Attacco dei media israeliani alla vincitrice del premio Nobel per aver sostenuto il boicottaggio contro l’apartheid di Israele

Palestine Chronicle

9 ottobre 2022,Palestine Chronicle

I media israeliani hanno attaccato la scrittrice francese Annie Ernaux, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 2022, per aver dimostrato solidarietà alla causa palestinese.

Il quotidiano israeliano The Jerusalem Post ha riportato che la scrittrice ha invitato “a boicottare gli eventi culturali israeliani, a rilasciare i terroristi e ha chiamato Israele Stato di apartheid”.

Ernaux, la cui carriera di scrittrice dura da cinquant’anni, è la prima donna francese ad aver vinto il prestigioso premio.

Nel 2021, quando Israele ha espulso dei palestinesi dalle loro case nella Gerusalemme est occupata e ha condotto una spietata campagna di bombardamenti sulla Striscia di Gaza assediata uccidendo più di 250 palestinesi, Ernaux ha firmato una lettera “contro l’apartheid” che condannava Israele per le sue azioni.

“Chiediamo la fine immediata e incondizionata della violenza israeliana contro i palestinesi… Chiediamo a tutti i governi che consentono questi crimini contro l’umanità di mettere in atto sanzioni, di mobilitare gli organismi internazionali perché li condannino e di porre fine alle loro relazioni commerciali ed economiche”, si legge nella lettera.

Nel 2019, Ernaux ha firmato una lettera in cui invitava la televisione nazionale francese a non mandare in onda l’Eurovision Song Contest, che quell’anno si svolgeva in Israele.

L’anno prima aveva firmato una lettera contro l’istituzione di una stagione di eventi culturali da parte dei governi francese e israeliano in occasione del 70° anniversario della creazione dello Stato israeliano.

Entrambe le lettere accusavano Israele di utilizzare eventi culturali per nascondere i suoi crimini contro i palestinesi e sono state firmate da altre icone culturali francesi tra cui il defunto regista Jean-Luc Godard.

Ernaux ha anche firmato una lettera per chiedere il rilascio del prigioniero politico libanese Georges Abdallah.

Nell’assegnazione del premio Nobel per la letteratura Ernaux ha battuto scrittori tra cui Salman Rushdie – sopravvissuto a un attacco di accoltellamento che lo ha portato in ospedale all’inizio di quest’anno.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gaza: il carcere israeliano con un milione di minori è in emergenza riguardante la salute mentale

Omar Aziz

19 agosto 2022 – Palestine Chronicle

“Far del male durante un conflitto a qualsiasi bambino è fortemente inquietante”, ha affermato giovedì scorso Michelle Bachelet, l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, esprimendo allarme per il numero di minori palestinesi uccisi questo mese da Israele.

“L’uccisione e la mutilazione di così tanti minori durante questo anno è inaccettabile“, ha continuato.

Quindi cosa dire del fatto che Israele effettua ogni anno attacchi aerei con una tecnologia militare industrializzata all’avanguardia su un’enclave assediata composta per lo più da minori?

Il diritto umanitario internazionale è chiaro. È proibito lanciare un attacco che potrebbe uccidere o ferire accidentalmente civili, o danneggiare strutture civili, in modo sproporzionato rispetto ai concreti ed espliciti obiettivi militari. Tali attacchi devono cessare,” ha detto Bachelet.

Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese il 47% dei 2,2 milioni di abitanti di Gaza sono minorenni, altri collocano la percentuale oltre il 50%.

E la popolazione di Gaza è notoriamente ammassata soprattutto all’interno degli otto campi profughi ufficialmente riconosciuti dall’UNRWA, che sono considerati alcuni dei luoghi più densamente popolati al mondo. Eppure ognuno è ancora considerato un obiettivo legittimo da parte degli aerei da guerra israeliani.

Con questa consapevolezza ciò che diventa inequivocabilmente evidente è che ogni bomba che Israele sgancia sull’enclave assediata, crimine di guerra dopo crimine di guerra, viene sganciata con la consapevolezza che i minori sono le probabili vittime.

Che si tratti di minorenni massacrati come “danni collaterali” dei cosiddetti “attacchi di precisione mirati” o colpiti semplicemente per essere palestinesi, proprio come i cinque palestinesi uccisi il 7 agosto da un attacco missilistico mentre si trovavano sulla tomba del nonno nel cimitero di Al-Falluja, a est di Jabalya. Un crimine che l’esercito israeliano ha inizialmente negato di aver commesso, una bugia che le pubblicazioni dei principali organi di informazione occidentali hanno volutamente ripetuto a pappagallo senza esitazione nonostante la comprovata reputazione di Israele di diffondere bugie e disinformazione.

 Minori che non hanno altra scelta che subire ogni ferita inferta dallo sconvolgente potere distruttivo di Israele mentre si trovano imprigionati in questa minuscola striscia di terra.

Le cifre non sono più scioccanti, ma da incubo, distopiche. Una situazione difficilmente credibile per coloro che non hanno assistito in prima persona alla realtà o prestato attenzione alle testimonianze palestinesi.

L’accademico palestinese-americano Yousef Munayyer afferma che è ora di smettere di chiamare Gaza una “prigione a cielo aperto”, ma quello che è veramente: una camera di tortura.

Immaginate un po’: un ambiente progettato con cura per incubare e infliggere traumi psicologici, sofferenza fisica e privazione economica ha prodotto proprio questo. Che sorpresa.

Secondo Save the Children, oggi l’80% dei minorenni di Gaza dichiara di vivere con depressione, dolore e paura.

Nel corso dell’attacco a Gaza del 2014 Israele ha ucciso 547 minorenni palestinesi in sette settimane. Nel maggio 2021 ne ha ucciso 67. E questo mese a Gaza sono stati uccisi almeno 17 minori.

Ma queste non sono le uniche vittime di quell’età a Gaza.

In questo momento a Gaza c’è un milione di minori brutalizzati e traumatizzati da almeno 29 aggressioni militari dal 2003, ognuno con una voce da ascoltare, con una storia da raccontare e una vita che merita molto di più.

Gli ultimi tre giorni dell’attacco sono stati davvero tragici per me. Ho avuto molti flashback delle aggressioni vissute in precedenza.

Mi hanno fatto pensare molto a dove in realtà vivo, alla prigione in cui mi trovo, sapendo che potrei morire letteralmente da un momento all’altro mentre parlo con qualcuno, mentre sono seduto, mentre guardo la TV, mentre penso a qualcosa, perché questo è quello che è successo agli altri ragazzi”.

Ma mentre i minori palestinesi cercavano di riadattarsi alla “normalità” dell’assedio e dell’impoverimento in corso dopo gli attacchi, gli esperti militari israeliani si congratulavano via etere con il primo ministro israeliano Yair Lapid per la sua operazione “pulita”.

Lunedì 9 agosto, parlando alla stazione radio FM del quotidiano Maariv [giornale popolare israeliano, ndt.], il generale Amos Yadlin, ex capo della direzione dell’intelligence militare israeliana ed esperto ricercatore di Harvard, si rallegrava:

È stato un attacco ben riuscito. È stato davvero pulito, abbiamo colpito duramente l’ala militare di Hamas (in seguito si è corretto dicendo che intendeva la Jihad islamica), abbiamo colpito marginalmente degli innocenti e non militanti, neanche un israeliano è stato colpito, ritengo che sia un risultato eccezionale” (in ebraico).

Nel frattempo il giornalista di Haaretz [quotidiano israeliano progressista, ndt.] Amos Harel e Neri Zilber dell’Israel Policy Forum [organizzazione ebraica americana che lavora per una soluzione negoziata a due Stati al conflitto israelo-palestinese, ndt.] in un podcast di un’ora di valutazione degli attacchi del 10 agosto non hanno menzionato le morti di civili palestinesi, elogiando invece i “millimetrici” attacchi di Israele.

Era già noto in quel momento che almeno 15 minori palestinesi erano stati uccisi, mettendo in luce ciò che i palestinesi affermano da decenni: la cancellazione della Palestina e la disumanizzazione dei minori palestinesi sono le fondamenta grottesche su cui fioriscono l’apartheid e la colonizzazione israeliane.

Offrendo il punto di vista di una madre sull’educazione dei figli a Gaza, la scrittrice palestinese e madre di tre figli Rana Shubair racconta a Palestine Deep Dive [Approfondimenti sulla Palestina, rivista on-line palestinese, ndt.]:

Ho cercato di proteggere (i miei figli) dal vedere le immagini in TV, ma l’ambiente in cui vivono i nostri figli non è censurato, il che significa che ovunque andranno vedranno le immagini dei martiri.

Nell’ultima aggressione (del maggio 2021) una delle amiche di mia figlia che si trovava nella sua scuola è stata uccisa. Non credo che le mie figlie l’abbiano mai davvero dimenticata perché una di loro mi dice che la vede sempre nei suoi sogni, ed è molto difficile per loro afferrare semplicemente il concetto o la nozione di morte e tutto il resto. Tutti i bambini qui a Gaza sono molto eroici, va detto, perché sono più maturi della loro età e sono stati costretti ad assorbire cose di cui i bambini di altre parti del mondo non sanno nulla. Chiedete a qualsiasi bambino qui, vi dirà che tipo di aereo ci sta sorvolando, che si tratti di un drone o di un F-16. Conoscono tutta questa terminologia di guerra, ma come genitori, cerchiamo di trovare, credo, i modi giusti per affrontare il trauma dei nostri figli.

Dopo ogni aggressione e dopo ogni mese del continuo rigido assedio di Israele e della conseguente deprivazione economica, la salute mentale dei minori di Gaza continua inevitabilmente a deteriorarsi.

Ad esempio, nel 2018 il 60% di essi riferiva di sentirsi meno al sicuro lontano dai propri genitori ma, secondo Save the Children, poco prima dei recenti attacchi questa cifra ha raggiunto il 90%.

Nel 2018 il 50% dei minorenni riferiva di avere paura e il 55% di provare sentimenti di dolore e pochi mesi prima di questo attacco il 78% affermava di sentirsi spaventato e l’84% di provare sentimenti di dolore.

Si può solo immaginare come si sentono oggi.

Nel corso di una trasmissione di Palestine Deep Dive, il Dr. Yasser Abu Jamei, Direttore del Programma di salute mentale della comunità di Gaza, ha sottolineato la natura persistente degli eventi traumatici che pone un limite all’applicabilità [a Gaza, ndt.] del [termine ndt.] disturbo nel modo in cui viene inteso dalla psichiatria occidentale, come “Disturbo da stress post-traumatico”, rendendo così difficile la vera e propria guarigione.

In primo luogo, la condizione pre-traumatica non consiste in una vita facile, tranquilla, ecc. No, si tratta di un assedio, di un’occupazione, con più di due terzi della popolazione di Gaza nella situazione di rifugiati. E parliamo di decenni. (L’inizio) di ciò non risale solo al 1967, arriva anche al 1948. Ma oltre a questo, vivi sotto assedio, e non solo, ma all’interno di questo assedio sei soggetto ad operazioni su larga scala … e come se ciò non bastasse avverti continuamente dei segnali, cose che ti ricordano gli eventi traumatici che accadono intorno a te. Ascolti il ​​telegiornale e vedi come sia critica la situazione. Guardi il cielo e senti di continuo i rumori intensi dei droni e tutto ciò ti fa tornare alla mente i brutti ricordi.

Poi, nel periodo successivo… non c’è un vero ritorno alla vita normale. C’è di nuovo la vita come al solito sotto l’occupazione, sotto i droni, sotto il blocco ecc. Direi che la tradizionale nozione occidentale di disturbo da stress post-traumatico non è applicabile ad un posto come Gaza, ma direi che la situazione a Gaza è più grave di così. Non possiamo davvero descriverlo semplicemente come un disturbo da stress post-traumatico nel significato comune del termine. No, è molto di più“.

Nel 1991 Israele ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, che afferma che tutti i minorenni hanno i diritti fondamentali alla vita, alla sopravvivenza, allo sviluppo, alla protezione dalla violenza e a un’istruzione che consenta loro di realizzare il proprio potenziale.

Eppure, sotto il suo [regime di] apartheid Israele viola impunemente questa convenzione in tutta la Palestina. Nello stesso Israele le scuole palestinesi o arabe ricevono spesso un finanziamento per ogni alunno quasi sei volte inferiore rispetto alle scuole per studenti ebrei poiché non possono essere ammesse al finanziamento da parte dell’istituzione sionista. Successivamente subiscono discriminazioni nel mercato del lavoro e sono anche soggetti alle 65 leggi razziste di Israele.

In Cisgiordania i minorenni palestinesi sono soggetti a leggi e pratiche discriminatorie. Viene loro regolarmente negato il diritto all’istruzione nel momento in cui vengono costretti ad aspettare ai posti di blocco e le loro lezioni possono essere interrotte in qualsiasi momento dall’esercito israeliano.

Secondo [l’Associazione] Defense for Children International, in Palestina ogni anno circa 500-700 minorenni palestinesi, alcuni dei quali di appena 12 anni, sono detenuti e perseguiti nei tribunali militari israeliani illegali. L’accusa più comune contro di loro è il lancio di pietre.

Il disprezzo di Israele per i diritti più fondamentali dei bambini palestinesi, incluso il diritto stesso alla vita, rivela il proposito di Israele di raggiungere una pace futura per ciò che è veramente, una palese bugia.

Ma non solo,: il travolgente silenzio della comunità internazionale mostra che la disumanizzazione dei bambini palestinesi si estende ben oltre l’apartheid di Stato di Israele.

All’indomani dell’ultimo attacco il presidente Biden ha elogiato Israele per aver “difeso il suo popolo” e i suoi sistemi militari per “aver salvato innumerevoli vite”.

Nel frattempo, questa settimana, i politici conservatori britannici in competizione per diventare il prossimo Primo Ministro, Rishi Sunak e Liz Truss, sembrano entrambi favorevoli al trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme.

Da parte dell’Occidente continua ad essere all’ordine del giorno l’istigazione in luogo delle sanzioni, senza che nulla venga proposto per scoraggiare, ogniqualvolta si verifichino, ulteriori brutali bombardamenti da parte di Israele. Le armi continuano ad affluire e la protezione diplomatica continua a fare scudo contro la giustizia.

Eppure i minori palestinesi, che saranno gli artefici di un futuro veramente stabile, dimostrano continuamente di desiderare ardentemente una vita migliore, libertà, e di niente di meno che una totale liberazione.

Con tassi di alfabetizzazione tra i più elevati a livello mondiale, formazione di compagnie di danza, società di parkour e produzione di artisti di talento come l’astro nascente rapper tredicenne MC Abdel, i minori palestinesi a Gaza stanno offrendo insegnamenti di vita al resto del mondo mentre camminano tra le macerie:

Mi piace sempre sottolineare quel lato positivo di noi che viviamo in una prigione a cielo aperto. Stiamo facendo del nostro meglio qui. Come ho detto, non abbiamo molte opportunità, ma dall’altra parte stiamo cercando di tirar fuori quelle opportunità da tutte le macerie tra cui viviamo da più di 15 anni”, dice Hind a Palestine Deep Dive.

Anche il dottor Yasser Abu Jamei illustra in maniera limpida su Palestine Deep Dive questa verità, raccontando come ha visto i bambini di Gaza indossare con orgoglio gli abiti dell’Eid [Eid Al Fitr, letteralmente “festa della rottura del digiuno”, che segna la fine del Ramadan, ndt.] che non erano stati in grado di indossare nel maggio 2021 a causa degli attacchi di Israele:

Era un abbinamento paradossale. Guidi la tua macchina o cammini per strada, vedi da un lato le macerie, le rovine e le case distrutte, e dall’altro bambini molto ben vestiti che, in mezzo alle macerie, cercano di andare a scuola e ottenere la licenza media ”.

Naturalmente, l’emergenza riguardo alla salute mentale a Gaza e le continue ingiustizie del brutale apartheid e della colonizzazione di Israele non si limitano ai minorenni, ma colpiscono i palestinesi di tutte le età.

Tuttavia ultimamente ciò che è diventato del tutto chiaro è che ogni bomba sganciata da Israele e ogni giorno che l’assedio di Gaza da parte di Israele continua, costituisceono un’ingiustizia intollerabile contro coloro che sono universalmente considerati i più innocenti: i minorenni.

Sotto l’assedio di Israele Gaza continua ad essere una prigione di un milione di minorenni e attendiamo da troppo tempo che i governi di tutto l’Occidente riconoscano finalmente questa verità per porre fine all’impunità di Israele, e che le istituzioni internazionali, comprese le Nazioni Unite, agiscano senza esitazione contro questa situazione.

Omar Aziz è Direttore Associato di Palestine Deep Dive. Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’economia sociale del dopo-Oslo: un’analisi

Omar Zahzah

12 agosto 2022 – The Palestine Chronicle

Se ci pensate, è un classico Fanon”, ha osservato nel 2018 in occasione del 25° anniversario degli Accordi di Oslo la scrittrice palestinese Yara Hawari, analista esperta di Al-Shabaka: The Palestine Policy Network [organizzazione indipendente e transnazionale impegnata nel dibattito pubblico su diritti umani e autodeterminazione palestinesi, ndt.].

“Significa: creiamo questa classe di persone deputata a preservare la sicurezza degli oppressi e dei nativi, in modo da non doverlo fare noi”.

La “classe” a cui Hawari fa qui riferimento è l’Autorità Nazionale Palestinese, quell’apparato repressivo di informatori autoctoni le cui incarcerazioni e sevizie nei confronti del suo stesso popolo e la cui totale obbedienza allo Stato coloniale sionista sono state istituzionalizzate attraverso l’approvazione degli Accordi di Oslo del 1993. Hawari mette in relazione la formazione dell’ANP con la classe media nazionale sottosviluppata descritta da Fanon in The Pitfalls of National Consciousness [Le trappole della coscienza nazionale, capitolo del suo classico libro “I dannati della terra”, Einaudi, 2007], una classe che perpetua la propria integrità e i propri interessi materiali preservando le relazioni e la collaborazione neo-coloniali con il potere coloniale.

L’attivista palestinese Jamal Juma spiega che attraverso gli Accordi l’ANP ha fatto in modo che i mezzi di sussistenza palestinesi finissero sotto il controllo di organizzazioni come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, e che la divisione della Cisgiordania nelle aree A, B e C fosse guidata in ultima analisi da una più ampia strategia di annessione totale.

Un’ampia disanima di tale argomento, Palestina, Srl di Toufic Haddad, dimostra come gli Stati donatori e le istituzioni finanziarie occidentali abbiano utilizzato gli accordi di Oslo come banco di prova nell’esplorazione di forme di intesa nazionali e governative che potessero essere più gradite alle iniziative capitaliste neoliberiste — un’intuizione che suggerisce come la Palestina funga da “laboratorio” in maniera diversa rispetto alla visione più diffusa dello Stato sionista che sperimenta sulla società e sui territori palestinesi lo sviluppo di tattiche di armamento, di controllo della folla e di sorveglianza che alla fine esporterà ad altre nazioni e società.

Tuttavia, per quanto queste considerazioni siano fondamentali, esse si riferiscono agli aspetti materiali delle conseguenze devastanti degli Accordi di Oslo.

Credo sia importante discutere anche di altre componenti più astratte degli effetti distruttivi degli Accordi, componenti non limitate alla sola Palestina. Uno sforzo del genere è importante, poiché ogni tentativo di diagnosticare il vero carattere coloniale della nostra condizione ci permette di fare un passo in più verso una consapevolezza potenzialmente liberata e liberatoria.

Replica emotiva e mentale

Il carattere materiale dei progetti coloniali può replicarsi emotivamente e mentalmente, sia all’interno del morale collettivo dei colonizzati che nelle menti e nei cuori degli individui che compongono le popolazioni sottoposte a tale condizione. Quindi non ci vuole un grande sforzo di immaginazione per considerare che la frammentazione fisica e politica operata dagli Accordi di Oslo, l’arrogante e arbitraria dichiarazione che un futuro Stato palestinese riguarderebbe solo quei palestinesi che si trovano attualmente all’interno del loro territorio colonizzato e occupato militarmente, l’abbandono della lotta di liberazione, la creazione di un’élite borghese palestinese corrotta che trarrebbe un chiaro profitto dall’oppressione e dallo sfruttamento del proprio popolo, si siano incise profondamente anche nella psiche individuale dei palestinesi.

È anche logico pensare che tale ricollocazione abbia effetti profondi non solo sul morale individuale dei palestinesi, ma anche sull’attivismo (e qui utilizzo questo termine intenzionalmente) che fece seguito agli Accordi di Oslo.

L’oggetto della mia analisi è un particolare tipo di attivismo (di nuovo, qui utilizzato per descrivere una mentalità e varie forme di definizione delle priorità) che considera la reputazione, l’ego, il “marchio”, la politica individuale, al di sopra della più ampia lotta di liberazione – anche escludendola completamente – così come della necessità di una lotta comune e collettiva del nostro popolo. Una persona o un’organizzazione diventa il rappresentante designato della causa palestinese, e invece di coinvolgere gli altri nella stessa lotta come compagni, tutti diventano concorrenti in una inutile lotta per un “marchio di esclusività“.

La collettività si trasforma da forza ad ostacolo, poiché la pluralità di voci e approcci, parte integrante della salute di qualsiasi vero movimento di liberazione, viene offuscata dall’esigenza culturale di essere la voce palestinese designata, l’attivista palestinese, l’intellettuale palestinese, e così via, anziché uno tra i tanti.

Il momento critico dell’anti-colonialismo viene reindirizzato verso un’analisi della politica liberale e della cosiddetta “leadership del pensiero” che dà per scontata la persistenza di strutture e sistemi che devono essere distrutti piuttosto che sostenuti, e addirittura ne trae beneficio. Ma anche un atteggiamento più critico non implica necessariamente il superamento di questo status quo, poiché il mostrarsi come il soggetto più radicale può essere di per sé mercificato come personale cinica dimostrazione di competizione.

Non è più la lotta palestinese ad essere intrapresa, nella sua integrità e contradditorietà, ma una sua versione asettica che viene rimpacchettata e venduta a un pubblico di riferimento. In questa competizione viene riproposta la frammentazione imposta alla nostra lotta dai nostri colonizzatori e dalla cosiddetta leadership della nostra gente, che collabora volontariamente con loro per il proprio tornaconto personale, e la stessa frammentazione invece di essere combattuta viene incentivata.

Tutte le forze oppositive, dai nostri colonizzatori ai loro alleati imperialisti, non vorrebbero altro per noi che il mantenimento della nostra dispersione, frammentazione, quindi è naturale che ci troviamo in sistemi e situazioni in cui, anche se indirettamente, siamo incoraggiati ad attaccarci a vicenda in modo da sentirci più interessanti.

Cosa si intende per economia sociale

Una economiaimplica tipicamente un sistema di relazioni e di scambio. Quindi riferirsi al fenomeno in questione come ad una economia socialepotrebbe sembrare una strana scelta di parole. Ma attraverso questa formulazione stiamo considerando i modi in cui le relazioni sociali stesse sono condizionate dai processi economici: il modo in cui, ad esempio, le relazioni personali e professionali vengono distorte dalle nozioni capitalistiche di profitto, produttività e bisogni artificiali, o come il sistema di credo neoliberisti incoraggi un approccio alle questioni riguardanti l’oppressione nello stile del “buffet”, secondo cui mantenere un’identità emarginata comporti di per sé intenti liberatori (Mahmoud Abbas dovrebbe essere una confutazione sufficiente di questa attitudine politica regressiva).

Nel nostro esempio l’impegno politico viene impercettibilmente scavalcato da incentivi lucrativi di competizione, falsi bisogni, esclusione, e una causa che è essenzialmente una lotta collettiva per la liberazione anticoloniale diventa semplicemente un mezzo di promozione e avanzamento personali. Nella misura in cui il ruolo dilagante delle ONG sia in Palestina che a livello internazionale devia gli sforzi incentrati sulla liberazione verso obiettivi riformisti, fortemente condizionati da finanziamenti vincolanti, e riversa l’intelligenza e la creatività degli organizzatori su esigenze burocratiche come la raccolta di fondi e la costruzione di relazioni con i donatori, non possiamo ignorare l’interazione tra istituzioni compromesse, assoggettamento all’economia predatoria e volubilità politica.

Buona fede e inconscio

Tuttavia, per quanto tale coinvolgimento possa a volte essere contraddistinto da una deliberata noncuranza, la nostra esperienza suggerisce che è più probabile che un tale stato di cose venga rinforzato inconsciamente. Così, anche nei momenti più intensi di apparente confronto e disaccordo, si deve sempre presumere che ci sia della buona fede.

Una pratica imperfetta ma comunque migliorativa, dato questo stato di cose, è quella di insistere su distinzioni intenzionali e coscienziose tra la società civile e la sfera del no-profit. A dire il vero esiste una sovrapposizione, ma identificare intenzionalmente le organizzazioni senza scopo di lucro con la società civile finirebbe per annacquare l’impegno sociale con le esigenze, i limiti e le restrizioni della burocrazia del no profit.

Nell’attesa del completo disfacimento del sistema no profit, un approccio importante è quello di percorrerne gli spazi con la consapevolezza di queste distinzioni materiali e chiedere sempre a se stessi (e alla propria organizzazione) come utilizzare al meglio le risorse e reti del contesto no profit per ampliarne quanto possibile senza restrizioni la base.

Sarebbe un compito molto più semplice se gli accordi di Oslo avessero portato una generazione di militanti e organizzazioni egocentriche a trarre profitto attraverso la competizione dei loro “marchi” palestinesi, nel bene e nel male, ma ciò non è quanto discuto. La realtà è più oscura e più difficile da definire, ma in sostanza quello che sto suggerendo è che vari fattori, tra cui l’eccessiva enfasi sull’individuo propria dell’etica coloniale/capitalista statunitense, così come la miriade di forme di frammentazione inflittaci attraverso gli Accordi di Oslo, sono essi stessi interiorizzati e riproposti all’interno del modello dei militanti statunitensi, ma spesso al livello generico di imitazione istintiva e di sensazione.

Diverse norme sociali e simboliche fanno sì che determinate azioni e atteggiamenti siano semplicemente percepiti come più naturali di altri. Questo è il caso del capitalismo in generale, che propone nei termini delle cosiddette “realtà“, “natura”, “società” e così via una completa distorsione delle relazioni e dei legami sociali. La nostra condizione coloniale, seppur per certi versi più particolare, opera tuttavia con effetti simili: l’orizzonte delle possibilità è sempre più impoverito dalla contrazione dei confini e dall’abdicazione dalla responsabilità e dalla dedizione alla lotta.

La strada (le strade) da seguire

Non esiste una “soluzione” predefinita per un tale stato di cose, ma poiché l’individualismo e la competitività sono i flagelli, dovrebbero ovviamente avere la priorità gli approcci incentrati sulla collaborazione e la crescita comune. In tale prospettiva ci si dovrebbe accordare su un impegno continuo (che conti sulla) buona fede di tutti, sempre che non vengano superate le linee rosse del sionismo e della normalizzazione. Ma anche avendo a che fare con queste linee rosse è fondamentale essere in grado di stabilire definizioni esaustive di sionismo e normalizzazione, così come stabilire e coltivare un sano impegno politico.

A questo punto dovrebbe essere tutt’altro che politicamente controverso dire che l’entità sionista non ha il diritto di esistere, non dovrebbe mai essere esistita e non dovrebbe esistere di fatto nemmeno adesso; che i palestinesi hanno diritto a tutte le forme di resistenza fino al ritorno e alla liberazione totale, e che tutta l’entità sionista è, nei fatti, la Palestina occupata, una costruzione aliena su terre e vite rubate che deve essere demolita per arrivare ad una completa liberazione e a un risarcimento della Palestina.

Parlare in modo esplicito delle competizioni e guerre per il territorio come risultato piuttosto che come causa degli Accordi di Oslo può a volte aiutare a reindirizzare gli sforzi verso una lotta più ampia e un miglioramento collettivo, sebbene ciò non sia sempre una certezza.

Alla radice del problema c’è la necessità di operare con la coscienza di movimento piuttosto che per individualismo o attivismo, e di partire sempre da una posizione di aiuto alla causa collettiva anziché di priorità a guadagni individuali. La lotta è danneggiata dalla nostra frammentazione, sebbene sia importante resistere alla cinica cooptazione di questo principio per incoraggiare la tolleranza di tutte le linee politiche all’interno dei nostri spazi e reti più ampie (come la normalizzazione dell’entità sionista, inclusa l’accettazione del Coordinamento per la sicurezza dell’Autorità” Nazionale Palestinese).

Lo scopo è riaccendere e preservare un senso di identità e resistenza collettiva che operi all’interno di una cornice genuinamente anti-coloniale, piuttosto che accettare la nostra colonizzazione come inevitabile, o addirittura come un fatto concluso.

Omar Zahzah è il coordinatore del settore Istruzione e Difesa per Eyewitness [rete associativa internazionale per una soluzione non violenta del conflitto israelo-palestinese, ndt.] nonché membro del Movimento giovanile palestinese (PYM) e della Campagna Statunitense per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (USACBI). Omar è anche uno studioso, scrittore e poeta indipendente e ha conseguito un dottorato di ricerca in letteratura comparata presso l’Università della California, Los Angeles (UCLA). Ha pubblicato questo articolo su The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’esercito israeliano comincia le esercitazioni a Masafer Yatta nonostante le proteste.

The New Arab, PC, Social Media

Martedì 21 giugno 2022 – The Palestine Chronicle

L’agenzia The New Arab ha riferito che martedì l’esercito israeliano comincerà le esercitazioni militari a Masafer Yatta, nonostante l’opposizione degli abitanti palestinesi.

Granate con propulsione a razzo, carri armati, mitragliatrici, ruspe e altri tipi di armi e mezzi pesanti saranno usati nelle esercitazioni militari che secondo il quotidiano israeliano Haaretz avranno luogo dalle 12 alle 18 ora locale.

Il giornale ha affermato che le esercitazioni, che continueranno per un mese, saranno le più ampie degli ultimi 20 anni.

Circa 1200 palestinesi di Masafer Yatta, a sud di Hebron (Al-Khalil), rischiano di essere espulsi dalle proprie case per fare spazio ad un’area per esercitazioni dopo una battaglia legale durata decenni che è terminata lo scorso mese davanti all’Alta Corte israeliana.

La sentenza ha aperto la strada ad una delle più ampie deportazioni da quando lo Stato di Israele ha occupato il territorio nella guerra mediorientale del 1967. Gli abitanti palestinesi si stanno rifiutando di abbandonare il territorio, sperando che la loro resistenza e la pressione internazionale impediscano a Israele di portare avanti le espulsioni.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La pulizia etnica a Masafer Yatta: la nuova strategia di annessione israeliana in Palestina

Ramzy Baroud

1 giugno 2022Palestine Chronicle

La Corte Suprema di Israele ha sentenziato che la regione palestinese di Masafer Yatta, situata sulle colline meridionali di Hebron, debba essere interamente espropriata dall’esercito israeliano e che la popolazione di oltre 1.000 palestinesi sia espulsa.

Questa decisione del 4 maggio non è certo stata una sorpresa. L’occupazione militare israeliana non consiste solo di soldati con armi, ma di sofisticate strutture politiche, militari, economiche e legali, dedicate all’espansione delle colonie ebree illegali e alla lenta, e talvolta per niente lenta, espulsione dei palestinesi.

Quando i palestinesi affermano che la Nakba, o Catastrofe, che ha portato alla pulizia etnica della Palestina nel 1948 e alla fondazione dello Stato di Israele sulle sue rovine, è un progetto ininterrotto e non ancora del tutto compiuto vogliono dire esattamente questo. La pulizia etnica dei palestinesi da Gerusalemme Est e le angherie senza fine contro i beduini palestinesi nel Naqab e ora a Masafer Yatta, testimoniano questa realtà.

Però Masafer Yatta non ha precedenti. Nel caso della Gerusalemme Est occupata, per esempio, Israele ha rivendicato, fallacemente e astoricamente, che Gerusalemme è la capitale eterna e indivisa del popolo ebraico. Ha combinato la narrazione indimostrata con l’azione militare sul posto, seguita da un sistematico processo inteso ad aumentare la popolazione ebraica e a espellere gli originari abitanti autoctoni della città. Concetti come ‘Grande Gerusalemme’ e le strutture legali e politiche, come quella del Piano generale per Gerusalemme 2000 hanno contribuito a trasformare quella che una volta era una maggioranza assoluta palestinese a Gerusalemme in una minoranza in calo.

Nel Naqab obiettivi israeliani simili furono messi in moto già nel 1948 e poi di nuovo nel 1951. Questo processo di pulizia etnica degli autoctoni resta in vigore ancora oggi.

Sebbene la zona di Masafer Yatta faccia parte degli stessi progetti coloniali, la sua unicità deriva dal fatto che è situata nell’Area C della Cisgiordania occupata.

Nel luglio 2020 Israele ha apparentemente deciso di posticipare i propri piani di annessione di quasi il 40% della Cisgiordania, forse temendo una ribellione palestinese e un’indesiderata condanna internazionale. Tuttavia in pratica il piano è continuato.

Inoltre l’annessione completa delle regioni cisgiordane vorrebbe dire che Israele diventerebbe responsabile dell’assistenza a tutte le comunità palestinesi. Come Stato coloniale qual è Israele vuole la terra, ma non la gente. Secondo i calcoli di Tel Aviv l’annessione senza l’espulsione della popolazione potrebbe portare a un incubo demografico, perciò Israele ha bisogno di reinventare il suo piano di annessione.

Sebbene abbia in teoria ritardato l’annessione de jure, Israele ha continuato una forma di annessione de facto che ha ottenuto scarsa attenzione dai media internazionali.

La sentenza della Corte israeliana su Masafer Yatta, che è già in corso di esecuzione con l’espulsione della famiglia Najjar  l’undici maggio [ vedi l’articolo di Zeitun], è un passo importante verso l’annessione dell’Area C. Se Israele può sfrattare senza ostacoli gli abitanti di dodici villaggi, con una popolazione di oltre 1.000 palestinesi, si possono prevedere altre espulsioni simili, non solo a sud di Hebron, ma in tutti i territori della Palestina occupata.

Gli abitanti palestinesi dei villaggi di Masafer Yatta e i loro rappresentanti legali sanno molto bene che non si può ottenere nessuna vera ‘giustizia’ dal sistema legale israeliano. Comunque loro continuano a combattere la battaglia legale nella speranza che un insieme di fattori, inclusa la solidarietà in Palestina e la pressione dall’esterno, possa alla fine riuscire a costringere Israele a ritardare la sua pianificata distruzione ed ebraicizzazione dell’intera regione.

Comunque sembra che gli sforzi palestinesi in corso dal 1997 stiano fallendo. La sentenza della Corte Suprema di Israele è fondata sulla teoria erronea e totalmente bizzarra che i palestinesi di quella zona non possano dimostrare di essere stati lì prima del 1980 quando il governo israeliano decise di trasformare l’area nella ‘Zona di tiro 918’.

Sfortunatamente la difesa palestinese era basata in parte sui documenti dell’epoca giordana e sui quelli ufficiali delle Nazioni Unite che avevano riferito di attacchi israeliani contro parecchi villaggi nell’area di Masafer Yatta nel 1966. Il governo giordano, che ha amministrato la Cisgiordania fino al 1967, aveva risarcito alcuni degli abitanti per la perdita delle loro ‘case di pietra’, non tende, bestiame e altre proprietà che erano state distrutte dall’esercito israeliano. I palestinesi hanno tentato di usare queste prove per dimostrare di essere vissuti lì non come popoli nomadi, ma come comunità stanziali. Questo non ha convinto la corte di Israele, che ha dato la preminenza alla tesi dell’esercito rispetto ai diritti della popolazione nativa.

Le zone di tiro israeliane occupano circa il 18% dell’intero territorio della Cisgiordania. È uno dei vari trucchetti usati dal governo israeliano per avanzare un diritto legale sulla terra palestinese e poi, anni dopo, per rivendicare anche la proprietà legale. Esistono molte di queste zone di tiro nell’Area C, e sono uno dei metodi con cui Israele mira ad appropriarsi ufficialmente della terra palestinese con il sostegno dei suoi tribunali.

Ora che l’esercito israeliano è riuscito a confiscare Masafer Yatta, una regione che si estende da 32 a 56 km2, basandosi su pretesti totalmente inconsistenti, sarà molto più facile assicurarsi la pulizia etnica di molte comunità simili in varie parti della Palestina occupata.

Mentre i dibattiti e la copertura mediatica dello schema di annessione israeliano in Cisgiordania e nella Valle del Giordano si sono decisamente ridotti, Israele sta ora preparando un processo di annessione graduale. Invece di impossessarsi del 40% della Cisgiordania in una sola volta, Israele sta ora annettendo separatamente tratti di territorio più piccoli e regioni come Masafer Yatta. Tel Aviv finirà per collegare tutte queste aree tramite circonvallazioni solo per ebrei verso le colonie ebraiche più grandi in Cisgiordania.

Questa strategia alternativa non solo permette a Israele di evitare critiche internazionali, ma, prima o poi, consentirà di annettere i territori palestinesi e allo stesso tempo sfrattare sempre più palestinesi, contribuendo a far sì che Tel Aviv possa prevenire squilibri demografici prima che si verifichino.

Ciò che sta succedendo a Masafer Yatta non è solo il più grande piano di pulizia etnica mai portato avanti da Israele dal 1967, ma potrebbe essere considerato il primo passo di una più vasta strategia di appropriazione illegale di territori, pulizia etnica e massiccia annessione formale.

A Masafer Yatta Israele non deve riuscirci perché se così fosse il suo progetto originario di massiccia annessione diventerebbe realtà in brevissimo tempo.

Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri, l’ultimo curato con Ilan Pappé è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out”. (La nostra visione per la liberazione: leader palestinesi e intellettuali impegnati fanno sentire la propria voce). Il prof. Baroud è ricercatore non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Le forze israeliane emettono ordini di demolizione a Masafer Yatta

WAFA, Palestine Chronicle

Martedì 24 maggio 2022 – Palestine Chronicle

L’agenzia ufficiale palestinese di notizie ha riferito che lo scorso lunedì le forze israeliane hanno emesso ordini di demolizione contro altre tre case nell’area di Masafer Yatta, nel sud della Cisgiordania.

Le forze israeliane hanno ordinato la demolizione di tre case nella comunità di al-Juwaya a Masafer Yatta, nel distretto di Hebron (Al-Khalil) nella Cisgiordania meridionale.

Fouad al-Amour, coordinatore dei Comitati di Protezione e Resilienza ha detto alla WAFA che le forze israeliane hanno preso d’assalto la comunità e consegnato ai tre abitanti l’ordine di demolire le loro case. Ha aggiunto che i soldati hanno consegnato ad un abitante della comunità vicina di Ein al-Beida un’ingiunzione di demolizione di un locale per uso agricolo.

Considerato uno dei sobborghi ad est di Yatta, al-Juwaya è pesantemente preso di mira dalle misure dell’occupazione israeliana che intendono cancellare l’espansione delle costruzioni palestinesi.

Masafer Yatta è un insieme di circa 19 villaggi che dipendono quasi esclusivamente dall’allevamento come principale fonte di sussistenza.

Il 4 maggio l’Alta Corte israeliana ha deliberato a favore della demolizione di 12 comunità a Masafer Yatta e dell’espulsione di migliaia di abitanti basandosi sull’asserzione secondo cui si trovano in una area destinata ad esercitazioni militari.

Situata nell’Area C della Cisgiordania, sotto pieno controllo amministrativo e militare israeliano, l’area è stata soggetta a ripetute violazioni israeliane da parte di coloni e soldati che prendono di mira la principale fonte di reddito palestinese – l’allevamento.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La divisione ‘temporale e spaziale’ della moschea Al-Aqsa: perché qui l’obiettivo finale di Israele fallirà

Ramzy Baroud

27 aprile 2022 – Palestine Chronicle

A partire dal 15 aprile l’esercito di occupazione israeliana e la polizia hanno attaccato giornalmente la moschea Al-Aqsa nella Gerusalemme Est occupata. Con la scusa di proteggere le provocatorie ‘visite’ di migliaia di coloni ebrei israeliani illegali e fanatici di destra l’esercito israeliano ha ferito centinaia di palestinesi, fra cui dei giornalisti, e ne ha arrestati a centinaia.

I palestinesi sanno che per Israele questi attacchi contro Al-Aqsa hanno un significato politico e strategico più profondo di quelli precedenti.

Nel passato Al-Aqsa ha subito raid di routine da parte delle forze israeliane in varie forme. Tuttavia negli ultimi anni la valenza della moschea ha acquisito ulteriori significati, specialmente dopo la ribellione popolare palestinese, le proteste di massa, gli scontri e una guerra contro Gaza lo scorso maggio, che significativamente i palestinesi chiamano Saif Al Quds – Operazione Spada di Gerusalemme.

Storicamente Haram Al-Sharif o il Nobile Santuario, oltre ad essere il cuore della lotta della lotta popolare in Palestina, è anche al centro delle politiche di Israele. Il santuario, situato nella Città Vecchia della Gerusalemme Est occupata, è considerato uno dei luoghi più sacri per tutti i musulmani. Ha un posto speciale nell’Islam poiché è citato sia nel sacro Corano che frequentemente anche negli Hadith, i detti del profeta Maometto. Il complesso ospita parecchie moschee storiche e 17 porte e altri importanti siti islamici. Al-Aqsa è una di queste moschee.

Ma per i palestinesi il valore di Al-Aqsa ha acquisito ulteriori significati a causa dell’occupazione israeliana che, nel corso degli anni, ha preso di mira moschee, chiese e altri luoghi sacri palestinesi. Per esempio, il ministero palestinese degli Affari Religiosi ha riferito che, durante la guerra israeliana del 2014 contro l’assediata Striscia di Gaza, 203 moschee furono danneggiate da bombe israeliane che causarono la completa distruzione di 73 edifici.

Quindi i palestinesi musulmani, ma anche i cristiani, considerano Al-Aqsa, il santuario e altri siti musulmani e cristiani a Gerusalemme, una linea rossa che non deve essere superata da Israele. Generazioni dopo generazioni si sono mobilitate per proteggere i siti, talvolta senza riuscirci come nel 1969, quando l’ebreo estremista australiano Denis Michael Rohan compì un attacco incendiario dentro Al-Aqsa.

Anche i recenti raid contro la moschea non si sono limitati a lesioni personali e arresti di massa di fedeli. Il 15 aprile, il secondo venerdì di Ramadan, Al-Aqsa ha subito gravi danni con le famose vetrate multicolori della moschea in frantumi e gli arredi sfasciati.

I raid contro Haram Al-Sharif stanno continuando al momento della stesura di questo articolo. Gli estremisti ebrei si sentono sempre più forti grazie alla protezione che ricevono dall’esercito israeliano oltre alla libertà d’azione fornita da influenti politici israeliani. Molti degli attacchi sono spesso guidati da Itamar Ben-Gvir parlamentare di estrema destra della Knesset israeliana, da Yehuda Glick, politico del Likud [il principale partito israeliano di centro destra, ndtr.], e dall’ex ministro Uri Ariel.

Il primo ministro israeliano Naftali Bennett sta indubbiamente usando i raid contro Al-Aqsa come un modo per tenere in riga la sua estrema destra spesso ribelle e l’elettorato religioso. Il 6 aprile le improvvise dimissioni dal partito di estrema destra Yamina della deputata Idit Silman hanno lasciato Bennett ancora più disperato nel suo tentativo di mantenere in vita la sua litigiosa coalizione. Bennett, un tempo leader di Yesha Council, un’organizzazione ombrello delle colonie illegali della Cisgiordania, è salito al potere con il sostegno degli zeloti religiosi, sia in Israele che nei Territori della Palestina Occupata. Perdere il sostegno dei coloni potrebbe semplicemente costargli la carica.

Il comportamento di Bennett è coerente con quello dei precedenti leader israeliani che hanno causato un’escalation di violenza ad Al-Aqsa per distrarre i votanti dai propri guai politici o per far appello al potente elettorato israeliano di destra e degli estremisti religiosi. Nel settembre 2000 l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon fece irruzione nella moschea con migliaia di soldati israeliani, polizia ed estremisti con opinioni simili. Lo fece per provocare una reazione palestinese e per far cadere il governo del suo arcinemico Ehud Barak. Sharon ci riuscì, ma a caro prezzo dato che la sua ‘visita’ scatenerà la Seconda Intifada palestinese, detta anche l’Intifada di Al-Aqsa, durata cinque anni.

Nel 2017 migliaia di palestinesi hanno protestato contro un tentativo israeliano di installare ‘telecamere di sicurezza’ agli ingressi del luogo sacro. La misura era anche un tentativo dell’ex primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di accontentare i suoi sostenitori di destra. Ma le proteste di massa a Gerusalemme e la conseguente unità palestinese all’epoca costrinsero Israele ad annullare i propri piani.

Tuttavia questa volta i palestinesi temono che Israele miri a qualcosa di più di una semplice provocazione. Secondo Adnan Ghaith, massimo rappresentante dell’Autorità Palestinese a Gerusalemme Est, Israele progetta di “imporre una divisione temporale e spaziale della moschea Al-Aqsa”. Questa particolare espressione, ‘divisione temporale e spaziale’, è anche usata da molti palestinesi che temono che si ripetano gli eventi della moschea di Ibrahimi (la tomba dei Patriarchi).

Nel 1994, dopo il massacro di 29 fedeli per mano di un estremista ebreo israeliano, Baruch Goldstein, e le successive uccisioni di molti altri palestinesi da parte dell’esercito israeliano presso la moschea Ibrahimi a Hebron (Al-Khalil), Israele la divise. Uno spazio più ampio fu destinato ai coloni ebrei limitando l’accesso ai palestinesi, a cui è permesso di pregare in certi orari, ma non in altri. Questo è esattamente quello che i palestinesi intendono con divisione temporale e spaziale che per molti anni è stata al centro della strategia israeliana.

Comunque Bennett deve muoversi con cautela. I palestinesi sono molto più uniti ora che nel passato nella loro resistenza e consapevolezza riguardo ai disegni israeliani. Una componente importante di quest’unità è la popolazione araba palestinese nella Palestina storica, che ora sta sostenendo un discorso politico simile a quello dei palestinesi a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Infatti molti dei difensori di Al-Aqsa provengono proprio da queste comunità. Se Israele continua con le sue provocazioni ad Al-Aqsa rischia un’atra rivolta palestinese come quella di maggio, che significativamente è cominciata a Gerusalemme Est.

Ingraziarsi l’elettorato di destra attaccando, umiliando e provocando i palestinesi non è più così facile come spesso è stato in passato. Come la ‘Spada di Gerusalemme’ ci ha insegnato, i palestinesi sono ora capaci di rispondere in modo unitario e, nonostante i loro mezzi limitati, anche facendo pressione su Israele per rovesciare le sue politiche. Bennett deve tenerlo bene in mente prima di scatenare altre violente provocazioni.

Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri, l’ultimo curato con Ilan Pappé è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders andIntellectuals Speak out” (La nostra visione per la liberazione: leader palestinesi e intellettuali impegnati fanno sentire la propria voce). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La prossima crisi di Gaza potrebbe essere la peggiore mai vista

Ramzy Baroud

30 marzo 2022 – Palestine Chronicle

“È tornata l’acqua”, annunciava un membro della famiglia con un misto di eccitazione e panico, spesso a tarda notte. Nel momento in cui veniva fatto un tale annuncio, tutta la famiglia iniziava a correre in tutte le direzioni per riempire ogni tanica, recipiente o bottiglia disponibile. Molto spesso, l’acqua durava pochi minuti, lasciandoci un senso collettivo di sconfitta, preoccupati per la possibilità stessa di sopravvivere.

Questa la nostra vita sotto l’occupazione militare israeliana a Gaza. La tattica di tenere i palestinesi ostaggio dell’elemosina israeliana di acqua era così diffusa durante la prima Intifada, o rivolta, palestinese che negare l’approvvigionamento idrico a campi profughi, villaggi, città o intere regioni era la prima misura adottata per sottomettere la popolazione ribelle. La cosa era spesso seguita da incursioni militari, arresti di massa e violenze omicide, ma quasi sempre iniziava con l’interruzione delle forniture d’acqua ai palestinesi.

La guerra dell’acqua di Israele contro i palestinesi è cambiata da quei primi giorni, soprattutto perché la crisi del cambiamento climatico ha accelerato la necessità per Israele di prepararsi per fosche evenienze future. Naturalmente, questo avviene largamente a spese dei palestinesi occupati. In Cisgiordania il governo israeliano continua a usurpare le risorse idriche palestinesi dalle principali falde acquifere della regione: la falda acquifera montana e quella costiera.

Cosa molto frustrante, la principale compagnia idrica israeliana, Mekorot, rivende a villaggi e città palestinesi a prezzi esorbitanti l’acqua palestinese rubata, specialmente nella regione settentrionale della Cisgiordania.

A parte il costante profitto derivato dal furto d’acqua, Israele continua a usare l’acqua come forma di punizione collettiva in Cisgiordania, molto spesso negando ai palestinesi, specialmente dell’Area C [oltre il 60% della Cisgiordania, in base agli accordi di Oslo sotto totale controllo israeliano, ndt.], il diritto di scavare nuovi pozzi per aggirare il monopolio idrico di Israele.

Secondo Amnesty International i palestinesi della Cisgiordania occupata consumano in media 73 litri di acqua al giorno a persona. Fate il paragone con un cittadino israeliano, che consuma circa 240 litri di acqua al giorno, e, peggio ancora, con un colono ebreo israeliano illegale, che consuma oltre 300 litri al giorno. La quota d’acqua palestinese non solo è molto al di sotto della media consumata dagli israeliani, ma è anche sotto il minimo giornaliero raccomandato di 100 litri pro capite indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Per quanto difficile possa essere la situazione per i palestinesi in Cisgiordania, a Gaza la catastrofe umanitaria è già in atto. Il 22 marzo, in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, l’Autorità per la Qualità dell’Acqua e dell’Ambiente di Gaza ha messo in guardia da una “grave crisi” se le forniture idriche di Gaza continueranno ad esaurirsi al pericoloso ritmo attuale. Il portavoce dell’Autorità, Mazen al-Banna, ha detto ai giornalisti che il 98% delle riserve idriche di Gaza non sono adatte al consumo umano.

Le conseguenze di questo terrificante dato sono ben note ai palestinesi e, di fatto, anche alla comunità internazionale. Lo scorso ottobre, Muhammed Shehada, di Euro-Med Monitor [ong per i diritti umani con sede in Svizzera, ndt.], ha dichiarato alla 48a sessione del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite che circa un quarto di tutte le malattie a Gaza sono causate dall’inquinamento dell’acqua e che circa il 12% dei decessi tra i bambini di Gaza sono “collegati alle infezioni intestinali legate all’acqua contaminata.”

Ma come è arrivata a questo Gaza?

Il 25 maggio [2021, ndt.], quattro giorni dopo la fine dell’ultima guerra israeliana contro Gaza, l’organizzazione benefica Oxfam ha annunciato che 400.000 persone nella Gaza assediata non avevano avuto accesso alle normali forniture d’acqua. Il motivo è che le campagne militari israeliane iniziano sempre con il prendere di mira le reti elettriche, i servizi idrici e altre strutture vitali pubbliche dei palestinesi. Secondo Oxfam, “11 giorni di bombardamenti … hanno avuto un grave impatto sui tre principali impianti di desalinizzazione della città di Gaza”.

È importante tenere a mente che la crisi idrica a Gaza è in corso da anni e ogni aspetto di questa prolungata crisi è legato a Israele. Con infrastrutture danneggiate o malandate, gran parte dell’acqua di Gaza contiene livelli di salinità pericolosamente elevati o è estremamente inquinata dalle acque reflue o per altri motivi.

Anche prima che Israele schierasse di nuovo i suoi militari fuori da Gaza nel 2005 per imporre un assedio da terra, mare e aria alla popolazione della Striscia, Gaza era in crisi idrica. La falda acquifera costiera di Gaza era interamente controllata dall’amministrazione militare israeliana, che dirottava acqua di qualità alle poche migliaia di coloni ebrei, mentre occasionalmente assegnava acqua ad alta salinità all’allora 1,5 milioni di palestinesi, sempre che i palestinesi non protestassero né resistessero in alcun modo contro l’occupazione israeliana.

Circa 17 anni dopo la popolazione di Gaza è cresciuta a 2,1 milioni e la falda acquifera di Gaza, già in una situazione critica, è in condizioni molto peggiori. Il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF) ha riferito che l’acqua dalla falda acquifera di Gaza si sta esaurendo a causa dell'”eccessiva estrazione (perché) le persone non hanno altra scelta”.

Peggio ancora, l’inquinamento e l’afflusso di acqua di mare significano che solo il 4% dell’acqua della falda acquifera è potabile. Il resto deve essere purificato e dissalato per renderlo potabile”, ha aggiunto l’UNICEF. In altre parole, il problema di Gaza non è la mancanza di accesso alle riserve di acqua dolce esistenti poiché queste ultime semplicemente non esistono o si stanno rapidamente esaurendo, ma la mancanza di tecnologia e carburante che darebbero ai palestinesi di Gaza la capacità di rendere la loro acqua perlomeno potabile. Anche questa non è però una soluzione a lungo termine.

Israele sta facendo tutto quello che può per distruggere ogni possibilità palestinese di riprendersi da questa crisi in corso. Sembra inoltre che Tel Aviv abbia investito solo nel peggiorare la situazione, per mettere ulteriormente a repentaglio le possibilità di sopravvivenza dei palestinesi. Ad esempio, l’anno scorso i palestinesi hanno accusato Israele di aver inondato deliberatamente migliaia di dunum [unità di misura terriera: 10 dunum = 1 ettaro] palestinesi a Gaza quando Israele ha svuotato le sue dighe meridionali, che usa per raccogliere l’acqua piovana. Questo rituale praticamente annuale di Israele continua a devastare le sempre più ridotte aree agricole di Gaza, spina dorsale della sopravvivenza palestinese sotto l’ermetico assedio di Israele.

La comunità internazionale presta attenzione a Gaza praticamente solo durante i periodi delle guerre israeliane, e anche in quel caso l’attenzione è per lo più negativa, con i palestinesi solitamente accusati di aver provocato le presunte guerre difensive di Israele. La verità è che anche quando finiscono le campagne militari di Israele, Tel Aviv continua a fare la guerra agli abitanti della Striscia.

Sebbene sia militarmente potente, Israele afferma di dover affrontare una “minaccia esistenziale” in Medio Oriente. In realtà, è l’esistenza palestinese che è in vero pericolo. Se quasi tutta l’acqua di Gaza non è idonea al consumo umano a causa di una deliberata strategia israeliana, si può capire perché i palestinesi continuino a reagire come se le loro vite dipendessero da essa – perchè è proprio così.

Ramzy Baroud è giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo saggio, curato insieme a Ilan Pappé, è La nostra visione di liberazione: parlano i leader palestinesi coinvolti e gli intellettuali. Il dr. Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’esercito israeliano modifica le regole di ingaggio riguardo a quando sparare, ora chi lancia pietre è un bersaglio

Redazione di PC

21 dicembre 2021– Palestine Chronicle

Media israeliani hanno informato che l’esercito ha modificato le regole per aprire il fuoco, consentendo ai soldati di sparare a manifestanti palestinesi che lancino pietre contro auto dei coloni israeliani nella Cisgiordania occupata anche se non rappresentano più una minaccia immediata.

Questa politica sarebbe stata inaugurata circa un mese fa, ma all’epoca l’esercito israeliano aveva evitato di renderla pubblica.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha confermato lunedì le modifiche al quotidiano Times of Israel [quotidiano israeliano in lingua inglese, ndtr.] solo dopo notizie riguardo alle regole per aprire il fuoco pubblicate dai media.

Citando media israeliani RT [Russia Today, rete televisiva russa finanziata dallo Stato, ndtr.] ha informato che, in base alle nuove norme, le forze di occupazione israeliane hanno il permesso di mettere in atto l’intero protocollo di arresto, compreso l’uso di forza letale contro palestinesi “sospetti”, se li vedono lanciare pietre e bottiglie molotov contro veicoli, anche se non hanno più alcun oggetto in mano.

In precedenza ai soldati israeliani dell’occupazione era consentito in teoria sparare a palestinesi solo quando, durante l’arresto, stavano ancora lanciando pietre o bombe incendiarie. Tuttavia nella pratica spesso i giovani palestinesi sono stati colpiti in vario modo e si è indagato ben poco riguardo a vittime palestinesi uccise o ferite dall’esercito israeliano.

RT ha anche informato che, secondo il portavoce militare israeliano, le modifiche sono state necessarie perché in molti casi le precedenti regole di ingaggio consentivano a presunti aggressori palestinesi di evitare di pagare per le proprie azioni.

I cambiamenti introdotti dall’esercito israeliano sono già stati contestati da alcuni giuristi. Liron Libman, ex-capo della procura militare, ha detto a Times of Israel che “una persona che sta scappando non rappresenta una minaccia” e che l’uso della forza letale dovrebbe “essere solo una misura estrema.”

Eliav Lieblich, docente di diritto all’università di Tel Aviv, afferma che le nuove regole contravvengono alle leggi internazionali sui conflitti armati dato che non è in corso un conflitto in Cisgiordania, così come le leggi sui diritti umani, in quanto non rispondono alle esigenze di autodifesa.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




HRW: a maggio poliziotti israeliani si sono accordati con ultranazionalisti ebrei per reprimere manifestanti palestinesi

Redazione di PC

14 dicembre 2021 – Palestine Chronicle

Un rapporto di Human Rights Watch (HRW) sulle politiche brutali e discriminatorie ha rilevato che durante la rivolta civile di maggio nella città di Lydda funzionari israeliani si sono accordati con ultra-nazionalisti ebrei di estrema destra.

Il rapporto, rilasciato martedì, evidenzia che a Lydda le forze dell’ordine israeliane hanno fatto uso di una forza eccessiva per disperdere proteste pacifiche da parte di palestinesi e invita la commissione d‘inchiesta dell’ONU a indagare sulle pratiche discriminatorie dello Stato occupante.

Queste prassi includono il modo opposto di trattare manifestanti ebrei e palestinesi; l’evidente appoggio e la collaborazione con gli ultranazionalisti ebrei di estrema destra; la diffusione di disinformazione da parte di funzionari governativi per fomentare la rivolta civile e un trattamento discriminatorio dei cittadini palestinesi di Israele nei tribunali dopo il loro arresto.

In maggio Lydda e altre città in Israele e nella Cisgiordania occupata hanno assistito a rivolte sullo sfondo dei tentativi discriminatori di cacciare palestinesi dalle proprie case nella Gerusalemme est occupata, dell’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza israeliane contro i manifestanti e i fedeli nella moschea di Al-Aqsa e dello scatenamento di un’aggressione israeliana contro Gaza il 10 maggio.

Nel corso di circa due settimane di rivolta le forze di sicurezza hanno arrestato 2.142 persone in Israele e a Gerusalemme est in operazioni di “deterrenza” che le autorità hanno definito “Legge e Ordine”. Secondo Amnesty International circa il 90% degli arrestati sono cittadini palestinesi di Israele e abitanti di Gerusalemme est occupata.

In giugno un rapporto di Amnesty International sulle azioni repressive ha rilevato che suprematisti israeliani di estrema destra hanno condiviso selfie in cui si sono messi in posa con armi da fuoco e messaggi come “Stanotte non siamo ebrei, siamo nazisti.”

Tra i molti esempi di discriminazione citati da HRW nel rapporto c’è l’evidente collaborazione tra poliziotti israeliani e ultranazionalisti ebrei. Il 12 maggio parecchi ultranazionalisti ebrei che non vivono a Lydda, alcuni dei quali armati, sono entrati in città violando la dichiarazione dello stato di emergenza del governo, emanato ore prima, che vietava l’ingresso a non-residenti.

Nel rapporto viene citato un giornalista israeliano che, nel suo servizio da Lydda, ha affermato che le autorità municipali avevano ospitato durante la notte ultranazionalisti ebrei arrivati da fuori in un edificio di proprietà del Comune nei pressi di un cimitero palestinese. Benché la città abbia negato di essere stata informata di questa iniziativa o di averla approvata, questi gruppi sono andati a prendere di mira palestinesi. Durante la notte hanno lanciato pietre contro case e negozi palestinesi e contro la moschea di Al-Omari. Video di alcuni incidenti mostrano, schierati vicino a facinorosi ebrei, poliziotti che non intervengono mentre questi lanciano pietre.

Durante gli scontri sono stati attaccati proprietà e luoghi di culto palestinesi. Molti sono stati feriti, un cimitero musulmano è stato vandalizzato e decine di auto sono state date alle fiamme. HRW afferma che le forze dell’ordine schierate per garantire la sicurezza a Lydda sono rimaste a guardare o non hanno agito in tempo per proteggere abitanti palestinesi di Lydda dalle violenze da parte di ultra-nazionalisti ebrei che si trovavano vicino a loro o nel loro campo visivo.

Evidenziando la prassi discriminatoria dei tribunali israeliani, HRW mette in luce il netto contrasto del modo diverso in cui sono stati trattati l’assassinio di un palestinese e quello di un ebreo israeliano. Per l’assassinio di Musa Hassuna, un palestinese, le autorità israeliane hanno rilasciato su cauzione in meno di 48 ore dall’omicidio tutti gli ebrei sospettati, dopo che essi avevano invocato la legittima difesa, ed ha chiuso le indagini meno di sei mesi dopo.

Per l’assassinio di Yigal Yehoshua, un ebreo, otto palestinesi sospettati sono stati in carcere per mesi, in attesa di essere processati per vari reati, compreso l’“omicidio come atto di terrorismo”.

Sembra che a Lydda la polizia e le autorità israeliane abbiano trattato i cittadini in modo diverso a seconda che si trattasse di ebrei o di palestinesi,” afferma Omar Shakir, direttore per Israele e Palestina di Human Rights Watch.

La commissione d’inchiesta ONU dovrebbe cogliere l’opportunità senza precedenti di contrastare la discriminazione ed altre violazioni che i palestinesi affrontano in Israele esclusivamente a causa della loro identità.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)