Rapporto delle Nazioni Unite: l’assedio israeliano provoca una perdita per l’economia di Gaza di 16,5 miliardi di dollari

29 novembre 2020 – The Palestine Chronicle

Un nuovo rapporto delle Nazioni Unite (ONU) ha rilevato che il blocco israeliano della Striscia di Gaza ha provocato 16,5 miliardi di dollari [13,8 miliardi di euro] di perdite per la sua economia in dissesto e ha spinto oltre la metà degli abitanti dell’enclave al di sotto della soglia di povertà.

Il rapporto, reso pubblico mercoledì dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) davanti all’Assemblea generale, copre gli anni tra il 2007 e il 2018.

Nel rapporto l’UNCTAD ha invitato l’occupazione israeliana a cessare immediatamente l’assedio ininterrotto che a Gaza ha quasi determinato un collasso delle attività economiche e un tasso di povertà del 56%.

“Se il blocco andrà avanti la situazione è destinata a peggiorare”, prevede Mahmoud Elkhafif, coordinatore dell’Assistenza al popolo palestinese dell’UNCTAD.

Questo ingiusto blocco, per cui due milioni di palestinesi sono trattenuti all’interno di Gaza, dovrebbe essere revocato immediatamente. Dovrebbero essere autorizzati a muoversi liberamente, fare affari, commerciare con il mondo esterno e riprendere i rapporti con le loro famiglie al di fuori della Striscia”, ha aggiunto Elkhafif.

Dal giugno 2007 gli abitanti di Gaza sono soggetti a un severo embargo terrestre, aereo e marittimo da parte di Israele, che pregiudica persino i loro spostamenti per cure mediche.

Sotto questo assedio opprimente, Israele ha ridotto al minimo l’ingresso di merci, mentre il commercio estero e le esportazioni, a parte casi molto eccezionali, sono state interrotte

Il rapporto afferma che la popolazione di Gaza ha un accesso molto limitato all’acqua potabile ed è priva di una regolare erogazione di elettricità e persino di un sistema fognario adeguato.

Secondo Richard Kozul-Wright, direttore della Divisione sulla globalizzazione e sulle strategie di sviluppo dell’UNCTAD, “se i palestinesi nella Striscia non otterranno l’accesso al mondo esterno, sarà difficile vedere come destino della società palestinese di Gaza altro se non sottosviluppo”. “È davvero scioccante che nel XXI secolo due milioni di persone possano essere lasciate in tali condizioni.”

Il rapporto rivela anche che durante il periodo dell’assedio in tre guerre israeliane e alcune brevi invasioni almeno 3.793 palestinesi sono stati uccisi, circa 18.000 feriti e più della metà della popolazione di Gaza è stata sfollata

Sono state danneggiate più di 1.500 imprese commerciali e industriali, oltre a circa 150.000 unità domestiche e infrastrutture pubbliche, tra cui quelle per la produzione di energia, idriche, i servizi igienico-sanitari, strutture sanitarie ed educative, edifici governativi.

Come risultato dell’assedio e delle guerre contro Gaza, il tasso di povertà è balzato dal 40% del 2007 al 56% del 2017, il che significa che più di un milione di palestinesi non hanno mezzi di sopravvivenza.

Il rapporto stima che portare questo segmento della popolazione al di sopra della soglia di povertà richiederebbe un’iniezione di finanziamenti per un importo di 700 milioni di euro, quattro volte quanto necessario nel 2007.

A Gaza tra il 2007 e il 2018 l’economia è cresciuta di meno del 5% e la sua percentuale nell’economia palestinese è scesa dal 31% al 18% nel 2018. Di conseguenza, il PIL pro capite si è ridotto del 27% e la disoccupazione è aumentata del 49%.

Il rapporto UNCTAD comprende diverse raccomandazioni per riattivare l’economia di Gaza, incluso un invito a consentire al governo palestinese di sfruttare i giacimenti di petrolio e gas naturale al largo delle coste di Gaza.

“Ciò garantirebbe le risorse necessarie per il risanamento, la ricostruzione e la ripresa dell’economia regionale di Gaza, il che darebbe un impulso significativo all’economia e alla situazione finanziaria dell’Autorità Nazionale Palestinese”, raccomanda il rapporto.

Gaza, con una popolazione di 2 milioni di abitanti, è sottoposta ad un ermetico assedio israeliano dal 2006, quando l’organizzazione palestinese Hamas vinse le elezioni legislative democratiche nella Palestina occupata. Da allora Israele ha condotto numerosi bombardamenti e diverse guerre di grande intensità, che hanno provocato la morte di migliaia di persone.

(MEMO, PC, social media)

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’ANP deve chiarire il proprio concetto di ‘negoziati’ nella Palestina abbandonata

Ramona Wadi

14 novembre 2020, Palestine Chronicle

L’ “accordo del secolo” promosso dagli USA potrebbe essere accantonato quando a gennaio si insedierà il presidente eletto Joe Biden, ma le sue ripercussioni non saranno necessariamente una maledizione per l’amministrazione entrante. Proprio come il presidente uscente Donald Trump ha utilizzato decenni di politica estera internazionale e USA per fare una serie di concessioni a Israele, lo stesso succederà quando Biden riporterà gli USA all’ovile del consenso per la soluzione dei due Stati.

Trump ha lasciato in eredità al popolo palestinese un disastro che la comunità internazionale ha allegramente ignorato, limitandosi a mettere in ridicolo la sua inadeguatezza.

Prevedibilmente, l’Autorità Nazionale Palestinese è finita dritta dentro la trappola: ha rifiutato — giustamente — di negoziare con gli USA, ma ha erroneamente rappresentato una comunità internazionale, nel suo complesso, alleata. Gli accordi di normalizzazione fra Israele e i Paesi arabi, mediati dagli USA e approvati da parecchi leader, hanno messo a nudo la farsa del “supporto” internazionale alla Palestina.

Gli USA hanno preso una via diretta che ha ribaltato decenni di diplomazia basata sulla soluzione dei due Stati, in base alla propria agenda e hanno portato l’oggetto delle trattative a un nuovo livello. Che l’ANP lo ammetta o no, il panorama politico è cambiato e la “soluzione” dei due Stati è ora offuscata dagli intrighi USA-Israele sotto Trump.

Il portavoce Nabil Abu Rudeineh ha dimostrato che l’ANP non sembra rendersene conto. “I leader palestinesi sono pronti a ritornare ai negoziati [con Israele], o basandosi sulla legittimità internazionale o ripartendo dal punto dove si erano bloccati o puntando al rispetto israeliano di tutti gli accordi firmati,” ha dichiarato. A parte il fatto che Israele non ha interesse a impegnarsi in alcun accordo, firmato o no, Abu Rudeineh sta dimenticando quello che è successo nel frattempo, dalle trattative interrotte ai piani di annessione rimandati, ma non cancellati, che hanno fatto seguito alla normalizzazione.

L’ANP ovvierà a questa discrepanza? O sta aspettando un ritorno agli accordi mediati dagli USA travestiti dal compromesso dei due Stati, senza essere ritenuta responsabile per aver ignorato i cambiamenti della Palestina sotto Trump e per i suoi regali a Israele?

La soluzione dei due Stati è morta e sepolta e tutti lo sanno. Israele è arrivato allo stadio dell’annessione con scarsa opposizione internazionale e quindi l’ANP deve spiegare qual è la sua idea di negoziato, dalla sua attuale posizione senza speranza nella Palestina abbandonata e frammentata che la comunità internazionale ha contribuito a creare.

Gli accordi di normalizzazione sono stati ben accolti dal resto del mondo; dopo tutto Trump ha usato una forma di diplomazia che l’Onu ha perfezionato fin dal riconoscimento dello Stato di Israele. Fin dal suo insediamento, la comunità internazionale non ha fatto nulla per opporsi alle politiche USA che hanno accelerato la colonizzazione della Palestina da parte di Israele.

Il mondo ha osservato, criticato e condannato, assecondando l’ANP e Mahmoud Abbas con conferenze di pace internazionali e risoluzioni che non hanno portato a nulla. Il motivo dell’accondiscendenza dell’Onu è che gli USA non hanno mai operato in opposizione ai piani della comunità internazionale per la Palestina.

La soluzione dei due Stati è un eufemismo per coprire decenni di attesa, diligentemente praticata dall’ANP, e mantenere l’illusione di legittimità, finanziata dalla comunità internazionale. Forse l’ANP dovrebbe chiarire se, con il termine “negoziati, si riferisce a un altro periodo di umiliazioni per poi ricevere poche briciole gettate dalla comunità internazionale. Con Washington ora riaccolta nel consesso internazionale dopo la missione compiuta a favore di Israele per conto dell’Onu, la Palestina si trova sull’orlo del precipizio.

Ramona Wadi è una cronista per il Middle East Monitor dove originalmente ha pubblicato questo articolo, con cui ora contribuisce al Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’ipocrisia europea: parole vuote per la Palestina, armi letali per Israele

Ramzy Baroud

21 ottobre 2020 – The Palestine Chronicle

In teoria, quando si tratta dell’occupazione israeliana della Palestina, l’Europa e gli Stati Uniti sono su posizioni completamente opposte. Mentre il governo USA ha totalmente avallato il tragico status quo creato da 53 anni di occupazione militare israeliana, l’UE continua a sostenere una soluzione negoziata che si pretende rispettosa del diritto internazionale.

In pratica tuttavia, nonostante l’apparente differenza tra Washington e Bruxelles, il risultato è sostanzialmente lo stesso. Gli USA e l’Europa sono i maggiori partner commerciali, fornitori di armi e sostenitori politici di Israele.

Una delle ragioni per cui l’illusione di un’Europa imparziale è sopravvissuta così a lungo sta in parte nella stessa leadership palestinese. Abbandonata politicamente e finanziariamente da Washington, l’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmoud Abbas si è rivolta all’Unione Europea come sua unica ancora di salvezza.

L’Europa crede nella soluzione a due Stati”, ha detto il 12 ottobre il primo ministro dell’ANP Mohammed Shtayyeh in un dibattito in video con il Comitato per gli Affari Esteri del Parlamento Europeo. Al contrario degli USA, il continuo sostegno dell’Europa alla defunta soluzione dei due Stati la legittima a colmare l’enorme divario creato dall’assenza di Washington.

Shtayyeh ha chiesto ai leader dell’UE di “riconoscere lo Stato di Palestina per permettere a noi, e a voi, di rompere lo status quo.”

Comunque ci sono già 139 Paesi che riconoscono lo Stato di Palestina. Mentre questo riconoscimento indica chiaramente che il mondo resta saldamente a favore della Palestina, riconoscerla come Stato cambia poco sul terreno. Ciò che è necessario sono sforzi condivisi per rendere Israele responsabile per la sua violenta occupazione, come anche una reale azione di sostegno alla lotta dei palestinesi.

Non solo l’Europa non ha fatto questo, ma di fatto sta facendo l’esatto opposto: finanzia Israele, arma il suo esercito e mette a tacere chi lo critica.

A sentire le parole di Shtayyeh, si ha l’impressione che l’alto dirigente palestinese si stia rivolgendo ad una conferenza di Paesi arabi, musulmani o socialisti. “Invito il vostro parlamento e i suoi onorevoli membri a far sì che l’Europa non aspetti che il presidente americano tiri fuori delle idee…Noi abbiamo bisogno di una parte terza che possa realmente porre rimedio allo squilibrio nel rapporto tra un popolo sotto occupazione ed un Paese occupante, che è Israele”, ha detto.

Ma l’Europa ha i titoli per essere quella “parte terza”? No. Per decenni i governi europei sono stati a pieno titolo dalla parte di USA-Israele. Solo perché recentemente l’amministrazione di Donald Trump ha compiuto una decisa svolta a favore di Israele ciò non dovrebbe automaticamente condurre all’errore di trasformare la storica tendenza filoisraeliana dell’Europa in solidarietà per la Palestina.

Lo scorso giugno oltre 1.000 parlamentari europei, che rappresentano diversi partiti, hanno rilasciato una dichiarazione che esprime “gravi preoccupazioni” riguardo al cosiddetto Accordo del Secolo di Trump e si oppone all’annessione israeliana di quasi un terzo della Cisgiordania. Tuttavia il filoisraeliano partito democratico USA, compresi alcuni tradizionali fedeli sostenitori di Israele, è stato parimenti critico verso il piano israeliano perché, nella loro mente, l’annessione significa che una soluzione a due Stati diventerebbe impossibile.

Mentre i democratici USA hanno chiarito che se Biden venisse eletto la sua amministrazione non modificherebbe nessuna delle azioni di Trump, anche i governi europei hanno chiarito che non prenderanno nessuna iniziativa per dissuadere – e tanto meno punire – Israele per le sue ripetute violazioni del diritto internazionale.

Tutto ciò che i palestinesi hanno ottenuto dall’Europa sono vuote promesse, come anche molto denaro che è stato largamente intascato dai fedeli di Abbas in nome della “costruzione dello Stato” ed altre fantasie. Di fatto molte delle infrastrutture dell’immaginario Stato palestinese che sono state sovvenzionate dall’Europa negli anni recenti sono state fatte saltare in aria, demolite o ne è stata interrotta la costruzione da parte dell’esercito israeliano nel corso delle sue tante guerre e incursioni. Eppure l’Europa non ha punito Israele, né l’ANP ha smesso di chiedere altri soldi per continuare a finanziare uno Stato inesistente.

Non solo l’UE non ha reso Israele responsabile per la sua perdurante occupazione e violazione dei diritti umani, ma sta anche finanziando di fatto Israele. Secondo ‘Defence News’ [rivista e sito web USA che si occupa di armamenti, ntr.] un quarto dei contratti delle esportazioni belliche di Israele (che ammontano a 7,2 miliardi di dollari nel solo 2019) è destinato a Paesi europei.

Inoltre l’Europa è il principale partner commerciale di Israele, importando un terzo delle esportazioni totali di Israele ed esportando circa il 40% delle importazioni complessive israeliane. Queste cifre includono anche merci prodotte nelle colonie ebraiche illegali.

Per di più, l’UE fa in modo di includere Israele nello stile di vita europeo attraverso eventi culturali e musicali, gare sportive e in mille altri modi. Benché l’Europa possieda potenti mezzi che potrebbero essere usati per ottenere concessioni politiche e imporre il rispetto del diritto internazionale, sceglie semplicemente di fare ben poco.

Si confronti ciò con il recente ultimatum che l’UE ha dato alla leadership palestinese, condizionando il proprio aiuto ai rapporti finanziari dell’ANP con Israele. Lo scorso maggio Abbas ha compiuto il passo straordinario di considerare nulli e inefficaci tutti gli accordi con Israele e gli USA. Di fatto questo significa che l’ANP non si riterrebbe più responsabile dell’opprimente status quo creato dagli Accordi di Oslo, ripetutamente violato da Tel Aviv e Washington. Allentare i legami con Israele significa anche che l’ANP rifiuterebbe di accettare circa 150 milioni di dollari di entrate fiscali che Israele raccoglie per conto dell’ANP. Pur molto in ritardo, questa mossa palestinese era necessaria.

Invece di appoggiare l’iniziativa di Abbas, l’UE l’ha criticata, rifiutando di fornire ulteriori aiuti ai palestinesi finché Abbas non riprenderà i rapporti con Israele ed accetterà il denaro delle tasse. Secondo il portale di Axios News, la Germania, la Francia, il Regno Unito e persino la Norvegia stanno conducendo l’attacco.

La Germania in particolare è stata instancabile nel suo sostegno ad Israele. Per mesi si è spesa per conto di Israele per risparmiare a Tel Aviv un’inchiesta per crimini di guerra da parte della Corte Penale Internazionale (CPI). Ha messo sotto processo attivisti che sostenevano il boicottaggio di Israele. Recentemente ha confermato l’invio di motocannoniere con missili ed altri armamenti per assicurare la superiorità della marina israeliana in una eventuale guerra contro nemici arabi. La Germania non è sola. Israele e la maggior parte dei Paesi europei stanno serrando i ranghi relativamente a reciproca cooperazione militare e a rapporti commerciali senza precedenti, compresi accordi sul gas naturale.

Continuare a fare riferimento all’irraggiungibile soluzione a due Stati e contemporaneamente armare, finanziare e incrementare i rapporti economici con Israele è l’esatta definizione di ipocrisia. La verità è che l’Europa dovrebbe essere considerata responsabile al pari degli USA dell’incoraggiamento e del sostegno verso l’occupazione israeliana della Palestina.

Eppure, mentre Washington è apertamente filoisraeliana, l’UE ha giocato una partita più intelligente: vendere ai palestinesi vuote parole e a Israele armi letali.

Ramzy Baroud è giornalista e editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo lavoro è “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons” [Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle prigioni israeliane] (Clarity Press). Il dott. Baroud è ricercatore non residente presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA) e anche presso il Centro Afro-Mediorientale (AMEC).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Gal Gadot [attrice israeliana], Stephen Miller [nuovo consigliere politico della Casa Bianca] e Richard Spencer [giornalista e attivista di destra statunitense]: lo strano caso di ciò che li accomuna

Benny Blend

17 ottobre 2020 palestinechronicle

“Qualunque cosa si pensi del suo essere stata scelta come Cleopatra”, ha twittato Steven Salaita [studioso, autore e docente americano], “non si deve mai dimenticare che Gal Gadot ha servito con orgoglio (e continua a sostenere) un esercito coloniale noto per mutilare e uccidere civili”. Quasi subito, dice Salaita, Richard Spencer ha risposto al twitt postando le sue critiche, aprendo così il forum di Salaita ai suoi 80.000 seguaci nazisti.

“Per molte ore”, lamenta Salaita, “non sono riuscito a capire se gli orrendi commenti razzisti che si riversavano sulla mia pagina fossero di sostenitori dello Stato ebraico o di nazionalisti bianchi antisemiti”.

In queste parole Salaita condensa il paradosso che vede i sionisti indistinguibili dai nazionalisti bianchi antisemiti. Alla fine, i seguaci di Spencer non amano gli ebrei più di qualunque altro “diverso”, quindi questa sovrapposizione è sensata tanto quanto Gal Gadot, forte sostenitrice delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) nei panni di Cleopatra regina egiziana (sebbene di origine greca).

In effetti, subito dopo l’approvazione della legge di Israele sullo “Stato-Nazione” nel luglio 2018, Spencer aveva twittato:

“Apprezzo molto la legge sullo Stato Nazione di Israele. Gli ebrei sono ancora una volta all’avanguardia, nel loro ripensare una politica e una sovranità rivolte al futuro, mostrando un percorso di progresso agli europei “. E continuava: “La critica dei media liberali alla legge dello Stato-Nazione come “antidemocratica” ne rivela la falsità. Quando dicono “democratico” intendono in realtà non il governo del popolo, ma un ordine sociale liberale e multiculturale”.

Proprio quell’ambiente molto “liberale e multiculturale” aveva fornito un porto sicuro a rifugiati come la mia famiglia, ma ora qualcuno lo condanna perché cozza con la nozione di Stato ebraico di Israele. Quando fu istituito nel 1948 Israele si rifiutò di riconoscere la nazionalità, facendo così una inedita distinzione tra “cittadinanza” e “nazionalità”. Sebbene tutti gli israeliani siano poi cittadini, lo Stato è definito “nazione ebraica” che appartiene solo agli ebrei israeliani e a quelli della diaspora.

Nel luglio 2018, la coalizione di governo del primo ministro Benjamin Netanyahu ha convertito in legge il decreto dello “Stato-Nazione del popolo ebraico”. A lungo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha chiesto ai palestinesi di riconoscere l’esistenza del suo paese come “Stato-Nazione del popolo ebraico”. In effetti, si tramuta in legge ciò che era già presente nelle istituzioni e nella vita quotidiana israeliane. Dichiarando il diritto all’autodeterminazione nazionale “unicamente per il popolo ebraico”, si toglie quel diritto ai cittadini palestinesi e va in pezzi ogni parvenza di democrazia o uguaglianza fra il popolo.

In sostanza, la legge sulla nazionalità non ha cambiato molto. Però ha trasformato il razzismo de facto in razzismo de jure, esattamente quello che i nazionalisti bianchi vorrebbero accadesse qui.

“Al centro del problema”, osserva Salaita, c’è Stephen Miller, scrittore di discorsi e consigliere politico di Donald Trump. Attingendo alle ricerche finanziate da eugenetisti e a scrittori nazionalisti bianchi, Miller ha contribuito anche agli attacchi di Trump contro i messicani e musulmani che cercano di entrare nel paese.

In Hate Monger: Stephen Miller, Donald Trump, and the White Nationalist Agenda (2020, Mercanti di odio: SM, DT e il programma dei nazionalisti bianchi), Jean Guerrero traccia l’ascesa di Miller sino a diventare l’architetto delle politiche di Trump su confini e immigrazione.

E’ interessante notare che, nel 2004, ancora studente alla Duke University, Miller aveva guidato un’iniziativa dell’associazione Students for Academic Freedom fondata da David Horowitz per protestare contro l’assegnazione da parte dell’Università di un palco al Palestine Solidarity Movement, movimento palestinese centrato sulla resistenza all’occupazione israeliana con l’azione diretta e non violenta (Guerrero, p. 90).

Nel marzo del 2007 Miller organizzò un dibattito sull’immigrazione con Richard Spencer, allora studente universitario. Come scrive Guerrero, Spencer si definiva “sionista” per i bianchi, appropriandosi in tal modo di una espressione di sostegno allo Stato ebraico nonostante nella sua sfera di influenza “alternativamente bianca” (p. 101) [alt-white o anche alt-right è un movimento di subcultura politica non strutturato promosso da Spencer che sostiene ideologie di destra e suprematismo bianco, ndtr.] sia diffuso l’antisemitismo.

Contribuendo alla confusione, Guerrero definisce “sionista” un termine “ebraico”, aggravando così (almeno per me) la confusione del far coincidere il sionismo con l’ebraismo piuttosto che riconoscerlo come movimento politico separato.

In questo modo, Miller ha tempestivamente indicato ciò che Salaita chiama “fulcro”, consentendo sia ai nazionalisti bianchi che ai sionisti di lanciare insulti alle critiche di Salaita sull’ultimo ruolo da protagonista di Gadot.

A sua volta Spencer ha definito il suo obbiettivo una “sorta di sionismo bianco”, che incoraggerebbe i bianchi a costruire una patria simile a Israele, un Altneuland – un vecchio, nuovo paese, ha spiegato, usando un termine attribuito a Theodor Herzl, fondatore del sionismo moderno.

“L’ho detto ai sionisti”, conclude Salaita, “quando ai nazisti piace quello che fai, devi davvero ripensarci”.

– Benay Blend ha conseguito il dottorato in Studi Americani presso l’Università del New Mexico. I suoi lavori accademici includono ” ‘Né la patria né l’esilio sono parole’: ‘Conoscenza locale’ nelle opere di scrittori palestinesi e nativi americani” in un volume a cura di Douglas Vakoch e Sam Mickey (2017). Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Alla fine la lobby israeliana dovrà fronteggiare delle conseguenze

Yves Engler

2 ottobre 2020 – The Palestine Chronicle

Quanto è troppo? Quand’è che i nazionalisti israeliani in Nord America si screditeranno del tutto a causa di un uso eccessivo del loro potere per annientare coloro che difendono i palestinesi?

L’attuale spregiudicatezza della lobby israeliana è notevole. Recentemente hanno convinto Zoom ad annullare un dibattito sponsorizzato da un‘università , un importante facoltà di legge a revocare un’offerta di lavoro, un’emittente pubblica a scusarsi per aver usato la parola Palestina e alcune aziende a interrompere le consegne per un ristorante.

Una settimana fa gruppi di pressione israeliani hanno convinto Zoom a cancellare dibattito alla San Francisco State University con l’icona della resistenza palestinese Leila Khaled [membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ndtr.] l’ex ministro sudafricano Ronnie Kasrils, la direttrice degli studi sulle donne alla Birzeit University Rula Abu Dahou [Bir Zeit è una città palestinese situata a circa 25 km a nord della città di Gerusalemme, alla periferia di Ramallah, ndtr.] e altri. Si ritiene che sia la prima volta che Zoom sopprima un dibattito sponsorizzato da un’università[vedi Zeitun]

Il mese scorso la lobby israeliana ha sollecitato la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Toronto a revocare un’offerta di lavoro per dirigere il suo Programma internazionale sui diritti umani. La pressione rivolta a bloccare la candidata della commissione per le assunzioni, Valentina Azarova, è giunta dal giudice David Spiro, che è stato a Toronto un ex co-presidente del Center for Israel and Jewish Affairs (CIJA) [organizzazione sionista di difesa ebraica e agenzia delle federazioni ebraiche del Canada, ndtr] e il cui zio Larry Tanenbaum possiede i Toronto Raptors [squadra di pallacanestro che milita nel massimo campionato professionistico statunitense e canadese, ndtr.] e la cui nonna Anne Tanenbaum ha finanziato il centro per gli studi ebraici dell’Università di Toronto. Mentre gli sforzi di Spiro erano segreti, B’nai B’rith [loggia massonica ebraica nata nel 1843 durante la presidenza di John Tyler ed ancora esistente ed attiva, ndtr.] ha apertamente invitato gli amministratori dell’Università di Toronto a bloccare la decisione del comitato di assunzione.

The Current [popolare programma radio canadese del mattino, ndtr.] della CBC si è recentemente scusato per aver utilizzato la parola “Palestina”. Il 18 agosto il presentatore ospite Duncan McCue ha presentato l’artista grafico Joe Sacco facendo riferimento al suo lavoro in Bosnia, Iraq e Palestina (Sacco ha prodotto un’opera chiamata Palestina). All’inizio dell’edizione del giorno successivo, McCue si è scusato per aver menzionato la Palestina e la Honest Reporting Canada [Honestreporting è un’organizzazione non governativa che “monitorizza i media riguardo le scorrettezze riguardanti Israele”, ndtr.] si è vantata dei propri interventi per fare pressione sull’emittente pubblica affinché non impieghi la parola P.

Come parte del tentativo di mandare in bancarotta un piccolo ristorante di Toronto simpatizzante per la sinistra che mostra sulla propria vetrina il messaggio “I love Gaza”, la CIJA e B’nai B’rith hanno condotto con successo una campagna per bloccare i servizi di consegna da parte di Foodbenders [rinomata azienda di Toronto che provvede alla fornitura di piatti pronti, ndtr.], oltre i contratti istituzionali e gli account sui social media. Si sono alleati con l’organizzazione di estrema destra Jewish Defense League e altri che hanno vandalizzato il ristorante a luglio.

In un articolo di agosto su Walrus [rivista politico-culturale canadese, ndtr.] intitolato “L’obiettività è un privilegio concesso ai giornalisti bianchi”, l’ex giornalista della CBC Pacinthe Mattar descrive un caporedattore che interviene per sopprimere un’intervista da Gerusalemme con Ahmed Shihab-Eldin, un giornalista di origini palestinesi con una nomina agli Emmy. Molti mesi dopo a Mattar non ha ottenuto una promozione già prevista da parte deldirettore che aveva deciso di non mandare in onda l’intervista del 2017 da Gerusalemme”, il quale “aveva espresso il timore che io fossi di parte e quindi non dovessi essere promossa, opinione condivisa da alcuni altri membri del comitato di redazione. Ed è andata così.”

Le organizzazioni anti-palestinesi stanno conducendo una campagna aggressiva per far sì che Facebook adotti la definizione di antisemitismo centrata su “basta con le critiche ad Israele”, della International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) [organizzazione intergovernativa che unisce i governi e gli esperti per rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.]. L’obiettivo esplicito di coloro che promuovono la definizione di antisemitismo dell’IHRA è quello di mettere a tacere o emarginare chi critica la spoliazione dei palestinesi e sostiene il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento, le sanzioni (BDS) guidato dalla società civile palestinese.

La macchina della censura della lobby israeliana procede nonostante siano sempre più palesi il razzismo, l’ occupazione e le violazioni dei diritti israeliani. Molti di coloro che sono stati presi di mira nelle vicende di cui sopra hanno sofferto emotivamente e in termini di carriera, ma l’impatto su di loro sono è insignificante rispetto alle umiliazioni quotidiane che soffrono i palestinesi. Lo Stato israeliano continua a rubare territori palestinesi in Cisgiordania, a mantenere un blocco punitivo su Gaza e a consentire agli ebrei di Toronto di emigrare mentre i palestinesi cacciati dalle loro case nel 1948 non possono nemmeno andare a visitare [il loro Paese, ndtr.], figuriamoci emigrarvi.

La lobby israeliana è una forza politica compatta. Radicata nel colonialismo europeo e negli interessi regionali dell’impero statunitense, è sostenuta da molti zelanti miliardari e da una parte sostanziale di una comunità etnico / religiosa generalmente influente. Inoltre sfrutta in modo grossolano il vittimismo. Come John Clark ha recentemente postato su Facebook, “Il sionismo è l’unica ideologia politica che conosco che sostenga che il disaccordo con essa rappresenti un crimine d’odio”.

Fortunatamente, ogni campagna di esclusione e diffamazione che intraprende allontana nuove persone e apre gli occhi ad altre. Sfortunatamente, molte altre persone ben intenzionate subiranno conseguenze emotive e finanziarie prima che la macchina della censura della lobby israeliana venga fermata.

  • Yves Engler è l’autore di Canada and Israel: Building Apartheid [Canada e Israele: la costruzione dell’apartheid, ndtr.] e una serie di altri libri. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele provoca la distruzione di 100.000 tamponi per il coronavirus destinati ai territori palestinesi

22 settembre 2020 – Palestine Chronicle

Oggi la ministra della Salute [dell’ANP, ndtr.] Mai Alkaila ha affermato che le autorità di occupazione israeliane hanno provocato la distruzione di 100.000 tamponi per il coronavirus destinati ai territori palestinesi occupati.

Parlando a Voice of Palestine [Voce della Palestina, radio pubblica dell’ANP con sede a Ramallah, ndtr.], Alkaila ha confermato che qualche giorno fa le autorità dell’occupazione israeliana hanno impedito l’ingresso dalla Giordania ai territori palestinesi occupati di 100.000 tamponi per il test del COVID-19, provocandone la distruzione.

Ha evidenziato che l’ingresso dei tamponi era stato coordinato con le Nazioni Unite.

In seguito a ciò, ha aggiunto, ora in Palestina c’è una carenza di tamponi, in quanto quelli disponibili per il ministero saranno sufficienti per eseguire i test solo per tre giorni, dopodiché la Palestina rimarrà a corto di tamponi.

Ha aggiunto che il ministero dovrà quindi razionare l’uso dei tamponi disponibili limitando i test ai contatti ravvicinati con pazienti positivi o probabilmente contagiati dal COVID-19.

Ha sottolineato che mercoledì è previsto che la Palestina riceva altri tamponi ed ha affermato che 20.000 tamponi sono stati consegnati ieri a Gaza dall’Organizzazione Mondiale della Salute.

Secondo il ministero della Salute [dell’ANP] in Palestina sono morte di coronavirus cinque persone e sono stati confermati 557 nuovi casi insieme a 1.142 guarigioni.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il principale sindacato del Regno Unito approva una mozione anti-apartheid contro Israele

17 settembre 2020 – Palestine Chronicle

Il principale sindacato britannico, il Trades Union Congress [Congresso dei Sindacati] (TUC), ha approvato una mozione che riconosce Israele come Stato che pratica l’apartheid e fa appello di continuare ad appoggiare il popolo palestinese.

Martedì il TUC, che ha quasi sei milioni di iscritti, ha votato a favore di una mozione presentata da Unite the Union [Unire il Sindacato, il più grande sindacato generale del Regno Unito, ndtr.] che si oppone al piano dell’attuale governo israeliano di annettere oltre il 30% della Cisgiordania.

La mozione identifica l’annessione come “un ulteriore considerevole passo nella creazione di un sistema di apartheid” ed è stata accolta positivamente dai rappresentanti della società civile palestinese.

La mozione è giunta una settimana dopo una dichiarazione rilasciata da oltre 20 associazioni benefiche, sindacati, gruppi religiosi e organizzazioni della società civile che chiede agli enti pubblici di “assumersi le proprie responsabilità etiche e giuridiche per garantire che i diritti umani e le leggi internazionali vengano rispettati,” come risposta agli illegali progetti di annessione da parte di Israele.

“Il Congresso rimane unito nella sua totale opposizione all’intenzione dichiarata del governo israeliano di annettere vaste parti della Cisgiordania,” afferma la mozione del TUC, definendo l’iniziativa come “illegale in base alle leggi internazionali” che “afferma chiaramente che da parte di Israele non c’è alcun tentativo di porre fine all’occupazione e di riconoscere il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione.”

Una simile iniziativa “sarebbe un’ulteriore significativo passo nella creazione di un sistema di apartheid,” afferma il TUC.

“Per troppo tempo la comunità internazionale è rimasta a guardare mentre allo Stato israeliano veniva consentito di perpetrare i propri crimini e ciò non può più essere tollerato o accettato,” prosegue la mozione. “È ora urgente e necessaria un’azione decisiva riguardo alle attività di Israele contro i palestinesi.”

Il congresso del TUC invita a “sostenere pienamente e a giocare un ruolo attivo nelle attività della Campagna di Solidarietà con la Palestina per costituire un’ampia coalizione contro la prevista annessione israeliana e per sollecitare ogni affiliato a fare altrettanto.”

Verrà inviata una lettera al primo ministro britannico “per chiedere che il Regno Unito prenda misure ferme e risolute, comprese sanzioni, per garantire che Israele smetta o receda dall’annessione illegale, ponga fine all’occupazione della Cisgiordania e al blocco di Gaza e rispetti il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un tribunale italiano ha detto alla RAI TV che “Gerusalemme non è la capitale di Israele”

Romana Rubeo

7agosto 2020 – Palestine Chronicle

Flavio Insinna, presentatore del popolare programma televisivo italiano “L’Eredità”, la prossima volta che andrà in onda dovrà fare la seguente dichiarazione: “Il diritto internazionale non riconosce Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele.”

Questo ordine ufficiale è stato deciso dal tribunale di Roma, che il 5 agosto ha sentenziato a favore di due organizzazioni italiane filo-palestinesi contro l’impresa pubblica italiana di radiodiffusione RAI.

La vicenda risale al 21 maggio, quando è stato chiesto alla concorrente di un programma televisivo quale sia la capitale di Israele. La risposta “Tel Aviv” è stata considerata sbagliata. Quella giusta, è stato detto alla concorrente, è “Gerusalemme”.

In Italia l’incidente ha scatenato un dibattito pubblico. La politica estera italiana continua ad essere coerente con il diritto internazionale, che non riconosce Gerusalemme come capitale di Israele.

Il 5 giugno Insinna, il presentatore del programma, cercò di attenuare la polemica con una dichiarazione che affermava in modo parziale che “sull’argomento ci sono punti di vista differenti.”

Tuttavia gli avvocati italiani Fausto Gianelli e Dario Rossi, che rappresentano rispettivamente l’“Associazione Palestinesi in Italia” e l’“Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese”, hanno deciso di portare il caso in tribunale.

Dopo aver riflettuto, la giudice Cecilia Pratesi ha comunicato la tanto attesa sentenza: “Lo Stato italiano non riconosce Gerusalemme come capitale di Israele.”

“È ben noto che il 21 dicembre 2017 l’Italia ha votato a favore di una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU che ha respinto la decisione degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele,” ha detto la giudice.

“È altrettanto noto che la stessa ONU ha ripetutamente espresso la propria opinione, condannando l’occupazione israeliana dei territori palestinesi e di Gerusalemme est e negando qualunque valore legale alla decisione di Israele di trasformare Gerusalemme nella sua capitale,” ha aggiunto.

“Le risoluzioni dell’ONU,” prosegue la sentenza, “devono essere considerate leggi ordinarie, direttamente applicabili nel nostro sistema giuridico.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




E’ trapelato un elenco di obbiettivi israeliani: Tel Aviv teme il peggio nell’indagine della CPI sui crimini di guerra

Ramzy Baroud

29 luglio 2020 – Palestine Chronicle

Quando nel dicembre scorso la Procuratrice della Corte Penale Internazionale (CPI), Fatou Bensouda, ha confermato che la Corte dispone di ampie prove per condurre un’indagine sui crimini di guerra nella Palestina occupata, il governo israeliano ha reagito con la consueta retorica, accusando la comunità internazionale di pregiudizio e sostenendo il “diritto di Israele a difendersi.”

Al di là dei luoghi comuni e del classico discorso israeliano, il governo di Israele sapeva fin troppo bene che un’indagine della CPI sui crimini di guerra in Palestina potrebbe costare molto caro. Un’indagine, di per sé, rappresenta in certo modo un atto d’ accusa. Se individui israeliani venissero imputati di crimini di guerra, questa sarebbe un’altra storia, in quanto si porrebbe un obbligo giuridico per gli Stati membri della CPI di arrestare i criminali e consegnarli alla Corte.

Israele si è mantenuto pubblicamente imperturbabile, anche dopo che lo scorso aprile Bensouda ha dettagliato la sua decisione di dicembre in un rapporto legale di 60 pagine, intitolato: “Situazione nello Stato di Palestina: risposta della Procura alle osservazioni degli ‘Amici Curiae’, dei rappresentanti legali delle vittime e degli Stati.”

Nel rapporto la CPI affronta molte delle questioni, dubbi e relazioni presentate o emerse nei quattro mesi seguiti alla sua precedente decisione. Paesi quali la Germania e l’Austria, tra gli altri, hanno utilizzato la propria posizione di ‘Amici Curiae’ – ‘amici della Corte’ – per mettere in discussione la giurisdizione della CPI e lo status della Palestina come Paese.

Bensouda ha sostenuto che “la procuratrice è convinta che vi sia una ragionevole base per avviare un’indagine sulla situazione in Palestina in base all’articolo 53 (1) dello Statuto di Roma e che l’ambito della giurisdizione territoriale della Corte comprenda la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, e Gaza (“Territori Palestinesi Occupati”).”

Tuttavia Bensouda non ha previsto scadenze definitive per l’indagine; ha invece richiesto che la Camera Preliminare della CPI “confermi l’ambito della giurisdizione territoriale della Corte in Palestina”, un passaggio ulteriore di cui non c’era bisogno, dato che lo Stato di Palestina, firmatario dello Statuto di Roma, è quello che concretamente ha presentato il caso direttamente all’ufficio della procuratrice.

Il rapporto di aprile in particolare è stato una sveglia per Tel Aviv. Tra la decisione iniziale di dicembre e la pubblicazione del suddetto rapporto, Israele ha esercitato pressioni su vari fronti, garantendosi l’aiuto di membri della CPI e arruolando il suo principale benefattore, Washington – che non è membro della CPI – perché intimidisse la Corte per farle revocare la sua decisione.

Il 15 maggio il Segretario di Stato USA, Mike Pompeo, ha diffidato la CPI dal proseguire l’indagine, prendendo di mira in particolare Bensouda per la sua decisione di ritenere responsabili i criminali di guerra in Palestina.

L’11 giugno gli USA hanno colpito con sanzioni senza precedenti la CPI e il presidente Donald Trump ha emesso un “ordine esecutivo” che autorizza il congelamento dei beni e un divieto di viaggio nei confronti di funzionari della CPI e delle loro famiglie. Inoltre l’ordine consente di punire altri individui o enti che assistano la CPI nella sua indagine.

La decisione di Washington di procedere con misure punitive proprio contro la Corte, che è stata creata con l’unico scopo di rendere responsabili i criminali di guerra, è sia oltraggiosa che odiosa. Inoltre mette in luce l’ipocrisia dell’America – il Paese che sostiene di difendere i diritti umani sta cercando di impedire l’attribuzione della responsabilità legale a coloro che hanno violato i diritti umani.

Dopo aver fallito nel bloccare le procedure legali della CPI relative all’indagine sui crimini di guerra, Israele ha iniziato a prepararsi al peggio. Il 15 luglio il quotidiano israeliano Haaretz ha riferito di una ‘lista segreta’ stilata dal governo israeliano. Essa include “da 200 a 300 importanti personalità pubbliche”, che spaziano da politici a funzionari dell’esercito e dei servizi segreti passibili di arresto all’estero se la CPI avviasse ufficialmente l’indagine sui crimini di guerra.

I nomi iniziano dal vertice della piramide politica israeliana, tra cui il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ed il suo attuale partner di coalizione, Benny Gantz.

Il numero stesso dei dirigenti israeliani presenti sulla lista è indicativo dell’obbiettivo dell’indagine della CPI e, in qualche modo, è un’autoaccusa, in quanto include ex Ministri israeliani della Difesa – Moshe Ya’alon, Avigdor Lieberman e Naftali Bennett; capi ed ex capi di stato maggiore dell’esercito – Aviv Kochavi, Benny Gantz e Gadi Eisenkot, e del servizio di sicurezza interno, lo Shin Bet – Nadav Argaman e Yoram Cohen.

Autorevoli organizzazioni internazionali dei diritti umani hanno già ripetutamente accusato tutti questi individui di gravi violazioni dei diritti umani nel corso delle letali guerre di Israele nella Striscia di Gaza sotto assedio, a partire dalla cosiddetta ‘Operazione Piombo Fuso’ del 2008-2009.

Ma l’elenco è molto più lungo e riguarda “persone in posizioni molto inferiori, compresi ufficiali dell’esercito di grado inferiore e forse anche dirigenti coinvolti nel rilascio di vari tipi di permessi per colonie e loro avamposti.”

Israele così si rende pienamente conto del fatto che la comunità internazionale sostiene ancora che la costruzione di colonie illegali nella Palestina occupata, la pulizia etnica dei palestinesi ed il trasferimento di cittadini israeliani in territori occupati sono tutte iniziative inammissibili in base al diritto internazionale e costituiscono crimini di guerra. Netanyahu deve essere deluso nel sapere che tutte le concessioni fatte da Washington a Israele sotto la presidenza Trump non sono riuscite a modificare in alcun modo la posizione della comunità internazionale e l’applicabilità del diritto internazionale.

Inoltre non sarebbe esagerato sostenere che il rinvio da parte di Tel Aviv del suo piano di annettere illegalmente circa un terzo della Cisgiordania sia direttamente collegato all’indagine della CPI, in quanto l’annessione avrebbe completamente annullato gli sforzi degli amici di Israele tesi ad impedire che l’indagine venga anche solo iniziata.

Mentre il mondo intero, soprattutto i palestinesi, gli arabi ed i loro alleati, attendono ancora con ansia la decisione finale della Camera Preliminare, Israele continuerà la sua campagna, palese e occulta, per intimidire la CPI ed ogni altra istituzione che intenda far luce sui suoi crimini di guerra e processare i criminali di guerra israeliani.

Anche Washington continuerà a cercare di rassicurare Netanyahu, Gantz e gli altri “200 o 300” dirigenti israeliani che non compariranno mai di fronte alla Corte.

Tuttavia il fatto che esista una “lista segreta” è un segnale che Tel Aviv comprende che ora le cose sono cambiate e che il diritto internazionale, che ha abbandonato i palestinesi per oltre 70 anni, potrebbe, per una volta, rendere almeno un minimo di giustizia.

Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo saggio è “Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane” (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), Istanbul Zaim University (IZU).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Relatore ONU denuncia violazioni israeliane

Il relatore speciale dell’ONU: la situazione dei diritti umani in Palestina continua ad essere terribile

Palestine Chronicle, Wafa, Media sociali

 

16 luglio 2020 – Palestine Chronicle

 

Mercoledì [15 luglio] il relatore speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, Michael Lynk, ha reso pubblico il suo rapporto annuale, in cui affronta le illegali politiche israeliane di punizione collettiva nei confronti del popolo palestinese.

Evidenziando il ricorso sulle punizioni collettive da parte di Israele come uno “strumento fondamentale nella sua cassetta degli attrezzi coercitiva per il controllo della popolazione,” Lynk chiede ad Israele di “porre fine ad ogni misura che rappresenti una punizione collettiva.”

Il rapporto evidenzia le politiche e le prassi israeliane che costituiscono una punizione collettiva illegale, compreso il blocco durato 13 anni della Striscia di Gaza, le demolizioni punitive di case, il fatto di non consegnare corpi [di palestinesi uccisi, ndtr.] e le limitazioni alla libertà di movimento.

Nel suo rapporto Lynk presenta una lista di raccomandazioni, chiedendo a Israele di rispettare le leggi internazionali e l’opinione maggioritaria a livello internazionale, mettendo totalmente e rapidamente fine alla sua occupazione durata 53 anni del territorio palestinese.

Chiede anche al governo israeliano di interrompere ogni misura che rappresenti una punizione collettiva.

Mentre il rapporto è principalmente centrato sulla questione delle punizioni collettive, esso affronta anche “un certo numero di altri problemi, compresi la continua espansione delle colonie israeliane; l’incremento della violenza dei coloni; la detenzione di palestinesi; l’uso di prodotti delle colonie; la prevista annessione di parti della Cisgiordania palestinese da parte di Israele e il suo potenziale impatto; la situazione dei difensori dei diritti umani e l’impatto della pandemia di COVID-19.”

Shahd Qaddoura, consulente per le ricerche giuridiche e la difesa di Al-Haq [ong palestinese per i diritti umani, ndtr.], ha accolto positivamente il rapporto, affermando:

“Il rapporto del professor Lynk prende in esame una delle più consuete politiche israeliane di imposizione delle misure di punizione collettiva come strumento di repressione, controllo e dominazione contro il popolo palestinese per conservare il suo regime colonialista di insediamento e di apartheid. Mentre i palestinesi continuano a soffrire per l’assenza di giustizia e dell’obbligo di rispondere a livello internazionale, anche davanti alla Corte Penale Internazionale, Israele continua a beneficiare di una cultura dell’impunità creata illegalmente.”

 

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)