendentemente dalle fazioni, di fatto a dispetto delle divisioni. E questa volta dobbiamo ascoltare, smettere di dare lezioni e forse imparare da questi giovani uomini e donne che stanno a petto nudo davanti a cecchini e assassini solo con i loro slogan per la libertà e la loro fede in una vittoria sicura.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente l’orientamento redazionale di Al Jazeera.

(traduzione di Amedeo Rossi)