Ilan Pappe sulle formazioni socio-politiche dietro il governo neo-sionista di Israele

Ilan Pappe

6 gennaio 2023 – Palestine Chronicle

Due mesi dopo l’elezione del nuovo governo israeliano il quadro offuscato sta diventando più chiaro e sembra che si possano offrire alcuni spunti più informati riguardo alla sua composizione, alle personalità che ne fanno parte e alle possibili politiche e reazioni ad esse nel futuro.

Non sarebbe esagerato definire Benjamin Netanyahu il meno estremista di questo governo, il che la dice lunga sulle personalità e politiche di tutti gli altri.

Ci sono tre schieramenti principali nel governo, e qui non faccio riferimento ai vari partiti politici, ma piuttosto alle formazioni socio-politiche.

Sionizzazione degli ebrei ultraortodossi

Nel primo schieramento ci sono gli ebrei ultra-ortodossi, sia dell’ortodossia europea che di quella degli ebrei arabi. Ciò che li caratterizza è il processo di sionizzazione che hanno subito dal 1948.

Da un ruolo marginale in politica solo a favore delle loro comunità, ora fanno parte dei dirigenti di questo nuovo Stato. Da moderati e sostenitori dei sacri precetti ebraici che non riconoscevano la sovranità ebraica sulla Terra Santa, ora emulano la destra israeliana laica: appoggiano la colonizzazione della Cisgiordania, l’assedio contro la Striscia di Gaza, fanno discorsi razzisti nei confronti dei palestinesi ovunque essi siano, invocano politiche dure e aggressive e nel contempo cercano di occupare lo spazio pubblico e di giudaizzarlo in base alla loro versione rigida del giudaismo.

L’unica eccezione sono i Neturei Karata, fedeli al loro tradizionale antisionismo e alla solidarietà con i palestinesi.

Gli ebrei nazional-religiosi

Del secondo schieramento fanno parte gli ebrei nazional-religiosi, che vivono in maggioranza in Cisgiordania nelle colonie costruite su terre palestinesi espropriate e recentemente hanno creato dei “centri di formazione” di coloni nelle città miste arabo-ebraiche in Israele.

Essi appoggiano sia le politiche criminali dell’esercito israeliano che le azioni di gruppi di coloni vigilantes che vessano i palestinesi, sradicano le loro coltivazioni, sparano contro di loro e mettono in discussione il loro modo di vivere.

L’intento è di dare sia all’esercito che a questi vigilantes mano libera per opprimere la Cisgiordania occupata, nella speranza di spingere più palestinese ad andarsene. Questo gruppo è anche la spina dorsale dei centri di comando del servizio segreto israeliano e domina i ranghi degli alti ufficiali dell’esercito.

I due succitati schieramenti condividono la volontà di imporre un apartheid più stretto all’interno di Israele contro gli arabi del ’48 [i palestinesi rimasti durante e dopo la guerra del 1947-49 in quello che era diventato Israele, ndt.] e nel contempo iniziare una crociata contro la comunità LGBT chiedendo anche una più rigida marginalizzazione delle donne nello spazio pubblico.

Essi condividono anche una visione messianica e credono di essere ora nelle condizioni di metterla in pratica. Al centro di questo progetto c’è la giudaizzazione dei luoghi sacri che ora sono “ancora” islamici o cristiani. Quello più ambito è l’Haram al-Sharif [la Spianata delle Moschee, per gli ebrei il Monte del Tempio, ndt.].

Il prodromo è stato la provocatoria visita del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir sull’Haram. Il prossimo passo sarà a Pasqua, con un tentativo di invadere in massa l’Haram con preghiere e ministri ebrei. Azioni simili verranno attuate a Nablus, Hebron e Betlemme. È difficile prevedere fin dove arriveranno.

L’emarginazione degli ebrei laici del Likud

Il secondo gruppo è rappresentato anche nel partito di maggioranza del governo, il Likud. Ma la maggioranza dei suoi membri fa parte di una terza componente socio-politica: gli ebrei laici che aderiscono nel contempo alle tradizionali pratiche ebraiche.

Essi cercano di distinguersi sostenendo che il liberalismo economico e politico è ancora un importante pilastro del programma politico del Likud. Netanyahu soleva essere uno di loro, ma ora sembra averli abbandonati quando si è trattato di spartirsi il bottino, cioè nel governo li ha emarginati. Ha bisogno degli altri più che del suo stesso partito per evitare di essere processato e per rimanere al potere.

Il progetto sionista

I membri di spicco di tutti questi gruppi sono arrivati con iniziative legislative e politiche già pronte, tutte intese senza eccezioni, a consentire a un governo di estrema destra di annullare qualunque cosa sia rimasta della parodia chiamata democrazia israeliana.

La prima iniziativa è già iniziata, sterilizzando il sistema giudiziario in modo tale che non possa, se mai lo ha voluto, difendere i diritti delle minoranze in generale e quelli dei palestinesi in particolare.

Per la verità, tutti i precedenti governi israeliani sono stati caratterizzati dal complessivo disprezzo riguardo ai diritti civili e umani dei palestinesi. Questa è solo una fase in cui ciò viene reso più costituzionale, più generalmente accettato e più evidente, senza alcun tentativo di nascondere lo scopo che gli sta dietro: impossessarsi della maggior parte possibile della Palestina storica con il minor numero possibile di palestinesi.

Tuttavia, se si concretizzerà in futuro, ciò avvicinerà ulteriormente Israele al suo futuro neo-sionista, cioè il vero raggiungimento e la maturazione del progetto sionista: uno spietato progetto di colonialismo d’insediamento costruito su apartheid, pulizia etnica, occupazione, colonizzazione e politiche genocidarie.

Un progetto che finora è sfuggito a qualunque significativa opposizione da parte del mondo occidentale e che viene tollerato dal resto del mondo, anche se è censurato e respinto da molti nella società civile internazionale. Finora non è riuscito a trionfare solo per la resistenza e resilienza palestinese.

Fine dell’“Israele immaginario”

Questa nuova situazione evidenzia una serie di domande che ci si deve porre, anche se per il momento non possiamo dare una risposta.

I governi arabi e musulmani, che solo di recente si sono uniti alla legittimazione di questa farsa, si renderanno conto che non è troppo tardi per cambiare strada?

I nuovi governi di sinistra, come quello eletto in Brasile, saranno in grado di aprire la via, portare a un cambiamento di atteggiamento dall’alto, che rifletterebbe democraticamente quanto richiesto dal basso?

E le comunità ebraiche saranno sufficientemente scioccate da svegliarsi dal sogno dell’“Israele immaginario” e si renderanno conto del pericolo rappresentato dall’Israele di oggi, non solo per i palestinesi ma anche per gli ebrei e il giudaismo?

Sono domande a cui non è facile rispondere. Quello che possiamo sottolineare è, ancora una volta, l’appello all’unità palestinese in modo da estendere la lotta contro questo governo e l’ideologia che esso rappresenta. Tale unità diventerà una bussola per il poderoso fronte internazionale che già esiste, grazie al movimento BDS e che è intenzionato a continuare il suo lavoro di solidarietà e ad allargarlo ulteriormente e più ampiamente: mobilitare i governi, così come le società, e riportare la Palestina al centro dell’attenzione internazionale.

Le tre componenti del nuovo governo israeliano non hanno sempre convissuto facilmente, quindi c’è anche la possibilità di un precoce collasso politico, dato che in definitiva stiamo parlando di un gruppo di politici incompetenti quando si tratta di far funzionare un’economia così complicata come quella israeliana. Probabilmente non saranno in grado di bloccare l’alta inflazione, l’aumento dei prezzi e la crescente disoccupazione.

Tuttavia, anche se ciò avvenisse, non c’è una quarta componente socio-politica alternativa che possa guidare Israele. Quindi un nuovo governo sarebbe formato da un’altra combinazione delle stesse forze, con le stesse intenzioni e politiche.

Dovremmo trattarla come una sfida strutturale, non episodica, e prepararci a una lunga lotta, basata su una solidarietà internazionale ancora più ampia e una più stretta unità dei palestinesi.

Questo governo canaglia, e quello che rappresenta, non dureranno in eterno. Dobbiamo fare tutto il possibile per ridurre l’attesa per la sua sostituzione con un’alternativa molto migliore non solo per i palestinesi, ma anche per gli ebrei e per chiunque altro viva nella Palestina storica.

Ilan Pappé è docente all’università di Exeter. È stato in precedenza professore associato all’università di Haifa. È autore di La pulizia etnica della Palestina [Fazi, 2008], The Modern Middle East [Il moderno Medio Oriente], Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli [Einaudi, 2014] e Ten Myths about Israel [Dieci miti su Israele]. Pappé è considerato uno dei “nuovi storici” israeliani che, da quando all’inizio degli anni ’80 sono stati resi pubblici documenti ufficiali britannici e israeliani sull’argomento, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Resistere all’occupazione illegale israeliana della Palestina: conversazione con Issa Amro

Redazione di Palestine Chronicle

18 dicembre 2022, Palestine Chronicle

In questa puntata di “Palestina in prospettiva” conduttore e giornalista per The Palestine Chronicle Paul Salvatori, che vive a Toronto, conversa con il difensore dei diritti umani ed attivista palestinese Issa Amro.

Da un luogo segreto dove ha dovuto rifugiarsi per tutelare la propria vita Amro condivide la sua esperienza di essere un costante bersaglio di molestie, violenze, abusi e detenzione arbitraria da parte dell’esercito israeliano, nonché di coloni israeliani che lo terrorizzano in modo analogo, spesso con la protezione e l’appoggio dell’esercito stesso.

Lo fanno perché lui, insieme ad altri attivisti pacifisti in Cisgiordania, cerca di porre fine all’ulteriore sviluppo di colonie israeliane illegali. 

Parallelamente all’appello urgente delle Nazioni Unite perché finisca l’aggressione contro Amro e perché Israele smantelli la “zona chiusa militarizzata” che ha istituito intorno alla sua casa – in violazione del diritto umanitario internazionale –, Amro invita gli ascoltatori a far pressione sui loro governi per assicurare che l’appello sia preso in considerazione.

Questo comporta rendere l’occupazione illegale della Palestina “costosa”, in modo che gli stessi governi, o chiunque altro coinvolto, perda di più (economicamente, politicamente, ecc.) di quanto guadagni sostenendo l’occupazione. Simile ad un moderno Gandhi, Amro auspica che questo avvenga in modo nonviolento e attraverso la disobbedienza civile, smascherando pubblicamente la disumanità dell’occupazione – dalla distruzione delle abitazioni e dell’agricoltura palestinesi all’uccisione e bombardamento di civili palestinesi indifesi.

Palestina in prospettiva” è un recente podcast su The Palestine Chronicle e una sotto-serie del podcast dedicato alla giustizia sociale e ai diritti umani, The Dark Room.

Attraverso schiette interviste e discussioni con voci filo-palestinesi – da studiosi ed attivisti ad artisti e intellettuali – “Palestina in prospettiva” illumina questioni centrali sulla giustizia palestinese, la resistenza e la lotta internazionale contro l’apartheid israeliano. Lo spettacolo è ospitato dal giornalista, attivista e musicista di Toronto Paul Salvatori.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Indebolire il ‘legame indissolubile’: ecco perché l’indagine dell’FBI su Israele è importante

Ramzy Baroud

23 novembre 2022 – Palestine Chronicle

La recente decisione del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti di aprire un’inchiesta sull’omicidio, a maggio, della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh non è una svolta epocale, ma tuttavia è importante e degno di riflessione.

In base alla lunga storia del sostegno militare e politico a Israele da parte degli USA e del loro continuo scudo offerto a Tel Aviv a protezione contro le responsabilità dell’occupazione illegale della Palestina, si può con certezza concludere con sicurezza che non ci sarà nessuna vera inchiesta.

Una vera e propria inchiesta sull’uccisione di Abu Akleh potrebbe aprire il vaso di Pandora di ulteriori scoperte concernenti molte altre pratiche israeliane illegali e violazioni di leggi internazionali, e persino di quelle statunitensi. Per esempio, gli investigatori americani dovrebbero esaminare l’uso israeliano di armi e munizioni USA che sono utilizzate quotidianamente per soffocare le proteste palestinesi, confiscare terre palestinesi, imporre assedi militari contro aree civili e così via. Una legge USA, la Leahy Law, proibisce specificamente al “governo USA di usare fondi per assistere unità di forze di sicurezza ove ci siano informazioni attendibili che implichino quell’unità nella perpetrazione di gravi violazioni di diritti umani.”

Inoltre un’indagine comporterebbe anche l’assunzione di responsabilità se concludesse che Abu Akleh, una cittadina statunitense, fosse stata deliberatamente uccisa da un soldato israeliano, come parecchie organizzazioni per i diritti umani hanno già concluso.

Anche questo è irrealistico. Infatti uno dei principali pilastri su cui si poggiano le relazioni USA-Israele è che, sul palcoscenico internazionale, il primo gioca il ruolo del protettore del secondo. Ogni tentativo palestinese, arabo o internazionale di indagare sui crimini israeliani ha totalmente fallito semplicemente perché Washington ha sistematicamente bloccato ogni possibile inchiesta con la scusa che Israele è in grado di investigare sé stesso, sostenendo a volte che ogni tentativo di ritenere Israele responsabile sia una caccia alle streghe e equivale all’antisemitismo.

Secondo Axios, [sito web americano fondato nel 2016 da Jim VandeHei, Mike Allen e Roy Schwartz, per un pubblico sinistra moderata, N.d.T.] questo era il senso della risposta ufficiale israeliana alla decisione USA di aprire un’indagine sull’assassinio della giornalista palestinese. “I nostri soldati non saranno sottoposti a indagini da parte dell’FBI o di qualsiasi altro Paese o organismo stranieri,” ha detto il primo ministro israeliano uscente Yair Lapid, aggiungendo: “Noi non abbandoneremo i nostri soldati nelle mani di indagini straniere.”

Sebbene quella di Lapid sia la tipica reazione israeliana, è piuttosto interessante, se non scioccante, vederla usata nel contesto di un’indagine americana. Storicamente tale linguaggio era riservato alle indagini del Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite e da giudici di diritto internazionale, come Richard Falk, Richard Goldstone e Michael Lynk. Ripetutamente tali indagini erano condotte o bloccate senza la cooperazione israeliana e sottoposte a intensa pressione americana.

Nel 2003, la portata dell’intransigenza israeliana e il cieco sostegno USA a Israele arrivarono fino al punto di far pressione sul governo belga perché riscrivesse le proprie leggi nazionali affinché archiviasse una causa per crimini di guerra contro Ariel Sharon, ex primo ministro israeliano.

Inoltre, nonostante i continui sforzi di molte organizzazioni per i diritti umani con sede negli USA perché venisse aperta un’indagine sull’omicidio di un’attivista americana, Rachel Corrie, gli USA rifiutarono persino di esaminare il caso, basandosi invece sui tribunali israeliani che scagionarono il soldato israeliano che nel 2003 era passato con un bulldozer sul corpo della ventitreenne Corrie che gli stava semplicemente chiedendo di non demolire una casa palestinese a Gaza.

Peggio ancora, nel 2020 il governo USA è arrivato al punto di sanzionare la procuratrice della Corte Penale Internazionale (ICC) Fatou Bensouda e altri funzionari senior della procura che erano impegnati nelle indagini su sospetti crimini di guerra USA e israeliani in Afghanistan e Palestina.

Tenendo presente tutto ciò ci si devono quindi porre domande sul tempismo e sui motivi delle inchieste degli USA.

Axios ha rivelato che la decisione di indagare sull’uccisione di Abu Akleh era “stata presa prima delle elezioni in Israele del primo novembre, ma il Dipartimento di Giustizia ha informato ufficialmente il governo israeliano tre giorni dopo le elezioni.” Infatti la notizia è stata rivelata ai media solo il 14 novembre, dopo le elezioni, sia in Israele che negli USA, rispettivamente il primo e il 7 novembre.

Funzionari a Washington erano desiderosi di sottolineare il fatto che la decisione non era politica, e che non era neppure legata a evitare di irritare la filoisraeliana lobby a Washington nei giorni precedenti le elezioni USA, né a influenzare i risultati di quelle israeliane. Se così fosse, allora perché gli USA hanno aspettato fino al 14 novembre per far trapelare la notizia? Il ritardo fa pensare a gravi retroscena politici e a una massiccia pressione israeliana per dissuadere gli USA dal renderla pubblica, rendendo quindi impossibile fare marcia indietro sulla decisione.

Sapendo che molto probabilmente non avrà luogo un’indagine seria, la decisione USA deve essere stata pensata in anticipo per essere meramente politica. Forse simbolica e in definitiva irrilevante, la decisione USA senza precedenti e calcolata si basa su solidi ragionamenti:

Primo, durante la sua vice-presidenza durante l’amministrazione Obama (2009-2017) il presidente USA Joe Biden ha avuto un’esperienza difficile nella gestione degli intrallazzi politici dell’allora primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Ora che Netanyahu è destinato a ritornare al timone della politica israeliana, l’amministrazione Biden ha un bisogno urgente di far leva politica su Tel Aviv, nella speranza di controllare le tendenze estremiste del leader israeliano e del suo governo.

Secondo, il fallimento della cosiddetta ‘Ondata rossa’ Repubblicana nel marginalizzare i Democratici quale forza politica e legislativa nel Congresso USA ha ulteriormente imbaldanzito l’amministrazione Biden, che ha poi finito con rendere pubblica la notizia dell’investigazione, se vogliamo credere che la decisione fosse veramente stata presa in anticipo.

Terzo, la forte presenza di candidati palestinesi e filopalestinesi nelle elezioni di metà mandato statunitensi, sia a livello nazionale che statale, ha ulteriormente rafforzato il programma progressista del partito Democratico. Persino una decisione simbolica di investigare l’omicidio di un cittadino americano rappresenta uno spartiacque per le relazioni fra l’establishment del partito Democratico e il suo elettorato più progressista dei movimenti di base. Infatti la congressista palestinese Rashida Tlaib, rieletta, ha subito reagito alla notizia dell’inchiesta descrivendola come “il primo passo verso una vera presa di responsabilità”.

Anche se l’investigazione americana sull’uccisione di Abu Akleh difficilmente darà come risultato una vera giustizia, è un momento molto importante nelle relazioni USA-Israele e USA-palestinesi. Significa semplicemente che, nonostante il consolidato e cieco sostegno USA a Israele, ci sono margini nella politica americana che possono ancora essere utilizzati, se non per ribaltare il sostegno USA a Israele, almeno per indebolire l’apparente ‘legame indissolubile’ fra i due Paesi.

– Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle.  È autore di sei libri, l’ultimo curato con Ilan Pappé, è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out” [La nostra visione per la liberazione: leader palestinesi e intellettuali impegnati fanno sentire la propria voce]. Baroud è ricercatore non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Studenti dell’università di Birzeit accusano l’Autorità Nazionale Palestinese di arresti politici

Redazione di The New Arab, PC, Social

2 novembre 2022 – The Palestine Chronicle

Una fonte locale vicina al consiglio degli studenti dell’università di Birzeit, presso Ramallah, ha riferito a The New Arab che, dopo che uno è stato rilasciato lunedì, altri otto studenti palestinesi continuano ad essere detenuti dall’Autorità Nazionale Palestinese.

Il consiglio degli studenti accusa l’ANP [Autorità Nazionale Palestinese, ndt.] di aver arrestato gli studenti per motivazioni politiche.

Domenica il consiglio degli studenti ha rilasciato una dichiarazione in cui ha annunciato che le forze di sicurezza dell’ANP avevano arrestato tre studenti che sono attivi nel movimento studentesco.

Noi del consiglio studentesco rifiutiamo l’ingiustizia e l’arroganza che privano gli studenti dei loro diritti ad una vita universitaria sicura,” si legge nel comunicato.

Domenica, decine di palestinesi, inclusi molti studenti, hanno fatto una manifestazione a Ramallah contro quella che hanno definito “detenzione politica” da parte dell’ANP, chiedendo l’immediato rilascio dei prigionieri.

Nel frattempo un gruppo di studenti continua a fare un sit-in dentro il campus d Birzeit, come forma di protesta contro le detenzioni operate dall’ANP, chiedendo l’immediato rilascio degli arrestati.

Le forze di sicurezza dell’ANP non hanno fatto alcun commento pubblico sulle incarcerazioni degli studenti dell’università di Birzeit.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Sciopero generale indetto dai palestinesi in Cisgiordania per i sei uccisi da Israele

Redazione di Palestine Chronicle

25 ottobre 2022 PalestineChronicle

The New Arab ha riferito dello sciopero generale indetto dai movimenti politici palestinesi nella Cisgiordania occupata. Aziende e istituzioni sono state chiuse in risposta all’appello allo sciopero in tutte le principali città della Cisgiordania, inclusa Ramallah.

“Appena è arrivata la notizia del raid israeliano, molti di noi a Jenin si sono diretti a Nablus per stare a fianco della nostra gente”, ha detto a The New Arab Atta Abu Rmeileh, segretario della fazione di Fatah nel campo profughi di Jenin.

“All’ospedale di Rafidia, dove è stato portato Wadee al-Hawah, c’era una gran folla di persone tra cui molti membri delle forze di sicurezza palestinesi, tutti mobilitati per contrastare qualsiasi tentativo delle forze di occupazione di raggiungere l’ospedale”, ha commentato Abu Rmeileh.

Nel frattempo alcuni combattenti palestinesi hanno attaccato i posti di blocco israeliani di Salem e Jalamah fuori Jenin. In una dichiarazione la Brigata Jenin ha affermato che molti suoi membri hanno aperto il fuoco contro le postazioni israeliane a sostegno di “ Lions’Den” [Fossa dei Leoni [gruppo di resistenza palestinese a Nablus, ndt.].

Altre sparatorie contro le forze israeliane sono state segnalate al posto di blocco di Qalandia e fuori dalla città di Abu Dis, vicino a Gerusalemme.

In una dichiarazione rilasciata domenica il gruppo Fossa dei Leoni ha minacciato Israele di ulteriori azioni armate contro i suoi soldati.

“Estendi ora il tuo assedio, scatena i tuoi droni e le tue spie perché abbiamo pronto il fuoco per te”, si legge nella dichiarazione.

La dichiarazione di Fossa dei Leoni ha fatto seguito all’uccisione del 33enne Tamer Kilani in un’esplosione all’interno della città vecchia di Nablus. Il gruppo ha accusato Israele di essere responsabile dell’omicidio, dopo aver definito Kilani “uno dei combattenti più coraggiosi”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Attacco dei media israeliani alla vincitrice del premio Nobel per aver sostenuto il boicottaggio contro l’apartheid di Israele

Palestine Chronicle

9 ottobre 2022,Palestine Chronicle

I media israeliani hanno attaccato la scrittrice francese Annie Ernaux, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 2022, per aver dimostrato solidarietà alla causa palestinese.

Il quotidiano israeliano The Jerusalem Post ha riportato che la scrittrice ha invitato “a boicottare gli eventi culturali israeliani, a rilasciare i terroristi e ha chiamato Israele Stato di apartheid”.

Ernaux, la cui carriera di scrittrice dura da cinquant’anni, è la prima donna francese ad aver vinto il prestigioso premio.

Nel 2021, quando Israele ha espulso dei palestinesi dalle loro case nella Gerusalemme est occupata e ha condotto una spietata campagna di bombardamenti sulla Striscia di Gaza assediata uccidendo più di 250 palestinesi, Ernaux ha firmato una lettera “contro l’apartheid” che condannava Israele per le sue azioni.

“Chiediamo la fine immediata e incondizionata della violenza israeliana contro i palestinesi… Chiediamo a tutti i governi che consentono questi crimini contro l’umanità di mettere in atto sanzioni, di mobilitare gli organismi internazionali perché li condannino e di porre fine alle loro relazioni commerciali ed economiche”, si legge nella lettera.

Nel 2019, Ernaux ha firmato una lettera in cui invitava la televisione nazionale francese a non mandare in onda l’Eurovision Song Contest, che quell’anno si svolgeva in Israele.

L’anno prima aveva firmato una lettera contro l’istituzione di una stagione di eventi culturali da parte dei governi francese e israeliano in occasione del 70° anniversario della creazione dello Stato israeliano.

Entrambe le lettere accusavano Israele di utilizzare eventi culturali per nascondere i suoi crimini contro i palestinesi e sono state firmate da altre icone culturali francesi tra cui il defunto regista Jean-Luc Godard.

Ernaux ha anche firmato una lettera per chiedere il rilascio del prigioniero politico libanese Georges Abdallah.

Nell’assegnazione del premio Nobel per la letteratura Ernaux ha battuto scrittori tra cui Salman Rushdie – sopravvissuto a un attacco di accoltellamento che lo ha portato in ospedale all’inizio di quest’anno.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gaza: il carcere israeliano con un milione di minori è in emergenza riguardante la salute mentale

Omar Aziz

19 agosto 2022 – Palestine Chronicle

“Far del male durante un conflitto a qualsiasi bambino è fortemente inquietante”, ha affermato giovedì scorso Michelle Bachelet, l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, esprimendo allarme per il numero di minori palestinesi uccisi questo mese da Israele.

“L’uccisione e la mutilazione di così tanti minori durante questo anno è inaccettabile“, ha continuato.

Quindi cosa dire del fatto che Israele effettua ogni anno attacchi aerei con una tecnologia militare industrializzata all’avanguardia su un’enclave assediata composta per lo più da minori?

Il diritto umanitario internazionale è chiaro. È proibito lanciare un attacco che potrebbe uccidere o ferire accidentalmente civili, o danneggiare strutture civili, in modo sproporzionato rispetto ai concreti ed espliciti obiettivi militari. Tali attacchi devono cessare,” ha detto Bachelet.

Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese il 47% dei 2,2 milioni di abitanti di Gaza sono minorenni, altri collocano la percentuale oltre il 50%.

E la popolazione di Gaza è notoriamente ammassata soprattutto all’interno degli otto campi profughi ufficialmente riconosciuti dall’UNRWA, che sono considerati alcuni dei luoghi più densamente popolati al mondo. Eppure ognuno è ancora considerato un obiettivo legittimo da parte degli aerei da guerra israeliani.

Con questa consapevolezza ciò che diventa inequivocabilmente evidente è che ogni bomba che Israele sgancia sull’enclave assediata, crimine di guerra dopo crimine di guerra, viene sganciata con la consapevolezza che i minori sono le probabili vittime.

Che si tratti di minorenni massacrati come “danni collaterali” dei cosiddetti “attacchi di precisione mirati” o colpiti semplicemente per essere palestinesi, proprio come i cinque palestinesi uccisi il 7 agosto da un attacco missilistico mentre si trovavano sulla tomba del nonno nel cimitero di Al-Falluja, a est di Jabalya. Un crimine che l’esercito israeliano ha inizialmente negato di aver commesso, una bugia che le pubblicazioni dei principali organi di informazione occidentali hanno volutamente ripetuto a pappagallo senza esitazione nonostante la comprovata reputazione di Israele di diffondere bugie e disinformazione.

 Minori che non hanno altra scelta che subire ogni ferita inferta dallo sconvolgente potere distruttivo di Israele mentre si trovano imprigionati in questa minuscola striscia di terra.

Le cifre non sono più scioccanti, ma da incubo, distopiche. Una situazione difficilmente credibile per coloro che non hanno assistito in prima persona alla realtà o prestato attenzione alle testimonianze palestinesi.

L’accademico palestinese-americano Yousef Munayyer afferma che è ora di smettere di chiamare Gaza una “prigione a cielo aperto”, ma quello che è veramente: una camera di tortura.

Immaginate un po’: un ambiente progettato con cura per incubare e infliggere traumi psicologici, sofferenza fisica e privazione economica ha prodotto proprio questo. Che sorpresa.

Secondo Save the Children, oggi l’80% dei minorenni di Gaza dichiara di vivere con depressione, dolore e paura.

Nel corso dell’attacco a Gaza del 2014 Israele ha ucciso 547 minorenni palestinesi in sette settimane. Nel maggio 2021 ne ha ucciso 67. E questo mese a Gaza sono stati uccisi almeno 17 minori.

Ma queste non sono le uniche vittime di quell’età a Gaza.

In questo momento a Gaza c’è un milione di minori brutalizzati e traumatizzati da almeno 29 aggressioni militari dal 2003, ognuno con una voce da ascoltare, con una storia da raccontare e una vita che merita molto di più.

Gli ultimi tre giorni dell’attacco sono stati davvero tragici per me. Ho avuto molti flashback delle aggressioni vissute in precedenza.

Mi hanno fatto pensare molto a dove in realtà vivo, alla prigione in cui mi trovo, sapendo che potrei morire letteralmente da un momento all’altro mentre parlo con qualcuno, mentre sono seduto, mentre guardo la TV, mentre penso a qualcosa, perché questo è quello che è successo agli altri ragazzi”.

Ma mentre i minori palestinesi cercavano di riadattarsi alla “normalità” dell’assedio e dell’impoverimento in corso dopo gli attacchi, gli esperti militari israeliani si congratulavano via etere con il primo ministro israeliano Yair Lapid per la sua operazione “pulita”.

Lunedì 9 agosto, parlando alla stazione radio FM del quotidiano Maariv [giornale popolare israeliano, ndt.], il generale Amos Yadlin, ex capo della direzione dell’intelligence militare israeliana ed esperto ricercatore di Harvard, si rallegrava:

È stato un attacco ben riuscito. È stato davvero pulito, abbiamo colpito duramente l’ala militare di Hamas (in seguito si è corretto dicendo che intendeva la Jihad islamica), abbiamo colpito marginalmente degli innocenti e non militanti, neanche un israeliano è stato colpito, ritengo che sia un risultato eccezionale” (in ebraico).

Nel frattempo il giornalista di Haaretz [quotidiano israeliano progressista, ndt.] Amos Harel e Neri Zilber dell’Israel Policy Forum [organizzazione ebraica americana che lavora per una soluzione negoziata a due Stati al conflitto israelo-palestinese, ndt.] in un podcast di un’ora di valutazione degli attacchi del 10 agosto non hanno menzionato le morti di civili palestinesi, elogiando invece i “millimetrici” attacchi di Israele.

Era già noto in quel momento che almeno 15 minori palestinesi erano stati uccisi, mettendo in luce ciò che i palestinesi affermano da decenni: la cancellazione della Palestina e la disumanizzazione dei minori palestinesi sono le fondamenta grottesche su cui fioriscono l’apartheid e la colonizzazione israeliane.

Offrendo il punto di vista di una madre sull’educazione dei figli a Gaza, la scrittrice palestinese e madre di tre figli Rana Shubair racconta a Palestine Deep Dive [Approfondimenti sulla Palestina, rivista on-line palestinese, ndt.]:

Ho cercato di proteggere (i miei figli) dal vedere le immagini in TV, ma l’ambiente in cui vivono i nostri figli non è censurato, il che significa che ovunque andranno vedranno le immagini dei martiri.

Nell’ultima aggressione (del maggio 2021) una delle amiche di mia figlia che si trovava nella sua scuola è stata uccisa. Non credo che le mie figlie l’abbiano mai davvero dimenticata perché una di loro mi dice che la vede sempre nei suoi sogni, ed è molto difficile per loro afferrare semplicemente il concetto o la nozione di morte e tutto il resto. Tutti i bambini qui a Gaza sono molto eroici, va detto, perché sono più maturi della loro età e sono stati costretti ad assorbire cose di cui i bambini di altre parti del mondo non sanno nulla. Chiedete a qualsiasi bambino qui, vi dirà che tipo di aereo ci sta sorvolando, che si tratti di un drone o di un F-16. Conoscono tutta questa terminologia di guerra, ma come genitori, cerchiamo di trovare, credo, i modi giusti per affrontare il trauma dei nostri figli.

Dopo ogni aggressione e dopo ogni mese del continuo rigido assedio di Israele e della conseguente deprivazione economica, la salute mentale dei minori di Gaza continua inevitabilmente a deteriorarsi.

Ad esempio, nel 2018 il 60% di essi riferiva di sentirsi meno al sicuro lontano dai propri genitori ma, secondo Save the Children, poco prima dei recenti attacchi questa cifra ha raggiunto il 90%.

Nel 2018 il 50% dei minorenni riferiva di avere paura e il 55% di provare sentimenti di dolore e pochi mesi prima di questo attacco il 78% affermava di sentirsi spaventato e l’84% di provare sentimenti di dolore.

Si può solo immaginare come si sentono oggi.

Nel corso di una trasmissione di Palestine Deep Dive, il Dr. Yasser Abu Jamei, Direttore del Programma di salute mentale della comunità di Gaza, ha sottolineato la natura persistente degli eventi traumatici che pone un limite all’applicabilità [a Gaza, ndt.] del [termine ndt.] disturbo nel modo in cui viene inteso dalla psichiatria occidentale, come “Disturbo da stress post-traumatico”, rendendo così difficile la vera e propria guarigione.

In primo luogo, la condizione pre-traumatica non consiste in una vita facile, tranquilla, ecc. No, si tratta di un assedio, di un’occupazione, con più di due terzi della popolazione di Gaza nella situazione di rifugiati. E parliamo di decenni. (L’inizio) di ciò non risale solo al 1967, arriva anche al 1948. Ma oltre a questo, vivi sotto assedio, e non solo, ma all’interno di questo assedio sei soggetto ad operazioni su larga scala … e come se ciò non bastasse avverti continuamente dei segnali, cose che ti ricordano gli eventi traumatici che accadono intorno a te. Ascolti il ​​telegiornale e vedi come sia critica la situazione. Guardi il cielo e senti di continuo i rumori intensi dei droni e tutto ciò ti fa tornare alla mente i brutti ricordi.

Poi, nel periodo successivo… non c’è un vero ritorno alla vita normale. C’è di nuovo la vita come al solito sotto l’occupazione, sotto i droni, sotto il blocco ecc. Direi che la tradizionale nozione occidentale di disturbo da stress post-traumatico non è applicabile ad un posto come Gaza, ma direi che la situazione a Gaza è più grave di così. Non possiamo davvero descriverlo semplicemente come un disturbo da stress post-traumatico nel significato comune del termine. No, è molto di più“.

Nel 1991 Israele ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, che afferma che tutti i minorenni hanno i diritti fondamentali alla vita, alla sopravvivenza, allo sviluppo, alla protezione dalla violenza e a un’istruzione che consenta loro di realizzare il proprio potenziale.

Eppure, sotto il suo [regime di] apartheid Israele viola impunemente questa convenzione in tutta la Palestina. Nello stesso Israele le scuole palestinesi o arabe ricevono spesso un finanziamento per ogni alunno quasi sei volte inferiore rispetto alle scuole per studenti ebrei poiché non possono essere ammesse al finanziamento da parte dell’istituzione sionista. Successivamente subiscono discriminazioni nel mercato del lavoro e sono anche soggetti alle 65 leggi razziste di Israele.

In Cisgiordania i minorenni palestinesi sono soggetti a leggi e pratiche discriminatorie. Viene loro regolarmente negato il diritto all’istruzione nel momento in cui vengono costretti ad aspettare ai posti di blocco e le loro lezioni possono essere interrotte in qualsiasi momento dall’esercito israeliano.

Secondo [l’Associazione] Defense for Children International, in Palestina ogni anno circa 500-700 minorenni palestinesi, alcuni dei quali di appena 12 anni, sono detenuti e perseguiti nei tribunali militari israeliani illegali. L’accusa più comune contro di loro è il lancio di pietre.

Il disprezzo di Israele per i diritti più fondamentali dei bambini palestinesi, incluso il diritto stesso alla vita, rivela il proposito di Israele di raggiungere una pace futura per ciò che è veramente, una palese bugia.

Ma non solo,: il travolgente silenzio della comunità internazionale mostra che la disumanizzazione dei bambini palestinesi si estende ben oltre l’apartheid di Stato di Israele.

All’indomani dell’ultimo attacco il presidente Biden ha elogiato Israele per aver “difeso il suo popolo” e i suoi sistemi militari per “aver salvato innumerevoli vite”.

Nel frattempo, questa settimana, i politici conservatori britannici in competizione per diventare il prossimo Primo Ministro, Rishi Sunak e Liz Truss, sembrano entrambi favorevoli al trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme.

Da parte dell’Occidente continua ad essere all’ordine del giorno l’istigazione in luogo delle sanzioni, senza che nulla venga proposto per scoraggiare, ogniqualvolta si verifichino, ulteriori brutali bombardamenti da parte di Israele. Le armi continuano ad affluire e la protezione diplomatica continua a fare scudo contro la giustizia.

Eppure i minori palestinesi, che saranno gli artefici di un futuro veramente stabile, dimostrano continuamente di desiderare ardentemente una vita migliore, libertà, e di niente di meno che una totale liberazione.

Con tassi di alfabetizzazione tra i più elevati a livello mondiale, formazione di compagnie di danza, società di parkour e produzione di artisti di talento come l’astro nascente rapper tredicenne MC Abdel, i minori palestinesi a Gaza stanno offrendo insegnamenti di vita al resto del mondo mentre camminano tra le macerie:

Mi piace sempre sottolineare quel lato positivo di noi che viviamo in una prigione a cielo aperto. Stiamo facendo del nostro meglio qui. Come ho detto, non abbiamo molte opportunità, ma dall’altra parte stiamo cercando di tirar fuori quelle opportunità da tutte le macerie tra cui viviamo da più di 15 anni”, dice Hind a Palestine Deep Dive.

Anche il dottor Yasser Abu Jamei illustra in maniera limpida su Palestine Deep Dive questa verità, raccontando come ha visto i bambini di Gaza indossare con orgoglio gli abiti dell’Eid [Eid Al Fitr, letteralmente “festa della rottura del digiuno”, che segna la fine del Ramadan, ndt.] che non erano stati in grado di indossare nel maggio 2021 a causa degli attacchi di Israele:

Era un abbinamento paradossale. Guidi la tua macchina o cammini per strada, vedi da un lato le macerie, le rovine e le case distrutte, e dall’altro bambini molto ben vestiti che, in mezzo alle macerie, cercano di andare a scuola e ottenere la licenza media ”.

Naturalmente, l’emergenza riguardo alla salute mentale a Gaza e le continue ingiustizie del brutale apartheid e della colonizzazione di Israele non si limitano ai minorenni, ma colpiscono i palestinesi di tutte le età.

Tuttavia ultimamente ciò che è diventato del tutto chiaro è che ogni bomba sganciata da Israele e ogni giorno che l’assedio di Gaza da parte di Israele continua, costituisceono un’ingiustizia intollerabile contro coloro che sono universalmente considerati i più innocenti: i minorenni.

Sotto l’assedio di Israele Gaza continua ad essere una prigione di un milione di minorenni e attendiamo da troppo tempo che i governi di tutto l’Occidente riconoscano finalmente questa verità per porre fine all’impunità di Israele, e che le istituzioni internazionali, comprese le Nazioni Unite, agiscano senza esitazione contro questa situazione.

Omar Aziz è Direttore Associato di Palestine Deep Dive. Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’economia sociale del dopo-Oslo: un’analisi

Omar Zahzah

12 agosto 2022 – The Palestine Chronicle

Se ci pensate, è un classico Fanon”, ha osservato nel 2018 in occasione del 25° anniversario degli Accordi di Oslo la scrittrice palestinese Yara Hawari, analista esperta di Al-Shabaka: The Palestine Policy Network [organizzazione indipendente e transnazionale impegnata nel dibattito pubblico su diritti umani e autodeterminazione palestinesi, ndt.].

“Significa: creiamo questa classe di persone deputata a preservare la sicurezza degli oppressi e dei nativi, in modo da non doverlo fare noi”.

La “classe” a cui Hawari fa qui riferimento è l’Autorità Nazionale Palestinese, quell’apparato repressivo di informatori autoctoni le cui incarcerazioni e sevizie nei confronti del suo stesso popolo e la cui totale obbedienza allo Stato coloniale sionista sono state istituzionalizzate attraverso l’approvazione degli Accordi di Oslo del 1993. Hawari mette in relazione la formazione dell’ANP con la classe media nazionale sottosviluppata descritta da Fanon in The Pitfalls of National Consciousness [Le trappole della coscienza nazionale, capitolo del suo classico libro “I dannati della terra”, Einaudi, 2007], una classe che perpetua la propria integrità e i propri interessi materiali preservando le relazioni e la collaborazione neo-coloniali con il potere coloniale.

L’attivista palestinese Jamal Juma spiega che attraverso gli Accordi l’ANP ha fatto in modo che i mezzi di sussistenza palestinesi finissero sotto il controllo di organizzazioni come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, e che la divisione della Cisgiordania nelle aree A, B e C fosse guidata in ultima analisi da una più ampia strategia di annessione totale.

Un’ampia disanima di tale argomento, Palestina, Srl di Toufic Haddad, dimostra come gli Stati donatori e le istituzioni finanziarie occidentali abbiano utilizzato gli accordi di Oslo come banco di prova nell’esplorazione di forme di intesa nazionali e governative che potessero essere più gradite alle iniziative capitaliste neoliberiste — un’intuizione che suggerisce come la Palestina funga da “laboratorio” in maniera diversa rispetto alla visione più diffusa dello Stato sionista che sperimenta sulla società e sui territori palestinesi lo sviluppo di tattiche di armamento, di controllo della folla e di sorveglianza che alla fine esporterà ad altre nazioni e società.

Tuttavia, per quanto queste considerazioni siano fondamentali, esse si riferiscono agli aspetti materiali delle conseguenze devastanti degli Accordi di Oslo.

Credo sia importante discutere anche di altre componenti più astratte degli effetti distruttivi degli Accordi, componenti non limitate alla sola Palestina. Uno sforzo del genere è importante, poiché ogni tentativo di diagnosticare il vero carattere coloniale della nostra condizione ci permette di fare un passo in più verso una consapevolezza potenzialmente liberata e liberatoria.

Replica emotiva e mentale

Il carattere materiale dei progetti coloniali può replicarsi emotivamente e mentalmente, sia all’interno del morale collettivo dei colonizzati che nelle menti e nei cuori degli individui che compongono le popolazioni sottoposte a tale condizione. Quindi non ci vuole un grande sforzo di immaginazione per considerare che la frammentazione fisica e politica operata dagli Accordi di Oslo, l’arrogante e arbitraria dichiarazione che un futuro Stato palestinese riguarderebbe solo quei palestinesi che si trovano attualmente all’interno del loro territorio colonizzato e occupato militarmente, l’abbandono della lotta di liberazione, la creazione di un’élite borghese palestinese corrotta che trarrebbe un chiaro profitto dall’oppressione e dallo sfruttamento del proprio popolo, si siano incise profondamente anche nella psiche individuale dei palestinesi.

È anche logico pensare che tale ricollocazione abbia effetti profondi non solo sul morale individuale dei palestinesi, ma anche sull’attivismo (e qui utilizzo questo termine intenzionalmente) che fece seguito agli Accordi di Oslo.

L’oggetto della mia analisi è un particolare tipo di attivismo (di nuovo, qui utilizzato per descrivere una mentalità e varie forme di definizione delle priorità) che considera la reputazione, l’ego, il “marchio”, la politica individuale, al di sopra della più ampia lotta di liberazione – anche escludendola completamente – così come della necessità di una lotta comune e collettiva del nostro popolo. Una persona o un’organizzazione diventa il rappresentante designato della causa palestinese, e invece di coinvolgere gli altri nella stessa lotta come compagni, tutti diventano concorrenti in una inutile lotta per un “marchio di esclusività“.

La collettività si trasforma da forza ad ostacolo, poiché la pluralità di voci e approcci, parte integrante della salute di qualsiasi vero movimento di liberazione, viene offuscata dall’esigenza culturale di essere la voce palestinese designata, l’attivista palestinese, l’intellettuale palestinese, e così via, anziché uno tra i tanti.

Il momento critico dell’anti-colonialismo viene reindirizzato verso un’analisi della politica liberale e della cosiddetta “leadership del pensiero” che dà per scontata la persistenza di strutture e sistemi che devono essere distrutti piuttosto che sostenuti, e addirittura ne trae beneficio. Ma anche un atteggiamento più critico non implica necessariamente il superamento di questo status quo, poiché il mostrarsi come il soggetto più radicale può essere di per sé mercificato come personale cinica dimostrazione di competizione.

Non è più la lotta palestinese ad essere intrapresa, nella sua integrità e contradditorietà, ma una sua versione asettica che viene rimpacchettata e venduta a un pubblico di riferimento. In questa competizione viene riproposta la frammentazione imposta alla nostra lotta dai nostri colonizzatori e dalla cosiddetta leadership della nostra gente, che collabora volontariamente con loro per il proprio tornaconto personale, e la stessa frammentazione invece di essere combattuta viene incentivata.

Tutte le forze oppositive, dai nostri colonizzatori ai loro alleati imperialisti, non vorrebbero altro per noi che il mantenimento della nostra dispersione, frammentazione, quindi è naturale che ci troviamo in sistemi e situazioni in cui, anche se indirettamente, siamo incoraggiati ad attaccarci a vicenda in modo da sentirci più interessanti.

Cosa si intende per economia sociale

Una economiaimplica tipicamente un sistema di relazioni e di scambio. Quindi riferirsi al fenomeno in questione come ad una economia socialepotrebbe sembrare una strana scelta di parole. Ma attraverso questa formulazione stiamo considerando i modi in cui le relazioni sociali stesse sono condizionate dai processi economici: il modo in cui, ad esempio, le relazioni personali e professionali vengono distorte dalle nozioni capitalistiche di profitto, produttività e bisogni artificiali, o come il sistema di credo neoliberisti incoraggi un approccio alle questioni riguardanti l’oppressione nello stile del “buffet”, secondo cui mantenere un’identità emarginata comporti di per sé intenti liberatori (Mahmoud Abbas dovrebbe essere una confutazione sufficiente di questa attitudine politica regressiva).

Nel nostro esempio l’impegno politico viene impercettibilmente scavalcato da incentivi lucrativi di competizione, falsi bisogni, esclusione, e una causa che è essenzialmente una lotta collettiva per la liberazione anticoloniale diventa semplicemente un mezzo di promozione e avanzamento personali. Nella misura in cui il ruolo dilagante delle ONG sia in Palestina che a livello internazionale devia gli sforzi incentrati sulla liberazione verso obiettivi riformisti, fortemente condizionati da finanziamenti vincolanti, e riversa l’intelligenza e la creatività degli organizzatori su esigenze burocratiche come la raccolta di fondi e la costruzione di relazioni con i donatori, non possiamo ignorare l’interazione tra istituzioni compromesse, assoggettamento all’economia predatoria e volubilità politica.

Buona fede e inconscio

Tuttavia, per quanto tale coinvolgimento possa a volte essere contraddistinto da una deliberata noncuranza, la nostra esperienza suggerisce che è più probabile che un tale stato di cose venga rinforzato inconsciamente. Così, anche nei momenti più intensi di apparente confronto e disaccordo, si deve sempre presumere che ci sia della buona fede.

Una pratica imperfetta ma comunque migliorativa, dato questo stato di cose, è quella di insistere su distinzioni intenzionali e coscienziose tra la società civile e la sfera del no-profit. A dire il vero esiste una sovrapposizione, ma identificare intenzionalmente le organizzazioni senza scopo di lucro con la società civile finirebbe per annacquare l’impegno sociale con le esigenze, i limiti e le restrizioni della burocrazia del no profit.

Nell’attesa del completo disfacimento del sistema no profit, un approccio importante è quello di percorrerne gli spazi con la consapevolezza di queste distinzioni materiali e chiedere sempre a se stessi (e alla propria organizzazione) come utilizzare al meglio le risorse e reti del contesto no profit per ampliarne quanto possibile senza restrizioni la base.

Sarebbe un compito molto più semplice se gli accordi di Oslo avessero portato una generazione di militanti e organizzazioni egocentriche a trarre profitto attraverso la competizione dei loro “marchi” palestinesi, nel bene e nel male, ma ciò non è quanto discuto. La realtà è più oscura e più difficile da definire, ma in sostanza quello che sto suggerendo è che vari fattori, tra cui l’eccessiva enfasi sull’individuo propria dell’etica coloniale/capitalista statunitense, così come la miriade di forme di frammentazione inflittaci attraverso gli Accordi di Oslo, sono essi stessi interiorizzati e riproposti all’interno del modello dei militanti statunitensi, ma spesso al livello generico di imitazione istintiva e di sensazione.

Diverse norme sociali e simboliche fanno sì che determinate azioni e atteggiamenti siano semplicemente percepiti come più naturali di altri. Questo è il caso del capitalismo in generale, che propone nei termini delle cosiddette “realtà“, “natura”, “società” e così via una completa distorsione delle relazioni e dei legami sociali. La nostra condizione coloniale, seppur per certi versi più particolare, opera tuttavia con effetti simili: l’orizzonte delle possibilità è sempre più impoverito dalla contrazione dei confini e dall’abdicazione dalla responsabilità e dalla dedizione alla lotta.

La strada (le strade) da seguire

Non esiste una “soluzione” predefinita per un tale stato di cose, ma poiché l’individualismo e la competitività sono i flagelli, dovrebbero ovviamente avere la priorità gli approcci incentrati sulla collaborazione e la crescita comune. In tale prospettiva ci si dovrebbe accordare su un impegno continuo (che conti sulla) buona fede di tutti, sempre che non vengano superate le linee rosse del sionismo e della normalizzazione. Ma anche avendo a che fare con queste linee rosse è fondamentale essere in grado di stabilire definizioni esaustive di sionismo e normalizzazione, così come stabilire e coltivare un sano impegno politico.

A questo punto dovrebbe essere tutt’altro che politicamente controverso dire che l’entità sionista non ha il diritto di esistere, non dovrebbe mai essere esistita e non dovrebbe esistere di fatto nemmeno adesso; che i palestinesi hanno diritto a tutte le forme di resistenza fino al ritorno e alla liberazione totale, e che tutta l’entità sionista è, nei fatti, la Palestina occupata, una costruzione aliena su terre e vite rubate che deve essere demolita per arrivare ad una completa liberazione e a un risarcimento della Palestina.

Parlare in modo esplicito delle competizioni e guerre per il territorio come risultato piuttosto che come causa degli Accordi di Oslo può a volte aiutare a reindirizzare gli sforzi verso una lotta più ampia e un miglioramento collettivo, sebbene ciò non sia sempre una certezza.

Alla radice del problema c’è la necessità di operare con la coscienza di movimento piuttosto che per individualismo o attivismo, e di partire sempre da una posizione di aiuto alla causa collettiva anziché di priorità a guadagni individuali. La lotta è danneggiata dalla nostra frammentazione, sebbene sia importante resistere alla cinica cooptazione di questo principio per incoraggiare la tolleranza di tutte le linee politiche all’interno dei nostri spazi e reti più ampie (come la normalizzazione dell’entità sionista, inclusa l’accettazione del Coordinamento per la sicurezza dell’Autorità” Nazionale Palestinese).

Lo scopo è riaccendere e preservare un senso di identità e resistenza collettiva che operi all’interno di una cornice genuinamente anti-coloniale, piuttosto che accettare la nostra colonizzazione come inevitabile, o addirittura come un fatto concluso.

Omar Zahzah è il coordinatore del settore Istruzione e Difesa per Eyewitness [rete associativa internazionale per una soluzione non violenta del conflitto israelo-palestinese, ndt.] nonché membro del Movimento giovanile palestinese (PYM) e della Campagna Statunitense per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (USACBI). Omar è anche uno studioso, scrittore e poeta indipendente e ha conseguito un dottorato di ricerca in letteratura comparata presso l’Università della California, Los Angeles (UCLA). Ha pubblicato questo articolo su The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’esercito israeliano comincia le esercitazioni a Masafer Yatta nonostante le proteste.

The New Arab, PC, Social Media

Martedì 21 giugno 2022 – The Palestine Chronicle

L’agenzia The New Arab ha riferito che martedì l’esercito israeliano comincerà le esercitazioni militari a Masafer Yatta, nonostante l’opposizione degli abitanti palestinesi.

Granate con propulsione a razzo, carri armati, mitragliatrici, ruspe e altri tipi di armi e mezzi pesanti saranno usati nelle esercitazioni militari che secondo il quotidiano israeliano Haaretz avranno luogo dalle 12 alle 18 ora locale.

Il giornale ha affermato che le esercitazioni, che continueranno per un mese, saranno le più ampie degli ultimi 20 anni.

Circa 1200 palestinesi di Masafer Yatta, a sud di Hebron (Al-Khalil), rischiano di essere espulsi dalle proprie case per fare spazio ad un’area per esercitazioni dopo una battaglia legale durata decenni che è terminata lo scorso mese davanti all’Alta Corte israeliana.

La sentenza ha aperto la strada ad una delle più ampie deportazioni da quando lo Stato di Israele ha occupato il territorio nella guerra mediorientale del 1967. Gli abitanti palestinesi si stanno rifiutando di abbandonare il territorio, sperando che la loro resistenza e la pressione internazionale impediscano a Israele di portare avanti le espulsioni.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La pulizia etnica a Masafer Yatta: la nuova strategia di annessione israeliana in Palestina

Ramzy Baroud

1 giugno 2022Palestine Chronicle

La Corte Suprema di Israele ha sentenziato che la regione palestinese di Masafer Yatta, situata sulle colline meridionali di Hebron, debba essere interamente espropriata dall’esercito israeliano e che la popolazione di oltre 1.000 palestinesi sia espulsa.

Questa decisione del 4 maggio non è certo stata una sorpresa. L’occupazione militare israeliana non consiste solo di soldati con armi, ma di sofisticate strutture politiche, militari, economiche e legali, dedicate all’espansione delle colonie ebree illegali e alla lenta, e talvolta per niente lenta, espulsione dei palestinesi.

Quando i palestinesi affermano che la Nakba, o Catastrofe, che ha portato alla pulizia etnica della Palestina nel 1948 e alla fondazione dello Stato di Israele sulle sue rovine, è un progetto ininterrotto e non ancora del tutto compiuto vogliono dire esattamente questo. La pulizia etnica dei palestinesi da Gerusalemme Est e le angherie senza fine contro i beduini palestinesi nel Naqab e ora a Masafer Yatta, testimoniano questa realtà.

Però Masafer Yatta non ha precedenti. Nel caso della Gerusalemme Est occupata, per esempio, Israele ha rivendicato, fallacemente e astoricamente, che Gerusalemme è la capitale eterna e indivisa del popolo ebraico. Ha combinato la narrazione indimostrata con l’azione militare sul posto, seguita da un sistematico processo inteso ad aumentare la popolazione ebraica e a espellere gli originari abitanti autoctoni della città. Concetti come ‘Grande Gerusalemme’ e le strutture legali e politiche, come quella del Piano generale per Gerusalemme 2000 hanno contribuito a trasformare quella che una volta era una maggioranza assoluta palestinese a Gerusalemme in una minoranza in calo.

Nel Naqab obiettivi israeliani simili furono messi in moto già nel 1948 e poi di nuovo nel 1951. Questo processo di pulizia etnica degli autoctoni resta in vigore ancora oggi.

Sebbene la zona di Masafer Yatta faccia parte degli stessi progetti coloniali, la sua unicità deriva dal fatto che è situata nell’Area C della Cisgiordania occupata.

Nel luglio 2020 Israele ha apparentemente deciso di posticipare i propri piani di annessione di quasi il 40% della Cisgiordania, forse temendo una ribellione palestinese e un’indesiderata condanna internazionale. Tuttavia in pratica il piano è continuato.

Inoltre l’annessione completa delle regioni cisgiordane vorrebbe dire che Israele diventerebbe responsabile dell’assistenza a tutte le comunità palestinesi. Come Stato coloniale qual è Israele vuole la terra, ma non la gente. Secondo i calcoli di Tel Aviv l’annessione senza l’espulsione della popolazione potrebbe portare a un incubo demografico, perciò Israele ha bisogno di reinventare il suo piano di annessione.

Sebbene abbia in teoria ritardato l’annessione de jure, Israele ha continuato una forma di annessione de facto che ha ottenuto scarsa attenzione dai media internazionali.

La sentenza della Corte israeliana su Masafer Yatta, che è già in corso di esecuzione con l’espulsione della famiglia Najjar  l’undici maggio [ vedi l’articolo di Zeitun], è un passo importante verso l’annessione dell’Area C. Se Israele può sfrattare senza ostacoli gli abitanti di dodici villaggi, con una popolazione di oltre 1.000 palestinesi, si possono prevedere altre espulsioni simili, non solo a sud di Hebron, ma in tutti i territori della Palestina occupata.

Gli abitanti palestinesi dei villaggi di Masafer Yatta e i loro rappresentanti legali sanno molto bene che non si può ottenere nessuna vera ‘giustizia’ dal sistema legale israeliano. Comunque loro continuano a combattere la battaglia legale nella speranza che un insieme di fattori, inclusa la solidarietà in Palestina e la pressione dall’esterno, possa alla fine riuscire a costringere Israele a ritardare la sua pianificata distruzione ed ebraicizzazione dell’intera regione.

Comunque sembra che gli sforzi palestinesi in corso dal 1997 stiano fallendo. La sentenza della Corte Suprema di Israele è fondata sulla teoria erronea e totalmente bizzarra che i palestinesi di quella zona non possano dimostrare di essere stati lì prima del 1980 quando il governo israeliano decise di trasformare l’area nella ‘Zona di tiro 918’.

Sfortunatamente la difesa palestinese era basata in parte sui documenti dell’epoca giordana e sui quelli ufficiali delle Nazioni Unite che avevano riferito di attacchi israeliani contro parecchi villaggi nell’area di Masafer Yatta nel 1966. Il governo giordano, che ha amministrato la Cisgiordania fino al 1967, aveva risarcito alcuni degli abitanti per la perdita delle loro ‘case di pietra’, non tende, bestiame e altre proprietà che erano state distrutte dall’esercito israeliano. I palestinesi hanno tentato di usare queste prove per dimostrare di essere vissuti lì non come popoli nomadi, ma come comunità stanziali. Questo non ha convinto la corte di Israele, che ha dato la preminenza alla tesi dell’esercito rispetto ai diritti della popolazione nativa.

Le zone di tiro israeliane occupano circa il 18% dell’intero territorio della Cisgiordania. È uno dei vari trucchetti usati dal governo israeliano per avanzare un diritto legale sulla terra palestinese e poi, anni dopo, per rivendicare anche la proprietà legale. Esistono molte di queste zone di tiro nell’Area C, e sono uno dei metodi con cui Israele mira ad appropriarsi ufficialmente della terra palestinese con il sostegno dei suoi tribunali.

Ora che l’esercito israeliano è riuscito a confiscare Masafer Yatta, una regione che si estende da 32 a 56 km2, basandosi su pretesti totalmente inconsistenti, sarà molto più facile assicurarsi la pulizia etnica di molte comunità simili in varie parti della Palestina occupata.

Mentre i dibattiti e la copertura mediatica dello schema di annessione israeliano in Cisgiordania e nella Valle del Giordano si sono decisamente ridotti, Israele sta ora preparando un processo di annessione graduale. Invece di impossessarsi del 40% della Cisgiordania in una sola volta, Israele sta ora annettendo separatamente tratti di territorio più piccoli e regioni come Masafer Yatta. Tel Aviv finirà per collegare tutte queste aree tramite circonvallazioni solo per ebrei verso le colonie ebraiche più grandi in Cisgiordania.

Questa strategia alternativa non solo permette a Israele di evitare critiche internazionali, ma, prima o poi, consentirà di annettere i territori palestinesi e allo stesso tempo sfrattare sempre più palestinesi, contribuendo a far sì che Tel Aviv possa prevenire squilibri demografici prima che si verifichino.

Ciò che sta succedendo a Masafer Yatta non è solo il più grande piano di pulizia etnica mai portato avanti da Israele dal 1967, ma potrebbe essere considerato il primo passo di una più vasta strategia di appropriazione illegale di territori, pulizia etnica e massiccia annessione formale.

A Masafer Yatta Israele non deve riuscirci perché se così fosse il suo progetto originario di massiccia annessione diventerebbe realtà in brevissimo tempo.

Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri, l’ultimo curato con Ilan Pappé è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out”. (La nostra visione per la liberazione: leader palestinesi e intellettuali impegnati fanno sentire la propria voce). Il prof. Baroud è ricercatore non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)