Quello che c’è da sapere sull’indagine della Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra israeliani nella Palestina occupata

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

12 maggio 20202 – Palestine Chronicle

Fatou Bensouda, procuratrice capo della Corte Penale Internazionale (CPI), ha definitivamente risolto i dubbi sulla giurisdizione della Corte per indagare sui crimini di guerra commessi nella Palestina occupata.

Il 30 aprile Bensouda ha diffuso un documento di 60 pagine che stabilisce diligentemente le basi giuridiche per tale decisione, concludendo che “la Procura ha esaminato attentamente le osservazioni delle parti e rimane dell’opinione che la Corte abbia giurisdizione sul Territorio palestinese occupato”.

La spiegazione legale di Bensouda era di per sé una decisione preventiva, risalente al dicembre 2019, in quanto la procuratrice della CPI ha anticipato una reazione coordinata da Israele contro le indagini sui crimini di guerra commessi nei territori occupati.

Dopo anni di trattative, nel dicembre 2019 la CPI aveva deciso che “ai sensi dell’articolo 53 paragrafo 1 dello statuto [di Roma, che ha istituito la Corte, ndtr.] esiste una base ragionevole per procedere a un’indagine sulla situazione in Palestina.”

L’articolo 53, paragrafo 1, descrive semplicemente le fasi procedurali che in genere conducono, o non conducono, a un’indagine della Corte.

Tale articolo è soddisfatto quando la quantità di prove fornite alla Corte è così convincente da non lasciare alla CPI nessun’altra opzione se non quella di procedere con un’indagine.

Infatti Bensouda aveva già dichiarato alla fine dell’anno scorso di aver “accertato il fatto che “primo, i crimini di guerra siano stati commessi o siano in corso in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza; secondo, i casi potenziali derivanti dalla situazione sarebbero ammissibili; terzo, non vi sono motivi sostanziali per ritenere che un’indagine non sia utile agli interessi della giustizia”.

Naturalmente, Israele e il suo principale alleato occidentale, gli Stati Uniti, si sono infuriati. Israele non è mai stato ritenuto responsabile dalla comunità internazionale per crimini di guerra e altre violazioni dei diritti umani in Palestina. La decisione della CPI, specialmente se l’indagine andasse avanti, sarebbe un precedente storico. Ma, cosa avrebbero dovuto fare Israele e gli Stati Uniti, dato che nessuno dei due è uno Stato aderente alla CPI, e non hanno quindi alcuna effettiva influenza sul procedimento interno del tribunale? Bisognava trovare una soluzione.

Per ironia della storia, la Germania, che ha dovuto rispondere a numerosi crimini di guerra commessi dal regime nazista durante la seconda guerra mondiale, è intervenuta per fungere da principale difensore di Israele presso la CPI e per proteggere i criminali di guerra israeliani accusati della responsabilità legale e morale.

Il 14 febbraio la Germania ha presentato un ricorso alla CPI chiedendo che le fosse assegnato il ruolo di “amicus curiae”, che significa “amico della corte”. Ottenendo questo status speciale, la Germania ha potuto presentare obiezioni a sostegno di Israele contro la precedente decisione della CPI.

La Germania, tra gli altri argomenti, ha poi sostenuto che la CPI non aveva alcuna autorità legale per discutere i crimini di guerra israeliani nei territori occupati. Questi sforzi, tuttavia, alla fine non hanno prodotto alcun risultato.

La questione è ora di competenza della camera pre-processuale della CPI.

La camera pre-processuale è composta da giudici che autorizzano l’apertura di indagini. Solitamente, una volta che il procuratore decide di prendere in considerazione un’indagine, deve informare la Camera pre-processuale della sua decisione.

Secondo lo Statuto di Roma, articolo 56, lettera b), “la Camera pre-processuale può, su richiesta del procuratore, adottare le misure necessarie per garantire l’efficacia e la correttezza dei procedimenti e, in particolare, la tutela dei diritti della difesa”.

Il fatto che il caso palestinese sia stato portato fino a questo punto può e deve essere considerato una vittoria per le vittime palestinesi dell’occupazione israeliana. Tuttavia, se l’indagine della CPI procederà secondo il mandato originario richiesto da Bensouda, rimarranno gravi lacune legali e morali che scoraggiano chi chiede giustizia per la Palestina.

Per esempio, i rappresentanti legali delle vittime palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza hanno espresso la propria preoccupazione, a nome delle vittime, in merito “alla portata apparentemente limitata dell’indagine sui crimini subiti dalle vittime palestinesi che si trovano in questa situazione.”

La “portata limitata dell’indagine” ha finora escluso crimini gravi come i crimini contro l’umanità. Secondo l’equipe giuridica che si occupa di Gaza, l’uccisione di centinaia e il ferimento di migliaia di manifestanti disarmati che partecipano alla “Grande marcia del ritorno” è un crimine contro l’umanità che deve essere indagato.

La giurisdizione della CPI, naturalmente, va oltre la decisione di Bensouda di indagare solo i “crimini di guerra”.

L’articolo 5 dello Statuto di Roma, il documento istitutivo della CPI, estende la giurisdizione della Corte per indagare sui seguenti “reati gravi”: (a) crimine di genocidio; (b) crimini contro l’umanità; (c) crimini di guerra; (d) crimine di aggressione.

Non dovrebbe sorprendere che Israele sia indagato su tutti e quattro i punti e che la natura dei crimini israeliani contro i palestinesi tenda spesso a costituire un insieme di due o più di questi punti contemporaneamente.

L’ex relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani dei palestinesi (2008-2014), il prof. Richard Falk, ha scritto nel 2009, subito dopo una micidiale guerra israeliana contro la Striscia di Gaza assediata, che:

Israele ha avviato la campagna di Gaza senza un’adeguata base legale o una giusta causa, ed è stato responsabile della stragrande maggioranza delle devastazioni e della sofferenza dei civili nel suo complesso. Il fatto che Israele si sia basato su un approccio militare per sconfiggere o punire Gaza è stato intrinsecamente ‘criminale’ e come tale ha dimostrato sia violazioni della legge di guerra che la perpetrazione di crimini contro l’umanità”.

Oltre ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità, Falk estese la sua argomentazione legale a una terza categoria. “C’è un altro elemento che rafforza l’accusa di aggressione. La popolazione di Gaza era stata sottoposta a un blocco punitivo per 18 mesi quando Israele ha lanciato i suoi attacchi”.

Che dire del crimine di apartheid? Rientra, ovunque sia commesso, nelle precedenti definizioni e nelle prerogative giurisdizionali della CPI?

La Convenzione internazionale del novembre 1973 sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid lo definisce come “un crimine contro l’umanità, e gli atti disumani derivanti dalle politiche e pratiche di apartheid e politiche e pratiche analoghe in materia di segregazione razziale e discriminazione, come definite nell’articolo 2 della Convenzione, sono reati che violano i principi del diritto internazionale, in particolare gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite, e costituisce una grave minaccia per la pace e la sicurezza internazionale”.

La Convenzione è entrata in vigore nel luglio 1976, quando è stata ratificata da venti Paesi. Per lo più potenze occidentali, tra cui gli Stati Uniti e Israele, vi si opposero. Particolarmente importante riguardo alla definizione di apartheid, come enunciato nella Convenzione, è che il crimine di apartheid è stato svincolato dal contesto specifico sudafricano e reso applicabile a politiche razziali discriminatorie in qualsiasi Stato.

Nel giugno 1977 il Protocollo 1 aggiunto alle Convenzioni di Ginevra dichiarò l’apartheid “una grave violazione del Protocollo e un crimine di guerra”.

Ne consegue che esistono basi giuridiche per sostenere che il crimine di apartheid può essere considerato sia un crimine contro l’umanità che un crimine di guerra.

L’ex relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani dei palestinesi (2000-2006), il prof. John Dugard, lo ha affermato subito dopo l’adesione della Palestina alla CPI nel 2015:

Per sette anni, ho visitato il territorio palestinese due volte all’anno. Ho anche condotto una missione conoscitiva dopo l’operazione “Piombo Fuso” a Gaza nel 2008-09. Quindi ho familiarità con la situazione e con l’apartheid. Ero un avvocato per i diritti umani nel Sudafrica dell’apartheid. E io, come praticamente ogni sudafricano che visiti il territorio occupato, ho una terribile sensazione di déjà vu. Abbiamo già visto tutto questo, a parte il fatto che è infinitamente peggiore. Quello che è successo in Cisgiordania è che la creazione di un’impresa di colonizzazione si è tradotta in una situazione molto simile a quella dell’apartheid, in cui i coloni sono l’equivalente dei bianchi sudafricani. Godono di diritti superiori ai palestinesi, e li opprimono. Quindi si ha un sistema di apartheid nel territorio palestinese occupato. E potrei dire che l’apartheid è anch’esso un crimine di competenza del Tribunale Penale Internazionale”.

Considerando il numero di risoluzioni ONU che Israele ha violato nel corso degli anni, l’occupazione perpetua della Palestina, l’assedio di Gaza e l’elaborato sistema di apartheid imposto ai palestinesi attraverso un grande insieme di leggi razziste, (culminato nella cosiddetta legge dello Stato-Nazione del luglio 2018) dichiarare Israele colpevole di crimini di guerra, tra cui “crimini gravi”, dovrebbe essere una questione scontata.

Ma la CPI non è esclusivamente una piattaforma legale. È anche un’istituzione politica che è soggetta agli interessi e ai capricci dei suoi membri. L’intervento della Germania, a nome di Israele, per dissuadere la CPI dall’indagare i crimini di guerra di Tel Aviv è un esempio emblematico.

Il tempo dirà fino a che punto la CPI è disposta a spingersi nel suo tentativo storico e senza precedenti, volto finalmente a indagare sui numerosi crimini che sono stati commessi in Palestina senza ostacoli, senza conseguenze e senza senza doverne rispondere.

Per il popolo palestinese, la giustizia a lungo negata non arriverà mai troppo presto.

Ramzy Baroud è giornalista ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è “Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane” (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), Istanbul Zaim University (IZU).

Romana Rubeo è una giornalista italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito un Master in Lingue e letterature straniere ed è specializzata nella traduzione audiovisiva e giornalistica.

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org




Euro-Med: l’acquisto da parte dell’UE di droni israeliani favorisce la violazione dei diritti umani nella Palestina occupata

Palestine Chronicle, WAFA [Agenziadi Stampa Palestinese], Social Media

5 maggio 2020 – Palestine Chronicle

LEuro-Mediterranean Human Rights Monitor [Monitoraggio Euromediterraneo dei Diritti Umani, organizzazione non governativa, ndtr.] (Euro-Med) con sede a Ginevra ha affermato oggi in un comunicato che i contratti per 59 milioni di euro stipulati dall’Unione Europea con industrie belliche israeliane per la fornitura di droni da guerra per la sorveglianza dei richiedenti asilo in mare sono immorali, di dubbia legittimità giuridica e favoriscono le violazioni di diritti umani nella Palestina occupata.

Secondo quanto riportato, i 59 milioni di euro dei recenti contratti dell’UE per i droni sono andati a due industrie belliche israeliane: Elbit Systems e Israel Aerospace Industries, IAI. L’Hermes 900 di Elbit è stato sperimentato sulla popolazione della Striscia di Gaza assediata nella guerra israeliana del 2014 contro Gaza, l’operazione Margine Protettivo.

Euro-Med ha affermato in una nota come questo investimento dimostri che l’UE sta investendo in attrezzature israeliane il cui “pregio” è stato dimostrato nel corso dell’oppressione del popolo palestinese e dell’occupazione del suo territorio. E ha aggiunto che questo acquisto di droni va visto precisamente come supporto e incentivo all’uso sperimentale di tecnologia militare da parte del regime repressivo israeliano.

“È scandaloso che l’UE acquisti droni dai produttori israeliani considerando i modi repressivi e illegali con cui sono stati usati nell’oppressione dei palestinesi, che vivono sotto occupazione da più di cinquant’anni”, ha affermato il prof. Richard Falk [ebreo americano, professore emerito di diritto internazionale a Princeton, ndtr.], presidente del consiglio di amministrazione di Euro-Med.

“È anche inaccettabile e disumano che l’UE utilizzi dei droni, indipendentemente da come se li è procurati, per violare i diritti fondamentali dei migranti che rischiano la vita in mare per cercare asilo in Europa”, ha aggiunto il prof. Falk.

L’UE dovrebbe scoraggiare le violazioni dei diritti umani a danno dei palestinesi astenendosi dall’acquistare materiale bellico israeliano utilizzato nei territori palestinesi occupati, ha affermato Euro-Med.

“Israele, Paese super-esperto nella manipolazione del termine ‘sicurezza’, è sul punto di beneficiare grandemente dai relativi sviluppi. Sta già sfruttando abilmente la mentalità europea ossessionata dalla sicurezza per ampliare il suo spazio nel mercato delle armi”, hanno scritto Ramzy Baroud e Romana Rubeo in un recente articolo.

“Israele è il settimo esportatore di armi al mondo e sta emergendo come leader nell’esportazione globale di droni aerei”, hanno aggiunto Baroud e Rubeo.

“Il marchio israeliano è particolarmente popolare perché la sua tecnologia è ‘sperimentata in combattimento’. In effetti, l’esercito israeliano ha avuto ampie opportunità di testare le sue diverse armi e dispositivi di sicurezza contro i civili palestinesi “.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Nella giornata internazionale della donna 43 donne palestinesi languono nelle carceri israeliane

8 marzo 2020 Palestine Chronicle

Secondo una dichiarazione rilasciata dall’Associazione per i Prigionieri Palestinesi (PPC) per rimarcare la Giornata Internazionale della Donna, attualmente 43 donne palestinesi languono nelle carceri israeliane.

Shorouq Dwayyat, di Gerusalemme est, e Shatila Abu Ayyad, del villaggio arabo di Kafr Qassim, che si trova all’interno di Israele, sono state condannate alla pena più lunga tra le donne prigioniere: entrambe scontano 16 anni di carcere.

Tra le prigioniere ci sono 16 madri. Una di loro è Israa Jaabis, di 34 anni, arrestata ad ottobre 2015 dopo che una bombola di gas difettosa all’interno della sua macchina è scoppiata a 500 metri da un checkpoint israeliano nella Cisgiordania occupata.

Jaabis è rimasta gravemente ferita nello scoppio, con il 65% del corpo ustionato. Le forze di occupazione israeliane accusano la donna, che ha un figlio di dieci anni, di attentato ai danni di soldati israeliani ad un checkpoint vicino al luogo dell’esplosione.

Quattro donne prigioniere sono in detenzione amministrativa [detenzione senza capi d’accusa e senza processo, di sei mesi rinnovabili indefinitamente, illegale per il diritto internazionale, ndtr.], compresa la femminista, avvocata e deputata palestinese Khalida Jarrar, che è stata riarrestata lo scorso ottobre, solo pochi mesi dopo il suo rilascio.

La donna prigioniera da più tempo in carcere è Amal Taqatqa di Betlemme. È stata arrestata il 1 dicembre 2014 e sta scontando una pena di 7 anni.

Nella sua dichiarazione, il PCC ha affermato che dal 1967 Israele ha arrestato 16.000 donne palestinesi, aggiungendo che spesso esse sono sottoposte a torture.

“La lotta dei prigionieri palestinesi simbolizza la lotta di tutti i palestinesi”, ha scritto il giornalista e redattore di ‘Palestine Chronicle’ Ramzy Baroud.

“La loro carcerazione è una cruda rappresentazione della reclusione collettiva del popolo palestinese – di coloro che vivono sotto occupazione e apartheid in Cisgiordania e di coloro che si trovano sotto occupazione e assedio a Gaza”, ha aggiunto Baroud.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Un gasdotto o solo una fantasticheria: nel Mediterraneo sta crescendo un conflitto per gli idrocarburi tra Israele e Turchia

Ramzy Baroud

30 gennaio 2020 – Palestine Chronicle

È prevedibile che la scoperta di grandi quantità di gas naturale al largo delle coste orientali di Israele e Palestina rendano Tel Aviv uno snodo regionale per le fonti energetiche. Ma resta ancora da vedere se Israele sarà in grado di trasformare il segno positivo di riserve di gas ampiamente non sfruttate in effettivo benessere economico e strategico.

Tuttavia ciò che è certo è che il Medio Oriente si trova già in mezzo a una grande guerra geostrategica, che potrebbe diventare un vero scontro militare. Non sorprende che Israele sia al centro di questo crescente conflitto.

La scorsa settimana abbiamo iniziato a inviare gas all’Egitto. Abbiamo trasformato Israele in una superpotenza energetica,” si è vantato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante una riunione del governo il 19 gennaio.

Le osservazioni autoelogiative di Netanyahu sono arrivate in seguito a qualche notizia economica esaltante per il primo ministro sotto attacco, visto che sia Giordania che Egitto sono ora clienti di Tel Aviv e ricevono miliardi di m3 di gas israeliano.

Per Netanyahu pompare gas israeliano in due Paesi arabi vicini costituisce più di un semplice beneficio economico e politico: è un enorme vanto personale. Il leader israeliano sta cercando di convincere l’opinione pubblica a votarlo nelle ennesime elezioni politiche di marzo, chiedendo al contempo all’élite politica israeliana di concedergli l’immunità in modo che possa rimanere fuori di prigione per le varie accuse di corruzione.

Per anni Israele ha sfruttato la scoperta di grandi riserve di gas naturale dei campi Leviathan e Tamar, che si trovano rispettivamente a circa 125 e 80 km a ovest di Haifa, per ricostruire alleanze regionali e ridefinire la sua importanza geopolitica per l’Europa.

La strategia israeliana tuttavia ha già creato potenziali conflitti in una regione già instabile, allargando i giochi di potere e includendovi Cipro, Grecia, Francia, Italia e Libia, così come Egitto, Turchia, Libano e Russia.

Il 2 gennaio Netanyahu è stato ad Atene a firmare un accordo per un gasdotto insieme al primo ministro greco Kyriako Mitotakis e al presidente cipriota Nicos Anastasiades. Il gasodotto EastMed è stato progettato per andare da Israele a Cipro, in Grecia e alla fine in Italia, trasportando quindi il gas del Mediterraneo orientale direttamente nel cuore dell’Europa.

Pochi anni fa questo scenario sembrava impensabile, in quanto Israele di fatto importava gran parte del suo gas naturale dal vicino Egitto.

Quando ha iniziato a produrre nel 2003, il campo israeliano di Tamar ha in parte risolto la dipendenza di Israele dal gas importato. Poco dopo Israele ha scoperto altro gas, questa volta con un potenziale maggiore, nell’enorme campo Leviathan. Il 31 dicembre 2019 Leviathan ha iniziato a pompare gas per la prima volta.

Leviathan si trova nel Bacino Levantino del mar Mediterraneo, una regione ricca di idrocarburi.

Si stima che Leviathan contenga oltre 21 trilioni di m3 di gas naturale, sufficienti a soddisfare le necessità energetiche israeliane per i prossimi 40 anni, oltre a una notevole quantità per l’esportazione,” ha scritto Frank Musmar nel Centro BESA per gli Studi Strategici [centro di ricerca conservatore israeliano Begin-Sadat, ndtr.].

La quota egiziana di gas israeliano – 85 miliardi di m3, con un valore stimato di 19,5 miliardi di dollari – è acquistato con l’intermediazione dell’ente privato egiziano Dolphinus Holdings. L’accordo con la Giordania è stato firmato tra la compagnia elettrica nazionale del Paese, NEPCO, e un’impresa americana, Noble Energy, che possiede una partecipazione del 45% nel progetto israeliano.

I giordani hanno protestato in massa contro l’accordo per il gas con Israele, in quanto vedono la cooperazione economica tra il loro Paese e Israele come un atto di normalizzazione, soprattutto in quanto Tel Aviv continua a occupare e opprimere i palestinesi.

L’eco delle proteste popolari ha raggiunto il parlamento giordano, che il 19 gennaio ha votato all’unanimità a favore di una legge che vieti importazioni di gas da Israele. Israele si sta diversificando, oltre l’esercizio di un predominio economico regionale per diventare un grande attore anche a livello geopolitico internazionale. Il progetto di gasdotto EastMed, stimato in 6 miliardi di euro, dovrebbe coprire il 10% del fabbisogno europeo di gas naturale. È qui che le cose diventano ancora più interessanti.

La Turchia ritiene che l’accordo, che coinvolge i suoi rivali regionali, Cipro e la Grecia, sia concepito specificamente per marginalizzarla economicamente, escludendola dal boom degli idrocarburi del Mediterraneo.

Ankara è già un enorme centro di snodo di idrocarburi, in quanto ospita il TurkStream, che rifornisce l’Europa, il cui fabbisogno di gas naturale proviene per il 40% dalla Russia. Ciò ha fornito sia a Mosca che ad Ankara non solo vantaggi economici, ma anche influenza geostrategica. Se il gasdotto EastMed si concretizza, Turchia e Russia saranno le potenze più danneggiate.

Con una serie di iniziative successive e sorprendenti, la Turchia ha risposto firmando un accordo sui confini marittimi con il governo di accordo nazionale della Libia (GAN) riconosciuto a livello internazionale, impegnandosi a mandare appoggio militare per aiutare Tripoli nella sua lotta contro le forze leali al generale Khalifa Haftar.

La Turchia non permetterà nessuna attività contraria ai suoi interessi nella regione,” ha detto all’agenzia di stampa Anadolu il vicepresidente Fuat Aktay, aggiungendo che “qualunque piano che ignori la Turchia non ha assolutamente alcuna possibilità di successo.”

Benché i Paesi europei abbiano prontamente condannato Ankara, quest’ultima è riuscita a cambiare le regole del gioco avanzando pretese su vaste aree rivendicate anche dalla Grecia e da Cipro come parte delle loro cosiddette zone economiche esclusive (ZEE).

Non solo la Turchia farà perforazioni di gas naturale nelle acque territoriali libiche, ma anche in acque contese nei pressi di Cipro. Ankara accusa Cipro di violare “pari diritti sulle scoperte”, un accordo seguito al conflitto militare tra i due Paesi nel 1974.

Se la questione non verrà risolta il progetto del gasdotto EastMed potrebbe trasformarsi in una fantasticheria. Quello che sembrava un accordo molto conveniente, con un’enorme importanza geopolitica dal punto di vista di Israele, ora pare essere un’ulteriore estensione del più generale conflitto mediorientale.

Mentre l’UE è ansiosa di allentare il controllo strategico della Russia sul mercato del gas naturale, il gasdotto EastMed appare sempre più irrealizzabile, da ogni punto di vista.

Tuttavia, considerando gli enormi giacimenti di gas naturale che già riforniscono i mercati europei in difficoltà, è praticamente sicuro che il gas naturale del Mediterraneo diventerà probabilmente una delle maggiori cause di conflitto politico, se non di guerra.

Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libr, di cui l’ultimo è These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons [Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane], (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’“accordo del secolo” di Trump non porterà la pace, e quello era previsto

Jonathan Cook

29 gennaio 2020 – Palestine Chronicle

Buona parte dell’“accordo del secolo” di Trump a lungo rinviato non è stata una sorpresa. Nel corso degli ultimi 18 mesi fonti ufficiali israeliane hanno fatto filtrare molti dei suoi dettagli..

La cosiddetta “visione per la pace” svelata martedì ha semplicemente confermato che il governo USA ha pubblicamente adottato ciò che da molto tempo è accettato da tutti in Israele: che quest’ultimo ha il diritto di tenersi per sempre le aree di territorio che ha illegalmente sottratto nel corso degli ultimi 50 anni negando ai palestinesi una qualunque speranza di avere uno Stato.

La Casa Bianca ha scartato la tradizionale posizione USA come “mediatore neutrale” tra Israele e i palestinesi. I dirigenti palestinesi non sono stati invitati alla cerimonia e non ci sarebbero andati se lo fossero stati. Questo è un accordo concepito più a Tel Aviv che a Washington – e il suo obiettivo era di garantire che non ci sarebbe stata nessuna controparte palestinese.

Cosa più importante per Israele, esso avrà il permesso di Washington per annettersi tutte le colonie illegali, ora disseminate in tutta la Cisgiordania, così come la vasta area agricola della Valle del Giordano. Israele continuerà ad avere il controllo militare su tutta la Cisgiordania. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato la sua intenzione di portare il prima possibile davanti al suo governo un simile piano di annessione. Ciò rappresenterà senza dubbio l’asse centrale del suo tentativo di vincere le elezioni politiche molto incerte previste per il 2 marzo.

L’accordo di Trump approva anche la già esistente annessione di Gerusalemme est a Israele. Prevede che i palestinesi facciano finta che la loro capitale sia un villaggio della Cisgiordania fuori città, chiamando “Al Quds” [Gerusalemme in arabo, ndtr.] la loro capitale. Ci sono indicazioni con effetti fortemente provocatori che ad Israele sarà consentito di dividere il complesso della moschea di Al Aqsa per creare una zona di preghiera per ebrei estremisti, come è avvenuto ad Hebron.

Oltretutto sembra che l’amministrazione Trump stia prendendo in considerazione l’approvazione delle speranze di lunga data della destra israeliana di ridefinire gli attuali confini in modo tale da trasferire potenzialmente in Cisgiordania centinaia di migliaia di palestinesi che attualmente sono cittadini di Israele. Ciò rappresenterebbe quasi sicuramente un crimine di guerra.

Il piano non prevede nessun diritto al ritorno e sembra che il mondo arabo dovrebbe pagare il conto per indennizzare milioni di rifugiati palestinesi.

Una mappa USA distribuita martedì mostra enclave palestinesi collegate da un labirinto di ponti e tunnel, compreso uno tra la Cisgiordania e Gaza. L’unico incentivo concesso ai palestinesi sono le promesse USA di rafforzare la loro economia. Date le difficili condizioni finanziarie dei palestinesi dopo decenni di furto di risorse da parte di Israele, questa non è molto più di una promessa.

Tutto ciò è stato mascherato da “realistica soluzione dei due Stati”, che offre ai palestinesi circa il 70% dei territori occupati, che a loro volta rappresentano il 22% della loro patria originaria. Detto in altro modo, ai palestinesi viene richiesto di accettare uno Stato sul 15% della Palestina storica, dopo che Israele si è impossessato di tutte le migliori terre agricole e risorse idriche.

Come tutti gli accordi prendere o lasciare, questo “Stato” rappezzato, senza un esercito e in cui Israele controllerebbe la sicurezza, i confini, le acque territoriali e lo spazio aereo, ha una scadenza. Deve essere accettato entro quattro anni. In caso contrario Israele avrà la mano libera per iniziare a depredare ancora più territorio. Ma la verità è che né Israele né gli USA si aspettano o vogliono che i palestinesi collaborino.

Per questo il piano include, oltre all’annessione delle colonie, una miriade di precondizioni irrealizzabili prima che ciò che rimane della Palestina venga riconosciuto: le fazioni palestinesi devono deporre le armi, ed Hamas si deve sciogliere; l’Autorità Nazionale Palestinese, guidata da Mahmoud Abbas, deve elimnare i sussidi alle famiglie dei prigionieri politici; i territori palestinesi devono essere reinventati come una Svizzera del Medio Oriente, una fiorente democrazia e una società aperta, tutto ciò sotto il dominio israeliano.

Al contrario il piano Trump pone fine alla farsa per cui il processo di Oslo, durato 26 anni, ha avuto come obiettivo nient’altro che la resa dei palestinesi. Gli Usa si allineano totalmente con i tentativi di Israele, perseguiti per molti decenni da tutti i suoi principali partiti, di porre le basi per un’apartheid permanente nei territori occupati.

Trump ha invitato per la presentazione sia Netanyahu, il primo ministro israeliano ad interim, che il suo principale avversario politico, l’ex-generale Benny Gantz. Entrambi erano ansiosi di esprimere il proprio appoggio incondizionato.

Tutti e due insieme rappresentano i 4/5 del parlamento israeliano. Il principale campo di scontro delle elezioni di marzo sarà chi dei due potrà sostenere di essere più in grado di mettere in atto il piano e quindi sferrare un colpo mortale ai sogni palestinesi di avere uno Stato.

Nella destra israeliana ci sono state manifestazioni di dissenso. Gruppi di coloni hanno descritto il piano come “lungi dall’essere perfetto”, un’opinione quasi sicuramente condivisa in privato da Netanyahu. L’estrema destra israeliana è contraria a qualunque discorso riguardo alla costituzione di uno Stato palestinese, per quanto illusorio.

Ciononostante Netanyahu e la sua coalizione di destra sarà ben contenta di cogliere i benefici offerti dall’amministrazione Trump. Nel contempo l’inevitabile rifiuto del piano da parte della dirigenza palestinese servirà d’ora in avanti come giustificazione per il furto da parte di Israele di altra terra. Ci sono altri, più immediati vantaggi dell’“accordo del secolo”.

Consentendo a Israele di raccogliere illeciti vantaggi dalla conquista nel 1967 dei territori palestinesi, Washington ha ufficialmente appoggiato una delle più grandi aggressioni coloniali dell’epoca contemporanea. L’amministrazione USA ha di conseguenza dichiarato una guerra aperta ai già deboli limiti imposti dalle leggi internazionali.

Anche Trump ne beneficia di persona. Ciò fornirà un diversivo dalle udienze per il suo impeachment così come una consistente offerta per corrompere, durante la corsa alle elezioni presidenziali, la sua base evangelica ossessionata da Israele e importanti finanziatori, come il magnate USA dei casinò Sheldon Adelson.

E il presidente USA è corso in aiuto a un utile alleato politico. Netanyahu spera che questo sostegno da parte della Casa Bianca possa promuovere la sua coalizione ultra-nazionalista al potere in marzo e intimidire i tribunali israeliani quando prenderanno in considerazione le accuse penali contro di lui.

Martedì è risultato evidente quanto egli preveda di ricavare un vantaggio personale dal piano di Trump. Ha rimproverato la procura generale di Israele per aver presentato le accuse di corruzione, sostenendo che è stato messo a repentaglio un “momento storico” per lo Stato di Israele.

Nel contempo Abbas ha accolto il piano con “un migliaio di no”. Trump lo ha messo totalmente in pericolo. O l’ANP abbandona il suo ruolo di subappaltante della sicurezza a favore di Israele e si scioglie, o continua come prima ma privato ora esplicitamente dell’illusione che si possa perseguire la sua trasformazione in uno Stato.

Abbas cercherà di resistere con le unghie e con i denti, sperando che Trump in questo anno di elezioni venga spodestato e che una nuova amministrazione USA ritorni alla finzione di far avanzare il processo di pace di Oslo ormai da molto tempo arrivato a scadenza. Ma se Trump vince le difficoltà aumenteranno rapidamente.

Nessuno, ancora meno l’amministrazione Trump, crede che questo piano porterà alla pace. Una preoccupazione più realistica è con quale rapidità preparerà la strada per uno spargimento di sangue ancora più grande.

– Jonathan Cook ha vinto il premio speciale di giornalismo “Martha Gellhorn”. Tra i suoi libri “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridisegnare il Medio Oriente] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [Palestina che sparisce: gli esperimenti israeliani sulla disperazione umana] (Zed Books). Ha contribuito con questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Isolate e dimenticate: cosa bisogna sapere sulle “zone di tiro” di Israele in Cisgiordania

 Ramzy Baroud

14 gennaio 2020  palestinechronicle

Una notizia apparentemente ordinaria, pubblicata sul giornale israeliano Haaretz il 7 gennaio, ha fatto luce su un argomento da tempo dimenticato ma cruciale: le cosiddette “zone di tiro” di Israele in Cisgiordania.

Secondo Haaretz “Israele ha sequestrato l’unico veicolo disponibile di una equipe medica che fornisce assistenza a 1.500 palestinesi residenti all’interno di una zona di tiro militare israeliana in Cisgiordania”.

La comunità palestinese a cui è stato negato l’unico servizio medico disponibile è Masafer Yatta, un piccolo villaggio palestinese sulle colline a sud di Hebron.

Masafer Yatta, in completo e assoluto isolamento dal resto della Cisgiordania occupata, si trova nell’”Area C”, la più grande zona territoriale, circa il 60%, della Cisgiordania. Ciò significa che il villaggio, insieme a molte città, villaggi e piccole comunità isolate palestinesi, è sotto il totale controllo militare israeliano.

Non fatevi ingannare dalla fumosa logica degli Accordi di Oslo; tutti i palestinesi, in tutte le zone della Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza assediata, sono sotto il controllo militare israeliano.

Tuttavia, sfortunatamente per Masafer Yatta e per gli abitanti dell'”Area C”, il grado di controllo vi è così soffocante che ogni aspetto della vita palestinese – libertà di movimento, istruzione, accesso all’acqua potabile e così via – è controllato da un complesso sistema di ordinanze militari israeliane che non hanno alcun riguardo per il benessere delle comunità assediate.

Non sorprende quindi che l’unico veicolo di Masafer Yatta, il disperato tentativo di realizzare un ambulatorio mobile, sia stato già confiscato in passato, e recuperato solo dopo che gli abitanti impoveriti sono stati costretti a pagare una multa ai soldati israeliani.

Non esiste una logica militare al mondo che possa giustificare razionalmente il blocco dell’accesso alle cure mediche per una comunità isolata, specialmente quando una potenza occupante come Israele è legalmente obbligata, ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra, a garantire l’accesso all’assistenza medica ai civili che vivono in un territorio occupato.

È naturale che la comunità di Masafer Yatta, come tutti i palestinesi nell'”Area C” e nell’intera Cisgiordania, si senta trascurata – e apertamente tradita – dalla comunità internazionale e dalla propria leadership collaborazionista.

Ma c’è qualcosa di più che rende il villaggio di Masafer Yatta veramente unico, guadagnandogli la sfortunata definizione di bantustan [territori formalmente autogovernati dalla popolazione di colore nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.] all’interno di un bantustan, poiché sopravvive sottoposto ad un sistema di controllo molto più complesso rispetto a quello imposto al Sud Africa nero durante il regime dell’apartheid.

Poco dopo aver occupato la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza, Israele ideò uno stratagemma a lungo termine per mantenere il controllo sui territori appena occupati. Ha destinato alcune aree alla futura ricollocazione dei propri cittadini – che ora costituiscono la popolazione di coloni ebrei illegali ed estremisti in Cisgiordania – e si è anche riservato ampie parti dei territori occupati come zone di sicurezza e aree cuscinetto.

Ciò che è molto meno noto è che, durante gli anni ’70, l’esercito israeliano ha dichiarato circa il 18% della Cisgiordania “zona di tiro”.

Queste “zone di tiro” erano presumibilmente destinate ad essere campi di addestramento per i soldati dell’esercito israeliano di occupazione – sebbene i palestinesi intrappolati in quelle regioni riferiscano spesso che all’interno delle cosiddette “zone di tiro” non si svolge quasi alcun addestramento militare.

Secondo l’Ufficio di Coordinamento delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) in Palestina, ci sono ancora circa 5.000 palestinesi, divisi in 38 comunità, che vivono in circostanze veramente terribili all’interno delle cosiddette “zone di tiro”.

L’occupazione del 1967 portò a una massiccia ondata di pulizia etnica che vide l’espulsione forzata di circa 300.000 palestinesi dai territori appena conquistati. Fra le molte vulnerabili comunità ripulite etnicamente c’erano anche i beduini palestinesi, che continuano a pagare il prezzo dei progetti coloniali israeliani nella Valle del Giordano, nelle colline a sud di Hebron e in altre parti della Palestina occupata.

La loro vulnerabilità è aggravata dal fatto che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) agisce con poco riguardo per i palestinesi che vivono nell'”Area C”, lasciati da soli a sopportare e resistere alle pressioni israeliane, ricorrendo spesso all’ingiusto sistema giudiziario di Israele per riconquistare alcuni dei propri diritti fondamentali.

Gli Accordi di Oslo, firmati nel 1993 tra la leadership palestinese e il governo israeliano, dividevano la Cisgiordania in tre regioni: “Area A”, teoricamente sotto controllo palestinese autonomo e costituita dal 17,7% della dimensione complessiva della Cisgiordania; “Area B”, 21% e sotto il controllo condiviso di Israele-ANP; “Area C”, il resto della Cisgiordania sotto il totale controllo di Israele.

L’accordo avrebbe dovuto essere temporaneo, e terminare nel 1999 una volta conclusi i “negoziati sullo status finale” e firmato un accordo di pace complessivo. Invece, è diventato a priori lo status quo.

Per quanto sfortunati siano i palestinesi che vivono nell'”Area C”, quelli che vivono nella “zona di tiro” all’interno dell'”Area C” affrontano difficoltà ancora maggiori. Secondo le Nazioni Unite, le loro traversie includono “la confisca delle proprietà, la violenza dei coloni, i maltrattamenti da parte dei soldati, le restrizioni di accesso e movimento e/o la scarsità d’acqua”.

Come ci si poteva aspettare, nel corso degli anni molti insediamenti ebraici illegali sono sorti in queste “zone di tiro”, un chiaro segno del fatto che queste aree non hanno mai avuto uno scopo militare, ma erano destinate a fornire una giustificazione legale a Israele per confiscare quasi un quinto della Cisgiordania per una futura espansione coloniale.

Nel corso degli anni, Israele ha messo in atto la pulizia etnica di tutti i palestinesi che rimanevano in queste “zone di tiro”, lasciandone solo 5.000, che probabilmente subiranno lo stesso destino se l’occupazione israeliana dovesse continuare lungo la stessa direttrice di violenza.

Questo rende la storia di Masafer Yatta un microcosmo della più ampia e tragica storia di tutti i palestinesi. È anche un riflesso della maligna natura del colonialismo israeliano e dell’occupazione militare, per cui i palestinesi sotto occupazione perdono la loro terra, la loro acqua, la loro libertà di movimento e, infine, persino le cure mediche di base.

Secondo le Nazioni Unite, queste dure “condizioni creano un ambiente coercitivo che fa pressione sulle comunità palestinesi affinché abbandonino quelle aree”. In altre parole, pulizia etnica, da sempre l’obiettivo strategico di Israele.

Ramzy Baroud è giornalista ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons [Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane], (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il “Grande Gioco” è in corso: l’uccisione di Suleimani riflette la disperazione degli USA in Medio Oriente

Ramzy Baroud & Romana Rubeo

6 gennaio 2020 – Palestine Chronicle

Con l’uccisione del comandante in capo iraniano Qasem Suleimani i dirigenti americani e israeliani hanno reso manifesta l’espressione idiomatica “dalla padella nella brace”.

Il presidente USA Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sono entrambi in difficoltà sia in campo politico che giudiziario – il primo è stato appena messo sotto accusa e il secondo è stato perseguito con un’imputazione e un’inchiesta della procura generale per gravissimi casi di corruzione. Disperati, senza alternative e uniti dalla causa comune, entrambi i leader erano alla ricerca di un grosso problema che li ponesse in una luce positiva sui mezzi di comunicazione dei rispettivi Paesi, ed hanno trovato questo.

L’assassinio il 3 gennaio del più importante generale iraniano nei corpi della Guardia Rivoluzionaria Islamica e comandante della sua Forza Quds, Suleimani, insieme con altri dirigenti militari iraniani da parte di un drone USA ha testimoniato del livello di disperazione degli Usa e di Israele.

Benché non ci siano state conferme o smentite ufficiali del ruolo di Israele nell’operazione americana, è semplicemente logico supporre un coinvolgimento indiretto o persino diretto di Israele nell’assassinio.

Negli scorsi mesi la possibilità di una guerra contro l’Iran ha acquisito nuovo slancio, diventando una priorità nell’agenda dei responsabili della politica estera israeliana. Netanyahu, politicamente assediato, ha ripetutamente e instancabilmente chiesto ai suoi amici di Washington di accentuare la pressione su Teheran.

Mentre noi parliamo l’Iran sta aumentando la sua aggressione,” ha affermato Netanyahu il 4 dicembre, durante un incontro con il segretario di Stato USA Mike Pompeo. “Siamo attivamente impegnati a contenere questa aggressione.”

Si può solo supporre cosa possa significare in questo contesto “impegno attivo” dal punto di vista esplicitamente bellicoso di Israele.

Oltretutto le impronte digitali dell’intelligence israeliana, il Mossad, sono indiscutibilmente presenti nell’assassinio. È plausibile che l’attacco contro il convoglio di Suleimani nei pressi dell’aeroporto internazionale di Baghdad sia stato un’operazione congiunta della CIA e del Mossad.

È ben noto che Israele ha una maggiore esperienza in omicidi mirati nella regione di tutti gli altri Paesi del Medio Oriente messi insieme. Ha ucciso centinaia di attivisti palestinesi e arabi in questo modo. L’assassinio del principale capo militare di Hezbollah, il secondo in grado del movimento, Imad Mughniyah nel febbraio 2008 in Siria è stato solo una di molte altre uccisioni simili.

Non è un segreto che Israele brami una guerra contro l’Iran. Eppure tutti i tentativi di Tel Aviv per provocare una guerra guidata dagli Usa simile all’invasione dell’Iraq nel 2003 sono falliti. Il massimo che Netanyahu sia riuscito ad ottenere in termini di appoggio statunitense a questo proposito è stata la decisione dell’amministrazione Trump di rimangiarsi gli impegni USA con la comunità internazionale uscendo dal trattato nucleare con l’Iran nel maggio 2018.

Questa guerra israeliana fortemente voluta sembrava assicurata quando l’Iran, dopo varie provocazioni e lo schiaffo di ulteriori sanzioni da parte di Washington, ha abbattuto un velivolo statunitense senza pilota che il 20 giugno 2019, come ha sostenuto l’Iran, aveva violato lo spazio aereo del Paese.

Anche allora la risposta degli USA ha mancato di condurre alla guerra totale che Netanyahu andava cercando così ossessivamente.

Ma molto è successo da allora, compresa una replica dei ripetuti insuccessi di Netanyahu nel vincere elezioni decisive, garantendosi in questo modo un altro mandato e accentuando il timore pienamente giustificato del primo ministro israeliano della possibilità di finire dietro le sbarre per aver gestito una massiccia rete di tangenti e abusi di potere.

Anche Trump ha le sue disgrazie politiche, da qui le sue ragioni per agire in modo imprevedibile e irresponsabile. Il suo impeachment da parte della Camera dei Rappresentanti USA il 18 dicembre è stato l’ultima di queste cattive notizie. Anche lui ha bisogno di alzare la posta in gioco politica.

Se c’è una cosa che hanno in comune molti parlamentari democratici e repubblicani è il desiderio di maggiori interventi militari in Medio Oriente e di mantenere una presenza militare più forte nella regione ricca di petrolio e di gas. Ciò è stato riflesso dal tono quasi celebrativo che personalità, generali e commentatori USA hanno utilizzato in seguito all’assassinio del comandante iraniano a Baghdad.

Anche politici israeliani erano visibilmente esaltati. Subito dopo l’uccisione del generale Suleimani, dirigenti e funzionari israeliani hanno emesso comunicati e tweet di appoggio per l’azione USA.

Da parte sua Netanyahu ha dichiarato che “Israele ha il diritto di difendersi. Gli USA hanno esattamente lo stesso diritto. Suleimani,” ha aggiunto, “è responsabile delle morti di innocenti cittadini USA e di molti altri. Stava pianificando ulteriori attacchi.”

In particolare l’ultima dichiarazione, “stava pianificando ulteriori attacchi”, evidenzia l’ovvio lavoro di intelligence in comune e la condivisione di informazioni tra Washington e Tel Aviv. Benny Gantz, erroneamente noto per essere un “uomo di centro”, non è stato meno bellicoso nelle sue opinioni. Quando si tratta di argomenti relativi alla sicurezza nazionale, “non ci sono coalizioni o opposizioni” ha affermato.

L’uccisione di Suleimani è un messaggio a tutti i capi del terrorismo globale: ne pagherete le conseguenze,” ha anche aggiunto il generale israeliano, responsabile della morte di migliaia di palestinesi innocenti a Gaza e altrove.

L’Iran sicuramente risponderà, non solo contro obiettivi americani, ma anche israeliani, in quanto Teheran è convinta che Israele abbia giocato un ruolo fondamentale nell’operazione. Le pressanti domande riguardano la natura e i tempi della risposta iraniana: fin dove arriverà l’Iran per lanciare un messaggio ancora più forte a Washington e a Tel Aviv? E Teheran potrebbe comunicare un messaggio decisivo senza concedere a Netanyahu la guerra totale da lui desiderata tra l’Iran e gli Stati Uniti?

Recenti avvenimenti in Iran – le proteste di massa e il tentativo da parte di manifestanti disarmati di assaltare l’ambasciata USA a Baghdad il 31 dicembre – sono stati in qualche misura una svolta.

Inizialmente sono stati interpretati come una risposta infuriata agli attacchi aerei USA di domenica contro una milizia sostenuta dall’Iran, ma le proteste hanno avuto anche conseguenze non volute, particolarmente pericolose per l’esercito e le prospettive strategiche statunitensi. Per la prima volta dal finto “ritiro” USA dall’Iraq sotto la precedente amministrazione di Barak Obama nel 2012, una nuova consapevolezza collettiva che gli USA devono lasciare definitivamente il Paese ha iniziato a maturare tra la gente comune irachena e tra i suoi rappresentanti.

Agendo rapidamente, gli USA, con l’evidente esultanza israeliana, hanno assassinato Suleimani per mandare un chiaro messaggio a Iraq e Iran che chiedere o aspettarsi un ritiro americano è una linea rossa da non attraversare, e al resto del Medio Oriente che il palese ritiro degli USA dalla regione non sarà ripetuto in Iraq.

L’assassinio di Suleimani è stato seguito da altri attacchi aerei USA contro gli alleati dell’Iran in Iraq, in modo da sottolineare anche come ovvio il livello di serietà e di volontà degli USA di cercare un confronto violento.

Mentre l’Iran sta ora soppesando la sua risposta, deve anche essere consapevole delle conseguenze geopolitiche delle sue decisioni. Una mossa iraniana contro gli interessi di USA e Israele dovrebbe essere convincente dal punto di vista dell’Iran e dei suoi alleati, ma, di nuovo, senza impegnarsi in una guerra totale.

Comunque la prossima iniziativa dell’Iran definirà i rapporti tra Iran e USA nella regione per i prossimi anni e intensificherà ulteriormente il continuo “Grande Gioco” [termine che indica il conflitto diplomatico e spionistico tra Russia e GB durante il XIX secolo, ndtr.] regionale e internazionale, in pieno corso in tutto il Medio Oriente.

L’assassinio di Suleimani potrebbe anche essere inteso come un chiaro messaggio sia alla Russia che alla Cina che se necessario gli USA sono pronti a incendiare tutta la regione per conservare la propria presenza strategica e per garantire i propri interessi economici – che per lo più riguardano il petrolio e il gas iracheno e dell’Arabia saudita.

Ciò avviene dopo un’esercitazione navale congiunta tra russi, cinesi e iraniani nell’oceano Indiano e nel golfo di Oman, iniziata il 27 dicembre. La notizia delle esercitazioni militari deve aver allarmato in modo particolare il Pentagono, in quanto l’Iran, che doveva essere isolato e intimorito, sta diventando sempre più un punto di accesso nella regione per le potenze militari emergenti e riemergenti, rispettivamente Cina e Russia.

Suleimani era un comandante iraniano, ma la sua massiccia rete e le sue alleanze militari nella regione e altrove rendono il suo assassinio un potente messaggio inviato da Washington e Tel Aviv secondo cui sono pronti e non temono di incrementare il proprio ruolo.

La palla ora è nel cortile dell’Iran e dei suoi alleati.

A giudicare dalle esperienze del passato, è probabile che Washington rimpiangerà l’assassinio del generale iraniano per molti anni a venire.

Ramzy Baroud è un giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. É autore di cinque libri, l’ultimo dei quali è “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons” [Questa catena verrà spezzata: storie palestinesi di lotta e sfida nelle prigioni israeliane] (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs [Centro per l’Islam e le Questioni Globali] (CIGA) all’università Zaim di Istanbul (IZU).

Romana Rubeo è una scrittrice e giornalista italiana di PalestineChronicle.com. Rubeo ha conseguito un master in Lingua e Letteratura Straniera ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Due narrazioni sulla Palestina

Le due narrazioni sulla Palestina: il popolo è unito, le fazioni no

 

Ramzy Baroud

8 maggio 2019 – Palestine Chronicle

 

Le due narrazioni sulla Palestina: il popolo è unito, le fazioni no

Ramzy Baroud

8 maggio 2019 – Palestine Chronicle

 

La conferenza internazionale sulla Palestina, tenutasi a Istanbul tra il 27 e il 29 aprile, ha riunito molti relatori e centinaia di accademici, giornalisti, attivisti e studenti, provenienti dalla Turchia e da tutto il mondo.

La conferenza è stata una rara occasione per sviluppare una discussione di solidarietà internazionale sia inclusivo che lungimirante.

Vi è stato un consenso quasi totale sul fatto che il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (contro Israele) (BDS) debba essere appoggiato, che il cosiddetto ‘accordo del secolo’ di Donald Trump debba essere respinto e che la normalizzazione debba essere evitata.

Tuttavia quando si è trattato di articolare gli obbiettivi della lotta palestinese, la narrazione si è fatta indecisa e poco chiara. Benché nessuno dei relatori abbia difeso una soluzione con due Stati, il nostro appello per uno Stato unico democratico fatto da Istanbul – o da ogni altro luogo fuori dalla Palestina – è apparso quasi irrilevante. Perché la soluzione di uno Stato unico diventi l’obiettivo principale del movimento mondiale a favore della Palestina, l’appello deve provenire da una leadership palestinese che rifletta le genuine aspirazioni del popolo palestinese.

Un relatore dopo l’altro ha invocato l’unità dei palestinesi, pregandoli di fare da guida e di articolare un discorso nazionale. Molti altri nel pubblico si sono detti d’accordo con quella posizione. Qualcuno ha addirittura lanciato la retorica domanda: “Dov’è il Mandela palestinese?” Fortunatamente il nipote di Nelson Mandela, Zwelivelile “Mandla” Mandela, era tra i relatori. Ha risposto con enfasi che Mandela era solo il volto del movimento, che comprendeva milioni di uomini e donne comuni, le cui lotte e sacrifici hanno infine sconfitto l’apartheid.

Dopo il mio intervento alla conferenza, nell’ambito della mia ricerca per il mio prossimo libro su questo argomento, ho incontrato alcuni prigionieri palestinesi scarcerati.

Alcuni degli ex prigionieri si definivano di Hamas, altri di Fatah. Il loro racconto è apparso per la maggior parte libero dal deprecabile linguaggio fazioso da cui siamo bombardati sui media, ma anche lontano dalle narrazioni aride e distaccate dei politici e degli accademici.

“Quando Israele ha posto Gaza sotto assedio e ci ha negato le visite dei familiari, anche i nostri fratelli di Fatah ci sono venuti in aiuto”, mi ha detto un ex prigioniero di Hamas. E ogni volta che le autorità carcerarie israeliane maltrattavano chiunque dei nostri fratelli, di qualunque fazione, compresa Fatah, tutti noi abbiamo resistito insieme.”

Un ex prigioniero di Fatah mi ha detto che, quando Hamas e Fatah si sono scontrate a Gaza nell’estate del 2007, i prigionieri hanno sofferto moltissimo.

 “Soffrivamo perché sentivamo che il popolo che dovrebbe combattere per la nostra libertà si stava combattendo al proprio interno. Ci siamo sentiti traditi da tutti.”

Per incentivare la divisione le autorità israeliane hanno collocato i prigionieri di Hamas e di Fatah in reparti e carceri diversi. Intendevano impedire ogni comunicazione tra i leader dei prigionieri e bloccare qualunque tentativo di trovare un terreno comune per l’unità nazionale.

La decisione israeliana non era casuale. Un anno prima, nel maggio 2006, i leader dei prigionieri si erano incontrati in una cella per discutere del conflitto tra Hamas, che aveva vinto le elezioni legislative nei Territori Occupati, e il principale partito dell’ANP, Fatah.

Tra questi leader vi erano Marwan Barghouti di Fatah, Abdel Khaleq al-Natshe di Hamas e rappresentanti di altri importanti gruppi palestinesi. Il risultato è stato il Documento di Riconciliazione Nazionale, probabilmente la più importante iniziativa palestinese da decenni.

Quello che è diventato noto come Documento dei Prigionieri era significativo perché non era un qualche compromesso politico autoreferenziale raggiunto in un lussuoso hotel di una capitale araba, ma una effettiva esposizione delle priorità nazionali palestinesi, presentata dal settore più rispettato e stimato della società palestinese.

Israele ha immediatamente denunciato il documento.

Invece di impegnare tutte le fazioni in un dialogo nazionale sul documento, il presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas, ha dato un ultimatum alle fazioni rivali: accettare o respingere in toto il documento. Abbas e le fazioni contrapposte hanno tradito lo spirito unitario dell’iniziativa dei prigionieri. Alla fine, l’anno seguente Fatah e Hamas hanno combattuto la loro tragica guerra a Gaza.

Parlando con i prigionieri dopo aver ascoltato il discorso di accademici, politici ed attivisti, sono stato in grado di decifrare una mancanza di connessione tra la narrazione palestinese sul campo e la nostra percezione di tale narrazione dall’esterno.

I prigionieri mostrano unità nella loro narrazione, un chiaro senso progettuale, e la determinazione a proseguire nella resistenza. Se è vero che tutti si identificano in un gruppo politico o nell’altro, devo ancora intervistare anche un solo prigioniero che anteponga gli interessi della sua fazione all’interesse nazionale. Questo non dovrebbe sorprendere. Di certo, questi uomini e queste donne sono stati incarcerati, torturati ed hanno trascorso molti anni in prigione per il fatto di essere resistenti palestinesi, a prescindere dalle loro tendenze ideologiche e di fazione.

Il mito dei palestinesi disuniti e incapaci è soprattutto un’invenzione israeliana, che precede l’avvento di Hamas, e persino di Fatah. Questa nozione sionista, che è stata fatta propria dall’attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, sostiene che ‘Israele non ha partner per la pace’. Nonostante le concessioni senza fine da parte dell’Autorità Palestinese a Ramallah, questa accusa è rimasta un elemento fisso nelle politiche israeliane fino ad oggi.

A parte l’unità politica, il popolo palestinese percepisce l’‘unità’ in un contesto politico totalmente diverso da quello di Israele e, francamente, di molti di noi fuori dalla Palestina.

‘Al-Wihda al-Wataniya’, ovvero unità nazionale, è un’aspirazione generazionale che ruota intorno a una serie di principi, compresi la resistenza come strategia per la liberazione della Palestina, il diritto al ritorno dei rifugiati e l’autodeterminazione per il popolo palestinese come obiettivi finali. È intorno a questa idea di unità che i leader dei prigionieri palestinesi hanno steso il loro documento nel 2006, nella speranza di scongiurare uno scontro tra fazioni e di mantenere al centro della lotta la resistenza contro l’occupazione israeliana.

La Grande Marcia del Ritorno, che è tuttora in atto a Gaza, è un altro esempio quotidiano del tipo di unità che il popolo palestinese persegue. Nonostante gravi perdite, migliaia di manifestanti persistono nella loro unità per chiedere la libertà, il diritto al ritorno e la fine dell’assedio israeliano.

Da parte nostra, sostenere che i palestinesi non sono uniti perché Fatah e Hamas non riescono a trovare un terreno comune è del tutto ingiustificato. L’unità nazionale e l’unità politica tra le fazioni sono due questioni differenti.

È fondamentale che non facciamo l’errore di confondere il popolo palestinese con le fazioni, l’unità nazionale intorno alla resistenza e ai diritti con i compromessi politici tra gruppi politici.

Per quanto riguarda la visione e la strategia, forse è tempo di leggere il ‘Documento di Riconciliazione Nazionale’ dei prigionieri. Lo hanno scritto i Nelson Mandela della Palestina, migliaia dei quali sono tuttora nelle carceri israeliane.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, Università di California, Santa Barbara.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)