In un comunicato inviato a Palestine Chronicle Spotify spiega perché una canzone popolare di Mohammed Assaf è stata censurata

Redazione di Palestine Chronicle

21 maggio 2023 – Palestine Chronicle

In un comunicato inviato a Palestine Chronicle un’agenzia di pubbliche relazioni che rappresenta Spotify MENA [acronimo inglese per Paesi del Medio Oriente e Nord Africa, ndt.] afferma che la ragione della rimozione di una canzone popolare del famoso artista palestinese Mohammed Assaf “non è stata decisa da Spotify ma dal distributore.”

Il comunicato di Spotify, inviato tramite Publicist Inc., sostiene anche che “anticipiamo che nel prossimo futuro verrà reinserita e ci scusiamo per ogni inconveniente provocato.”

Nel breve comunicato si legge:

Spotify intende offrire sulla propria piattaforma un’ampia gamma di musiche, ma la disponibilità può variare nel tempo e a seconda dei Paesi. La rimozione di alcuni contenuti di Mohammed Assaf non è stata decisa da Spotify ma dal distributore. Anticipiamo il suo reinserimento nel prossimo futuro e ci scusiamo per qualunque inconveniente provocato.”

In precedenza Palestine Chronicle e altre fonti avevano dato notizia che Spotify e Apple Music avevano deciso di eliminare la canzone “Ana Dammi Falastini” (Il mio sangue è palestinese) di Assaf accusandolo di antisemitismo.

Secondo Roya News [rete informativa giordana, ndt.], dopo aver scoperto che la sua canzone era stata eliminata da entrambe le piattaforme, il cantante palestinese ha condiviso la sua sorpresa in una intervista con Al-Araby al-Jadeed [Il Nuovo Arabo, sito web di notizie in arabo con sede a Londra, ndt.].

Assaf avrebbe detto di aver ricevuto una mail ufficiale in cui si menzionavano accuse di antisemitismo come ragione per la cancellazione della canzone.

Assaf, nato e cresciuto a Gaza, ha sottolineato su Instagram che la canzone è stampata nel cuore di qualunque persona onesta e libera.

Secondo Doha News [blog di notizie con sede in Qatar, ndt.], “la decisione da parte del gigante dello streaming di eliminare la canzone è arrivata dopo che una petizione organizzata dalla filo-sionista “We Believe in Israel” [Noi crediamo in Israele] (WBII) e dal Consiglio dei Deputati ha raccolto circa 4.000 firme.”

Per Israele cancellare la Palestina ed escludere il popolo palestinese dalla storia della sua stessa terra è sempre stato un comportamento strategico,” ha scritto in un recente articolo il giornalista ed editorialista palestinese di Palestine Chronicle Ramzy Baorud, commentando la decisione israeliana di impedire ad Assaf di tornare in Palestina.

La cultura palestinese è stata molto utile alla lotta del popolo palestinese. Nonostante l’occupazione e l’apartheid israeliane, essa ha dato ai palestinesi un senso di continuità e coesione, legandoli tutti a un senso collettivo di identità che ruota intorno alla Palestina,” aveva scritto Baroud.

Nota di redazione: aggiungiamo all’articolo di Palestine Chronicle il testo della canzone censurata da Spotify in modo che i lettori possano verificare quanto ci sia di antisemita.

Il mio sangue è palestinese

Tenendo fede al mio giuramento, seguendo la mia religione

Mi troverai sulla mia terra

Appartengo al mio popolo, sacrifico la mia anima per lui

Il mio sangue è palestinese, palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

Siamo rimasti con te, nostra patria

Con il nostro orgoglio e identità araba

La terra di Gerusalemme ci ha chiamati

(Come) il suono della voce di mia madre che mi chiama

Palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

Tenendo fede al mio giuramento, seguendo la mia religione

Mi troverai sulla mia terra

Appartengo al mio popolo, sacrifico la mia anima per lui

Il mio sangue è palestinese, palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

Oh madre, non preoccuparti

La tua patria è un castello fortificato

A cui sacrifico la mia anima

E il mio sangue, e le mie vene.

Tenendo fede al mio giuramento, seguendo la mia religione

Mi troverai sulla mia terra

Appartengo al mio popolo, sacrifico la mia anima per lui

Il mio sangue è palestinese, palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

 Sono palestinese, figlio di una famiglia libera

Sono valoroso e vado a testa alta

Tengo fede al mio giuramento per la mia patria

Non mi sono mai piegato di fronte a nessuno

Palestinese, palestinese

Il mio sangue è palestinese.

Tenendo fede al mio giuramento, seguendo la mia religione

Mi troverai sulla mia terra

Appartengo al mio popolo, sacrifico la mia anima per lui

Il mio sangue è palestinese, palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

(traduzione dall’inglese dell’articolo e del testo della canzone di Amedeo Rossi)




La marina israeliana apre il fuoco contro le barche dei pescatori palestinesi lungo la costa di Gaza

Redazione di Palestine Chronicle (PC, WAFA)

17 maggio 2023 – Palestine Chronicle

L’agenzia ufficiale palestinese di notizie WAFA ha riferito che le navi della marina dell’occupazione israeliana hanno preso di mira le barche dei pescatori mentre stavano navigando nel mare lungo la costa nord della Striscia di Gaza.

Il corrispondente dell’agenzia WAFA ha affermato che i soldati della marina israeliana hanno preso di mira con pallottole e candelotti di lacrimogeni le barche dei pescatori che stavano navigando nel mare al largo della città di Beit Lahiya e nell’area di Al-Waha. I soldati hanno obbligato con la forza i pescatori a tornare a riva.

Da ottobre 2000 le organizzazioni che si occupano di diritti umani a Gaza hanno documentato molte violazioni israeliane, incluse uccisioni e confische delle barche, contro pescatori che, in base agli accordi tra palestinesi e israeliani garantiti a livello internazionale, hanno il permesso di pescare al largo entro le 4-6 miglia nautiche.

Nonostante gli accordi firmati permettano ai pescatori di muoversi nel mar Mediterraneo entro le 12 miglia nautiche, la marina israeliana prende di mira i pescatori di Gaza quasi ogni giorno e non permette loro di andare oltre le tre miglia nautiche, limite che i pescatori dicono essere insufficiente per poter prendere pesci.

Un grande numero di abitanti di Gaza fa affidamento sulla pesca per la vita quotidiana alla luce del rigido assedio decennale imposto dallo Stato di Israele alla Striscia di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Liegi si unisce ad altre città dell’UE nel boicottaggio di Israele

Palestine Chronicle Staff

26 aprile 2023 – Palestine Chronicle

La città belga di Liegi ha approvato una mozione per interrompere  ogni rapporto con Israele, diventando l’ultima città europea in ordine di tempo ad aver votato misure simili contro Tel Aviv.

Secondo quanto riportato dai mezzi di comunicazione belgi, la mozione della città di Liegi approvata lunedì accusa le autorità israeliane di gestire un regime di “apartheid, colonizzazione e occupazione militare.”

La mozione, presentata dal Partito dei Lavoro del Belgio [partito della sinistra marxista, ndt.] (PTB), chiede la sospensione dei rapporti con Israele finché le autorità israeliane “metteranno fine alle sistematiche violazioni dei (diritti del) popolo palestinese.”

CItando la Nakba e il diritto al ritorno dei palestinesi, la mozione elenca tutte le principali violazioni delle leggi internazionali da parte di Israele, chiedendo il boicottaggio a livello nazionale di tutti i beni e servizi israeliani prodotti nei territori occupati.

Liegi è la terza città europea ad aderire al boicottaggio di Israele dopo Barcellona in febbraio e, più di recente, Oslo.

Il Comitato Nazionale del BDS palestinese (BNC) ha accolto positivamente la decisione ed ha chiesto che altre città in tutto il mondo “seguano l’incoraggiante esempio di Barcellona, Oslo e Liegi, interrompendo i rapporti con l’Israele dell’apartheid in appoggio alla lotta palestinese per #DismantleApartheid (smantellare l’apartheid).”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Mentre i palestinesi seppelliscono Yousef Abu Jaber, rimangono in sospeso delle domande riguardo alla morte del turista italiano

Redazione di Palestine Chronicle (PC, WAFA)

11 aprile 2023 – Palestine Chronicle

L’agenzia di notizie ufficiale palestinese WAFA ha riferito che la famiglia di un cittadino palestinese di Israele, che è stato colpito a morte dalla polizia dopo che lo scorso venerdì avrebbe attuato un attentato con la sua auto a Tel Aviv, sta sollevando dubbi riguardo alle giustificazioni delle autorità israeliane per averlo ucciso.

Yousef Abu Jaber, di 45 anni, è stato seppellito lo scorso martedì mattina nella città di Kafr Qasim, ma molte domande rimangono in sospeso sulle circostanze relative alla sua uccisione.

La polizia israeliana ha dichiarato che Abu Jamer è stato colpito a morte dopo aver lanciato la sua auto contro un gruppo di persone a Tel Aviv, provocando la morte di un turista italiano e il ferimento di altri.

La famiglia di Abu Jaber sta contestando la versione degli eventi della polizia, dichiarando che è stato un incidente d’auto e non un attacco.

Egli non ha un passato nazionalista, non si interessa alle notizie,” ha detto Omar Abu Jaber, il fratello di Yousef.

La famiglia ha chiesto un’indagine sull’incidente, affermando che l’arma che secondo la polizia israeliana lui avrebbe usato non è stata trovata e che la polizia ha nascosto i video che documentano l’incidente.

Inoltre la famiglia ha affermato che la polizia israeliana e i servizi di emergenza hanno cambiato molte volte la loro versione, sollevando dubbi su come gli eventi si siano svolti.

Secondo WAFA, il servizio di ambulanza Magen David Adom ha inizialmente dichiarato che il turista italiano è stato ucciso dai colpi di un’arma da fuoco e poi ha cambiato il suo comunicato, sostenendo che è morto per essere stato investito.

All’inizio la polizia israeliana ha anche dichiarato che Abu Jaber ha cercato di tirare fuori un’arma dalla sua auto e per questo è stato colpito a morte da un poliziotto in seguito all’incidente. Tuttavia, qualche ora dopo il fatto la polizia ha cambiato versione e ha affermato che la presunta arma era una pistola di plastica. La polizia non ha fornito documentazione riguardo all’arma giocattolo.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Sale la tensione in Cisgiordania a causa di una campagna di arresti lanciata dalle forze di occupazione israeliane

Redazione di Palestine Chronicle

28 marzo 2023 – Palestine Chronicle

Middle East Monitor ha riferito che lunedì notte hanno avuto luogo scontri tra le forze di occupazione israeliane e i palestinesi mentre le truppe effettuavano alcuni arresti in Cisgiordania e a Gerusalemme occupate.

Scontri hanno avuto luogo anche a Jenin, dove le forze israeliane hanno arrestato palestinesi accusati di prendere parte ad azioni di resistenza popolare contro le forze di occupazione e i coloni ebrei illegali.

Le incursioni sono state concentrate nei governatorati di Hebron (Al-Khalil), Nablus, Jenin e Betlemme. Sono state fatte irruzioni in decine di case e beni personali sono stati confiscati. Alcuni abitanti sono stati interrogati per molte ore.

Due dei palestinesi arrestati erano gli ex-prigionieri Ammar Jawabreh e Wael Al-Badawi. Le loro case nel campo di Al-Aroub a nord di Hebron sono state prese d’assalto dalle forze di occupazione israeliane.

Le truppe israeliane hanno anche arrestato Ismail Al-Hawamdeh di Al-Samou’, a sud di Hebron, dopo aver fatto incursione nella sua casa e confiscato i suoi beni.

Quando le forze di occupazione hanno preso d’assalto un’altra casa ad Al-Aroub, hanno arrestato un giovane mentre altri hanno tirato pietre ai veicoli blindati usati dalle truppe.

Scontri sono scoppiati anche tra un gruppo di palestinesi e le forze di occupazione al posto di controllo di Salem, ad ovest di Jenin. Non è stata riferita la presenza di vittime.

Nel governatorato di Gerusalemme, le forze di occupazione hanno fatto un’incursione nella casa di famiglia del ragazzo palestinese Muhammad Al-Zaliani nel campo di Shuafat. Esse hanno preso le misure della casa in previsione di una successiva demolizione.

Secondo le autorità israeliane, il ragazzo ha provato ad effettuare un accoltellamento al posto di controllo di Shuafat alcuni mesi fa.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Gas algerino contro ideologia di destra: l’Italia cambierà la sua posizione su Gerusalemme?

Romana Rubeo e Ramzy Baroud

21 marzo 2023 – Palestine Chronicle

Il 9 marzo, quando il primo ministro Benjamin Netanyahu ha lasciato Tel Aviv per andare a Roma, è stato portato all’aeroporto Ben Gurion in elicottero perché manifestanti antigovernativi avevano bloccato tutte le strade di accesso.

La visita di Netanyahu non è stata accolta con molto entusiasmo neppure in Italia. Nel centro di Roma è stato organizzato un sit-in di attivisti filo-palestinesi con lo slogan “Non sei il benvenuto”. Anche una traduttrice italiana, Olga Dalia Padoa, si è rifiutata di tradurre il suo discorso nella sinagoga di Roma previsto per il 9 marzo.

Persino la presidentessa dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, benché come prevedibile abbia ripetuto il suo amore e sostegno a Israele, ha manifestato le sue preoccupazioni per le istituzioni dello Stato di Israele.

Di ritorno a Tel Aviv il viaggio di Netanyahu in Italia è stato stroncato dal leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid come “un dispendioso e inutile fine settimana a spese dello Stato.” Ma il viaggio di Netanyahu in Italia, oltre a passare un fine settimana a Roma o distogliere l’attenzione dalle continue proteste in Israele, aveva altri scopi.

In un’intervista pubblicata il 9 marzo dal quotidiano italiano La Repubblica il Primo Ministro ha spiegato gli ambiziosi obiettivi che stavano dietro al suo viaggio in Italia: “Vorrei che ci fosse una maggiore cooperazione economica,” ha affermato. “Abbiamo gas naturale, ne abbiamo tanto e vorrei parlare di come portarlo in Italia per contribuire al suo sviluppo economico.”

Nelle scorse settimane la Prima Ministra Giorgia Meloni ha fatto la spola tra vari Paesi alla ricerca di lucrosi contratti per il gas. Meloni non vuole solo garantire al suo Paese le necessarie forniture di energia in seguito alla crisi tra Russia e Ucraina, ma vuole che Roma diventi il principale snodo europeo per l’importazione e l’esportazione di gas. Israele lo sa ed è particolarmente preoccupato che l’importante accordo per il gas dell’Italia con Algeria del 23 gennaio possa minacciare la posizione economica e politica di Israele in Italia, in quanto l’Algeria continua a rappresentare il baluardo della solidarietà con i palestinesi in Medio Oriente e in Africa.

Oltre al gas, Netanyahu aveva altre questioni in mente. “Dal punto di vista strategico parleremo di Iran. Dobbiamo impedirgli di avere l’atomica perché i suoi missili potrebbero raggiungere molti Paesi, compresa l’Europa, e nessuno vuole essere preso in ostaggio da un regime fondamentalista con armi nucleari,” ha detto Netanyahu con il consueto linguaggio allarmistico e stereotipato riguardo ai suoi nemici in Medio Oriente.

Netanyahu ha due principali richieste da fare all’Italia: non votare contro Israele alle Nazioni Unite e, cosa più importante, riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Benché Gerusalemme sia considerata dalla comunità internazionale una città palestinese occupata, Netanyahu vuole che, in base all’inconsistente logica della “forte ed antica tradizione tra Roma e Gerusalemme”, Roma cambi la propria posizione, che è coerente con il diritto internazionale.

In base alla stessa logica di esportazione di materie prime e armi in cambio di fedeltà politica con Israele all’ONU, Netanyahu ha ottenuto grandi successi nel normalizzare i rapporti tra il suo Paese e molte Nazioni africane. Ora sta applicando lo stesso modus operandi in Italia, una potenza europea e la nona economia mondiale.

Che questa strategia sia un risultato della crescente sudditanza dell’Europa nei confronti di Washington e Tel Aviv o dell’incapacità di Netanyahu di comprendere il cambiamento delle dinamiche geopolitiche nel mondo è un’altra questione. Ma è chiaro che Netanyahu ha percepito che l’Italia è un Paese che ha disperatamente bisogno dell’aiuto di Israele. Durante l’incontro con Meloni Netanyahu ha promesso di fare dell’Italia uno snodo del gas per l’Europa e di aiutare Roma a risolvere i suoi problemi idrici, mentre da parte sua Meloni ha insistito che “Israele è un partner fondamentale in Medio Oriente e a livello globale.”

Tuttavia la risposta più entusiastica alla visita di Netanyahu è venuta dal ministro italiano delle Infrastrutture Matteo Salvini, di estrema destra, che ha fortemente appoggiato la richiesta israeliana di riconoscere Gerusalemme come sua capitale “in nome della pace, della storia e della verità.” Per quanto in contraddizione con la politica estera italiana, la sua reazione non è affatto sorprendente. Il capo della Lega in passato è stato spesso criticato per il suo linguaggio razzista. Tuttavia Salvini negli ultimi anni si è “trasformato”, soprattutto dopo una visita nel 2018 in Israele, dove ha dichiarato il suo amore per Israele e ha criticato i palestinesi. È stato allora che Salvini ha iniziato a crescere a livello politico italiano in generale, invece che regionale.

Ma questa non è la posizione solo di Salvini. Il governo italiano ha accolto positivamente la visita di Netanyahu senza alcuna critica nei confronti delle politiche radicali del suo governo di estrema destra portate avanti nella Palestina occupata. Mentre questa posizione è in linea con la politica estera italiana, non c’è da stupirsene neanche da un punto di vista ideologico.

Benché in passato, grazie alle forze rivoluzionarie che hanno avuto un grande impatto nel definire il discorso politico italiano durante la Seconda Guerra Mondiale e la successiva liberazione del Paese dal fascismo, la politica italiana abbia dimostrato una notevole solidarietà con la lotta del popolo palestinese per la liberazione e il diritto all’autodeterminazione, questa posizione è cambiata nel corso degli anni. Mentre la politica interna italiana arretrava verso destra, l’agenda della sua politica estera in Palestina e Israele si è spostata decisamente verso una posizione filo-israeliana. Ora quanti vengono percepiti come filo-palestinesi nel governo italiano sono pochi e spesso definiti politici radicali.

Tuttavia, nonostante il discorso ufficiale a favore di Israele in Italia, le cose per Netanyahu non sono così facili come possono sembrare, soprattutto quando si tratta di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.

In effetti Meloni non ha manifestato un sincero impegno verso la richiesta israeliana. Al contrario, lo scorso agosto, in un’intervista con la Reuter [agenzia di stampa inglese, ndt.], ancor prima di diventare prima ministra italiana Meloni era sembrata cauta, affermando solo che si tratta di “una questione diplomatica e dovrebbe essere valutata insieme al ministero degli Esteri.”

C’è una ragione dietro all’esitazione di Meloni. Il riconoscimento italiano di Gerusalemme come capitale di Israele collocherebbe Roma fuori dal diritto internazionale. In una lettera aperta a Meloni la relatrice speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese ha ricordato al governo italiano che il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele rappresenterebbe un’aperta violazione del diritto internazionale.

La politica estera italiana deve anche rendere conto a quella collettiva dell’Unione Europea, di cui Roma è parte integrante. L’UE sostiene la posizione dell’ONU, secondo cui Gerusalemme est è una città palestinese occupata e l’annessione della città nel 1980 da parte di Israele è illegale.

Oltretutto il recente accordo storico dell’Italia con la compagnia statale algerina del gas, Sonatrach, a gennaio, rende particolarmente difficile per Roma prendere una posizione estremista a favore di Israele. Il delicato equilibrio geopolitico risultante dalla crisi del gas, di per sé un risultato diretto della guerra tra Russia e Ucraina, rende ogni cambiamento nella politica estera italiana riguardo a Palestina e Israele simile a un atto di autolesionismo.

Almeno per il momento il gas arabo è per l’Italia molto più importante di quello che potrebbe offrire Netanyahu. Secondo quanto riferito da “BNE Intellinews” il nuovo accordo tra Roma e Algeri garantirà all’Italia 9 miliardi di m3 di gas, oltre alle forniture che già passano per il gasdotto TransMed. Questa infrastruttura vitale connette l’Algeria all’Italia attraverso la Sicilia che, a sua volta, utilizza gasdotti sotto il mar Mediterraneo. “L’espansione di questi percorsi vitali è già stata programmata, al fine di aumentare l’attuale capacità di 33,5 miliardi di m3 all’anno”, aggiunge il sito web di notizie economiche.

Benché sia una figura politica di estrema destra senza una particolare vicinanza o rispetto per le regole stabilite a livello internazionale, Meloni comprende che gli interessi economici prevalgono sull’ideologia. “Oggi l’Algeria è il nostro primo fornitore di gas,” ha affermato Meloni in una conferenza stampa ad Algeri dopo aver firmato l’accordo. Il contratto, ha detto, fornirà al Paese “un mix di energia che difenderà l’Italia dall’attuale crisi energetica.”

Un simile fatto renderebbe impossibile per l’Italia allontanarsi, almeno per ora, dalla sua attuale posizione riguardo a Gerusalemme e all’illegale occupazione israeliana della Palestina. Mentre sarà difficile per Israele convincere l’Italia a cambiare posizione, Algeria, Tunisia e altri Paesi arabi potrebbero alla fine trovare un varco per scoraggiare l’Italia dal suo cieco appoggio a Israele.

Romana Rubeo è una giornalista italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli appaiono su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Lingue e Letterature Straniere ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo, co-curato con Ilan Pappé, è La nostra visione per la liberazione: parlano i leader e gli intellettuali palestinesi impegnati. Fra gli altri libri My Father was a Freedom Fighter [Mio padre era un combattente per la libertà] e The Last Earth [L’ultima terra]. Baroud è Senior Research Fellow non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le forze israeliane uccidono un giovane palestinese vicino a Ramallah

Redazione di Palestine Chronicle

18 marzo 2023 – Palestine Chronicle

L’agenzia ufficiale di notizie WAFA ha informato che venerdì notte un giovane palestinese è stato ucciso dalle forze di occupazione israeliane all’ingresso nord della città di Ramallah nella Cisgiordania occupata.

Il ministero della Sanità palestinese ha affermato in una dichiarazione che il giovane, identificato come il ventitreenne Yazan Omar Khasib, è stato colpito da soldati israeliani al posto di controllo militare all’ingresso di Ramallah.

Khasib è stato arrestato in condizioni critiche dai soldati israeliani, ed è stato dichiarato deceduto a causa delle ferite pochi minuti dopo.

All’ambulanza e al personale medico palestinesi è stato negato dall’esercito israeliano l’accesso alla area in cui il giovane è stato ferito.

In seguito alla sparatoria l’esercito israeliano ha chiuso il posto di controllo al traffico palestinese.

L’ultimo crimine israeliano porta a 89 il numero di palestinesi uccisi dalle forze di occupazione israeliane dall’inizio dell’anno, tra cui 17 minorenni e una donna anziana.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Coloni ebrei aggrediscono un anziano contadino palestinese, i soldati israeliani lo arrestano

Redazione di Palestine Chronicle (WAFA, PC)

7 marzo 2023 – Palestine Chronicle

L’agenzia di notizie WAFA [agenzia di stampa dell’ANP, ndt.] ha riferito che martedì un anziano agricoltore palestinese è stato arrestato dalle forze israeliane dopo essere stato aggredito da coloni ebrei illegali mentre stava lavorando la sua terra nella Cisgiordania settentrionale

Ghassan Daghlas, un attivista locale, ha detto a WAFA che i coloni ebrei provenienti dalla colonia illegale di Yitzhar hanno attaccato un anziano agricoltore mentre stava lavorando la sua terra nella parte orientale della città di Urif, vicino a Nablus.

L’uomo è stato successivamente arrestato dai soldati dell’occupazione israeliana che sono intervenuti a proteggere i coloni.

Daghlas ha affermato che gli abitanti della città sono corsi ad aiutare l’agricoltore e hanno respinto i coloni che hanno attaccato le case palestinesi, ma sono stati affrontati da soldati israeliani che gli hanno tirato contro gas lacrimogeni.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Vera emancipazione: un incontro con le donne pugili di Gaza

Salsabeel M.A. Abu Loghod

27 gennaio 2023 – Palestine Chronicle

Dopo aver lottato negli ultimi 5 anni senza nessun tipo di appoggio e allenandosi in un piccolo luogo sotto la casa del capitano Osama Ayoub, nel dicembre 2022 è stato finalmente aperto il Palestinian Women’s Boxing Center [Centro Pugilistico delle Donne Palestinesi].

Ma sicuramente ci sono delle difficoltà. Il Centro è la prima società pugilistica femminile di Gaza City. Con le sue 30 associate intende migliorare le capacità di autodifesa, forma fisica e perdita di peso delle donne palestinesi attraverso l’integrazione delle donne nel mondo pugilistico palestinese.

La società affronta diverse sfide dovute all’ermetico assedio israeliano imposto alla Striscia così come al rifiuto da parte della società palestinese di insegnare alle ragazze tale sport. Nonostante rispetti le tradizioni e costumi della società, compresa una sala coperta, e con una donna per allenare le allieve, nonostante gli appelli di oltre 90 mezzi di comunicazione arabi, locali e internazionali non ci sono trasporti per le ragazze e non è stato fornito alcun sostegno finanziario.

Sui nostri account nelle reti sociali abbiamo ricevuto alcuni commenti negativi, in cui si sostiene che le donne non dovrebbero allenarsi ma stare a casa accanto ai loro mariti. Altri affermano di non volere donne in grado di picchiare gli uomini,” sostiene Ayoub.

Tuttavia è comparso anche qualche commento positivo, che invita Ayoub a continuare con la sua idea di rafforzare le donne in una società maschilista.

Abbiamo ragazze di talento che possono rappresentare la Palestina in tornei pugilistici all’estero,” osserva Ayoub.

Tra le giovani atlete c’è la quindicenne Farah Abu Al-Qumsan. Cinque anni fa, durante una vacanza scolastica, Al-Qumsan ha parlato con un’amica dello sport. Ha saputo di Ayoub da un’amica parente del capitano, che le ha raccontato del club pugilistico aperto da poco. Farah ha deciso di andarci. I suoi genitori sono stati d’accordo a consentirle di iscriversi per prima. Ha iniziato a boxare all’età di 11 anni, nel novembre 2020 ha partecipato a un torneo locale presso il King’s Club di Gaza e ha vinto il premio come migliore pugile.

Fin da bambina sono sempre stata affascinata dal pugilato e sognavo di diventare una campionessa come Muhammad Alì o Mike Tyson,” afferma Al-Qumsan.

Spesso le viene detto che si tratta di uno sport solo per ragazzi. Tuttavia molte persone la lodano e ciò l’aiuta ad affrontare le critiche. “In genere rispondevo alle osservazioni negative dicendo che ogni ragazza dovrebbe praticare il pugilato,” afferma Al-Qumsan. Sua madre, la trentanovenne Umm Sufyan, l’ha incoraggiata a fare pugilato. “Se dio vuole continuerò ad appoggiarla fino in fondo e lei terrà alto il nome della Palestina in tutti i Paesi arabi e all’estero,” afferma la madre di Farah.

Come Al-Qumsan, Malak Tariq Ziyad Musleh è stata spesso criticata perché pratica il pugilato.

Musleh è pugile nel Palestinian Women’s Boxing Center. Ha iniziato a boxare a 12 anni, cinque anni fa. Anche lei ha partecipato al torneo del King’s Club nel 2020. “Dato che ero solita vedere la boxe su YouTube, mi sono sempre chiesta perché non abbiamo uno sport come questo. Quindi quando alla fine ne abbiamo avuto la possibilità, ho voluto provare,” mi dice Musleh.

Mio padre mi ha molto appoggiata, dato che la mia famiglia sapeva che ero molto timida. L’ho scelto perché mi piace pensare fuori dagli schemi. Si è rivelata una bellissima esperienza,” dice Musleh. Molte persone che hanno assistito al torneo hanno incoraggiato le ragazze con slogan e cori. Ciò ha dato loro la forza di andare avanti, mentre qualcuno è rimasto critico.

Le mie amiche si sono vergognate e hanno pianto quando hanno ricevuto commenti negativi. Quindi, dato che sono la più vecchia della squadra, sono stata dalla loro parte e le ho incoraggiate,” afferma Musleh.

In seguito ai commenti negativi alcune ragazze non hanno boxato per un po’, ma grazie all’appoggio di Ayoub hanno superato ogni difficoltà.

Sviluppano le loro capacità guardando su internet gli allenamenti della boxe femminile internazionale.

Il mio sogno è quello di rappresentare la bandiera palestinese, partecipare a competizioni locali e internazionali e far vedere al mondo che in Palestina c’è un popolo che ha incredibili capacità,” mi dice Musleh.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I palestinesi non sono bugiardi – contro la violenza della delegittimazione dei media

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

24 gennaio 2023, PalestineChronicle

Il 19 gennaio, durante uno dei suoi raid nella Cisgiordania occupata vicino alla città di Al-Khalil (Hebron), l’esercito israeliano ha arrestato un giornalista palestinese, Abdul Muhsen Shalaldeh. È solo l’ultima di un numero impressionante di violazioni contro i giornalisti palestinesi e contro la libertà di espressione.

Pochi giorni prima durante una conferenza stampa a Ramallah il capo del Sindacato dei Giornalisti Palestinesi (PJS) Naser Abu Baker ha diffuso alcuni numeri tremendi. “Dal 2000 sono stati uccisi cinquantacinque giornalisti dal fuoco o dalle bombe israeliane”, ha detto. Altre centinaia sono stati feriti, arrestati o detenuti. Sebbene scioccante, questa realtà è in gran parte censurata dai principali media.

L’omicidio dell’11 maggio ad opera dell’esercito di occupazione israeliano della veterana giornalista palestinese Shireen Abu Akleh è stata un’eccezione, in parte a causa dell’importanza mondiale della sua testata, Al Jazeera Network. Tuttavia, Israele e i suoi alleati si sono impegnati a nascondere la notizia, ricorrendo alla consueta tattica di diffamare coloro che sfidano la narrativa israeliana.

I giornalisti palestinesi pagano un caro prezzo per portare avanti la loro missione di diffondere la verità sull’attuale oppressione israeliana dei palestinesi. Il loro lavoro non è solo fondamentale per una buona ed equilibrata copertura mediatica, ma anche per la causa stessa della giustizia e della libertà in Palestina.

In un recente rapporto del 17 gennaio, PJS ha dettagliato alcune delle spaventose esperienze dei giornalisti palestinesi. “Decine di giornalisti sono stati presi di mira dalle forze di occupazione e dai coloni durante lo scorso anno, che ha (registrato) il maggior numero di gravi attacchi contro giornalisti palestinesi”.

Tuttavia, il danno inflitto ai giornalisti palestinesi non è solo fisico e materiale. Sono anche costantemente esposti a una minaccia molto sottile ma ugualmente pericolosa: la costante delegittimazione del loro lavoro.

La violenza della delegittimazione

Romana Rubeo, co-autrice di questo articolo, ha partecipato il 18 gennaio a un incontro riservato che ha coinvolto oltre 100 giornalisti italiani con lo scopo di consigliarli su come riferire in modo accurato della Palestina. Rubeo ha fatto del suo meglio per illustrare alcuni dei fatti discussi in questo articolo, su cui è impegnata quotidianamente come caporedattrice di Palestine Chronicle.

Tuttavia, una giornalista israeliana veterana, spesso lodata per i suoi coraggiosi reportage sulla Palestina, ha scioccato tutti quando ha suggerito che non ci si può sempre fidare dei palestinesi per i particolari. Ha detto qualcosa del genere: sebbene la verità sia dalla parte palestinese, non ci si può fidare totalmente di loro sui particolari, mentre gli israeliani sono più affidabili sui dettagli ma mentono sul quadro generale.

Per quanto oltraggioso tale pensiero possa apparire – per non parlare del suo orientalismo [costruzione imperialista della disuguaglianza, dall’omonimo libro 1978 di Edward Said, ndt.] – è una minuzia in confronto alla macchina dell’hasbara [controllo e manipolazione delle notizie sulle politiche del governo e sull’esercito israeliani, ndt.] gestita dallo Stato del governo israeliano.

Ma è vero che non ci si può fidare dei palestinesi per i particolari?

Quando a Jenin Abu Akleh è stata uccisa non era l’unica giornalista presa di mira. Era presente il suo collega Ali al-Samoudi, un altro giornalista palestinese anch’egli colpito e ferito da un proiettile israeliano alla schiena.

Naturalmente al-Samoudi era il principale testimone oculare di quanto era accaduto quel giorno. Ha detto ai giornalisti dal suo letto d’ospedale che non c’erano combattimenti in quella zona; che lui e Shireen indossavano giubbotti stampa chiaramente contrassegnati; che sono stati intenzionalmente presi di mira dai soldati israeliani e che i combattenti palestinesi non erano neanche lontanamente vicini alla distanza di tiro da cui sono stati colpiti.

Tutto ciò è stato negato da Israele e, a propria volta, dai principali media occidentali, poiché presumibilmente “non ci si può fidare dei palestinesi per i particolari”.

Tuttavia, le indagini di organizzazioni internazionali per i diritti umani e infine una timida ammissione israeliana di possibile colpevolezza hanno dimostrato che quello di al-Samoudi era il racconto più dettagliato e onesto della verità. Questo episodio si è ripetuto centinaia di volte nel corso degli anni per cui all’inizio le opinioni palestinesi vengono respinte come false o esagerate e la narrazione israeliana accolta come l’unica verità possibile finché infine viene alla luce la verità che conferma ogni volta la versione palestinese. Molto spesso, la verità dei fatti viene rivelata troppo poco e troppo tardi.

Il tragico assassinio del ragazzo palestinese di 12 anni Mohammed al-Durrah rimane fino ad oggi l’episodio più vergognoso del pregiudizio dei media occidentali. La morte del ragazzo, ucciso dalle truppe di occupazione israeliane a Gaza nel 2000 mentre cercava rifugio accanto al padre è stata essenzialmente attribuita ai palestinesi, prima che la narrazione del suo assassinio fosse riscritta suggerendo che fosse rimasto ucciso nel “fuoco incrociato”. Quella versione della storia alla fine è cambiata con la riluttante accettazione del racconto palestinese sull’evento. Tuttavia, la storia non è finita qui, poiché l’hasbara sionista ha continuato a perseguire la propria narrativa, diffamando coloro che adottano la versione palestinese come anti-israeliani o addirittura “antisemiti”.

(Nessuna) Autorizzazione a narrare

Nonostante il giornalismo palestinese abbia dimostrato negli ultimi anni la sua efficacia – esempio lampante le guerre di Gaza – grazie al potere dei social media e alla loro capacità di diffondere informazioni direttamente ai fruitori di notizie, le sfide rimangono grandi.

Quasi quattro decenni dopo la pubblicazione del saggio di Edward Said “Permission to Narrate” [Autorizzzione a narrare, Journal of Palestine Studies XIII/3 1984, pp. 27-48] e più di dieci anni dopo il fondamentale poema di Rafeef Ziadah “We Teach Life, Sir” [“…non pensi si risolverebbe tutto se la smetteste di insegnare così tanto odio ai bambini?…”] sembra che, in alcune piattaforme mediatiche e ambienti politici i palestinesi debbano ancora ottenere il permesso di narrare, in parte a causa del razzismo anti-palestinese che continua a prevalere ma anche perché, secondo il giudizio della giornalista supposta filo-palestinese, i palestinesi non sono affidabili nei particolari.

Tuttavia, c’è speranza in questa storia. C’è una nuova generazione di attivisti palestinesi, emancipata e coraggiosa – autori, scrittori, giornalisti, blogger, registi e artisti – più che qualificata a rappresentare i palestinesi e a presentare un discorso politico coeso, non fazioso e universale sulla Palestina.

Una nuova generazione alla ricerca della verità

In realtà i tempi sono cambiati e i palestinesi non hanno più bisogno di filtri – come quelli che parlano a loro nome, posto che i palestinesi siano – come si presume – intrinsecamente incapaci di farlo.

Gli autori di questo articolo hanno recentemente intervistato due rappresentanti della nuova generazione di giornalisti palestinesi, due voci forti a favore di un’autentica presenza palestinese nei media internazionali: la giornalista e il redattore Ahmed Alnaouq e Fahya Shalash.

Shalash è una giornalista residente in Cisgiordania; ha trattato della copertura mediatica a partire dalle priorità palestinesi raccogliendo molti esempi di storie importanti che spesso non vengono riportate. “Come donne palestinesi nella nostra vita troviamo molti ostacoli e sono (tutti) legati all’occupazione israeliana; è molto pericoloso lavorare come giornalista. “Tutto il mondo ha visto cosa è successo a Shireen Abu Akleh per aver riferito la verità sulla Palestina”, ha detto.

Shalash ritiene che essere una giornalista palestinese che scrive sulla Palestina non è solo un’esperienza professionale, ma anche emotiva e personale. “Quando lavoro e sono al telefono con le famiglie dei prigionieri o dei martiri palestinesi, a volte scoppio a piangere”.

In effetti, le storie sugli abusi e gli attacchi contro le donne palestinesi da parte dei soldati israeliani raramente sono un argomento mediatico. “Israele indossa la maschera della democrazia; fingono di avere a cuore i diritti delle donne, ma non è affatto quello che succede qui”, ha detto la giornalista palestinese.

Colpiscono le giornaliste palestinesi perché sono fisicamente più deboli; le insultano con un linguaggio davvero spudorato. Sono stata personalmente detenuta dalle forze israeliane per essere interrogata. La cosa ha influenzato il mio lavoro. Mi hanno minacciato, dicendo che se nel mio lavoro avessi continuato a raffigurarli come criminali mi avrebbero impedito di fare la giornalista”.

Nei media occidentali continuano a parlare dei diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere, ma noi non abbiamo alcun diritto. Non viviamo come in qualsiasi altro paese”, ha aggiunto.

Da parte sua Alnaouq, capo dell’organizzazione palestinese “We Are Not Numbers”, ha spiegato come i principali media non permettano mai alle voci palestinesi di essere presenti nei loro reportage. Gli articoli scritti da palestinesi sono anche “pesantemente modificati”.

“È anche colpa dei redattori”, ha detto. “A volte commettono grossi errori. Quando un palestinese viene ucciso a Gaza o in Cisgiordania, i redattori dovrebbero dire chi è l’autore, ma la stampa spesso omette questa informazione. Non menzionano Israele come colpevole. Hanno una specie di agenda da imporre”.

Quando gli abbiamo chiesto come avrebbe cambiato l’informazione sulla Palestina se avesse lavorato come redattore in un importante media occidentale, Alnaouq ha detto:

Direi solo la verità. È questo ciò che vogliamo come palestinesi. Vogliamo la verità. Non vogliamo che i media occidentali siano prevenuti nei nostri confronti o attacchino Israele, vogliamo solo che dicano la verità come è giusto che sia”.

Dare priorità alla Palestina

Solo le voci palestinesi possono trasmettere l’emozione delle drammatiche storie palestinesi, che non arrivano mai alla più vasta copertura mediatica e, quando succede, le storie spesso mancano di contesto, danno la priorità alle opinioni israeliane – se non a vere e proprie bugie – e a volte omettono del tutto i palestinesi. Ma come continua a dimostrare il lavoro di Abu Akleh, al-Samoudi, Alnaouq e Shalash e di centinaia di altri, i palestinesi sono qualificati per produrre giornalismo di alta qualità, con integrità e professionalità.

I palestinesi devono essere il fulcro della narrativa palestinese in ogni sua manifestazione. È tempo di rompere con il vecchio modo di pensare che vedeva i palestinesi incapaci di narrare, o passivi all’interno della propria storia, personaggi secondari che possono essere rimpiazzati o sostituiti da altri ritenuti più credibili e veritieri. Qualcosa di diverso sarebbe giustamente collocato nel pensiero orientalista di un’epoca passata, o peggio.

Ramzy Baroud è giornalista, autore ed redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo, co-curato con Ilan Pappé, è La nostra visione per la liberazione: parlano i leader e gli intellettuali palestinesi impegnati. Fra gli altri libri My Father was a Freedom Fighter e The Last Earth. Baroud è Senior Research Fellow non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA). Il suo sito web è www.ramzybaroud.net

Romana Rubeo è una scrittrice italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli appaiono su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Lingue e Letterature Straniere ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)