Come l’Intelligenza Artificiale sta intensificando i bombardamenti israeliani su Gaza

Sophia Goodfriend

6 giugno 2023 – +972 Magazine

Con gli algoritmi che rendono più facile sostenere una guerra, le armi automatizzate hanno trasformato gli assalti israeliani contro i palestinesi assediati in un evento annuale.

“I cieli sopra Gaza sono pieni di bombe israeliane”, mi ha detto Anas Baba quando abbiamo discusso su WhatsApp qualche settimana fa, subito dopo che l’esercito israeliano e la Jihad islamica avevano raggiunto un labile cessate il fuoco successivamente all’ultima offensiva israeliana sulla Striscia bloccata, che ha ucciso 33 persone e ne ha ferite altre decine. Nonostante gli attacchi dei droni fossero cessati, persisteva il ronzio incessante degli UAV [droni, ndt.]. Il loro suono ricordava come ha detto Baba, un giornalista di Gaza che la guerra costituisce ormai un evento con cadenza annuale.

Nel corso dei 16 anni dall’inizio dell’assedio così tante famiglie palestinesi hanno perso la casa nei ripetuti bombardamenti della Striscia che la ricostruzione non ha mai fine ed è resa ancora più difficile dal coinvolgimento di numerose organizzazioni e governi che offrono una assistenza umanitaria limitata. E a causa dell’alto numero di persone interessate e della ingente quantità di fondi necessari per ricostruire, spiega Baba, le famiglie potrebbero trovarsi in lista d’attesa per anni.

I bombardamenti israeliani su Gaza stanno diventando più frequenti grazie alle innovazioni nell’intelligenza artificiale (AI) e a un esercito che si piega ai dettami di governi sempre più di destra. L’esercito si vanta che le unità di intelligence ora possono individuare obiettivi – un processo che richiedeva anni – in appena un mese. Anche se cresce il bilancio delle vittime nei territori occupati le evidenze di questa crisi umanitaria raramente fanno breccia nell’opinione pubblica ebraico-israeliana, barricata dietro censori militari, sistemi di difesa missilistica e semplice indifferenza. Invece, la violenza nella regione viene analizzata attraverso il linguaggio salvifico dell’innovazione tecnologica.

Sulla stampa israeliana queste guerre si svolgono secondo uno schema familiare. Nuove offensive militari su Gaza vengono annunciate come l’uscita di un tanto atteso videogioco della serie Call of Duty. L’esercito satura le pagine dei social media con immagini epiche di soldati armati, mentre nomi biblici evocano una potenza militare di proporzioni mitologiche. Poi i missili piovono su Gaza, spazzando via le infrastrutture, le case e le vite dei palestinesi, mentre le sirene d’allarme per i razzi invitano gli abitanti del sud di Israele a correre nei rifugi fortificati.

Nei giorni successivi all’accordo sul cessate il fuoco i generali fanno il loro giro dei media per parlare delle innovazioni nell’automazione, rivelate nel corso dell’ultimo assalto. Sciami di droni assassini diretti da algoritmi di supercalcolo, che possono sparare e uccidere con un minimo intervento umano, sono celebrati allo stesso modo in cui i CEO della Silicon Valley elogiano i chatbot [gli algoritmi alla base del funzionamento delle chat, ndt.]. Mentre il mondo fa i conti con gli sviluppi fuori controllo dell’AI, ogni guerra intrapresa contro Gaza dall’arsenale militare automatizzato di Israele illustra il costo umano di questi sistemi.

“Un moltiplicatore di forza”

La guerra è sempre stata un’occasione per i militari per il commercio di armi. Ma poiché i bombardamenti asimmetrici di Israele su Gaza sono diventati eventi con cadenza annuale l’esercito ha iniziato a definirsi una sorta di pioniere che esplora il territorio sconosciuto della guerra automatizzata. Le IDF [esercito israeliano,ndt.] hanno proclamato di aver condotto la “prima guerra AI al mondo” nel 2021 – l’offensiva di 11 giorni su Gaza denominata in codice Operation Guardian of the Walls” [Operazione Guardiano delle Mura, ndr.] che, secondo B’tselem, ha ucciso 261 palestinesi ferendone 2.200. I droni hanno spazzato via intere famiglie, danneggiato scuole e cliniche mediche e fatto esplodere grattacieli che ospitavano famiglie, aziende e uffici dei media lontani da qualsiasi obiettivo militare.

Mentre 72.000 palestinesi erano sfollati e altre migliaia piangevano i morti, i generali israeliani si vantavano di aver rivoluzionato la guerra. “L’intelligenza artificiale è stata un moltiplicatore di forza per le IDF”, si sono vantati gli ufficiali, descrivendo in dettaglio come sciami di droni robotici avessero accumulato dati di sorveglianza, individuato obiettivi e sganciato bombe con un intervento umano minimo.

Lo schema si è ripetuto poco più di un anno dopo. Nell’agosto 2022 le IDF hanno lanciato un’offensiva di cinque giorni contro Gaza, denominata “Operazione Breaking Dawn” [sorgere dell’alba, ndt.], che ha causato la morte di 49 palestinesi, inclusi 17 civili. Missili sono esplosi per le strade del campo profughi di Jabalia, uccidendo sette civili, fuori dalle loro case a causa delle interruzioni di corrente. I droni hanno colpito anche un vicino cimitero uccidendo dei bambini che giocavano in un raro lembo di spazio aperto.

Sulla scia della distruzione l’esercito ha lanciato un’altra curatissima campagna di pubbliche relazioni, infrangendo un divieto pluridecennale di discutere apertamente dell’uso nelle operazioni militari di droni basati sull’intelligenza artificiale. Il Brigadier Generale Omri Dor, comandante della base aerea di Palmachim, ha dichiarato al Times of Israel [quotidiano online israeliano, ndt.] che i droni dotati di intelligenza artificiale hanno conferito all’esercito una “precisione chirurgica” nell’assalto, consentendo alle truppe di ridurre al minimo “danni collaterali o danni a altre persone”.

Tuttavia, come tutte le autopromozioni, tali annunci sono un esercizio di autoesaltazione. Per cominciare, nel 2021 Israele non ha condotto la “prima guerra AI” al mondo. Droni, sistemi di difesa missilistica e guerra informatica sono stati usati per decenni in tutto il mondo e piuttosto che l’esercito israeliano sono gli Stati Uniti ad essere spesso considerati il vero pioniere.

Ad esempio in Vietnam sensori e centinaia di computer IBM hanno aiutato le truppe statunitensi a rintracciare, localizzare e uccidere i combattenti vietcong – e molti civili – in attacchi aerei letali. Quando i soldati statunitensi sono entrati in Iraq, lo stesso hanno fatto i robot armati di fucili e in grado di far saltare in aria esplosivi. Dalla fine degli anni 2000 la maggior parte dei governi ha incorporato nei propri arsenali militari e di sorveglianza sistemi di apprendimento automatico. Oggi sciami di droni automatizzati hanno ucciso militanti e civili nelle guerre in Libia e Ucraina.

È stato quindi un problema di saturazione del mercato a motivare l’esercito israeliano a trasformare gli attacchi contro Gaza in campagne pubblicitarie coordinate. Nel 2021 gli esperti di intelligenza artificiale hanno lanciato l’allarme sui droni assassini di fabbricazione turca che potrebbero sciamare e uccidere obiettivi senza intervento umano. La Cina è stata presa di mira per aver esportato sistemi d’arma automatizzati – da sottomarini robotici a droni invisibili – in Pakistan e Arabia Saudita.

Vedendo questo i trafficanti israeliani di armi hanno temuto che altri Paesi potessero eclissare il vantaggio competitivo della “nazione start-up” sulle esportazioni di armi a favore di regimi con sordidi primati a proposito di diritti umani. “E’ovvio che le cose sono cambiate e che Israele deve cambiare atteggiamento se non vuole perdere altri potenziali mercati”, ha detto un alto funzionario militare israeliano in una newsletter dell’industria della difesa dopo l’operazione dell’agosto 2022.

I loro sforzi sono stati ripagati: dopo Guardian of the Walls le esportazioni di armi di Israele hanno raggiunto nel 2021 il massimo storico. Tra i ripetuti bombardamenti su Gaza e con la guerra che infuria in Ucraina, quel numero probabilmente aumenterà.

Nuovi pericoli

L’ubiquità della guerra dell’IA non significa che questa tecnologia debba essere implementata senza salvaguardie e limitazioni. Gli algoritmi possono davvero rendere più efficienti molti aspetti della guerra, dalla guida dei missili all’esame delle informazioni al monitoraggio dei valichi di frontiera. Eppure gli esperti elencano una litania di pericoli posti da questi sistemi: dalla disumanizzazione digitale che riduce gli esseri umani a codici a barre per una macchina in grado di determinare chi dovrebbe vivere o morire, a un costo e una soglia ridotti per un sistema bellico che sostituisce le truppe di terra con algoritmi. Gran parte delle armi sul mercato sono piene di problemi tecnici, per cui si dice identifichino erroneamente gli obiettivi o siano pre-programmate per uccidere determinati gruppi demografici con maggiore frequenza. Anche se riducono il numero di civili uccisi in un singolo bombardamento, come affermano i loro sostenitori, i sistemi d’arma automatizzati rischiano di rendere le battaglie più frequenti e più facili da sostenere facendo sì che la guerra si trascini senza che se ne veda la fine.

Questo è il caso di Gaza. Come afferma Baba, il giornalista: Con una popolazione di 2,3 milioni di persone in un’area di meno di 45 chilometri, Gaza è uno dei luoghi più densamente popolati del mondo. Non importa quanto siano avanzate le tecnologie utilizzate, ogni bombardamento israeliano sulla Striscia uccide innumerevoli spettatori innocenti. “I civili sono spesso vittime del fuoco incrociato”, aggiunge.

Dal 2021, quando Israele ha iniziato a promuovere pubblicamente l’uso dell’intelligenza artificiale nelle operazioni militari, negli attacchi annuali di Israele oltre 300 palestinesi sono stati uccisi e altre migliaia sono stati feriti e sfollati; nei ripetuti assalti infrastrutture vitali come i sistemi fognari e le reti elettriche sono state irrimediabilmente danneggiate. L’automazione potrebbe aver consentito a Israele – se avesse potuto raccogliere le forze e il sostegno politico – di non inviare truppe di terra, impedendo perdite di vite umane dalla sua parte, ma soprattutto la tecnologia ha semplicemente reso più frequente la caduta delle bombe e l’uso di proiettili.

Gli esperti politici discutono spesso dei pericoli posti dai sistemi d’arma automatizzati nel futuro. Ma il costo umano è già evidente in tutta la Palestina. “Abbiamo assistito a lungo alle prove dell’uso da parte di Israele dei TPO [territori palestinesi occupati, ndt.], in particolare di Gaza, come laboratorio per testare e dispiegare tecnologie di armi sperimentali”, ha detto a +972 Omar Shakir, direttore per Israele e Palestina di Human Rights Watch.

Shakir sottolinea che tali armi utilizzate in Cisgiordania e a Gaza, dai droni alla biometria alle torrette potenziate dall’intelligenza artificiale, “servono ad automatizzare l’uso illegale della forza e dell’apartheid da parte di Israele contro i palestinesi”. Data la centralità di Israele nei mercati globali delle armi, Shakir ritiene che “è solo una questione di tempo prima che i sistemi d’arma schierati oggi da Israele finiscano negli angoli più remoti del globo”.

I sostenitori dei diritti digitali hanno anche avvertito che le armi sviluppate in Palestina causeranno il caos se esportate all’estero, sottolineando che questi sistemi provengono da contesti politici in cui il pregiudizio contro i palestinesi è fondamentale. Ad esempio, se l’esercito israeliano ha fornito agli operatori delle istruzioni secondo cui in attacchi con droni un certo numero di non combattenti potrebbe essere ucciso, come +972 ha riportato l’anno scorso, questo numero è replicato negli algoritmi che guidano i missili di precisione? Se i soldati israeliani che gestiscono posti di blocco hanno il compito di detenere temporaneamente uomini palestinesi di una certa età, i nuovi confini biometrici, come riportato di recente da Amnesty International, raccomanderanno la detenzione di tutti coloro che rientrano in questo gruppo demografico? Come ha spiegato Mona Shtaya, direttrice del sistema di patrocinio di 7amleh [associazione no profit che favorisce l’uso del digitale tra i palestinesi in particolare a sostegno dei loro diritti, ndt.]: “Se i dati sono distorti, il risultato finale del prodotto sarà sbilanciato contro i palestinesi”.

L’esercito israeliano non sembra preoccupato dal ritmo di tale sviluppo dell’IA. Cosa fa ChatGPT? Distilla la conoscenza, l’intuizione di cui hai bisogno “, ha affermato il colonnello Uri, comandante della nuova unità di ricerca e informazione sull’IA delle IDF, durante una rara intervista a febbraio. C’è un limite alle tue capacità come essere umano. Se stessi seduto una settimana per elaborare le informazioni potresti giungere alla stessa identica conclusione. Ma una macchina può fare in un minuto ciò che ti richiederebbe una settimana.

Questo tecno-ottimismo si ritrova in tutti i ranghi militari di Israele e lo ha aiutato a giustificare la guerra in corso. I comandanti delle unità di intelligence d’élite hanno volantini auto-pubblicati che esaltano una “sinergia uomo-macchina”. Altri occupano posizioni chiave in aziende di armi come Elbit Systems, desiderose di esportare sistemi d’arma automatizzati in tutto il mondo. Quando a febbraio 60 paesi, tra cui Cina e Stati Uniti, hanno stilato un “invito ad agire” in gran parte simbolico a sostegno dell’uso responsabile dell’IA militare Israele ha rifiutato di firmare la dichiarazione. Invece, i comandanti di alto rango paragonano i robot assassini alle chatbot, scimmiottando i dirigenti tecnologici della Silicon Valley che affermano che l’intelligenza artificiale potrà solo migliorare la vita umana.

La vastità della distruzione in una Gaza assediata rende sempre più difficile credere a tali affermazioni. Se l’ultimo bombardamento rivela qualcosa è che anche le armi tecnologicamente più avanzate non possono compensare il costo umano della guerra, non importa quanto sofisticati siano gli algoritmi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La violenza israeliana è palesemente terrorista, smettiamo di chiamarla “scontri”

Belén Fernández

7 aprile 2023 – Al Jazeera

Fedeli aggrediti ad Al-Aqsa, Gaza di nuovo bombardata, ma i media occidentali continuano ancora a equiparare il collo e la ghigliottina.

Ci risiamo. Lo Stato di Israele sta commettendo una barbarie fuori controllo contro i palestinesi e i grandi media occidentali hanno deciso che tutto ciò si riduce a “scontri”.

L’ultima tornata dei cosiddetti “scontri”, scoppiati quando la polizia israeliana ha deciso di celebrare il mese sacro musulmano del Ramadan aggredendo ripetutamente i fedeli palestinesi nella moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, ha provocato come prevedibile un numero spropositato di vittime.

Centinaia di palestinesi sono stati arrestati e feriti quando le forze israeliane hanno ancora una volta ostentato la loro abilità con proiettili ricoperti di gomma, manganelli, granate stordenti e lacrimogeni. In cambio la polizia ha subito danni minimi, mentre si è impegnata anche ad accompagnare coloni israeliani illegali nel complesso della moschea.

Evidentemente non soddisfatto della violenza scatenata a Gerusalemme, Israele ha anche lanciato bombardamenti contro la Striscia di Gaza e il sud del Libano in seguito a un presunto lancio di razzi.

Come nel caso di tutti i precedenti esempi di “scontri” tra israeliani e palestinesi, la scelta dei media di utilizzare tale terminologia serve a nascondere il monopolio israeliano della violenza e il fatto che Israele uccide, ferisce e mutila a un ritmo astronomicamente superiore della sua presunta controparte negli “scontri”.

Ciò nasconde anche la realtà del fatto che la violenza palestinese è una risposta a una politica israeliana ormai da quasi 75 anni caratterizzata dalla pulizia etnica dei palestinesi, dall’occupazione della terra palestinese e dalla periodica perpetrazione di massacri – scusate, “scontri”.

Scegliete tra gli attacchi militari israeliani contemporanei e troverete iniziative come l’operazione Margine protettivo, un eufemismo per definire il massacro nella Striscia di Gaza nel 2014 di 2.251 persone, tra cui 551 minorenni. Durante un periodo di 22 giorni iniziati nel dicembre 2008, l’operazione Piombo Fuso è costata la vita a circa 1.400 palestinesi a Gaza, con tre civili israeliani morti.

Ci furono molti “scontri” anche nel 2018 quando, in risposta a proteste sul confine di Gaza, l’esercito israeliano uccise centinaia di palestinesi e ne ferì migliaia. E nel maggio 2021 un massacro israeliano durato 11 giorni, denominato operazione Guardiano delle Mura, uccise più di 260 palestinesi, circa un quarto dei quali minorenni. Si dà il caso che quest’ultima operazione sia stata innescata da, che altro, “scontri” nella moschea di Al-Aqsa.

Quel poco di curiosità ha spinto alcuni mezzi di comunicazione a preoccuparsi di ciò che l’attuale “vertiginoso aumento degli spargimenti di sangue” tra israeliani e palestinesi possa far presagire, un ulteriore altro slogan dei media che alla fine maschera il ruolo predominante di Israele nei massacri.

Ovviamente è difficile trovare una qualche equivalenza linguistica o etica all’ossessione dei media nel raccontare la spietatezza israeliana come “scontri”. Non si penserebbe a un alce che si “scontri” con il fucile di un cacciatore proprio come non si percepirebbe uno “scontro” tra il collo di un essere umano e una ghigliottina. Né si descriverebbe il bombardamento letale di un ospedale a Kunduz, in Afghanistan, da parte degli Stati Uniti come uno “scontro” tra una struttura sanitaria e un aereo da guerra AC-130.

Ma, benché chiaramente immorale, la deferenza dei media occidentali nei confronti della narrazione israeliana non è per niente nuova. Molto di questo riguarda il fervido appoggio, in particolare da parte degli USA, al punto di vista israeliano che descrive i persecutori come vittime e i massacri come autodifesa.

Forse la stessa fondazione dello Stato di Israele nel 1948, che vide migliaia di palestinesi massacrati e più di 500 villaggi palestinesi distrutti, in definitiva non fu altro che un grande “scontro”. Di certo la campagna propagandistica israeliana di lungo termine per confondere i palestinesi con il terrorismo continua a garantire considerevoli vantaggi.

È così persino tra i mezzi di informazione più chiaramente progressisti che sono disposti a denunciare i crimini israeliani ma che non riescono ancora a mettere i palestinesi sullo stesso piano di umanità degli israeliani. Per esempio, a febbraio di quest’anno Lawrence Wright, della rivista The New Yorker, ha twittato un video di soldati israeliani che spintonano e picchiano il pacifista palestinese Issa Amro mentre Wright lo sta intervistando a Hebron, città occupata della Cisgiordania. Il commento del giornalista del New Yorker: “Non posso smettere di pensare a quanto sia disumanizzante l’occupazione per i giovani soldati incaricati di imporla.”

In altre parole: i soldati israeliani sono vittime della degradazione morale e della disumanizzazione, mentre i palestinesi non arrivano mai ad essere realmente in primo luogo umani.

Ora, mentre le forze di sicurezza israeliane continuano a disumanizzare e ad essere disumanizzate a Gerusalemme e a Gaza, tutto il discorso relativo agli “scontri” non fa che confermare l’idea che la violenza israeliana, descritta come una semplice parte di una corretta competizione di azioni e reazioni tra due parti equivalenti, sia in fondo giustificata.

Nell’agosto 2022 un attacco di tre giorni dell’esercito israeliano contro Gaza uccise almeno 44 palestinesi, tra cui 16 minorenni, l’episodio più sanguinoso dall’operazione Guardiano delle Mura del 2021. Nessun israeliano venne ucciso in seguito agli eventi di agosto, eppure i media occidentali sono stati ancora diligentemente pronti senza alcun dubbio a raccontare affannosamente di “scontri”.

Come ho sottolineato all’epoca in un articolo su Al Jazeera la versione in rete del Cambridge Dictionary definisce il terrorismo come “(minacce di) un’azione violenta per fini politici”. E tanto più spesso ricordiamo a noi stessi che Israele sta letteralmente terrorizzando i palestinesi tanto prima, forse, potremo porre fine a tutto questo discorso sugli “scontri”.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Belen Fernandez è autrice di Exile: Rejecting America and Finding the World [Esilio: rifiutare l’America e trovare il mondo”] e di “The Imperial Messenger: Thomas Friedman at Work” [“Il messaggero dell’impero: Thomas Friedman [giornalista del NYT noto per le sue posizioni filoisraeliane] al lavoro]. È una collaboratrice di “Jacobin” [“Giacobino”, rivista della sinistra radicale USA, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La Cisgiordania sta per esplodere e Israele fa poco per impedirlo

Amos Harel

4 settembre 2022 – Haaretz

L’accordo nucleare iraniano e la disputa marittima con il Libano proseguono, ma i funzionari della difesa israeliana sono più preoccupati per quello che sta succedendo in Cisgiordania

Quasi tutte le frequenti riunioni sulla sicurezza di Israele si concentrano sul nuovo accordo nucleare fra le potenze mondiali e l’Iran. La disputa sul confine marittimo tra Israele e Libano sta ancora infuriando, accompagnata da minacce violente da parte di Hezbollah. Ma, nelle ultime settimane, in tutti i colloqui con i funzionari della difesa in cima alla lista delle potenziali zone di escalation c’è il contesto palestinese, e in particolare la Cisgiordania.

Questa estate, agli inizi di agosto, nella Striscia di Gaza ci sono stati scontri durati tre giorni. La miccia che li ha accesi è stata l’arresto in Cisgiordania da parte israeliana del comandante del Jihad islamico palestinese. Come le precedenti, l’operazione a Gaza ha evidenziato la limitata capacità delle organizzazioni palestinesi nella Striscia di danneggiare Israele. Il muro costruito da Israele intorno al territorio ne limita notevolmente la penetrazione attraverso i tunnel e lo scudo antimissile Iron Dome [Cupola di Ferro] intercetta la maggior parte dei missili lanciati da Gaza. Hamas ha rivendicato il suo principale successo l’anno scorso durante l’operazione israeliana Guardiano delle Mura quando l’organizzazione ha incoraggiato le violenze sul Monte del Tempio a Gerusalemme e nelle città entro i confini israeliani antecedenti il 1967 dove la popolazione è mista, arabo-ebraica.

Maggiore è il rischio potenziale in Cisgiordania, come si è visto nella seconda intifada e, successivamente, in periodi più brevi, con attacchi di “lupi solitari” per circa sei mesi dall’autunno 2014 e, più recentemente, per circa due mesi questa primavera. La sfida principale, come anche dimostrato quest’anno, è l’impossibilità di impedire completamente ai potenziali terroristi di entrare in Israele dalla Cisgiordania attraverso brecce in alcuni punti nel muro o nella recinzione di separazione. Il risultato: sparatorie e accoltellamenti in Israele e la conseguente maggiore tensione con combattenti palestinesi quando le Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndt.] rispondono con arresti in Cisgiordania.

La più recente ondata di attacchi terroristi è stata fermata a maggio, ma rimpiazzata da aspri e frequenti scontri nel nord della Cisgiordania, nelle zone di Jenin e Nablus. Gli scontri a fuoco durante le operazioni di arresto sono aumentati di dozzine di punti percentuali, come anche i tentativi di attacchi in zone remote contro campi militari e zone civili in Cisgiordania.

Qui abbiamo elencato più di una volta le ragioni: un declino della capacità dell’Autorità Palestinese (ANP) di controllare gli eventi, l’ingresso di organizzazioni locali nel vuoto creatosi, l’esitazione dei meccanismi di sicurezza palestinesi nell’affrontarli e la passività israeliana, espressa anche nella totale paralisi del processo diplomatico (e nella taccagneria quando si tratta di gesti economici). Il timore che questa miscela esplosiva diventi ancora più infiammabile, invischiando Israele e i palestinesi in un altro lungo periodo di escalation, una terza intifada o una versione leggermente più contenuta, emerge in conversazioni con alti funzionari nella sicurezza: il servizio di sicurezza Shin Bet, l’intelligence militare, il Comando Centrale dell’ IDF e l’ufficio del coordinatore delle attività governative nei Territori.

In tutti questi dialoghi si descrive un lento ma quasi certo sprofondare verso il conflitto. L’ANP raramente manda le sue forze di sicurezza nei campi profughi, nei centri delle città e in certi villaggi della Cisgiordania settentrionale. Hamas infiamma la tensione, ma non la controlla. In assenza di attività del meccanismo di sicurezza dell’ANP, l’IDF incrementa le proprie. Nel passato questo metodo è stato descritto come un’efficace “falciatura”: numerosi arresti multipli portano a indagini che a loro volta producono intelligence e altri arresti e gradualmente riducono la portata del terrorismo.

Ma ora si teme che si sia creato un circolo vizioso: la maggior parte degli arresti prende di mira non i veterani fra gli attivisti, ma giovani militanti che hanno sparato contro le forze israeliane. E ogni altra morte di palestinesi durante le azioni dell’IDF intensifica il desiderio di vendetta e trascina altri giovani nel circolo vizioso delle tensioni. L’esercito stima che circa 200 combattenti palestinesi siano stati coinvolti negli scontri recenti, solo a Nablus. Questi sono numeri mai visti in Cisgiordania da anni, probabilmente fin dall’operazione Scudo Difensivo nel 2002, il punto di svolta della seconda intifada. 

Un’altra profonda differenza è la grande quantità di armi presenti oggi in Cisgiordania. Al culmine dell’intifada anche le forze di sicurezza dell’ANP avevano preso parte agli scontri. Fino ad ora questo non è successo, ma le armi automatiche sono molto più comuni nelle strade palestinesi, disponibili a ogni cellula locale. Questo è il risultato di anni di contrabbando dalla Giordania e di furti nel territorio israeliano e dalle basi dell’IDF. In qualche modo il fenomeno è simile a quello che è successo nelle comunità arabe in Israele, dove le pistole sono usate principalmente a scopi criminali, non ideologici. Un funzionario della difesa ha detto ad Haaretz: “Nel corso degli anni la crescita del numero delle armi ricorda quella dei telefonini”.

Le agenzie israeliane di intelligence non possono prevedere se e quando il punto di non ritorno trascinerà la Cisgiordania verso una drammatica escalation. Un allarme strategico lanciato dall’intelligence militare circa sei anni fa è finito nel nulla, ma in questo periodo c’è stato un significativo aumento della frustrazione in Cisgiordania e delle critiche nei confronti del presidente palestinese Mahmoud Abbas, sulla cui successione è in atto uno scontro aperto.

In questo contesto si deve anche citare il Monte del Tempio. L’operazione Guardiano delle Mura è stata scatenata quando i leader di Hamas a Gaza hanno lanciato razzi in risposta agli scontri all’interno del complesso [la Spianata delle Moschee, ndt.] durante il mese di Ramadan, quando i sentimenti religiosi si accendono e ogni divergenza locale sulla moschea Al-Aqsa è vista come una questione di vita o morte. Passato un anno le dispute intorno al sito hanno minacciato di innescare un’altra serie di violenze che poi sono scoppiate ad agosto, ma per altre ragioni.

Il Ramadan arriverà anche il prossimo anno, ma quello che sta succedendo nel frattempo è l’erosione continua dello status quo nel complesso [della Spianata delle Moschee, ndt.] a favore della parte ebraica, in un modo che irrita i musulmani. Ha a che fare con l’erosione della proibizione religiosa ebraica sulle loro visite al sito, accompagnata dalla volontà del governo e della polizia di permettere troppi visitatori. I cambiamenti richiedono un aumento della coordinazione fra Israele, Giordania e il Waqf, l’istituzione religiosa che gestisce il complesso di Al-Aqsa, per rivedere i vecchi accordi la cui storia e le esatte disposizioni sono note a pochi. Abdullah, il re di Giordania, esprime regolarmente la sua collera per la condotta israeliana, ma successivi governi israeliani hanno fatto ben poco a questo proposito. Hanno invece lasciato che i rabbini e le organizzazioni di ebrei che frequentemente visitano il luogo dettino nuove regole inaccettabili per la Giordania e i palestinesi. Come nel passato ciò potrebbe avere risultati drammatici per l’area.

Più sicurezza

Tutto quello qui descritto è ben noto ai leader politici di Israele. Ma guardare sempre alla destra, a quello che dirà il capo dell’opposizione Benjamin Netanyahu, rende difficile per il governo a interim di muoversi per sostenere l’ANP e ancor più riprendere i negoziati di pace.

Sembra che influiscano sulla situazione anche la gara e le rivalità tra il primo ministro Yair Lapid e il ministro della Difesa Benny Gantz (l’unico politico che mantiene ancor contatti diretti e regolari con i leader dell’ANP). Il timore di essere visti come troppo di sinistra paralizza i membri del cosiddetto governo del cambiamento. E bisogna ammettere che persino gli esperti nei vari ministeri del governo, che espongono le loro preoccupazioni in discussioni riservate, non fanno molto per lanciare l’allarme pubblicamente. La luce rossa è accesa: è probabile che a un certo punto ci sarà un’esplosione.

C’è un’altra cosa da tener presente: quando scoppiò la seconda intifada nel settembre 2000, in Cisgiordania vivevano circa 200.000 israeliani. Oggi (secondo l’ufficio centrale di statistica) sono circa 450.000 escludendo i circa 300.000 che stanno nei quartieri di Gerusalemme al di là della Linea Verde [il confine tra Israele e Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967, ndt.]. Come per i palestinesi, una larga parte di loro non ha vissuto di persona la seconda intifada. Il maggiore rischio per la sicurezza a cui sono abituati sono le pietre tirate contro le macchine in autostrada, non gli scontri a fuoco. Nel corso degli anni le colonie in Cisgiordania si sono allargate e in pratica hanno annesso enormi estensioni di terreno come avamposti delle colonie. Un nuovo conflitto in Cisgiordania dovrà garantire la protezione di aree popolate più ampie e la sicurezza costante a molti più israeliani.

Uno strano consenso

Cinquant’anni fa proprio in questo mese il giornalista americano David Halberstam pubblicò “The Best and the Brightest,” [I migliori e i più intelligenti], un classico che documentava il ruolo degli USA nella guerra del Vietnam. Halberstam ha descritto come l’America fosse sprofondata in un conflitto sanguinoso e futile proprio con due presidenti, John Kennedy e Lyndon Johnson, che apparentemente erano circondati dai migliori consulenti.

Potrebbe benissimo essere che il conflitto israelo-palestinese sia più complesso. Inoltre si svolge non a 13.000 chilometri di distanza da casa, ma anzi nel quartiere dall’altra parte della strada. Eppure non è difficile notare alcune somiglianze, a cominciare dall’insistenza con cui si ignora tutto quello che i palestinesi comunicano e segnalano, come se Israele agisse in un vuoto. Questa è l’origine dello strano consenso che è prevalso qui in anni recenti, per cui in Israele, in assenza di un accordo politico sulla soluzione auspicata, sarebbe possibile continuare a gestire il conflitto per sempre, senza subire alcune conseguenze. Questa sembra un’illusione che, alla fine, svanirà davanti alla realtà.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Effetti di un attacco israeliano a Gaza simili a quelli di armi chimiche, rileva il rapporto di una ONG

Bethan McKernan, Gerusalemme e Hazem Balousha, Gaza City

Lunedì 30 maggio 2022 – The Guardian

I proiettili sparati contro un magazzino agrochimico hanno creato una nube tossica che ha causato problemi di salute agli abitanti

Secondo un rapporto che analizza il bombardamento e i suoi effetti, un attacco aereo israeliano contro un magazzino agrochimico durante la guerra dell’anno scorso a Gaza ha rappresentato un equivalente dell’ “impiego indiretto di armi chimiche”.

Il 15 maggio dello scorso anno i proiettili incendiari sparati dalle Forze di difesa israeliane (IDF)  hanno colpito il grande magazzino di prodotti farmaceutici e agricoli di Khudair nel nord della Striscia di Gaza dando fuoco a centinaia di tonnellate di pesticidi, fertilizzanti, plastica e nylon. L’impatto ha creato una nube tossica che ha investito un’area di 5,7 kmq e ha lasciato i residenti locali alle prese con problemi di salute, tra cui due segnalazioni di aborti spontanei, e indicazioni di danni ambientali.

L’indagine approfondita, che ha comportato l’analisi di filmati di telefoni cellulari, droni e telecamere a circuito chiuso, dozzine di interviste con i residenti e l’analisi di esperti di munizioni e dinamica dei fluidi, ha utilizzato un modello in 3D del magazzino per determinare le circostanze dell’attacco.

È la prima pubblicazione da parte dell’unità investigativa di architettura forense della ONG palestinese per i diritti umani Al-Haq, una collaborazione unica nel suo genere in Medio Oriente con Forensic Architecture, un’agenzia di ricerca con sede presso la Goldsmiths University of London, che svolge analisi territoriali e dei media per le ONG e nei casi internazionali riguardanti i diritti umani.

Esperti legali hanno concluso in base alle risultanze di Al-Haq che, sebbene nell’attacco siano state usate armi convenzionali, il bombardamento del magazzino, con la consapevolezza della presenza all’interno di sostanze chimiche tossiche, equivale all’uso indiretto di armi chimiche. Tali atti sono chiaramente vietati… e perseguibili sulla base dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale”.

Chris Cobb-Smith, un esperto di munizioni, avrebbe affermato: Non c’è alcuna giustificazione militare per l’uso in quel luogo di [proiettili fumogeni avanzati]. Il loro impiego in un contesto urbano è intrinsecamente scorretto e inappropriato.

Duecentocinquantasei persone a Gaza e 14 in Israele sono morte nella guerra di 11 giorni del maggio dello scorso anno tra Israele e Hamas, il gruppo militante palestinese che controlla la striscia assediata. Al-Haq ha affermato che l’attacco al magazzino di Khudair è stato il primo di una serie di attacchi mirati deliberatamente alle infrastrutture economiche e industriali di Gaza, con il bombardamento sistematico di una mezza dozzina di altre fabbriche e magazzini.

Nel 2019 la Corte Penale Internazionale (CPI) ha aperto un’indagine su presumibili crimini di guerra da parte delle forze israeliane e dei militanti palestinesi in territorio palestinese. Israele contesta la giurisdizione della CPI.

Le IDF hanno dichiarato che l’anno scorso in risposta alla serie di attacchi di Hamas Israele ha “effettuato una serie di bombardamenti contro obiettivi militari legittimi nella Striscia di Gaza” durante quella che in Israele è nota come Operazione guardiano delle mura.

Le IDF prendono tutte le precauzioni possibili per evitare di danneggiare i civili durante l’attività operativa”, ha detto un portavoce, aggiungendo che “l’evento in questione” è stato oggetto di indagine da parte di un’inchiesta interna delle IDF “per esaminare se ci fossero deviazioni dalle regole vincolanti e operare necessarie modifiche sulla base delle lezioni apprese”.

Israa Khudair, 20 anni, che vive con il marito e due figli a 40 metri dal sito del magazzino agrochimico, ha subito un aborto spontaneo al quinto mese di gravidanza, otto settimane dopo l’attacco.

“Per mesi l’odore è stato insopportabile, come quello del motore di un’auto misto con olio bruciato, liquame e gas da cucina, quindi ovviamente sapevamo che poteva essere dannoso”, ha detto suo marito, Ihab, 26 anni.

Da allora ho avuto eruzioni cutanee come la maggior parte delle persone qui. Abbiamo lavato la casa cinque volte, insieme ai mobili, ma l’odore è rimasto. Era come un olio sui muri… alla fine in inverno la pioggia ne ha spazzato via gran parte dalle macerie del magazzino.

Ora siamo preoccupati per la nostra salute. Di recente uno dei miei cugini, che ha solo 19 anni, e anche mia zia, si sono ammalati di cancro e pensiamo che sia correlato a quello che è successo qui”.

I combattimenti dell’anno scorso hanno costituito il ​​terzo conflitto su vasta scala tra lo Stato israeliano e Hamas da quando il gruppo ha preso il controllo di Gaza nel 2007, dopo di che Israele ed Egitto hanno imposto un blocco punitivo. Da allora le infrastrutture idriche, fognarie ed elettriche della striscia sono quasi collassate, lasciando i 2 milioni di abitanti di Gaza impegnati ad affrontare crescenti livelli di inquinamento dell’aria,  del suolo e dell’acqua.

Anche Al-Haq, che opera a Gaza e in Cisgiordania, è stata attaccata dalle autorità israeliane: l’anno scorso la ONG è stata una delle sei principali organizzazioni della società civile e dei diritti umani che operano nei territori palestinesi occupati ad essere designate come organizzazioni terroristiche. La decisione è stata ampiamente condannata dalle Nazioni Unite, dai governi occidentali e da importanti organizzazioni internazionali come Amnesty International.

Rula Shadeed, la responsabile del dipartimento di monitoraggio e documentazione di Al-Haq, ha dichiarato: Senza la nostra documentazione professionale basata su standard giuridici [i palestinesi] non possono chiedere accertamenti di responsabilità e giustizia. L’introduzione di nuove metodologie per migliorare e completare la documentazione standard e la presentazione del nostro lavoro è molto importante.

“Siamo molto orgogliosi del fatto che, nonostante gli attacchi illegali e i tempi difficili che la società civile palestinese sta affrontando, riusciamo ancora a continuare e ad avanzare nel nostro lavoro, grazie alla nostra ferma convinzione nell’importanza di denunciare le violazioni contro il nostro popolo e di chiamare a rispondere i colpevoli”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)