Editoriale. Antisemitismo. L’estrema destra sbiancata attraverso il suo sostegno a Israele

Alain Gresh e Sarra Grira

19 dicembre 2023 – Orient XXI

La scena sarebbe stata impensabile nemmeno troppo tempo fa: deputati e sostenitori dell’estrema destra, alcuni compagni di strada del Gruppo Unione Difesa [sindacato studentesco di estrema destra, ndt.] (GUD) , che sfilano accanto a gruppi estremisti ebrei come la Lega di Difesa Ebraica (LDJ) e il Bétar [movimento giovanile del partito revisionista sionista fondato da Vladimir Jabotinsky, ndt.], durante la “marcia contro l’antisemitismo” del 12 novembre a Parigi. Nello stesso momento una parte della sinistra, che ha accettato di far da garante a questa manifestazione, veniva fischiata.

In poche settimane le autorità francesi, spalleggiate da diverse forze politiche e dai media, hanno rimosso l’ultimo ostacolo alla “normalizzazione” dell’estrema destra nello spazio politico, tollerando, anzi felicitandosi, della partecipazione del Rassemblement National (RN) [partito francese di estrema destra sovranista di Marine Le Pen, nato dal Front National, ndt.] e di Reconquète [partito francese di estrema destra fondato dal giornalista Eric Zemmour, ndt.] alla marcia del 12 novembre contro l’antisemitismo. L’odio per gli ebrei quindi non è più collegato agli eredi del Front National – partito co-fondato da un vecchio combattente delle SS – che continuano ad affermare che Jean-Marie Le Pen non è antisemita.

Questo antisemitismo non avrebbe alcun legame nemmeno con Reconquête, il cui dirigente Eric Zemmour continua a ripetere, nonostante le sue condanne, che il maresciallo Pétain avrebbe “salvato gli ebrei francesi”. Ormai questo razzismo si manifesterebbe soprattutto attraverso “la diserzione della France Insoumise [movimento politico di sinistra radicale, lanciato da Melanchon, ndt.]”, secondo Dov Alfon, direttore di Liberation, per il quale “la partecipazione del Rassemblement National alla marcia civica” sarebbe semplicemente “imbarazzante” (sic). E per non interrompere un così virtuoso cammino, alcuni partecipanti a questa marcia hanno sventolato, contrariamente a quanto affermato da molti media, delle bandiere israeliane, avallando così la confusione – troppo frequente, troppo sistematica, troppo pericolosa – tra Israele e gli ebrei. Un gesto in linea con l’intenzione già manifestata dal Presidente Emmanuel Macron nel luglio 2017, in occasione della commemorazione del rastrellamento del Velodromo d’Inverno [la più grande retata di ebrei in Francia durante la seconda guerra mondiale, ndt.] al fianco di Benjamin Netanyahu, di fare di Israele il depositario della lotta contro l’antisemitismo nel mondo.

Ebrei? No, israeliani

L’esempio è venuto dall’alto. Il governo di Emmanuel Macron, quello stesso che affermava che Philippe Pétain fu “un grande soldato”, desiderava commemorare la nascita di Charles Maurras, difensore dell’antisemitismo di Stato. Quanto al Ministro dell’Interno Gérald Darmanin, ha scritto un libro per spiegare che Napoleone Bonaparte “si interessò a dirimere le difficoltà relative alla presenza di decine di migliaia di ebrei in Francia. Alcuni di loro praticavano l’usura e davano origine a disordini e lamentele.”

Per il Rassemblement National il processo di ‘sbiancamento’ è iniziato nel 2011: Marine Le Pen affermava allora il sostegno del suo partito ad Israele, mentre Louis Aliot, suo compagno e numero due di quello che ancora si chiamava Front National, si recò a Tel Aviv e nelle colonie per cercare di sedurre l’elettorato francese. Di che far dimenticare i conti del padre e rassicurare le autorità israeliane che, dopo parecchi anni, non nascondono i loro legami con questi sionisti antisemiti, di cui il populista ungherese Victor Orban è uno dei capofila. Recentemente Israele ha avviato un dialogo con il partito Alleanza per l’Unità dei Romeni, che glorifica Ion Antonescu, il leader del Paese durante la seconda guerra mondiale. Collaborò coi nazisti e fu responsabile della morte di 400.000 ebrei. Dall’Austria alla Polonia, Netanyahu non conta più i suoi alleati di estrema destra, neofascisti, spesso negazionisti o nostalgici del III Reich.

La classe dirigente israeliana in realtà non fa che perpetuare così una tradizione che risale ai tempi dei padri fondatori del sionismo: trovare negli antisemiti europei degli alleati per la loro impresa, e che si protrae sulla scia della “convergenza coloniale”. L’universitario israeliano Benjamin Beit-Hallahmi scriveva, a proposito dell’alleanza tra il suo Paese e il Sudafrica dell’apartheid negli anni 1960-1980, il cui partito al potere dal 1948 aveva avuto simpatie per la Germania nazista:

“Si possono detestare gli ebrei e amare gli israeliani perché, in parte, gli israeliani non sono ebrei. Gli israeliani sono dei coloni e dei combattenti, come gli afrikaners [bianchi di origine olandese e ugonotta insediati dell’Africa meridionale, ndt.].”

Così, trovare degli accordi con l’antisemitismo europeo è da tempo la scelta dei dirigenti israeliani, che non si interessano alla lotta contro questo razzismo se non per mettere a tacere le critiche al loro governo, sulla scia di Netanyahu che definisce “antisemita” ogni velleità della Corte Penale Internazionale (CPI) o dell’ONU di indagare sui crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano. Il giornalista Amir Tibon di Haaretz racconta quanto questa alleanza sia “una priorità delle forze religiose di destra in Israele, che propongono ai nazionalisti europei uno scambio: Israele vi fornirà un timbro di approvazione (alcuni lo hanno cinicamente definito un “certificato kasher”) e in cambio voi sosterrete le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.” Troviamo la stessa strategia nei confronti degli Stati Uniti, quando Netanyahu chiude un occhio sulle frequentazioni antisemite di Donald Trump, sull’ideologia dei fondamentalisti cristiani, la lobby filoisraeliana più potente a Washington che lo sostiene, o quando riceve il padrone di X (ex Twitter) Elon Musk a Gerusalemme alcuni giorni dopo aver approvato un tweet antisemita di quest’ultimo. Se il miliardario americano alla fine si è scusato, la sua piattaforma ha visto crescere del 60% i tweet antisemiti dopo che lui ne ha assunto il controllo.

La Palestina come catalizzatore

È proprio intorno alla “convergenza coloniale” che si articola il “nuovo antisemitismo” contro cui marciano, fianco a fianco, i partiti cosiddetti repubblicani e quelli di estrema destra. I loro due bersagli? Da una parte la sinistra anti-colonialista, quella che rifiuta la gerarchia dei razzismi, che non ne denuncia uno (l’antisemitismo) per negare l’esistenza dell’altro (l’islamofobia), e i musulmani nel loro insieme, che ancora ieri venivano chiamati “gli arabi”, i più anziani dei quali marciavano già 40 anni fa contro il razzismo di Stato. Questa sinistra che ha rifiutato di sbiancare il RN viene demonizzata, definita antisemita per la minima critica contro Israele, mentre il Ministro dell’Interno in nome della lotta contro l’antisemitismo, prima di essere richiamato all’ordine dai tribunali, vieta ripetutamente ai sostenitori delle vittime palestinesi di manifestare o di radunarsi.

Il fatto è che gli israeliani come i dirigenti di estrema destra europei percepiscono i musulmani come il nemico principale. Il genocidio in corso a Gaza serve da catalizzatore di questa strategia. Intorno alla difesa di Israele si ritrovano l’estrema destra e i sostenitori di questo Stato, entrambi ricorrendo all’immaginario dello “scontro delle civiltà” in atto dall’11 settembre 2001. Alle dichiarazioni bellicose e escatologiche di Netanyahu, che parla di lotta del “popolo della luce” contro “il popolo delle tenebre” fanno eco le affermazioni di Gilles-William Goldnadel su Le Figaro che evocano “la battaglia finale” tra “l’essere occidentale, la sua cultura pacifica e democratica” e “l’oriente”. Tra la realtà coloniale nella Palestina occupata e quella fantasmatica di un “imbarbarimento” delle periferie (ovviamente musulmane) di cui i “bianchi” sarebbero le prime vittime, non c’è che un passo, che una parte sempre più ampia della classe politica supera allegramente. Parallelismi evidenziati dal giornalista Daniel Schneidermann in un tweet del 30 novembre:

“Civilizzati contro barbari: a volte ho l’impressione che mi si raccontino storie analoghe quando mi si parla di Gaza e quando mi si parla di Crépol [dove venne assassinato in una rissa il giovane Thomas. Molti responsabili e editorialisti hanno strumentalizzato l’incidente facendone un caso di “razzismo anti-bianco”, ndt.]

E così il senatore Stephane Ravier, membro di Reconquète, può dichiarare al senato l’11 ottobre, durante una seduta di interpellanze al governo:

“Questi Fratelli Musulmani che vivono in mezzo a noi a causa della folle politica di immigrazione che tutti voi avete sostenuto qui, miei cari colleghi, per debolezza o per convinzione, bisogna trattarli come in Israele: con una risposta radicale e spietata.”

Così, ecco il nemico interno, ieri ebreo, oggi musulmano. Anch’esso asservito alla retorica elettoralista dell’estrema destra, il governo francese ha deciso di fare della lotta contro l’immigrazione “la sua grande causa” e cerca disperatamente di ottenere il sostegno dei repubblicani [partito della destra storica, ndt.] che nulla separa, su questa questione come su molte altre, dal Rassemblement National.

Oggi c’è una volontà di accordo”, ha dichiarato a questo proposito la presidente dell’Assemblea Nazionale Yael Braun-Pivet. Dopo il suo arrivo alla presidenza Macron ha trasformato, o piuttosto proseguito la trasformazione, del secolarismo del 1905 in secolarismo punitivo contro i musulmani. Ha agitato lo spettro del separatismo facendo di tutto perché i musulmani francesi non si sentano a casa sul nostro territorio. Se gli atti antisemiti sono stati giustamente denunciati, nessuna parola pubblica si è alzata contro l’ondata di affermazioni apertamente arabofobe e islamofobe, addirittura incitazioni all’assassinio e alla violenza, sui canali televisivi e sulle reti social, anche nei confronti di giornalisti musulmani.

Questi due pesi e due msure, l’immobilismo della Francia e dell’Unione Europea di fronte al genocidio in corso a Gaza e lo scatenarsi di violenza islamofoba istituzionale avranno una sola conseguenza: scavare un fossato sempre più largo non solo tra i Paesi del nord e del sud – in particolare tra la Francia e il Maghreb – rendendo concreto il discorso dello “scontro di civiltà”, ma anche all’interno stesso delle nostre società. La stigmatizzazione permanente di una parte dei nostri concittadini e degli immigrati, oltre al bavaglio imposto ad ogni voce critica riguardo a Tel Aviv, avrà un solo effetto: nutrire una collera che si trasformerà in odio e si abbatterà ciecamente nelle strade delle nostre città.

Alain Gresh

Specializzato in Medio Oriente, autore di diversi lavori, tra cui ‘De quoi la Palestine est-elle le nom?’ [la Palestina di che cosa è il nome?]

Sarra Grira

Giornalista, caporedattrice di Orient XXI.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Israele esporta le sue tecnologie di disinformazione

Shir Hever

31 marzo 2023, Orient XXI

Una rete internazionale di giornalisti investigativi, Forbidden Stories, sta attualmente conducendo un’indagine globale sui “mercenari della disinformazione”. Israele, il principale esportatore di servizi in campagne diffamatorie, notizie false e brogli elettorali, sta incassando ingenti profitti, ma la responsabilità legale di questi crimini contro la democrazia rischia di esserle addossata a lungo termine.

Nel febbraio 2023, i giornalisti investigativi dell’associazione Forbidden Stories hanno pubblicato un nuovo capitolo del loro progetto “Story Killers” [1], rivelando una rete di società israeliane che forniscono servizi di disinformazione ai migliori offerenti. Questi servizi, che portano la guerra informatica a un altro livello, includono campagne diffamatorie, diffusione di notizie false e brogli elettorali e referendum.

La consapevolezza di come i social media, la sorveglianza e il data mining possono influenzare le elezioni è arrivata dopo che lo scandalo Cambridge Analytica è stato reso pubblico nel 2018 [2]. Cambridge Analytica ha influenzato più di 200 elezioni in tutto il mondo e uno dei suoi principali fornitori di tecnologia è stato Archimedes Group, una società israeliana. Quando uno dei suoi alti dirigenti Brittany Kaiser è comparso davanti al parlamento britannico per denunciare i crimini, ha affermato di non ricordare i nomi dei dipendenti israeliani di Archimedes Group con cui aveva lavorato.

La guerra informatica in generale e la disinformazione in particolare sono armi molto pericolose. Minano il processo democratico se usati per influenzare le elezioni diffondendo voci e disinformazione e possono anche essere mortali. Così, la giornalista indiana Gauri Lankesh è stata assassinata nel settembre 2017, pochi giorni prima di pubblicare un articolo sulla disinformazione e i suoi pericoli. Lei stessa è stata oggetto di una campagna di calunnie. Dopo il suo omicidio si è scoperto che le persone che l’avevano aggredita sui social non erano mai esistite. I loro account sono stati successivamente cancellati, oscurando le tracce di coloro che avevano orchestrato la campagna.

Un “esercito” di avatar sui social network

Cinque anni dopo, Forbidden Stories ha tentato di capire come funziona questa industria della disinformazione. La collaborazione di giornalisti di diversi paesi li ha portati nella città israeliana di Modi’in, dove si sono atteggiati a clienti desiderosi di acquistare servizi per truccare un’elezione. Hanno incontrato diverse aziende, tutte israeliane, pronte a lanciare per loro conto una campagna di disinformazione per la modica cifra di 6 milioni di euro.

Forbidden Stories, in collaborazione con Amnesty International e Citizen Lab, ha rivelato nel luglio 2021 come alcune aziende israeliane stiano vendendo spyware per hackerare telefoni e computer di giornalisti, attivisti per i diritti umani, avvocati e poliziotti [3]. Il “Progetto Pegasus” ha dimostrato come la tecnologia testata sui civili palestinesi sia stata utilizzata per rafforzare la repressione e gravi violazioni dei diritti umani in tutto il mondo [4].

Un altro aspetto dello spionaggio mercenario israeliano è venuto alla luce. Le aziende di questo settore sono uno sportello unico che vende sia spyware, servizi di spionaggio, hacking di e-mail, in particolare Gmail e Hotmail, sia software di messaggistica, in particolare Telegram, notizie false e distruzione della credibilità dei candidati politici. Lo fanno principalmente utilizzando profili falsi, degli avatar. Lo fanno rubando foto di persone reali e assegnando loro nomi diversi, account di social media e persino portafogli elettronici con denaro reale. Assumono anche agenti nei paesi di destinazione in modo che possano verificare numeri di telefono e indirizzi durante lo sviluppo di questi avatar. Il “Team Jorge”, uno di questi uffici dell’industria della disinformazione israeliana, dispone anche di un “esercito” di 40.000 avatar di questo tipo, creati utilizzando l’intelligenza artificiale. L’elenco delle società di disinformazione israeliane citate nella recente indagine di Story Killers comprende anche Voyager Labs, Percepto, Cognyte, Verint, S2T Cyberspace e Demoman.

Nessuna di queste tecnologie è esclusiva dell’intelligence israeliana. Anche i governi statunitense, europeo e cinese hanno accesso a spyware e tecnologia di disinformazione. Eppure tutte le compagnie che sono state smascherate sono compagnie israeliane, composte da unità di intelligence che hanno esercitato le loro abilità nel monitorare i Palestinesi, ricattandoli e organizzando campagne di disinformazione per seminare discordia tra di loro.

“Diplomazia spyware”

In ogni caso, il monopolio israeliano su questo settore è effettivamente il risultato di una politica governativa. Mentre ogni paese del mondo con accesso a strumenti di disinformazione li tiene per sé, le società private israeliane offrono i propri servizi e tecnologie ai clienti di tutto il mondo. L’indagine di Story Killers ha rivelato che tali società hanno operato in Angola, Burkina Faso, Colombia, Francia, Indonesia, Malesia, Messico, Nigeria, Senegal, Singapore, Sri Lanka, Tunisia e in altri paesi ancora.

Secondo la legge israeliana, alle aziende è vietato esportare tecnologia di sicurezza militare senza l’approvazione del Ministero della Difesa, anche se queste società non sono registrate in Israele. Nonostante questo, Tal Hanan del “Team Jorge” ha detto ai giornalisti sotto copertura di Forbidden Stories che poteva fare quello che voleva senza essere controllato dalle autorità israeliane. Ha nominato solo tre paesi con i quali si rifiuta di collaborare: Russia, Stati Uniti e Israele. Questa è ovviamente una bugia. Il Ministero della Difesa israeliano ha una speciale unità di controspionaggio, il Malmab, incaricata di monitorare gli agenti delle organizzazioni di sicurezza israeliane. All’inizio di marzo, Malmab ha soppresso la società israeliana di spyware NFV per aver venduto spyware non autorizzato.

Tal Hanan afferma di occuparsi di notizie false dal 1997 e di operare fuori da Israele. È chiaro che il Ministero della Difesa israeliano ha le sue ragioni per autorizzarlo. L’affermazione secondo cui l’industria della disinformazione non è regolamentata in Israele ha lo scopo di placare le preoccupazioni dei potenziali clienti. Ma il governo consente agli ex ufficiali di esportare tecnologia militare per guadagnarsi la loro lealtà, stabilendo allo stesso tempo legami non ufficiali con paesi con i quali non ha relazioni diplomatiche. Questa si chiama “diplomazia dello spyware”.

Esportare il modello di dominio coloniale

Le industrie israeliane di disinformazione, spyware e spionaggio aziendale tentano di replicare l’esperienza militare israeliana nella manipolazione delle informazioni per i clienti di tutto il mondo. Nella maggior parte dei casi, finora, è stato un fallimento. L’agenzia di intelligence privata israeliana Black Cube è stata infatti smascherata a più riprese dalle sue vittime. L’industria dello spyware ha finito per offuscare le relazioni estere di Israele, e persino il “Team Jorge” è stato individuato per aver fornito informazioni false al conduttore francese della BFMTV Rachid M’Barki, che è stato licenziato per aver trasmesso senza verificare la fonte.

Incoraggiate dal governo israeliano e armate della loro esperienza nel dominare i palestinesi, le società di disinformazione operano con pochi o nessun scrupolo. Tal Hanan ha detto ai giornalisti sotto copertura di Forbidden Stories che, a parte il timore di rappresaglie da parte delle autorità russe o americane, o di andare contro la propria lealtà sionista operando in Israele – “Non caghiamo dove mangiamo”, ha detto ai giornalisti – lui non pone limiti al caos e alla sofferenza che i suoi servizi possono causare, se valutati correttamente. Ad esempio, si è vantato di aver usato un avatar per convincere la moglie di un candidato politico che suo marito aveva una relazione per sabotare il loro matrimonio e neutralizzare il candidato.

Un’altra società, la Percepto, guidata da Lior Chorev, consigliere politico di Ariel Sharon e Ehud Olmert, non ha esitato ad assumere i servizi di un noto antisemita per diffondere calunnie contro la Croce Rossa al servizio di un cliente in Burkina Faso, proprio poiché non ha esitato a lavorare per dei criminali di guerra israeliani. Tra i suoi clienti c’è anche il milionario messicano Tomás Zerón, ricercato in Messico con l’accusa di sequestro e tortura. Il miliardario israeliano Dan Gertler, che possiede un controverso impero minerario nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) ed è accusato di saccheggiare le risorse naturali del paese e di utilizzare campagne di disinformazione per proteggersi dalle critiche, ha assunto Lior Chorev per garantire la sua comunicazione, mentre le autorità americane indagano sulle sue operazioni nella RDC.

I criminali di guerra e la “cupola di ferro legale”

I giganti Facebook e Twitter sono complici dei crimini commessi dalle società di disinformazione. Meta, precedentemente noto come Facebook, vende i dati degli utenti delle sue società [6]. Facebook e Twitter fanno soldi diffondendo notizie false, ma censurano gli attivisti per i diritti umani, specialmente i palestinesi. Inoltre, quando viene alla luce uno scandalo, rimuovono rapidamente gli avatar. Sostengono di farlo per proteggere gli utenti, ma in realtà aiutano a coprire le loro tracce.

Ultimamente, le proteste in Israele contro le politiche del governo di estrema destra hanno ricevuto molta attenzione. I manifestanti includono ufficiali in pensione, soprattutto di unità di intelligence, impiegati del settore high-tech, compresi i settori della sicurezza, ex membri dello Shin Bet e del Mossad, esperti di armi nucleari e persino soldati spyware. Queste persone stanno partecipando alle proteste perché le riforme giudiziarie attuate dal governo israeliano di estrema destra minacciano le loro carriere e persino la loro libertà.

Mentre l’Israele dell’apartheid sta diventando uno Stato paria e i suoi tribunali non possono più nemmeno fingere di monitorare in modo indipendente le azioni delle forze militari e di sicurezza e di ritenerle responsabili, i profittatori della sorveglianza israeliana si rendono conto che non potranno più agire impunemente. Rischiano di essere incriminati dalla Corte Penale Internazionale (CPI), subire sanzioni dagli Stati Uniti e diventare sempre più isolati a livello internazionale. I criminali di guerra israeliani stanno perdendo la loro “cupola di ferro legale” [7].

I successivi governi israeliani hanno permesso all’industria della disinformazione di prosperare per due decenni come parte di una politica deliberata. I vantaggi di queste esportazioni sono a breve termine e irresponsabili a lungo termine. E mentre la ricerca condotta da Forbidden Stories è molto importante per rivelare il danno fatto, non è sufficiente.

Poiché l’industria della disinformazione influenza i risultati delle elezioni, è quasi impossibile rintracciarla ed esporla senza l’accesso a documenti riservati, in particolare le autorizzazioni rilasciate dal Ministero della Difesa israeliano per ogni vendita di servizi di disinformazione da parte di società israeliane a ciascuno dei loro clienti. Fino a quando il governo israeliano non rilascerà questi documenti, la responsabilità legale di questi crimini ricadrà esclusivamente sul governo israeliano e solo i governi statali e le organizzazioni internazionali (come le Nazioni Unite e i tribunali internazionali) possono costringere Israele a renderne conto.

Shir Hever, Economista indipendente laureato alla Libera Università di Berlino, conduce ricerche sugli aspetti economici dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Il suo ultimo libro, basato sulla sua tesi, è The Privatization of Israeli Security (Pluto Press, 2017).

[1] « Story killers : au cœur de l’industrie mortelle de la désinformation », forbiddenstories.org.

[2] NDLR. Cette société britannique de « conseil en gestion autre que la gestion financière » a été accusée d’avoir organisé l’« aspiration » des données personnelles de 87 millions d’utilisateurs de Facebook dans le but de cibler des messages favorables au Brexit au Royaume-Uni et à l’élection de Donald Trump aux États-Unis en 2016. Ce scandale a provoqué en mai 2018 sa mise en faillite.

[3« Projet Pegasus. Comment Amnesty Tech a révélé le scandale du logiciel espion », Amnesty International, 23 mars 2022.

[4« Devices of Palestinian Human Rights Defenders Hacked with NSO Group’s Pegasus Spyware », Amnesty International, 8 novembre 2021.

[5Stephanie Kirchgaessner, « How undercover reporters caught ‘Team Jorge’ disinformation operatives on camera », The Guardian, 15 février 2023.

[6NDLR. Facebook, Instagram, WhatsApp, Oculus VR.

[7Michael Starr, Dershowitz : High Court an ’Iron Dome’ that protects IDF soldiers from ICC, The Jerusalem Post, 12 janvier 2023.

Traduzione dal francese di Angelo Stefanini




Da un apartheid all’altro tra Soweto e Nazareth

Jean Stern, inviato speciale a Nazareth

6 febbraio 2023 – Orient XXI

Gli abitanti di Nazareth non vivono sotto occupazione militare come in Cisgiordania o sotto un blocco come a Gaza. Però, sia a Soweto visitata nel 1989 sia nella città araba del nord di Israele visitata nel 2022, lo spirito degli abitanti e l’organizzazione urbana e sociale riflettono il fulcro dell’apartheid che è la separazione.

Settembre 1989, Soweto. La gigantesca città nera alle porte di Johannesburg contava allora più di 2 milioni e mezzo di abitanti ed io mi ci recai poco prima che Nelson Mandela uscisse dal carcere, l’11 febbraio 1990. L’apartheid, che relegava i neri del Sudafrica in uno stato di cittadinanza di serie B e in zone specifiche, crollò allora ovunque. Sotto l’influenza di Mandela e dei suoi sostenitori le manifestazioni si moltiplicarono nelle strade delle città sudafricane. Vennero violentemente represse a Soweto come in tutto il Paese. Durante quelle proteste vennero uccisi centinaia di neri, così come dopo decenni centinaia di palestinesi durante manifestazioni a Gaza, nei Territori [palestinesi occupati, ndt.], a Gerusalemme est, ma anche a Nazareth. Nell’autunno del 2000 la polizia israeliana uccise molti abitanti di Nazareth, che manifestavano la loro solidarietà con la rivolta di Gerusalemme est.

Stiamo conquistando la nostra libertà”

Soweto nel 1989 era un mondo a parte, un immenso ghetto urbano, ma è meno tagliato fuori dal mondo di quanto non lo siano oggi Gaza e i territori palestinesi occupati. Si poteva entrare ed uscire anche se, a seconda delle circostanze, i poliziotti controllavano più o meno severamente l’accesso alle sue strette strade e alle sue casette di lamiera ondulata.

Percorsi di notte i locali clandestini di Soweto, gli shebeens, incontrai persone ottimiste che preparavano il futuro di un Paese presto liberato da un sistema razzista contestato dal mondo intero. “Stiamo conquistando la nostra libertà”, diceva Souizo, un uomo di una trentina d’anni, che ballava con me per la gioia di vedere crollare l’apartheid. Dopo tanta rabbia e tanti morti, Souizo sapeva che la mobilitazione mondiale aveva fatto uscire dall’ombra la loro lotta. Con i suoi amici era fiero di spazzare via un sofisticato e subdolo sistema di discriminazione.

A Nazareth, grosso centro orientale e polveroso, più di 30 anni dopo incontro invece persone inquiete, depresse, che pensano che il loro futuro sia bloccato. Città di pellegrinaggi per una parte della cristianità, conosciuta a livello mondiale quanto Soweto, la città della Galilea si trova all’interno delle frontiere del 1948, non lontano dal lago di Tiberiade. In linea d’aria Jenin è a una ventina di chilometri. Popolata soprattutto da arabi, musulmani e cristiani, il suo agglomerato urbano conta circa 200.000 abitanti.

I miei interlocutori condividono la visione premonitrice di Nelson Mandela, espressa nel 2001:

L’efficacia della separazione si misura in termini di capacità di Israele di mantenere lo Stato ebraico e di non avere una minoranza palestinese che potrebbe avere la possibilità di diventare maggioritaria nel futuro. Se questo accadesse, ciò costringerebbe Israele a diventare uno Stato democratico o binazionale laico, oppure a trasformarsi in uno Stato di apartheid de facto.”

Sì, siamo guardati con ostilità”

La maggior parte di coloro che incontro, che una volta venivano chiamati arabi israeliani e che oggi in gran parte preferiscono definirsi palestinesi, ne è testimone. Mandela aveva ragione. Cittadini di serie B, solidali con i palestinesi rinchiusi dall’altra parte del muro o bloccati a Gaza, hanno assolutamente l’impressione di vivere quotidianamente un apartheid. “Sì, per noi l’orizzonte è bloccato, a meno di lasciare questo Paese. Sì, siamo guardati con ostilità dalla maggioranza ebrea di questo Paese. Non dicono tutti i giorni ‘morte agli arabi’, come i coloni più estremisti, ma molti lo pensano”, dice Nassira, una giovane architetta.

Nazareth è cambiata dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948. All’inizio c’era Nazareth “bassa”, 75.000 abitanti di cui il 35% cristiani. Dopo oltre un secolo la città della presunta Annunciazione è in maggioranza musulmana. “Nazareth è stata segnata nel 1948 dall’espulsione della popolazione e dalla demolizione da parte degli israeliani di due villaggi palestinesi contigui, Saffuriya e Ma’aloul”, mi spiega Reda, un intellettuale palestinese trentenne molto impegnato. Fare partire la popolazione araba era l’obbiettivo della creazione nel 1956 di “Nazareth alta”, ©, 40.000 abitanti, ribattezzata nel 2019 Nof HaGalil [Vista sulla Galilea] per distinguersi dalla sua rivale araba. Nazareth Illit è un progetto urbano concepito per riequilibrare la popolazione della Galilea. In questo Paese la demografia governa la politica, come osservava Mandela. Nel 1973 centinaia di persone appena arrivate dall’URSS si stabilirono a Nazareth Illit. Già allora, dopo un sordido fatto di cronaca scesero per le strade al grido di “morte agli arabi”.

La separazione urbana si vede a occhio nudo, anche se non ci sono posti di blocco né barriere tra la vecchia Nazareth araba e la nuova Nazareth a maggioranza ebrea.

Arrivando si scoprono due centri commerciali, il primo nella conca alle porte della città vecchia e il secondo sulle alture all’entrata di Nof HaGalil.

Quello in basso si chiama Big Fashion e quello in alto Mail One. Sono quasi uno di fronte all’altro, a qualche centinaio di metri. Gli stessi marchi internazionali, in basso H&M, Adidas, Mango, Pizza Hut, McDonald e in alto ancora Adidas e anche Mango, Castro, Diesel. La separazione è fatta, un centro per gli arabi, un altro per gli ebrei. A Nazareth ci si evita. I neri di Soweto non avevano il diritto di aggirarsi nei lussuosi centri commerciali del centro di Johannesburg e si accontentavano dei negozi del ghetto, spesso gestiti da indiani, classificati come “indians” dall’apartheid.

L’apartheid inizia nel mio letto”

Ricchi e poveri, bianchi o neri, ebrei o arabi, la regola della separazione produce società spaccate. Si può tradurre il termine apartheid con ‘mettere da parte’, ed è proprio ciò che accade in Israele. Mata, cittadino israeliano, musicista di una quarantina d’anni, riccioli alla Jim Morrison, lo racconta: “La legge produce discriminazione. Per esempio mia moglie ed io abbiamo due status differenti; l’apartheid quindi è già nel mio letto.” Nassira, sua moglie, è “residente” di Gerusalemme est, dove è nata, e di fatto non ha gli stessi diritti di suo marito.

È semplice,” mi spiega Nassira. “Mata ha il diritto di voto, io no. Può prendere l’aereo per andare dove vuole da un momento all’altro, io no. Ha potuto andare nell’università che ha scelto, io no. Viviamo qui insieme, ma io potrei essere costretta da un momento all’altro a ritornare a Gerusalemme est.” Infatti l’assemblea nazionale israeliana nella primavera del 2022 ha rimesso in vigore una legge che impedisce il ricongiungimento familiare per matrimonio tra palestinesi di Israele, di Gerusalemme est e dei territori [palestinesi occupati].

Quale democrazia prevede per una parte della sua popolazione quattro status differenti, a seconda che abiti, come a Nazareth, entro le frontiere del 1948 [cioè in Israele, ndt.], a Gerusalemme est, in Cisgiordania o a Gaza?

L’identità araba è percepita come una minaccia”

Reda denuncia anche la legge del 2018 sullo Stato-Nazione del popolo ebraico, che consacra Israele come una teocrazia ebraica. “Non capisco come gli amici di Israele possano accettare questo. A me non importa di essere ebreo, cristiano o musulmano. Qui l’identità araba è percepita come una minaccia. I media, la vox populi, ci fanno sapere chiaramente che facciamo parte di coloro che minacciano Israele”, precisa.

La piccola galleria-libreria- sala da concerto nel cuore di un suk in piena rinascita, dove ci ritroviamo una sera per un’avvincente esibizione della cantante elettro-folk Sama Mustafa, è un locale accogliente, come i numerosi caffè nei dintorni, come il Centro Baladna – “la nostra città” in arabo – aperto nel 2021 da un collettivo di giovani palestinesi.

Ritrovo l’atmosfera degli shebeens [bar clandestini sudafricani in cui si servivano alcoolici senza licenza, ndt.]. Come a Soweto, ognuno racconta una storia di oppressione, di umiliazione. “Si sta bene qui ed è il nostro momento di tranquillità”, mi spiega Louisa. “Essere israeliane non significa niente per noi. Il mio bisnonno era turco, mio nonno inglese, mio padre israeliano. Israele non è il mio Paese, e me lo fa sapere.”

Quarantenne gioviale, Siman viene da una famiglia comunista e cristiana di Nazareth. Ha lavorato a lungo nel cinema, a Tel Aviv e in tutto il mondo. “Nell’ottobre 2000 si erano organizzate a Nazareth delle manifestazioni a sostegno dell’Intifada. Sono state brutalmente represse, ci sono stati dei morti. Allora ho capito che Israele era uno Stato di apartheid. Non voglio più essere una marionetta imprigionata.” Siman fa una pausa. “Gli israeliani non vogliono porre rimedio alle discriminazioni, le utilizzano e le gestiscono. È questo il loro apartheid.”

Khaled, un professore di matematica incontrato il giorno seguente, mi dice più o meno la stessa cosa. “L’apartheid? Bisogna intendersi sul senso dei termini. Per esempio, io posso dirvi che sono antisionista, quindi godo di una certa libertà di espressione, ma non posso sposare una ragazza di Ramallah o di Gaza, che non potrà venire a vivere con me. E se per esempio io lavorassi nella filiale di Nazareth di una ditta di informatica di Tel Aviv, sarei pagato il 40% in meno di un ebreo israeliano…”

A Soweto avevo incontrato un commesso di una profumeria, che guadagnava nettamente meno dei suoi colleghi bianchi e non lavorava nemmeno nello stesso posto.

Ho capito che era la mia terra”

Certo a Nazareth c’è una borghesia araba ricca, come a Soweto c’era una borghesia nera. Amat, un aitante giovanotto anch’egli molto gioviale, lavora in una società di gestione e guadagna bene. A 27 anni gira in decappottabile, porta vestiti di marca, si destreggia con due cellulari. Si fa il segno della croce davanti ad ogni chiesa, rendendo la scoperta delle stradine strette e ripide nel suo coupé divertente, ma caotica… “Io dico che sono Amat, non dico mai che sono cristiano, musulmano o ebreo”, mi spiega trascinandomi in una visita approfondita dei confini della città, alcuni visibili, un viale, la fine di un isolato, altri invisibili. “Ci sono molti bambini musulmani nelle scuole cristiane, ma non ci sono cristiani o musulmani nelle scuole ebraiche”, dice ad esempio. Amat sottolinea anche la crescente insicurezza. I numerosi e sanguinosi regolamenti di conti fra trafficanti di droga per lui sono la prova che il governo si cura poco della vita degli arabi. Amat segnala l’impossibilità per la sua famiglia di acquistare un appartamento sulle alture di Haifa o a Tel Aviv. Non è una questione di soldi, ma “nessuno vende a noi.”

Kaid è un ragazzo gracile, appena uscito dall’adolescenza. A 18 anni, nella primavera del 2021 ha subito un arresto arbitrario, un pestaggio e tre notti di prigione. Kaid manifestava la sua solidarietà con i palestinesi di Gerusalemme est, di Gaza, della Cisgiordania. La manifestazione è stata brutalmente dispersa, molti giovani arrestati a Nazareth, ma anche a Haifa e a Lod [altre città israeliane con presenza araba, ndt.]. Kaid ammette senza vergogna di aver avuto paura. “Ho l’età per divertirmi, ma le cose che mi sono successe mi hanno cambiato. Dopo sono andato a Gerusalemme e a Betlemme, per la prima volta nella mia vita. Ho capito che era la mia terra.” Ciò che lo rende orgoglioso è che suo nonno e suo padre si sono battuti senza sosta per farlo liberare e non hanno avuto una parola di rimprovero per aver manifestato.

Per Reda, a cui racconto la storia di Kaid, “parlare di una polizia che ci prende di mira è parlare di apartheid. Dieci o venti anni fa quando parlavamo di apartheid ci si accusava di radicalismo, aggiunge. Un’organizzazione israeliana, B’Tselem, ha posto la questione dell’apartheid, seguita da Amnesty. È bello sapere che almeno il problema dei nostri diritti non è più a geometria variabile.”

Anche se, aggiunge Mata, “le cose non stanno cambiando. È molto deprimente.”

L’accesso all’acqua e all’educazione al primo posto

Due esempi tratti dal rapporto di Amnesty International chiariscono le differenze di livello nelle discriminazioni di cui sono vittima i palestinesi a seconda del luogo in cui risiedono. Per chi vive nei territori [palestinesi occupati, ndt.] l’accesso all’acqua è limitato. Il loro consumo è di circa 70 litri al giorno per persona, contro i 369 litri per un colono israeliano. Secondo le Nazioni Unite il 90% delle famiglie di Gaza deve comprare l’acqua a un prezzo molto alto presso gli impianti di desalinizzazione o di purificazione. I palestinesi che vivono in Israele invece hanno accesso alle stesse quantità di acqua degli altri cittadini. Con la notevole eccezione dei beduini del Negev, soggetti ad una serie di misure restrittive, compreso l’accesso all’acqua corrente…

Quanto all’educazione, gli alunni palestinesi di ambienti sfavoriti in Israele e a Gerusalemme est dispongono di meno risorse rispetto agli alunni ebrei. Secondo uno studio del 2016 il 30% di finanziamenti in meno per ora di apprendimento nella scuola elementare, il 50% in meno alle medie inferiori e il 75% in meno alle superiori.

Molti detrattori della posizione di Amnesty considerano che ciò che può sembrare pertinente per la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est non lo è per l’Israele di prima del 1967. Significa dimenticare che dopo la Nakba gli arabi rimasti in Israele sono stati sottoposti dal 1948 al 1966 ad un regime militare con espulsione dalle case, arresti arbitrari e un sistema drastico di controllo e sorveglianza – antenato di Pegasus [sistema israeliano di spionaggio elettronico, ndt.]. Rimuovere la polvere della Storia è uno dei meriti del rapporto di Amnesty.

Jean Stern

Veterano di Libération, La Tribune e La Chronique d’Amnesty International. Ha pubblicato nel 2012 Les patrons de la presse nationale, tous mauvais [I padroni della stampa nazionale, tutti cattivi] per La Fabrique; per le edizioni Libertalia: nel 2017 Mirage gay à Tel Aviv [Miraggio gay a Tel Aviv] e nel 2020 Canicule [Canicola].

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Carrefour fa affari nelle colonie israeliane

Jean Stern

23 novembre 2022 – Orient XXI

In società con un partner israeliano il gigante francese della distribuzione lancia una nuova catena di supermercati in Israele e in diverse colonie dei territori palestinesi occupati. Una scelta cinica contraria al diritto internazionale, della quale il Primo Ministro israeliano uscente si è detto felice.

Sono ormai più di 200 le colonie israeliane in Cisgiordania e variano da qualche famiglia a parecchie decine di migliaia di abitanti. Le due colonie più importanti, Maale Adumin vicina a Gerusalemme e Ariel non lontana da Nablus, sono diventate vere e proprie città, rispettivamente con oltre 40.000 e oltre 20.000 abitanti. Ariel inoltre ospita un’università inserita nel sistema universitario israeliano. Le colonie, installate il più delle volte su alture o posizioni dominanti, ricoprono e rimodellano la Cisgiordania.

Costituiscono dei mondi chiusi, recintati da filo spinato, turni di guardia, tralicci luminosi e camminamenti di ronda e sono serviti da strade quasi sempre vietate ai veicoli palestinesi. Quando i coloni escono dai loro universi chiusi e dalle loro strade messe in sicurezza è per attaccare i palestinesi. La recrudescenza della violenza dei coloni nei loro confronti vede una crescita esponenziale e drammatica dall’inizio del 2022.

I supermercati al centro della vita sociale

Tre luoghi sono determinanti per la vita sociale di queste colonie che hanno poche attività industriali ed economiche, ad eccezione delle colonie agricole della Valle del Giordano e del nord della Cisgiordania. La maggior parte dei coloni lavora a Gerusalemme o nell’area urbana di Tel Aviv, e spesso deve passare tre o quattro ore al giorno in viaggio. In questi spazi urbani paranoici e sinistri i tre luoghi centrali sono la sinagoga, il campo sportivo e il supermercato, a lungo la sola attività commerciale della zona, tranne alcuni servizi a domicilio, per esempio parrucchieri.

In questi supermercati, generalmente molto modesti, di un centinaio di m2, si trova di tutto, come si usa dire, e queste attività di prossimità sono essenziali al corretto funzionamento delle zone illegali rispetto al diritto internazionale. I prezzi sono molto alti, ancor più che nei negozi di alimentari in Israele, dove d’altronde la vita è molto cara. In diverse colonie dove la popolazione di origine russa è molto numerosa ho visto rivendite di alcolici particolarmente ben fornite, da fare invidia ad un negozio notturno di Parigi, ovviamente con delle bottiglie di vodka per tutti i gusti e per tutti i prezzi.

Una popolazione rinchiusa e in espansione, l’assenza di vera concorrenza: la scelta del gruppo francese Carrefour, uno dei giganti mondiali del commercio con più di 12.000 rivendite in 39 Paesi, è stata quella di insediarsi nelle colonie dei territori palestinesi occupati. Citata in un rapporto pubblicato il 17 novembre 2022 dall’Associazione di Solidarietà Francia-Palestina (AFPS) insieme alla CGT [sindacato francese, ndt.], Solidaires, Lega dei Diritti Umani (LDH), Piattaforma delle ONG per la Palestina e Al-Haq, questa decisione è quindi tutt’altro che casuale.

Un accordo sottoscritto per 20 anni

Si tratta di un accordo di franchising firmato a inizio marzo 2022 tra Carrefour e Yenot Bitan, filiale del gruppo israeliano Elco. Della durata di 20 anni, l’accordo consentirà ai negozi Yenot Bitan, per ora 150, di vendere una certa quantità di prodotti di marchio Carrefour. Questi negozi saranno anzitutto rinominati “Super”, ma non è escluso che alla fine il marchio Carrefour si installi con proprio nome in Israele e nei territori palestinesi. Il partner israeliano di Carrefour, il gruppo Elco, ed una delle sue filiali, Electra Consumer Products, sono inoltre coinvolti in vario modo nell’economia delle colonie (costruzione di alloggi e lavori pubblici, climatizzazione di edifici, generatori elettrici…). È quindi difficile che Carrefour possa dire di non aver saputo niente nella scelta dei suoi alleati commerciali. Tanto più che le Nazioni Unite hanno pubblicato nel 2013 un elenco di dieci “attività suscettibili di rendere le imprese israeliane o multinazionali complici di violazioni dei diritti umani in relazione alla colonizzazione del territorio palestinese”, precisa il rapporto, di cui fa parte “l’offerta di servizi e prestazioni che contribuiscono al mantenimento e all’esistenza delle colonie di insediamento.” Non si potrebbe essere più chiari.

Attualmente Yenot Bitan possiede tre supermercati nelle colonie, uno a Alfei Menashe, non lontano da Tulkarem e che conta 8.000 abitanti e due nelle “mega-colonie” che formano Maale Adumin e Ariel. In queste due colonie questi supermercati completano l’offerta commerciale dei grandi centri commerciali dove alcuni marchi internazionali come Castro hanno dei negozi.

Il Primo Ministro israeliano uscente, Yair Lapid, a luglio si è chiaramente felicitato di questo accordo, che a suo parere consentirà ad altre imprese della distribuzione di “seguirne le orme”. Inoltre anche il gruppo olandese Spar prevede di aprire filiali in Israele e sicuramente nei territori occupati. La scelta di Carrefour di installarsi nella Cisgiordania occupata contribuisce dunque alla banalizzazione della colonizzazione, perché occultare gli abusi che essa comporta è l’obbiettivo principale della propaganda israeliana.

La ripresa della campagna #stopcolonie

I governi israeliani, e certamente ancor di più quello che sta predisponendo Benjamin Netanyahu, vogliono infatti che gli alleati internazionali di Israele, soprattutto la Francia e l’Unione Europea (UE), non facciano più della colonizzazione un casus belli. Per parte loro l’AFPS (Associazione Francia-Palestina) e i suoi alleati ritengono che si tratti di complicità diretta di Carrefour con la colonizzazione. “Se Carrefour intende conformarsi a principi etici che peraltro pone come prioritari, deve recedere da questo accordo”, afferma Bertrand Heilbronn, presidente della AFPS. “Quando diciamo che la colonizzazione è un crimine di guerra, non è un’affermazione retorica.”

Dopo la pubblicazione del rapporto il 17 novembre, alla fine il presidente dell’AFPS ha incontrato, insieme ai rappresentanti della Piattaforma delle ONG per la Palestina e della LDH, una delegazione del settore “responsabilità sociale delle imprese” di Carrefour. Si trattava di evidenziare le contraddizioni dell’impresa che assicura nei suoi “principi etici” che “la promozione dei diritti umani è fondamentale per condurre le proprie attività in modo responsabile e duraturo.” L’inquietante investimento nei supermercati delle colonie dimostra bene, se ci fosse qualche dubbio, che si tratta di parole al vento…tipiche del cinismo delle grandi imprese globalizzate.

Non hanno chiuso la porta”, precisa uno dei partecipanti all’incontro, “ma neppure rinunciano”. Dato che l’impresa non recede dalla sua scelta di investire nelle colonie, i firmatari del rapporto lanceranno una campagna che fa appello all’opinione pubblica, in particolare nei confronti dei (numerosi) clienti francesi dei diversi supermercati Carrefour. Si tratta anche di proseguire la campagna #stopcolonie lanciata da qualche mese proprio per porre fine al commercio con le colonie. Oltre ai firmatari del rapporto su Carrefour, questa campagna è sostenuta da diversi partiti di sinistra, in particolare dagli ecologisti di ‘Europe Ecologie Les Verts’ [Europa Ecologia-I Verdi] (EELV) e dal PCF [partito comunista francese, ndt.], e anche dalla Confederazione degli agricoltori e dalla Confederazione Francese Democratica del Lavoro (CFDT). Il loro impegno deve superare la fase simbolica, dato che i francesi hanno dimostrato in varie circostanze che, contrariamente ai dirigenti del gruppo Carrefour, non dimenticano la Palestina. “Partecipiamo con molta convinzione”, dice un responsabile della Piattaforma delle ONG per la Palestina. Di fronte all’inganno di Carrefour e di alcune altre società francesi, non si può che rallegrarsene. Sempre che duri….

Jean Stern

Storico collaboratore di Liberation, La Tribune e La Chronique d’ Amnesty International. Ha pubblicato nel 2012 “Les patrons de la presse nationale, tous mauvais” [I padroni della stampa nazionale, tutti cattivi], per La Fabrique; per le edizioni Libertalia: nel 2017 “Mirage gay à Tel Aviv” [Miraggio gay a Tel Aviv] e nel 2020 “Canicule” [Canicola].

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




L’enciclopedia in rete sulla “questione della Palestina”

 

Françoise Feugas

17 agosto 2022 – Orient XXI

 

Concepita dall’Institute for Palestine Studies [Istituto per gli Studi sulla Palestina, il più antico istituto di ricerca indipendente senza scopo di lucro nel mondo arabo, ndt.] nel contesto del progetto congiunto con il Museo Palestinese di Birzeit, l’Enciclopedia interattiva della questione palestinese [https://palquest.org/e] ha come obiettivo offrire a un pubblico più ampio, in arabo e in inglese (in attesa che abbia presto una versione in francese), una storia impegnata della Palestina moderna, dalla conquista ottomana a nostri giorni.

Da una ventina d’anni l’Institute for Palestine Studies (IPS) cerca di presentare a un vasto pubblico le conoscenze e i documenti sulla storia della Palestina accumulati dalla sua creazione nel 1963. L’idea di base, ispirata al modello di Wikipedia, era pubblicare in rete una serie di brevi testi informativi piuttosto didascalici e una cronologia del “processo di pace”, progressivamente esteso per coprire altri argomenti legati alla questione palestinese.

Da parte sua la Welfare Association/Taawon [Ong palestinese con sede in Svizzera, ndt.], che da molto tempo collabora con l’IPS, si preparava a lanciare il suo progetto di punta, il Palestinian Museum [Museo Palestinese, https://www.taawon.org/en/media/news/palestinian-museum]. Nel 2012-2013 l’IPS e la Welfare Association cercarono insieme ciò che potesse essere utile sia ai futuri programmi culturali del museo che a promuovere la missione dell’IPS. Le due organizzazioni concordarono sulla necessità di definire una cronologia degli avvenimenti politici e militari che hanno plasmato la Palestina dalla metà del XIX secolo, collegata a documenti storici e completata da qualche articolo di fondo sui principali temi legati alla questione palestinese.

Dalla conquista ottomana alla colonizzazione israeliana

All’inizio del 2014, nel corso dalla sua prima fase di sviluppo, erano già pronti circa 1.000 sequenze temporali e 30 highlights (episodi o fatti salienti). Due anni dopo, basandosi sull’esperienza acquisita, l’IPS sviluppò delle cronologie tematiche. La copertura degli highlights venne estesa per includere non solo le questioni politiche e militari, ma anche quelle sociali e culturali. In seguito sono state aggiunte delle biografie di intellettuali, artisti, dirigenti, combattenti e politici palestinesi che hanno segnato la storia della Palestina nel corso del XX secolo, e poi un sistema di ubicazione geografica delle città e dei villaggi distrutti, indicati su carte storiche della Palestina.

Oggi il sito si presenta come una piattaforma bilingue, in arabo e in inglese, rivolta ai docenti universitari, agli studenti, ai giornalisti e al pubblico in generale. La sua colonna vertebrale è una cronologia generale e dettagliata, probabilmente la più completa che esista, composta da circa 2.000 voci. Inizia con la conquista del Levante da parte degli Ottomani nel 1516 e termina, per il momento, con il 31 dicembre 2018 e l’ennesimo resoconto dell’avanzata della colonizzazione israeliana in Cisgiordania. È suddivisa in tredici macro-periodi storici, l’ultimo dei quali inizia nel gennaio 2017.

Ogni avvenimento citato è un collegamento che porta a una scheda riassuntiva e rinvia a un articolo di analisi approfondita scritto da un autore qualificato, seguito da una bibliografia selezionata e da altri collegamenti su avvenimenti complementari e fatti significativi. Ogni fatto storico è anche definito in funzione della sua natura grazie a uno o due termini: “contestuale”, “azione popolare”, “istituzionale”, “socio-economica”, “violenza”, “diplomatica”, “giuridica”, “politica”, “colonizzazione”, “programma politico”, “biografico”, “culturale”. In compenso il fatto che [questi termini] non siano cliccabili non consente di visualizzare l’insieme dei documenti che essi prendono in considerazione. Quindi funzionano piuttosto come altrettanti sottotitoli.

Li si ritrova nelle cronologie tematiche che esplorano la storia in modo trasversale, ad esempio con la storia della diplomazia e delle relazioni internazionali, quella dell’OLP, delle diverse tappe delle guerre israelo-arabe e dei cicli di negoziati.

Queste multiple classificazioni e questa pletora di collegamenti a volte possono dare una sensazione di vertigine e sembrano molto prescrittive. Tuttavia si capisce che sono presenti per ragioni didattiche, illustrate dall’affermazione un po’ contraddittoria secondo cui l’Enciclopedia è stata voluta sia come “obiettiva” che “militante”.

I documenti d’archivio non spariscono

Si può anche accedere direttamente alla pagina dedicata agli highlights, tutti redatti da docenti universitari. Nel centinaio di avvenimenti che vi sono presentati figurano in particolare la riorganizzazione territoriale ottomana, il diritto penale nella Palestina mandataria, l’ebraizzazione della Galilea, il Partito Comunista Palestinese, i rifugiati, oppure le trasformazioni dei significati della Nakba nel corso del tempo.

“Biografie” permette di esplorare la vita e l’opera di alcuni “uomini importanti” palestinesi – ci sono solo 20 donne su 109 profili –, mentre “Luoghi” propone una cartina con la collocazione di centinaia di villaggi distrutti da Israele durante la Nakba. Ogni nome di villaggio ha un collegamento che porta a una scheda che lo situa sulla cartina locale, fornisce delle foto e cifre sul numero di abitanti, di proprietari e sulle terre coltivabili, ne descrive la configurazione prima del 1948, ed eventualmente la sostituzione con abitazioni ebraiche e ciò che ne resta oggi. Gli avvenimenti storici della cronologia che li riguardano sono anche accessibili attraverso dei link.

La sezione “Documenti” è senza dubbio la più ricca in termini di risorse e costituisce la principale dimostrazione del lavoro d’archivio molto lungo e minuzioso realizzato dall’IPS fin dalla sua creazione. Centinaia di foto, documenti storici, cartine e grafici digitalizzati sono qui liberamente accessibili attraverso un sistema di ricerca e di selezione per titolo, data o tipo di documento. L’interesse che questa sezione rappresenta, in particolare per gli accademici e i giornalisti, è indiscutibile.

Questo tesoro archivistico e documentario funziona, sul modello del sito e del progetto enciclopedico che ne è all’origine, come a specchio, per non dire in risposta, rispetto alla questione della cancellazione quasi annunciata della Palestina che forma il tredicesimo e ultimo capitolo della sua cronologia, intitolato con toni cupi “Con uno stallo sempre più insormontabile, fine della Palestina?” («With a growingly intractable deadlock, wither Palestine?»): quanto a loro, i documenti d’archivio continuano a testimoniare la sua esistenza nel tempo e nello spazio.

Françoise Feugas

Laureata in letteratura comparata e in scienze dell’informazione e della documentazione, giornalista, ha lavorato in particolare come documentalista-archivista e come direttrice di progetto in informazione-comunicazione. Responsabile editoriale di Orient XXI.

 

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Oscenità israeliane, complicità occidentali e arabe

Alain Gresh

16 maggio 2022 – Orient XXI

Osceno. In base a quanto scrive il Dictionnaire étymologique de la langue française [Dizionario etimologico della lingua francese] di Alain Rey, l’aggettivo derivato dal latino obscenus significa “di cattivo augurio, sinistro”, ed è entrato nel linguaggio comune con il senso di “aspetto orrendo che deve essere nascosto”.

Antigone a Gerusalemme

È il primo aggettivo che viene in mente vedendo le immagini dei funerali della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, assassinata mercoledì 11 maggio 2022 dall’esercito israeliano. Alcuni poliziotti assalgono la sua bara che rischia di essere rovesciata, manganellano i manifestanti, lanciano granate assordanti e strappano bandiere palestinesi. Anche al di là di ogni giudizio politico, questa azione mina nel più profondo la dignità umana, viola un principio sacro che risale alla notte dei tempi: il diritto ad essere sepolti con dignità, che riesuma il mito di Antigone, la quale si rivolge al re Creonte che rifiuta di seppellire suo fratello e di cui lei ha violato gli ordini:

Non ritengo che i tuoi proclami siano talmente potenti che le leggi degli dei, non scritte e sempre certe, possano essere superate da un semplice mortale.”

Israele non cerca affatto di nascondere le proprie azioni, perché non le considera oscene. Agisce alla luce del sole, con questa chutzpah, questa arroganza, questo sentimento coloniale di superiorità che caratterizza non solo la maggioranza della classe politica israeliana, ma anche gran parte dei media, allineati con la versione diffusa dai portavoce dell’esercito. Itamar Ben-Gvir ha un bell’essere un deputato fascista – come sono, con sfumature diverse, molti dei membri dell’attuale governo o dell’opposizione. Egli esprime un sentimento condiviso in Israele quando scrive: “Mentre i terroristi sparano sui nostri soldati a Jenin, essi devono rispondere con tutta la forza necessaria, anche quando ‘giornaliste’ di Al-Jazeera sono presenti nella zona in mezzo alla battaglia per ostacolare i nostri soldati.”

La sua frase conferma che l’assassinio di Shireen Abu Akleh non è un incidente, ma il risultato di una politica deliberata, sistematica, ragionata. Altrimenti come spiegare il fatto che mai nessuno dei giornalisti israeliani che informano sugli stessi avvenimenti è stato ucciso, mentre secondo Reporter Senza Frontiere (RSF) dal 2001 sono stati eliminati 35 dei loro colleghi palestinesi, in maggioranza fotografi e cineoperatori – i più “pericolosi” perché raccontano con le immagini quello che succede sul terreno? Questa asimmetria non è che una delle molteplici sfaccettature dell’apartheid all’opera in Israele-Palestina così ben descritto da Amnesty International: a seconda che siate occupante o occupato, per parafrasare La Fontaine, le “sentenze” israeliane vi renderanno bianchi o neri e la maggior parte delle volte la sentenza è la pena di morte per il più debole.

Il colpevole può indagare sul crimine che ha commesso?

L’uccisione di Shireen Abu Akleh ha suscitato per una volta qualche reazione internazionale ufficiale in più del solito. La sua notorietà, il fatto che fosse cittadina americana e di religione cristiana vi ha contribuito. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha persino adottato una risoluzione di condanna del crimine e chiesto un’inchiesta “immediata, approfondita, trasparente e imparziale”, senza peraltro arrivare ad esigere che sia internazionale, una cosa che Israele rifiuta sempre. Ora, si possono associare alla conduzione delle indagini i responsabili del crimine? Da anni le organizzazioni israeliane per la difesa dei diritti umani come B’Tselem, o internazionali come Amnesty International o Human Rights Watch (HRW), hanno documentato il modo in cui le “indagini” dell’esercito israeliano non danno mai risultati.

Queste proteste ufficiali saranno seguite dai fatti? Si può già rispondere di no. Non ci sarà un’inchiesta internazionale, perché né l’Occidente né i Paesi arabi che hanno normalizzato i rapporti con Israele sono pronti ad andare oltre le denunce verbali che non danno fastidio a nessuno. Né a riconoscere quello che peraltro la storia recente conferma, cioè che ogni concessione fatta ad Israele, invece di provocare la “moderazione” di Tel Aviv, incoraggia la colonizzazione e la repressione. Chi ricorda che gli Emirati Arabi Uniti (EAU) sostenevano che l’apertura di un’ambasciata di Tel Aviv ad Abu Dhabi avrebbe permesso di influenzare la politica israeliana? E la compiacenza di Washington o dell’Unione Europea (UE) nei confronti del governo israeliano, “il nostro alleato nella guerra contro il terrorismo”, ha forse portato almeno a un rallentamento della colonizzazione dei territori occupati, che peraltro essi fingono di condannare?

La Corte Suprema ratifica l’occupazione

Due fatti recenti hanno da poco confermato l’indifferenza totale del potere israeliano rispetto alle “rimostranze” dei suoi amici. La Corte Suprema israeliana ha approvato il più grande spostamento forzato di popolazione dal 1967: l’espulsione di più di 1.000 palestinesi che vivono in otto villaggi a sud di Hebron scrivendo, senza alcuna vergogna, che le leggi israeliane sono al di sopra del diritto internazionale. Troppo occupati a punire la Russia, gli occidentali non hanno reagito. E lo stesso giorno delle esequie di Shireen Abu Akleh il governo israeliano ha annunciato la costruzione di 4.400 nuovi alloggi nelle colonie in Cisgiordania. Perché dovrebbe moderarsi, dato che sa di non rischiare alcuna sanzione e che le condanne, quando ci sono, finiscono nella carta straccia del ministero degli Esteri israeliano e sono compensate dal costante richiamo al sostegno per Israele?

Un sostegno rinnovato nel maggio 2022 da Emmanuel Macron, che si è impegnato a rafforzare con questo Paese “la cooperazione in tutti i campi, anche a livello europeo […] La sicurezza di Israele è al centro della nostra collaborazione.” Ha persino lodato gli sforzi di Israele “per evitare un’escalation” a Gerusalemme.

Quello che sta avvenendo in Terra Santa da decenni non è né un episodio di “guerra contro il terrorismo” né un “conflitto” tra due parti uguali, come fanno intendere certi titoli dei media e certi commentatori. I palestinesi non sono attaccati da extraterrestri come potrebbe far pensare la reazione del ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian sul suo account ufficiale di Twitter: “Sono profondamente scioccato e costernato di fronte alle inaccettabili violenze che hanno impedito che il corteo funebre della signora Shireen Abu Akleh avvenisse nella pace e nella dignità.”

Quanto a tutti quelli che danno lezioni ai palestinesi rimproverandoli per l’uso della violenza, comunque molto minore di quella degli israeliani, ricordiamo quello che scrisse Nelson Mandela, diventato un’icona imbalsamata da molti commentatori, mentre era un rivoluzionario che conduceva la lotta armata per porre fine al regime dell’apartheid di cui Israele è rimasto uno degli alleati più fedeli fino all’ultimo:

È sempre l’oppressore, non l’oppresso, che determina la forma della lotta. Se l’oppressore utilizza la violenza, l’oppresso non avrà altra scelta che rispondere con la violenza. Nel nostro caso non è stata altro che una forma di legittima difesa.”

Sicuramente non si saprà mai l’identità del soldato israeliano che ha premuto il grilletto e ucciso la giornalista palestinese. Ma quello che già si sa è che la catena di complicità è lunga. Se ha origine a Tel Aviv, essa arriva fino a Washington, entra di soppiatto ad Abu Dhabi e a Rabat, penetra a Parigi e a Bruxelles. L’uccisione di Shireen Abu Akleh non è un atto isolato, ma un crimine collettivo.

Alain Gresh

Specialista del Medio Oriente, è autore di molte opere, tra cui De quoi la Palestine est-elle le nom ? [Di cos’è il nome la Palestina?] (Les Liens qui libèrent, 2010) e, con Hélène Aldeguer, Un chant d’amour. Israël-Palestine, une histoire française, [Un canto d’amore. Israele-Palestina, una storia francese] (La Découverte, 2017). È il direttore di Orient XXI.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Peter Beinart. “Un quarto degli ebrei americani considera Israele uno Stato di apartheid”

Sylvain Cypel – Sarra Grira – Peter Beinart

11 aprile 2022 – Orient XXI

In occasione del Forum di Doha (26-27 marzo 2022) abbiamo incontrato Peter Beinart, direttore della rivista progressista ebraica Jewish Currents per evocare con lui l’evoluzione dell’opinione negli Stati Uniti e di quella della comunità ebraica riguardo a Israele.

Il 15 marzo 2022 l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), la lobby ufficiale filoisraeliana nel Congresso americano, ha divulgato l’elenco dei beneficiari del suo sostegno finanziario per le elezioni della Camera dei Rappresentanti e di parte dei senatori del novembre 2022 negli Stati Uniti. Tra essi sono presenti 40 candidati repubblicani della frangia più estremista, che tuttora contestano l’elezione alla presidenza del democratico Joe Biden e soprattutto rifiutano di prendere le distanze dai rivoltosi fedeli a Trump che il 6 gennaio 2021 hanno invaso il Campidoglio nella speranza di impedire l’insediamento del nuovo presidente. Il sostegno finanziario fornito dalla lobby filoisraeliana a questi candidati ha suscitato reazioni indignate negli Stati Uniti, anche all’interno della comunità ebraica.

Richard Haass, un noto diplomatico oggi presidente del Consiglio per le Relazioni Estere, il principale gruppo di esperti specializzato nelle questioni internazionali, ha espresso l’opinione che il sostegno dell’AIPAC a politici che aprono all’idea di “minare la democrazia” segna la “sconfitta morale” della lobby. Abe Foxman, per lungo tempo presidente dell’Anti-Defamation League, la principale organizzazione americana di contrasto all’antisemitismo, ha affermato che l’organizzazione ha commesso “un deplorevole errore”. “Non è il momento per il movimento filoisraeliano di compiere una selezione tra i propri amici”, ha replicato la lobby. In altri termini, non se ne parla per Israele di privarsi del sostegno di persone motivate dalla preservazione della supremazia bianca, anche a costo di abbandonare la democrazia.

Sono queste le questioni che abbiamo affrontato con Peter Beinart, le cui considerazioni abbiamo raccolto qui di seguito sotto forma di editoriale.

Fine dell’orientamento bipartisan della lobby filoisraeliana

“Gli Stati Uniti sono una democrazia molto giovane. Fino agli anni ’60 questo Paese non era realmente tale, poiché vi dominava la segregazione razziale. In seguito questa è stata abolita, ma l’America continua a mantenere una grande quantità di norme sociali appartenenti al passato. Ora la popolazione diventa ogni giorno meno bianca e meno cristiana. Il dibattito che emerge in questo Paese è il seguente: è in grado di diventare una vera democrazia multirazziale? Sessant’ anni fa il movimento per i diritti civili aveva dato inizio a questo cambiamento. Fu favorita dal fatto che a partire dal 1965 nuove leggi sull’immigrazione hanno consentito che un grande numero di immigrati si stabilisse negli Stati Uniti1, di cui il 90% non era europeo. Ciò ha condotto alla vittoria di Barack Obama nel 2008. Ma in quel momento non si poteva immaginare la reazione che questo processo avrebbe suscitato. Essa ha seguito un percorso sempre più chiaramente accolto: se la democrazia deve comportare la perdita del dominio dei bianchi, allora si può fare a meno di una tale democrazia. Ciò ha condotto all’elezione di Donald Trump e questo movimento reazionario prosegue tuttora, forse ancor più potentemente.

“Per molto tempo gli Stati Uniti sono stati governati da due partiti che in fondo non erano profondamente diversi. Certo c’erano delle differenze, ma erano anche molto simili. Se si considera la rielezione di Bill Clinton contro il repubblicano Bob Dole nel 1996, la distanza tra loro non era poi troppo ampia. Ma nel corso di una generazione il partito democratico è diventato “il partito della diversità”, più aperto alle rivendicazioni delle donne, delle minoranze razziali e degli immigrati, mentre il partito repubblicano è diventato quello dei maschi bianchi cristiani. Trent’anni fa c’erano democratici contrari all’aborto e repubblicani che sostenevano la libertà delle donne di poter decidere. Oggi questo sarebbe impossibile. Abbiamo due partiti completamente polarizzati in uno scontro diretto radicale.

“Qual è il legame tra questa evoluzione e il rapporto con Israele? Se prendiamo il caso dell’AIPAC, storicamente questa lobby ha sempre agito allo scopo di mantenere un accordo bipartisan della classe politica nel sostenere Israele. Ma nel contesto che ormai prevale negli Stati Uniti è tale la divisione tra l’adesione senza riserve dei repubblicani alla destra e all’estrema destra israeliana e le critiche formali dei democratici nei confronti della politica israeliana di colonizzazione, che un sostegno bipartisan diventa sempre meno possibile. La decisione dell’AIPAC di sostenere dei parlamentari favorevoli ai rivoltosi del 6 gennaio 2020 è la conseguenza della crescente distanza tra i due campi. E questa distanza non si delinea solo a livello politico. Essa attraversa tutta la società americana. Quando ero ragazzo la differenza tra essere democratico e repubblicano non era questione di identità. Ormai ciascuno ha la sensazione che la posta in gioco sia esistenziale; ognuno percepisce il campo avverso come una minaccia alla propria identità e integrità.

“Il giorno in cui è stata ufficializzata la vittoria di Joe Biden, dopo tutti i riconteggi dei voti, è stata una follia: a New York, dove abito, la gente apriva le finestre e gridava di gioia. Non era altro che l’elezione di Biden, ma la si viveva come fosse una rivoluzione! L’incubo Trump era finito. Ma altrove i sostenitori repubblicani erano sia depressi che rabbiosi, convinti che le elezioni gli fossero state rubate. In breve, il centro della scacchiera politica è quasi scomparso. È per questo che la decisione dell’Aipac di sostenere i parlamentari che contestano il risultato delle elezioni presidenziali del 2020 e rifiutano di prendere le distanze dai rivoltosi è particolarmente importante. Significa che la sua linea “bipartisan” è finita. Ormai la lobby si allea con il campo che sostiene Israele in ogni circostanza e poco importa che questo schieramento conduca una battaglia contro la democrazia negli Stati Uniti. L’AIPAC lo sa e vi si unisce con piena cognizione di causa.

Americani ebrei piuttosto che ebrei americani

“Parallelamente si assiste ad una crescente polarizzazione nell’ambito dell’ebraismo americano. Negli anni ’50 nella comunità ebraica c’era un grande schieramento “centrista”. Era costituito dagli ebrei afferenti a due correnti religiose: quella chiamata “riformata” e quella detta “conservatrice”. Queste due tendenze non seguivano rigorosamente le regole religiose dell’ebraismo e speravano di inserirlo nella modernità. La maggior parte degli ebrei seguiva una di queste due tendenze. Che ne è oggi? L’affiliazione conservatrice è quasi scomparsa. Gli ebrei riformati restano maggioritari, ma l’obbedienza detta “ortodossa” (o “ultra-ortodossa”) da diversi decenni vive una formidabile crescita. Per la generazione che oggi ha meno di dieci anni essa sarà indubbiamente maggioritaria. Di contro, l’altra tendenza che cresce notevolmente tra gli ebrei è quella di svincolarsi da ogni corrente religiosa.

“Questo si avvicina molto a ciò che avviene in Israele, con una palese differenza: tra gli ebrei americani i non religiosi sono molto più di sinistra di quelli israeliani. Oggi nella comunità ebraica ultra-ortodossa non trovereste nessuno che abbia votato per Joe Biden. D’altro canto, la vera religione degli ebrei laici americani è il progressismo. Questo schieramento si allontana sempre più da Israele. E i giovani ebrei progressisti non si percepiscono come ebrei americani, bensì come americani ebrei. A differenza della generazione precedente, la loro identità americana è più forte di quella ebraica. Non è che detestino Israele, è che Israele non costituisce la loro principale preoccupazione.

“Detto ciò, anche tra i non religiosi si trovano giovani che ancora si identificano molto chiaramente come ebrei e che sono i più feroci critici di Israele, perché hanno una visione molto più universalista dell’ebraismo. Se ne trovano in J-Street (una piccola lobby progressista filoisraeliana), ma ancor di più in Jewish Voice for Peace (JVP)2. Se ne trovano anche molti tra i lettori di Jewish Currents [rivista ebraica laica americana progressista, ndtr.]. Il loro ruolo è crescente. Questa categoria di ebrei americani è sempre più inserita all’interno della sinistra radicale in senso ampio: è legata alle lotte a favore dei neri, degli immigrati e dei palestinesi.

Wes hall overcome” ad un posto di blocco

“Su quest’ultimo punto la differenza tra J-Street e JVP è molto grande. J-Street rappresenta coloro che affermano: “Noi siamo gli ebrei buoni che vogliono salvare Israele da sé stesso”. JVP ha una strategia che mi pare più sensata: per loro si tratta di essere alleati dei palestinesi, come i bianchi progressisti sono alleati dei neri. Sono anche più interessanti. Negli anni 2010 un gran numero di giovani ebrei passati per J-Street l’hanno lasciata per diventare più radicali aderendo a ‘If not Now’ [‘Se non ora’], un’associazione la cui ambizione è rappresentare gli ebrei che lottano contro l’occupazione della Palestina. Ma stanno cominciando ad andare in crisi. Perché, più semplicemente, non passare dalla parte dei palestinesi? Dato che questo movimento che ha il vento in poppa oggi non intende più esprimersi in nome dei “valori ebraici”, ma dei valori universali, dell’antirazzismo e dell’anticolonialismo.

“Questa svolta dei giovani ebrei si inserisce in un cambiamento più generale che si delinea negli Stati Uniti. Il movimento Black Lives Matter ha ripreso le fila della lotta antirazzista degli anni ’60. Negli anni tra il 1980 e il 2000 quella lotta si era parecchio indebolita. Ma le figure emergenti nella lotta dei neri sono più radicali. Il loro legame con i palestinesi è passato attraverso le immagini delle violenze delle forze di occupazione contro di loro, della brutalità quotidiana di questa occupazione. La serie di crimini compiuti dalla polizia negli Stati Uniti in questi ultimi anni, dall’uccisione di David Brown a Ferguson, a quella di Eric Garner3 a New York nel 2014, ha avuto un grande ruolo nello spingere i neri americani a stabilire un nesso con la situazione dei palestinesi. Ormai iniziano a percepire i palestinesi come vittime di un’identica sorte: noi abbiamo la nostra apartheid, loro hanno la loro. Ovviamente ciò fa impazzire i dirigenti delle organizzazioni ebraiche americane, che gridano all’insulto e denunciano l’ignoranza di questa analogia. Ma la loro posizione non passa, perché la sensazione è che i neri negli Stati Uniti siano tuttora discriminati e che i palestinesi lo siano in Palestina.

“L’AIPAC ad un certo punto ha investito molto per trovare alleati di Israele all’interno della comunità nera americana, del resto con un certo successo. Ma oggi, quando dei neri visitano Israele e si recano nei territori occupati, l’identificazione con la sorte riservata ai palestinesi è quasi immediata. Qualche anno fa delle deputate nere americane che erano in visita in Israele sono state condotte ad un posto di blocco. Sono rimaste talmente sconvolte che si sono messe a cantare “We shall overcome”, la più famosa canzone di protesta americana, cantata tra gli altri da Pete Seeger e Joan Baez. Queste persone, una volta rientrate negli Stati Uniti, sono spesso le più denigrate da parte dei sostenitori di Israele, perché testimoniano ciò che hanno visto e quanto ciò le abbia sconcertate. Per chi ha fatto questa esperienza il legame con la lotta dei palestinesi diventa molto forte.

Una nuova alleanza tra ultra-ortodossi e evangelici

“Dove porta tutto ciò? Io sono relativamente ottimista, ma molto dipenderà dall’evoluzione della società americana. Temo che la destra repubblicana abbia buone possibilità di vincere le elezioni legislative di novembre 2022. Ma i tempi lunghi non giocano a suo favore. Alle elezioni presidenziali i repubblicani non hanno più guadagnato un solo voto dal 2004. E l’evoluzione demografica non favorisce i bianchi. Lo stesso vale per la società ebraica negli Stati Uniti. Un recente sondaggio d’opinione mostra già ora che un quarto degli ebrei americani considera Israele “uno Stato di apartheid”4. Certamente il conflitto israelo-palestinese non fa più parte delle questioni principali negli Stati Uniti. Ed ogni volta che scoppia un conflitto armato tra Israele e Hamas si crea una mobilitazione in favore di Israele. Ma il fenomeno saliente è che la critica a Israele cresce molto di più.

“Se si verificheranno in Medio Oriente eventi così gravi da riempire i titoli dei principali giornali, se le immagini di Israele che bombarda edifici civili a Gaza si moltiplicheranno, il processo di divisione all’interno dei democratici si approfondirà. Durante gli ultimi scontri a Gaza nella primavera 2021 anche un incrollabile sostenitore di Israele come il senatore democratico di New York Chuck Schumer è stato costretto a prendere le distanze dai bombardamenti israeliani. Fate un giro all’AIPAC. Riscontrerete che tutte le persone di più di 60 anni sono laiche; il loro ebraismo si riduce al sionismo. Ma i loro figli non sono membri dell’AIPAC. Chi li ha sostituiti? Dei giovani “timorati di Dio” (altro termine che indica gli ebrei ultra-ortodossi) [sinonimo dei nazionalisti religiosi israeliani, ndtr.]. Andate a vedere la parata annuale a favore di Israele sulla quinta strada di New York e troverete una grande maggioranza di questi giovani. Non stupisce che l’Aipac sia diventata la sede di una nuova alleanza: quella tra gli ebrei ultra-ortodossi e gli evangelici [molte denominazioni degli evangelici si definiscono sioniste cristiane, ndtr.].

“Nel loro sostegno incondizionato ad Israele i repubblicani sono molto più sinceri dei democratici. È per questo che l’AIPAC non punta più su una politica di sostegno “bipartisan” ad Israele. Di fatto molti dei rappresentanti democratici esprimerebbero opinioni molto diverse da quelle che sostengono oggi se ritenessero che la loro posizione nei confronti di Israele non costasse loro cara in termini politici. Questo fenomeno è ancor più vero per una parte dei dirigenti della comunità ebraica americana. Quando nel 2020 ho scritto i miei articoli su Jewish Currents e sul New York Times auspicando la creazione di un solo Stato comune per ebrei e palestinesi5 mi sono imbattuto in reazioni piuttosto inquietanti. Ma erano imparagonabili a quelle che si erano scatenate contro (lo storico anglo-americano) Tony Judt quando nel 2003 aveva pubblicato il suo famoso articolo che invocava per la prima volta la formazione di un solo Stato che riunisse palestinesi ed israeliani6. Allora Judt è stato quasi escluso dal dibattito accettabile. Non è stato quello che è successo a me. Ciò dimostra l’evoluzione che è avvenuta nella società americana riguardo ad Israele. Vent’anni fa non erano i conservatori ad affossare Judt ed il suo testo, ma gli ebrei progressisti! All’epoca erano le figure di punta nel sostegno ad Israele.

“Oggi il loro peso è considerevolmente diminuito. Le principali voci di sostegno ad Israele sono ormai quelle dei conservatori. A questo fenomeno si aggiunge la nota evoluzione dei grandi media. Oggi quando guardate MSNBC [canale televisivo statunitense, ndtr.] o quando leggete il New York Times, The New Republic o il Washington Post, quando andate su Slate [rivista in rete liberale statunitense, ndtr.], i palestinesi vengono ormai presentati sotto una luce molto più favorevole. Di modo che quando ho pubblicato i miei articoli le cose erano cambiate. Molti possono essere in disaccordo con me, ma le mie parole non sono illegittime. In fin dei conti Tony Judt era ebreo7, ma parlava in nome di una filosofia universalista, in difesa dei diritti umani, non in nome di una visione specificamente ebraica. Quanto a me, rivendico il mio legame con l’ebraismo e con una forma di etica ebraica. Forse per questo sono più accettabile.”

Sylvain Cypel

E’ stato membro della redazione di Le Monde e precedentemente direttore di redazione del Courrier International.

Sarra Grira

Giornalista, laureata in letteratura francese. Responsabile delle pagine in arabo di Orient XXI.

Peter Beinart

Scrittore, direttore della rivista progressista ebraica Jewish Currents.

Note

1 Tra il 1965 e il 2015 60 milioni di stranieri si sono stanziati negli Stati Uniti e da allora il ritmo è rimasto più o meno uguale.

2Organizzazione ebraica antisionista che sostiene il movimento internazionale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro Israele. I membri della direzione di JVP includono figure note come il linguista Noam Chomsky, il drammaturgo e sceneggiatore Tony Kushner, la filosofa Judith Butler, la saggista Naomi Klein, la scrittrice Sarah Schulman, l’attore e sceneggiatore Wallace Shawn e altri.

3 E’ stato il primo, nel 2014, a ripetere, sottoposto alla violenza dei poliziotti, “non posso più respirare” prima di morire, come ha fatto in seguito George Floyd nel 2020 a Minneapolis.

4 Studio realizzato dal Jewish Electorate Institute [Istituto dell’Elettorato Ebraico]. Lo stesso sondaggio mostrava che il 34% degli ebrei americani riteneva che il trattamento riservato da Israele ai palestinesi sia simile al razzismo esistente negli Stati Uniti.

5 Peter Beinart, « Yavneh : A Jewish case for equality in Israel-Palestine » [Yavneh: una causa ebraica per l’uguaglianza in Israele-Palestina], Jewish Currents, 7 luglio 2020, e « I no longer believe in a Jewish State » [Non credo più nello Stato ebraico], The News York Times, 8 luglio 2020.

6 Tony Judt : « Israel, the Alternative »[Israele, l’alternativa], The New York Review of Books, 23 ottobre 2003

7 É morto nel 2010.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Diritto Internazionale: Amnesty International analizza a fondo l’apartheid di Israele

Jean Stern

1 febbraio 2022 – Orient XXI

L’organizzazione per la difesa dei diritti umani Amnesty International attacca il crudele sistema di dominazione sulla popolazione palestinese che sia in Israele, nei territori occupati, a Gaza o rifugiata. Questo importante punto di svolta di Amnesty, che invoca il deferimento alla Corte Penale Internazionale, è un duro colpo per il governo israeliano. Orient XXI ha letto il rapporto in anteprima.

Il primo scossone è avvenuto nel 2020, quando l’organizzazione israeliana di giuristi Yesh Din ha utilizzato il termine “apartheid” per definire un sistema che si auto-proclama democratico e che, fino ad ora, è riuscito ad evitare un’analisi politica oggettiva. Dato che la vicinanza rende lucidi, un’altra ong israeliana, B’Tselem, nel 2021 è andata oltre, sostenendo che è tempo di dire “no all’apartheid dalle rive del Giordano al Mediterraneo”. Le due Ong sono state seguite dall’aprile 2021 da Human Rights Watch (HRW). Tuttavia l’organizzazione parla di apartheid solo per i territori occupati e Gaza, facendo un distinguo riguardo alle discriminazioni specifiche dei palestinesi israeliani. Il rapporto pubblicato da Amnesty International martedì 1 febbraio 2022, e di cui Orient XXI ha avuto l’anteprima, va molto oltre e utilizza il termine “apartheid” per tutti i palestinesi qualunque sia il loro luogo di residenza e il loro status.

Per la prima volta Amnesty International (AI), una delle più importanti organizzazioni mondiali in difesa dei diritti umani e anche una delle più caute nella scelta delle parole per definire le situazioni, in un rapporto pubblicato martedì primo febbraio 2022 e che dovrebbe provocare accese discussioni ritiene che “l’apartheid israeliano contro la popolazione palestinese è un sistema crudele di dominazione e un crimine contro l’umanità.” Il documento inoltre farà epoca, poiché tratta senza distinzione la situazione delle e dei palestinesi “che vivono in Israele e nei territori palestinesi occupati (TPO) così come rifugiate/i e profughe/i in altri Paesi.

Questo rifiuto di dividere i palestinesi in frammenti, di ritenere che i loro interessi avrebbero finito con il differenziarsi in base al loro luogo di residenza, è una rivoluzione notevole nel linguaggio della comunità umanitario-diplomatica internazionale. Si ispira agli argomenti di lunga data dei numerosi palestinesi (e di molti altri) sull’unità di un popolo frammentato dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948.

Riportare indietro l’orologio

Questo corposo materiale descrive l’oppressione israeliana e i meccanismi di dominazione dei palestinesi. Decine di interviste, centinaia di documenti analizzati soprattutto relativamente al periodo 2017-2021, mesi di elaborazione in totale segreto: il rapporto di Amnesty porta con sé un importante cambiamento politico. Offre anche una quantità considerevole di informazioni sulla situazione che vivono i palestinesi, che siano a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme, ad Haifa… e risale spesso alle origini dello Stato di Israele per comprendere meglio le radici di una politica la cui continuità era già stata messa in luce negli ultimi anni da molti storici di ogni origine. Anche lì Amnesty riporta indietro l’orologio. “Sta succedendo l’esatto contrario di quello che immaginavano,” mi disse in modo premonitore nella primavera del 2016 Yuli Novak, direttrice generale di Breaking The Silence, un’organizzazione israeliana di veterani dell’esercito israeliano che raccoglie le testimonianze sulle vessazioni commesse nei territori occupati dai soldati.

I rapporti di Breaking The Silence, così come quelli di altre Ong israeliane e palestinesi, hanno d‘altra parte alimentato il lavoro dei ricercatori di Amnesty International, ottenendo finalmente l’eco che meritavano.

Ciò che sta succedendo è semplicemente che il potere di persuasione di Israele (e dei suoi numerosi alleati di ogni latitudine e di ogni continente, da Los Angeles a Dubai) non è riuscito a soffocare le voci dissidenti, in primo luogo in Palestina, ma anche in Israele, tra gli ebrei come tra gli arabi. Al contrario, riprendono la parola. Con questo nuovo impegno molto convinto di AI l’uso del termine apartheid a proposito di Israele non sarà più soggetto a un fuoco di bombardamento, anche se forse è meglio non farsi illusioni, soprattutto in Francia. In ogni caso Amnesty propone un notevole salto in avanti sulla scena mondiale.

Un crimine contro l’umanità

Il suo rapporto di 211 pagine fitte analizza le detenzioni amministrative, l’esproprio di proprietà fondiarie e immobiliari, gli omicidi illegali, i trasferimenti forzati, le restrizioni agli spostamenti, gli ostacoli all’educazione. Si fonda su numerosi esempi documentati, in varie parti del Paese, nella Valle del Giordano, a Gaza. Raccoglie molte informazioni, il che ha permesso all’organizzazione di dedicarsi a un minuzioso inventario del sistema messo in atto da Israele. Si tratta di identificare altrettanti “fattori costitutivi” di un sistema di apartheid ai sensi del diritto internazionale. Per Amnesty “questo sistema viene perpetuato dalle violazioni che costituiscono il crimine contro l’umanità di apartheid come definito nello Statuto di Roma e nella Convenzione sull’apartheid.” Agnès Callamard, dal 2021 nuova segretaria generale dell’organizzazione di difesa dei diritti umani, chiarisce la questione:

“Il nostro rapporto svela la vera dimensione del regime di apartheid di Israele. Che sia nella Striscia di Gaza, a Gerusalemme est, a Hebron o in Israele, la popolazione palestinese è trattata come un gruppo razziale inferiore ed è sistematicamente privata dei suoi diritti.”

Amnesty International “invita la Corte Penale Internazionale (CPI) a prendere in considerazione la definizione di crimine di apartheid nel quadro della sua attuale inchiesta nei TPO e chiede a tutti gli Stati di esercitare la competenza universale per portare davanti alla giustizia i responsabili dei crimini di apartheid.

Un sistema in vigore dal 1948

Il rapporto specifica ciò che Amnesty intende per “sistema di apartheid” e su questo punto specifico vale la pena citarlo per esteso:

“Il sistema di apartheid è nato con la creazione di Israele nel maggio 1948 ed è stato costruito e mantenuto per decenni dai governi israeliani che si sono succeduti su tutto il territorio da loro controllato, indipendentemente dal partito politico al potere all’epoca. Israele ha sottoposto diversi gruppi di palestinesi a differenti insiemi di leggi, di politiche e di pratiche discriminatorie e di esclusione in momenti diversi, in seguito alle conquiste territoriali realizzate prima nel 1948, poi nel 1967, quando annetté Gerusalemme est e occupato il resto della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Nel corso dei decenni le preoccupazioni demografiche e geopolitiche israeliane hanno plasmato le politiche nei confronti dei palestinesi in ognuno di questi contesti territoriali.

Anche se il sistema di apartheid di Israele si manifesta in modi diversi nelle differenti zone sotto il suo controllo effettivo, esso ha sempre lo stesso obiettivo di opprimere e dominare i palestinesi a favore degli ebrei israeliani, che sono privilegiati dal diritto civile israeliano qualunque sia il loro luogo di residenza. È concepito per conservare una schiacciante maggioranza ebraica che abbia accesso e abbia a disposizione il massimo di territorio e di terre acquisite o controllate, limitando nel contempo il diritto dei palestinesi a contestare la spoliazione delle proprie terre e dei propri beni. Questo sistema è stato applicato ovunque Israele abbia esercitato un controllo effettivo su territori e terre o sull’esercizio dei diritti dei palestinesi. Si concretizza nel diritto, in politica e nella prassi e si riflette nei discorsi dello Stato dalla sua creazione fino ad oggi.”

Discriminazione razziale e cittadinanza di serie B

Il rapporto insiste ovviamente sulle discriminazioni globali di un sistema la cui geometria variabile non è in fondo che un fattore di adeguamento.

Le guerre del 1947-49 e del 1967, l’attuale regime militare di Israele nei TPO e la creazione dei regimi giuridici e amministrativi differenti sul territorio hanno isolato le comunità palestinesi e le hanno separate dalla popolazione ebraica israeliana. Il popolo palestinese è stato frammentato geograficamente e politicamente e vive diversi livelli di discriminazione in base al suo status e al suo luogo di residenza.

Attualmente i cittadini palestinesi di Israele hanno più diritti e libertà dei loro omologhi dei TPO, e del resto la vita quotidiana dei palestinesi non si è dimostrata molto diversa che vivano nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania. Le ricerche di Amnesty International mostrano tuttavia che l’insieme della popolazione palestinese è soggetta a un solo e identico sistema. Il trattamento dei palestinesi da parte di Israele in tutti i territori risponde allo stesso obiettivo: privilegiare gli ebrei israeliani nella distribuzione delle terre e delle risorse e ridurre al minimo la presenza della popolazione palestinese e il suo accesso alle terre.

Un solo e unico sistema, fondato secondo AI sulla discriminazione razziale e su status di cittadini di serie B. Questa svalutazione si accompagna ovviamente alla spoliazione, e il rapporto torna sulla “messa in atto di crudeli espropriazioni fondiarie su vasta scala contro la popolazione palestinese,” e sulla demolizione “dal 1948” di centinaia di case ed edifici palestinesi. Evoca anche le famiglie dei quartieri palestinesi di Gerusalemme est vessate dai coloni che si appropriano delle loro abitazioni “con il totale sostegno del governo israeliano.

Amnesty chiede a tutti i Paesi che intrattengono buoni rapporti con Israele “tra cui alcuni Paesi arabi e africani” di non sostenere più un sistema di apartheid. Per uscire da questo “sistema”, ormai documentato da Amnesty, “la reazione internazionale di fronte all’apartheid non deve più limitarsi a condanne generiche e a scappatoie. È necessario aggredire le radici del sistema, altrimenti le popolazioni palestinesi e israeliane resteranno imprigionate nel ciclo senza fine di violenze che ha annientato tante vite,” conclude Agnès Callamard.

La mia identificazione con questa storia è finita”

Con un’altra storia e attraverso altre vie Yuli Novak è arrivata alla stessa conclusione di Agnès Callamard. Oggi quarantenne, nel 2017 ha lasciato il suo incarico a Breaking The Silence per fare un viaggio con varie destinazioni, dall’Islanda al Sudafrica. Lì ha incontrato gente che aveva lottato contro l’apartheid, cercato di comprendere “le paure” degli uni e degli altri. Ma ha capito soprattutto l’apartheid nel suo stesso Paese. “La sua struttura politica era destinata fin dall’inizio a preservare una maggioranza ebraica, e in questo senso è stata antidemocratica. La mia identificazione con questa storia è finita,” continua Yuli Novak in un lungo ritratto pubblicato il 28 gennaio 2022 dal quotidiano progressista [israeliano] Haaretz.

In un libro che ha da poco pubblicato, Yuli Novak descrive parecchi anni infernali, di vessazioni quotidiane, la delusione di scoprire che un impiegato di Breaking The Silence era un agente dello Shin Bet, il servizio di spionaggio interno [israeliano, ndtr.]. Prima ha pensato che “quel tipo un po’ strano, un po’ solitario, commovente” sapeva tutto di lei, dei suoi piccoli “pettegolezzi”, prima di capire che la democrazia si dissolveva davanti ai suoi occhi. Allora ha compreso che il contratto con il suo Paese era per così dire “condizionato: finché obbedivo. Nel momento in cui qualcosa non gli andava bene, il sistema si rivoltava contro di me. Mi dicevano: ‘Se tu sei contro l’occupazione e pensi che si debba manifestare riguardo alla situazione a Gaza, allora non sei una di noi.

Prende atto del fatto che parlare di apartheid riguardo a Israele non è che un dato di fatto. E se ciò diventa psicologicamente e politicamente doloroso da sopportare per molti israeliani, lo è ancora di più e da molto più tempo per milioni di palestinesi. Per gli uni come per gli altri il sostegno internazionale, se fa il suo ritorno in forze senza insensatezze, sarà il benvenuto.

Jean Stern

Ex-giornalista di Libération, La Tribune e La Chronique d’Amnesty International. Nel 2012 ha pubblicato Les Patrons de la presse nationale, tous mauvais [I proprietari della stampa nazionale, tutti cattivi], La Fabrique; per le edizioni Libertalia nel 2017 Mirage gay à Tel Aviv [Miraggio gay a Tel Aviv] e nel 2020 Canicule [Canicola].

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Recensione Dear Palestine

Guerra arabo-israeliana (1947-1950)

Saccheggi, razzismo, espulsioni…La conquista della Palestina raccontata dai combattenti

Sono state scritte parecchie storie della prima guerra arabo-israeliana (1948-1950), ma questa è senza dubbio la prima in cui uno storico fa parlare, attraverso le loro lettere, i combattenti dei due campi. Questa corrispondenza mostra le divisioni interarabe e getta un’ombra sul comportamento dei soldati israeliani, sulla loro brutalità e sul loro razzismo, non solo nei confronti degli arabi ma anche degli ebrei marocchini e iracheni andati a combattere per Israele.

 

Sylvain Cypel

14 ottobre 2021 – Orient XXI

 

Shay Hazkani, Dear Palestine. A Social History of the 1948 War [Cara Palestina. Una storia sociale della Guerra del 1948], Stanford University Press, 2021.

 

Cara Palestina, l’opera di Shay Hazkani, storico israeliano dell’università del Maryland, costituisce uno dei primi studi di storia sociale della guerra che, tra il 1947 e il 1949, oppose da una parte le milizie armate dell’yishuv (la comunità ebraica nella Palestina mandataria britannica), poi l’esercito dello Stato di Israele dopo la sua creazione, il 15 maggio 1948, e dall’altra le milizie palestinesi e soprattutto i gruppi armati arruolati nei Paesi vicini, poi gli eserciti arabi (fondamentalmente quello egiziano e quello giordano).

In questo libro il lettore imparerà poco dello svolgimento degli avvenimenti di quella guerra, ma molto di ciò che spesso i racconti cronologici e fattuali delle guerre nascondono, cioè il contesto socioculturale nel quale sono immersi i suoi protagonisti. Per svelarlo l’autore privilegia due fonti principali: da una parte la formazione delle truppe e delle argomentazioni (compresa la propaganda) degli stati maggiori di ognuno dei campi, dall’altra lo sguardo dei combattenti su quella guerra e ciò che esso dice della sua realtà. Hazkani lo fa in parte basandosi sui discorsi dei responsabili militari, ma soprattutto – ed è la principale originalità del libro – sulle lettere dei soldati alle famiglie, come sono state conservate in vari archivi militari dopo che erano state lette dalla censura. Queste spesso sono più ricche da parte israeliana, ma l’autore riesce nonostante tutto a fare uno studio relativamente equilibrato tra i due campi.

Volontari dall’estero

Egli assegna uno spazio importante alle reclute a cui i capi militari hanno fatto appello fuori dal Paese. Da una parte i “Volontari dall’estero” (il cui acronimo in ebraico era Mahal), giovani ebrei che si arruolarono in Europa, negli Stati Uniti e anche in Marocco per aiutare militarmente il nascente, poi costituito, Stato di Israele. Si vedrà che questo gruppo offre uno sguardo sulla guerra spesso diverso da quello dei “sabra”, i giovani nati ed educati nell’yishuv. Dall’altra diverse milizie di volontari arabi arruolati in Siria, Transgiordania, Iraq e Libano per sostenere i palestinesi. Egli privilegia in particolare quella più attiva, l’Esercito di Liberazione Arabo (ALA, in arabo l’Armata Araba di Salvezza), comandata da Fawzi Al-Kaoudji. Anche qui lo sguardo sulla guerra e sul suo contesto da parte di queste reclute è spesso inaspettato.

Lo studio delle lettere come l’analisi dei discorsi dei responsabili militari fa emergere un fatto. Al di là del rapporto di forze militare, l’unità e la chiarezza di obiettivi erano dal lato israeliano, la disunione e la confusione da quello palestinese, a parte l’idea principale del rifiuto di una partizione della Palestina, giudicata sia ingiusta che profondamente iniqua (gli ebrei, all’epoca il 31% della popolazione, si vedevano assegnare il 54% del territorio palestinese). Indipendentemente dai dissensi interni, tutte le forze sioniste intendevano costruire uno Stato da cui sarebbe stato escluso il maggior numero possibile dei suoi abitanti palestinesi (il piano di partizione prevedeva che lo “Stato Ebraico” includesse…il 45% di palestinesi!). Hazkani mostra quanto la direzione politica e militare dello Stato ebraico fosse determinata, ancor prima di dichiararlo, a “ripulirlo” il più possibile sul piano etnico ed anche quanto questa aspirazione fosse condivisa dalla gran parte delle truppe.

Divisioni tra arabi e palestinesi

E [l’autore] mostra con parecchi esempi quanto la divisione e la diffidenza regnassero nel campo dei palestinesi e dei loro alleati. Come scrisse dal febbraio 1948 Hanna Badr Salim, l’editore ad Haifa del giornale Al-Difa (La Difesa), “abbiamo dichiarato guerra al sionismo, ma, impegnati a combatterci tra di noi, non eravamo preparati.” I responsabili dell’ALA diffidavano delle forze palestinesi guidate da Abdel Kader Al-Husseini. Così un alto ufficiale dell’ALA raccomandò di nominare alla testa dei reggimenti ufficiali egiziani, siriani o iracheni, ma non palestinesi, di cui non si fidava. Da parte sua Husseini preferiva limitare la mobilitazione a piccoli gruppi composti solo da reclute palestinesi sicure. Di fatto l’atteggiamento delle forze arabe straniere nei confronti dei palestinesi era spesso pesantemente critico. Delle lettere di soldati arabi evocano le brutalità commesse da queste truppe contro persone che si supponeva fossero andate a liberare.

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Ma la diffidenza era essenzialmente di ordine politico. Da parte palestinese la preoccupazione principale era evidentemente di non perdere la Palestina. Da parte di chi interveniva dall’esterno, con forze più preparate, le preoccupazioni erano molto diverse e ambigue.

Alcuni combattevano per raggiungere un accordo migliore con i sionisti, altri vedevano in questa lotta una prima tappa per il rovesciamento dei regimi alleati dei colonizzatori occidentali, altri ancora intendevano inviare i loro oppositori a combattere in Palestina per ridurre la loro influenza.” Tra il siriano Salah Bitar, fondatore del partito Ba’th nel 1947, un nazionalista arabo che intendeva fare della Palestina il trampolino di una “nuova civiltà araba”, e Nouri Saïd, uomo legato ai britannici in Iraq, che cercava di utilizzare la lotta filopalestinese per distogliere dalla mobilitazione popolare contro Londra (e dunque contro se stesso), la differenza di interessi era totale. Sul terreno delle operazioni, nota Hazkani, i capi dell’ALA erano “per la maggior parte più preoccupati di fare in modo che il fervore anticolonialista dei volontari arabi non si trasformasse in una lotta ulteriore contro i regimi arabi.

Quanto alla propaganda utilizzata dalle forze arabe, contrariamente alla tesi presentata dai vincitori israeliani, “i miei lavori” scrive Hazkani, “suggeriscono che nell’ALA l’antisemitismo era trascurabile.” Ne fa qualche esempio, ma li giudica poco presenti nelle lettere dei combattenti arabi. Analogamente “le lettere mostrano che molti di loro erano lungi dall’essere dei fanatici del jihadismo radicale.” Ma, evidenzia, più si profilava la sconfitta, più dalle lettere emergeva la dimensione di guerra santa contro gli ebrei. Tuttavia dalla loro lettura Hazkani conclude che termini come “sterminio” o “gettare gli ebrei a mare” vi sono assenti.

Allo stesso modo egli smentisce totalmente l’argomento così spesso avanzato da Israele dopo questa guerra secondo cui i dirigenti arabi avrebbero invitato i palestinesi a fuggire per lasciar loro campo libero. Al contrario il 24 aprile 1948, quando i palestinesi avevano subito poco prima delle sconfitte disperanti – in una settimana venne ucciso in combattimento Abdel Kader Al-Husseini, la lotta per la Galilea volse a favore delle forze ebraiche e ci fu il massacro di Deir Yassin –  Kaoudji pubblicò un ordine in cui definì “codardo” ogni palestinese che fuggiva da casa.

Un uso smodato della Bibbia

Da parte loro, nel campo della formazione, anche ideologica, delle truppe, le milizie ebraiche e poi l’esercito israeliano si mostrarono immensamente più preparate dei loro avversari. Copiando la logica dell’Armata rossa, il campo sionista instaurò il dualismo tra l’ufficiale e il commissario politico (il “politruk”). Fin dal 1946 un’opera dello scrittore sovietico Alexander Bek sulla difesa di Mosca nel 1941 venne tradotta e diffusa tra le forze israeliane per rafforzarvi lo “spirito di corpo” (‘l’esprit de corps’, in francese nel libro) e la determinazione a utilizzare tutti i mezzi per vincere. Nell’agosto 1948 Dov Berger, capo dell’hasbara (la propaganda israeliana), distribuì agli ufficiali dei “manuali educativi” nei quali le reclute ricevevano tutte una formazione politica identica. Si noterà che i responsabili militari, all’epoca quasi tutti usciti da contesti sionisti-socialisti, fecero un uso smodato della Bibbia per strutturare l’ostilità delle truppe nei confronti del mondo arabo circostante, già equiparato ad “Amelek e alle sette nazioni”, queste tribù descritte nella Bibbia come le più ostili agli ebrei. L’autore evidenzia che “la suggestione che la guerra del 1948 fosse comparabile alle guerre di sterminio che compaiono nella Bibbia non era affatto una visione marginale, essa veniva ripetuta nel BaMahaneh”, il giornale dell’esercito israeliano.

Perciò non c’è da stupirsi del successo riscosso dal “politruk” Aba Kovner tra le truppe. Egli era un eroe, scappato dal ghetto di Vilna, dove aveva tentato senza successo di organizzare contro i nazisti una rivolta come quella del ghetto di Varsavia. Membro dell’Hachomer Hatzaïr (La Giovane Guardia), la frangia filosovietica del sionismo, era riuscito a fuggire e a raggiungere le colonne dell’Armata rossa. Poeta di talento e cugino di Meïr Vilner, capo del partito comunista [israeliano, ndtr.], nel 1948 Kovner divenne responsabile dell’educazione della celebre brigata Givati. Citando i suoi Bollettini di combattimento, Hazkani mostra come attizzasse i sentimenti più crudeli, e anche i più razzisti, dei soldati, giustificando in anticipo i crimini peggiori. “Massacrate! Massacrate! Massacrate! Più uccidete dei cani assassini, più vi migliorerete. Più migliorerete il vostro amore per ciò che è bello e buono e per la libertà.” Gli alti gradi respingeranno i suoi costanti appelli al massacro degli arabi, compresi i civili. Ma le affermazioni di Kovner continuarono a essere riprodotte nel giornale dell’esercito israeliano. Non sarà che alla fine della guerra, evidenzia Hazkani, che lo stato maggiore esigerà “un’applicazione più rigida delle regole contro l’assassinio e la brutalità” da parte della truppa.

Né il socialismo né la morale

Contrariamente ad autori che l’hanno preceduto, Hazkani stima che gli abusi israeliani furono più sistematici di quanto finora si è creduto. Numerosi villaggi palestinesi vennero rasi al suolo dopo che era stata portata a termine la “pulizia” della loro popolazione. Avvennero massacri di civili. Egli cita una nota della censura militare israeliana del novembre 1948: “Le vittorie e le conquiste sono state accompagnate da saccheggi e assassinii, e molte lettere dei soldati mostrano un certo choc.” Ma la maggior parte dei sabra avvallava queste azioni in quella che l’Ufficio della Censura definisce una “intossicazione della vittoria”. Nel novembre 1948, dopo un’esplosione di violenze, preoccupato per il rischio di perdere il controllo sui soldati, lo stato maggiore ordinò che questi crimini e saccheggi cessassero. Il soldato David scrisse ai suoi genitori: “Non era il socialismo né la fraternità tra i popoli, né la morale: era rubare e scappare.” La soldatessa Rivka concorda: “Tutto è stato saccheggiato. Sono stati rubati come bottino cibo, denaro, gioielli. Certi soldati si sono fatti una piccola fortuna.

Nell’esercito qualche combattente si sentiva offeso. Tra loro i volontari stranieri occupano una parte importante. Le loro lettere descrivono stupore, e persino disgusto, di fronte al comportamento dei sabra, che percepiscono come mancanza di sensibilità nei confronti dei palestinesi. Un sondaggio ordinato dallo stato maggiore alla fine della guerra constatò che il 55% dei volontari ebrei stranieri aveva una visione molto negativa dei giovani israeliani, percepiti come arroganti e brutali.

I sabra sono orrendi,” scrive Martin, un ebreo americano, che aggiunge: “Qui viene istituito un Golem [creatura mitica che inizialmente difende gli ebrei ma poi impazzisce e colpisce tutti indiscriminatamente, ndtr.]. Gli ebrei israeliani hanno scambiato la loro religione per una pistola.” “Io non voglio più partecipare a questa gioco e voglio tornare appena possibile,” scrive Richard, un volontario sudafricano.

Cosciente delle reticenze espresse da una parte delle truppe, il dipartimento dell’educazione dell’esercito aveva distribuito loro un fascicolo intitolato Risposte alle domande frequentemente poste dai soldati. La prima era: “Perché non accettiamo il ritorno dei rifugiati arabi durante le tregue?” Risposta degli educatori militari: “Comprendiamo meglio di chiunque altro la sofferenza di questi rifugiati. Ma chi è responsabile della propria situazione non può esigere che noi risolviamo il suo problema.” Con un tale viatico, non c’è da stupirsi della lettera di uno di questi sabra che, nello stesso momento, scrive alla sua famiglia: “Abbiamo ancora bisogno di un periodo di battaglie per riuscire ad espellere gli arabi che rimangono. Allora potremo tornare a casa.

L’ultimo aspetto innovativo del libro è quello che Hazkari dedica agli “ebrei orientali” in questa guerra, in particolare agli ebrei marocchini, che ne furono all’epoca l’incarnazione, ma anche agli ebrei iracheni. I marocchini, se ne sa poco, costituirono il 10% degli ebrei che arrivarono in Palestina e poi in Israele nel 1948-49. Molto presto dovettero affrontare un razzismo spesso sconcertante da parte dei loro correligionari ashkenaziti (originari dell’Europa centrale), che allora costituivano il 95% dell’immigrazione. Nel luglio 1949 la censura notò che “gli immigrati del Nord Africa sono il gruppo più problematico. Molti vogliono tornare nei loro Paesi d’origine e avvertono i loro parenti di non emigrare.” Di fatto le lettere dei soldati marocchini mostrano un’amarezza spesso notevole.

Gli ebrei marocchini? “Selvaggi e ladri”

Yaïsh scrive che “gli ebrei polacchi pensano che i marocchini sono selvaggi e ladri”; la recluta Matitiahou si lamenta: “I giornali scrivono che i marocchini non sanno neppure usare la forchetta.” “Noi siamo ebrei e ci trattano come arabi,” scrive il soldato Nissim alla sua famiglia, riassumendo il sentimento corrente, anch’esso intriso di razzismo. Hazkani nota che “la visione di questi immigrati cambiava rapidamente” una volta arrivati in Israele. “Gli ebrei europei, che hanno terribilmente sofferto a causa del nazismo, si vedono come una razza superiore e considerano i sefarditi come inferiori” scrive Naïm. Yakoub aggiunge: “Siamo venuti in Israele credendo di trovare un paradiso. Vi abbiamo trovato degli ebrei con un cuore da tedeschi.” Di fatto Hazkani cita una lunga inchiesta di Haaretz, giornale delle élite israeliane, secondo cui gli ebrei venuti dal Nord Africa, affetti da “pigrizia cronica”, erano “appena al di sopra del livello degli arabi, dei neri e dei berberi.

Nelle lettere si trova un’adesione agli obiettivi della guerra anche nelle reclute ebree maghrebine. “Certi soldati marocchini ricavano una grande fierezza dal fatto di aver ucciso decine di arabi” e dall’averlo raccontato alle loro famiglie, notò persino con soddisfazione il capo di stato maggiore Ygael Yadin – che peraltro aveva definito gli ebrei orientali dei “primitivi”. Ma la preoccupazione dei dirigenti israeliani era tale, afferma Hazkani, che le autorità confiscarono i passaporti di questi immigrati recenti per evitare il loro ritorno. Quanto ai soldati originari dell’Iraq, lo stesso generale Yadin espresse pubblicamente la sua preoccupazione: essi “non manifestano nei confronti degli arabi il livello di animosità che ci si aspetta da loro.

Infine, se resta ancora un elemento importante da ricavare da questo libro molto ricco, è che l’enorme sconfitta del campo palestinese, successiva a quella della rivolta contro l’occupante britannico nel 1936-39, ebbe indubbiamente un impatto fondamentale sul bilancio politico dei palestinesi: quello di fidarsi in primo luogo di se stessi in futuro. Così Burhan Al-Din Al-Abbushi, poeta di una grande famiglia di Jenin, è palesemente severo con il nemico tradizionale, l’Inglese e il sionista.

Ma Hazkani mostra che “la sua critica più dura è riservata ai dirigenti palestinesi e arabi.” Antoine Francis Albina, un palestinese cristiano espulso da Gerusalemme, offre una critica radicale: “Non dobbiamo accusare nessuno salvo noi stessi.” Il più grande errore dei palestinesi secondo lui: essersi fidati dei regimi arabi. Quanto agli israeliani, “nel mondo successivo all’Olocausto, la maggior parte dei soldati di origine ashkenazita si convinse che il matrimonio tra ebraismo ed uso della forza era una necessità, e celebrarono l’emergere di un ‘ebraismo muscolare’.

Ci volle una quindicina d’anni ai palestinesi per cominciare a superare la “catastrofe” del 1948. Quanto agli israeliani, 70 anni dopo ashkenaziti e sefarditi insieme nella loro maggioranza festeggiano il trionfo di questo ebraismo muscolare. E i loro critici israeliani contemporanei ne sono più che mai sgomenti.

Sylvain Cypel

È stato membro del comitato di redazione di Le Monde [principale giornale francese, ndtr.] e in precedenza direttore della redazione del Courrier international [settimanale francese simile ad Internazionale, ndtr.]. È autore de Les emmurés. La société israélienne dans l’impasse  [I murati vivi. La società israeliana a un punto morto] (La Découverte, 2006) e de L’État d’Israël contre les Juifs [Lo Stato di Israele contro gli ebrei] (La Découverte, 2020).

 

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Palestinesi d’Israele. Un duro colpo al mito della “coesistenza”

GRÉGORY MAUZÉ

29 luglio 2021 – Orient XXI

Un partito arabo, il Raam, ha contribuito alla formazione del governo israeliano che in buona misura continua le pratiche di apartheid e la colonizzazione. Le mobilitazioni della primavera scorsa in solidarietà con Gerusalemme est e Gaza hanno tuttavia ricordato la solidità dei rapporti che uniscono tutte le componenti del popolo palestinese.

Il ruolo cruciale giocato dai palestinesi di Israele nella recente crisi ha fatto vacillare molte certezze. Cittadini di serie B, con le loro mobilitazioni hanno evidenziato la situazione di discriminazione materiale e simbolica che colpisce i discendenti degli autoctoni rimasti sulla propria terra quando venne creato Israele. La fiammata di violenza nelle città cosiddette “miste” ha fatto esplodere il mito di una coesistenza armoniosa tra comunità che in realtà non è mai stata pacifica per il gruppo dominato.

Soprattutto ha ricordato le somiglianze tra la loro condizione e quella del popolo palestinese nel suo complesso. Sheikh Jarrah, Al-Aqsa, Gaza: i riferimenti all’oppressione subita nei territori occupati erano sulle bocche di tutti. Questa dinamica di solidarietà, inedita dallo scoppio della Seconda Intifada, è culminata con il grande “sciopero per la dignità” del 18 maggio 2021 dei lavoratori palestinesi, molto partecipato da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e la Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967, ndtr.]. Ha sanzionato l’incapacità israeliana di risolvere il problema palestinese all’interno delle proprie frontiere riconosciute. Fin dalla sua creazione quest’ultimo di fatto si è impegnato a reprimere l’affermazione nazionale dei suoi cittadini palestinesi, significativamente definiti “arabi israeliani” per cancellare l’origine colonialista dell’oppressione a cui si trovano di fronte.

Esatto contrario

Questo ritorno imprevisto della centralità della causa nazionale nella minoranza palestinese contrasta con una dinamica quasi simmetricamente opposta all’interno della sua classe politica.

All’inizio del 2021 la Lista Unita, coalizione che dal 2015 raggruppava in modo intermittente i partiti che rappresentano gli interessi della minoranza araba nel parlamento israeliano, è stata indebolita dall’uscita del partito islamista Raam. Infatti il suo leader, Mansour Abbas, ha manifestato in modo sempre più esplicito il suo desiderio di rompere con quello che cementava questa eterogenea alleanza: il legame tra la lotta per i diritti dei palestinesi nei territori occupati e di quelli di Israele. Questi ultimi, ritiene Mansour Abbas, dovrebbero ormai pensare soprattutto a difendere i propri interessi. Liberati dal peso morto che rappresenterebbe la causa palestinese, potrebbero allora prendere in considerazione una collaborazione promettente con una destra nazionalista che, per quanto colonialista e suprematista, è tuttavia stabilmente al potere. Ultima trasgressione, Mansour Abbas ha manifestato in modo evidente la sua complicità con Benjamin Netanyahu, proponendo il suo partito come perno del gioco politico israeliano.

Se questo approccio ha rappresentato un punto di rottura per i suoi ex-alleati, è stato accolto a braccia aperte dal mondo politico e mediatico israeliano. “Mano a mano che la causa palestinese svanisce nel mondo arabo, essa si attenua anche tra gli arabo-israeliani,” scriveva entusiasticamente nel 2020 il Times of Israel [quotidiano israeliano on line in lingua inglese, ndtr.]. Dopo gli accordi di normalizzazione avvenuti qualche mese prima tra Israele e varie monarchie del Golfo, sarebbero dunque i cittadini palestinesi di Israele a dimostrare a loro volta il proprio “pragmatismo”.

Nella posizione di persona decisiva in seguito alle elezioni del 23 marzo 2021, Abbas ha continuato a centrare le proprie esigenze sugli interessi della “sua comunità”, evitando ogni riferimento alla questione palestinese nel suo insieme. Salvo i suprematisti del Partito Sionista Religioso, la classe politica [ebreo-israeliana, ndtr.] ha allora salutato, secondo le parole di un ministro della coalizione di Benjamin Netanyahu, “la vera voce degli arabo-israeliani”. “Una rivoluzione politica,” ha persino intitolato Haaretz [quotidiano israeliano di centro-sinistra, ndtr.], che ha esortato la popolazione ebraica ad accettare la mano tesa.

L’unità palestinese manifestata durante le rivolte di maggio e aprile non ha impedito a Mansour Abbas e al suo partito, che si sono dissociati per quanto possibile dalle mobilitazioni, anche da quelle pacifiche, di essere conseguenti con la loro logica. La polvere dei bombardamenti a Gaza si era appena depositata quando essi hanno contribuito in modo decisivo alla conclusione di un accordo di governo destinato ad allontanare Netanyahu dal potere. Come previsto, nessuna citazione della questione palestinese da parte sua, ma un piano sostanzioso di investimenti nelle località arabe, il riconoscimento di una manciata di villaggi beduini nel Negev e una sospensione temporanea della distruzione di edifici costruiti senza permesso. In modo altrettanto prevedibile, questa collaborazione arabo-sionista è stata considerata dai commentatori politici un segno dell’apertura della società israeliana e della vitalità della sua democrazia.

Persistenza dell’apartheid

Tra i palestinesi le reazioni sono state nettamente meno entusiastiche. La debole speranza di vita di questo governo, che va dalla sinistra sionista all’estrema destra annessionista, fa sorgere dubbi sul conseguimento effettivo di misure a favore degli arabi, tanto più che esso è in un primo tempo diretto dall’araldo della corrente messianica suprematista ebraica, Naftali Bennett. Cosa ancora più importante, molti hanno criticato l’assenza di risposte alle cause profonde delle diseguaglianze razziali in Israele. Rimangono in vigore norme discriminatorie strutturali come legge sullo Stato-Nazione del 2018, che relega le minoranze non ebraiche in una condizione di secondo piano, o della legge sulla Nakba del 2011, che impedisce di commemorare la grande espulsione dei palestinesi durante la creazione dello Stato di Israele.

Allo stesso modo gli islamisti e la sinistra sionista hanno appoggiato con una relativa facilità il prolungamento del divieto per i palestinesi dei territori occupati di ottenere la cittadinanza israeliana grazie ai ricongiungimenti familiari.

Se l’obiettivo perseguito è l’uguaglianza, non è possibile isolare la questione degli arabi israeliani da quella palestinese nel suo complesso, dal momento che l’oppressione delle diverse componenti del popolo palestinese risponde, in misura variabile, alla stessa filosofia di apartheid,” sostiene Naim Moussa, del centro Mossawa, che promuove l’uguaglianza dei cittadini arabi [di Israele, ndtr.].

Di fatto la rivolta di piazza dei palestinesi dal Giordano al Mediterraneo conferma la constatazione ormai largamente condivisa dalle organizzazioni dei diritti umani: l’esistenza di un regime di supremazia razziale su tutto il territorio controllato da Israele. Il confinamento del 18% dei palestinesi di Israele sul 3% delle terre, l’impossibilità di ottenere un permesso edilizio o l’ebraizzazione a marce forzate da parte di coloni fanatici dei quartieri arabi riecheggiano così clamorosamente la situazione di Gerusalemme est e in Cisgiordania. Allo stesso modo la repressione spietata di queste manifestazioni, a volte con l’appoggio di ausiliari estremisti venuti dalle colonie, e l’ondata di arresti massicci che ne è seguita (più di 2.000 dall’inizio del maggio 2021) evocano i metodi contro-insurrezionali praticati nei territori occupati.

In questo contesto molti temono una risistemazione di facciata che lasci intatte le strutture istituzionali di dominazione. “Quei pochi miglioramenti ottenuti dal Raam non sono molto diversi da quelli ottenuti in modo puntuale grazie al nostro lavoro parlamentare, con la differenza che all’epoca non avevamo da pagare il prezzo del sostegno a un governo che perpetua l’occupazione, le colonie e la discriminazione razziale,” osserva Raja Zaatry, del partito comunista israeliano (Hadash), principale componente della Lista Unita.

Inoltre la tanto celebrata rivoluzione nei rapporti tra ebrei e arabi non lo è affatto. “La storia è piena di cosiddetti dirigenti palestinesi che hanno effettivamente venduto la causa del loro popolo per ottenere un vantaggio personale”, rivela il giornalista e militante Rami Younis, originario di Lod-Lydda, che ricorda la partecipazione di partiti-satellite arabi ai primi governi laburisti o la cooptazione di notabili locali sotto il regime dell’amministrazione militare [israeliana] dal 1948 al 1966.

Come all’epoca, questa collaborazione tra élite senza dubbio non si rifletterà sui rapporti intercomunitari nella società. L’inclusione di Raam è innanzitutto il risultato di un’aritmetica parlamentare che lo ha reso indispensabile. È quindi poco suscettibile di cancellare anni di incitamento all’odio contro la minoranza araba da parte di quegli stessi che oggi incensano l’atteggiamento di Abbas. Del resto, con quattro seggi, il suo partito è certo il primo della sua comunità se si contano separatamente i sei ottenuti dalla Lista Unita, ma nel contesto di un tasso record d’astensione delle località arabe (55,4% contro il 33,6% nel 2020), in grande misura provocato dalla divisione della rappresentanza politica palestinese. Perché l’iniziativa di Abbas ha soprattutto segnato una battuta d’arresto del processo di affermazione di una forza parlamentare palestinese autonoma. Il successo clamoroso della Lista nel 2020 l’aveva in effetti portata a 15 seggi e ridotto i voti arabi per i partiti sionisti al 12%, il livello più basso da sempre, fornendole un’attenzione inedita. Al contrario, la sua scissione nel 2021 consente di opporre con poco sforzo gli “arabi buoni”, che aspirano a partecipare nel posto che gli compete al sogno israeliano, senza rimettere in discussione le disuguaglianze strutturali e il razzismo, agli “arabi sleali”, che reclamano diritti in quanto minoranza nazionale.

Scetticismo riguardo alle elezioni

Peraltro non è detto che la sequenza imposta dalla piazza palestinese favorisca la Lista Unita. Lo scoppio delle rivolte d’aprile e maggio fuori da qualunque quadro centralizzato costituisce di fatto una sconfessione generale per la classe politica palestinese, che fa eco al divorzio tra l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e le mobilitazioni nate spontaneamente in Cisgiordania. A questo riguardo è significativo che le città “miste” nelle quali si sono prodotte siano anche quelle in cui la popolazione araba ha maggiormente disertato le urne il 23 marzo 2021.

Queste mobilitazioni spontanee testimoniano pertanto un profondo scetticismo quanto all’efficacia della partecipazione palestinese al gioco politico israeliano. “I palestinesi si sono fortemente mobilitati nel 2020 per porre la Lista Unita in terza posizione e con il suo risultato migliore unicamente per essere poi rifiutati dal sistema,” spiega Amjad Iraqi sul sito +972 Magazine, in riferimento al dialogo abortito avviato nel 2020 per affrettare la caduta di Netanyahu tra il capo dell’opposizione Benny Gantz e Ayman Odeh, dirigente di Hadash. L’ambizione di quest’ultimo di far progredire una collaborazione ebreo-palestinese basata sull’inclusione della questione palestinese in senso lato e l’impegno a combattere le disuguaglianze nel loro complesso si è scontrata con la persistente ostilità della maggioranza dell’opinione pubblica ebraica.

Mansour Abbas ha fatto lo stesso errore di Ayman Odeh. Questi ultimi 3 anni sono stati un esame per i nostri rappresentanti politici, e purtroppo hanno fallito due volte,” sostiene Rawan Bisharat, militante originaria di Giaffa ed ex-codirettrice dell’associazione per il dialogo ebraico-arabo Sadaka-Reut. “Il fossato tra la nuova generazione che è scesa in piazza e quella precedente che si è dimostrata incapace di comprendere l’escalation a cui abbiamo assistito è oggi evidente. La Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] non è più il luogo adeguato per far avanzare i nostri diritti e dovremmo prendere in considerazione in modo diverso il nostro contributo per il futuro.

La partecipazione alle elezioni rimane una leva per difendere i diritti del popolo palestinese nel suo complesso, tanto più se ci mobilitiamo in modo consistente,” confida Naim Moussa. Continuare su questa strada richiederà però di tener conto dei cambiamenti della società araba in Israele nella sua diversità. La persistenza a lungo termine delle disuguaglianze tra i più precari li rende da parte loro sensibili alle proposte, per quanto aleatorie, che consistono nel migliorare nell’immediato la loro vita quotidiana, finché non si porrà fine al regime discriminatorio che colpisce il popolo palestinese nel suo complesso.

GRÉGORY MAUZÉ

Politologo e giornalista.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)