Come i medici carcerari israeliani partecipano alla tortura dei detenuti palestinesi

Kanav Kathuria

28 maggio 2024 – Mondoweiss

I medici israeliani forniscono agli interroganti le informazioni mediche riguardanti i prigionieri per dare il via libera alla tortura, istruiscono gli interroganti su come infliggere dolore senza lasciare segni fisici e collaborano persino personalmente nell’infliggere le torture.

Quando lunedì il procuratore capo della Corte Penale Internazionale Karim Khan ha richiesto dei mandati di arresto per Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant ha scelto sorprendentemente di non includere nella sua lista dei crimini di guerra e dei crimini contro lumanità commessi da Israele la tortura o la violenza sessuale contro i prigionieri palestinesi.

Lomissione della tortura da parte di Khan è incredibile. Negli ultimi sette mesi centinaia di rapporti, testimonianze e indagini hanno fatto ulteriore luce sulla pratica brutale della tortura da parte di Israele nei confronti dei detenuti palestinesi e dei prigionieri nelle carceri delloccupazione israeliana.

Come hanno ampiamente documentato organizzazioni della società civile palestinese come lAddameer Prisoner Support, Human Rights Association, il Palestine PrisonersClub e altre, i prigionieri vengono brutalmente picchiati e maltrattati più volte al giorno, rinchiusi in celle non adatte alla vita umana, tenuti bendati con le mani legate con fascette di plastica, isolati dal mondo esterno, spogliati dei loro vestiti, puniti collettivamente attraverso la fame, attaccati da cani, aggrediti sessualmente e torturati psicologicamente. Dal 7 ottobre almeno tredici palestinesi sono stati portati alla morte in carcere in seguito alla tortura e alla negazione di cure mediche adeguate. Innumerevoli altri sono stati scoperti in fosse comuni con evidenti segni delle torture subite, esecuzioni e altri crimini contro l’umanità.

Sebbene trattata dai mezzi di informazione occidentali come un fenomeno nuovo o eccezionale, come nella recente denuncia della CNN sugli orrori praticati nel famigerato centro di detenzione di Sde Teiman, la tortura israeliana precede di molto il 7 ottobre. Luso della tortura in Israele come strumento coloniale per soggiogare e esercitare il controllo sui palestinesi è intrecciato con la sua stessa nascita come Stato. Come ha scritto nel 2010 dal carcere Walid Daqqa, icona rivoluzionaria e letteraria palestinese,

Ciò che accade nelle [carceri israeliane] non è solo detenzione e isolamento di un popolo considerato un rischio per la sicurezza di Israele, ma fa parte di uno schema generale, scientificamente pianificato e calcolato per rimodellare la coscienza palestinese”.

La tortura israeliana è quindi istituzionalizzata e sistematica portata avanti dall’esteso regime di sicurezzadello Stato e autorizzata dai suoi organi legali e giudiziari. A livello internazionale luso della tortura da parte di Israele continua a non essere oggetto di verifica, nonostante lo Stato sia firmatario della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti.

Tuttavia, nel fare luce sul labirinto di sistemi, leggi, istituzioni e persone che modellano il modo in cui Israele pratica la tortura [emerge che] una fondamentale categoria di persone coinvolte tende a sfuggire alla responsabilità: gli operatori sanitari nelle carceri e nei centri di detenzione delloccupazione israeliana. Mentre lattenzione su chi tortura generalmente ricade sugli interroganti dello Shin Bet (o lagenzia di sicurezzainterna israeliana), i medici e gli psicologi carcerari israeliani sono profondamente complici della tortura e del trattamento crudele, inumano o degradante dei palestinesi incarcerati che si suppone siano affidati alle loro cure.

Via liberaalla tortura fornito dai medici

Le norme internazionali che vietano ai medici di compiere atti di tortura sono categoriche. Ad esempio, la Dichiarazione di Tokyo del 1975 della World Medical Association – un’associazione a cui appartiene l’Israel Medical Association – afferma che un medico non deve “consentire o partecipare alla pratica della tortura… qualunque sia il reato di cui sia sospettata la vittima di tali procedure”, accusata o colpevole, e qualunque siano le convinzioni o le motivazioni della vittima… anche [nei] conflitti armati e guerre civili.” La Dichiarazione afferma inoltre che mentre i medici hanno lobbligo di diagnosticare e curare le vittime di tortura, è eticamente loro vietato condurre qualsiasi valutazione, o fornire informazioni o trattamenti, che possano facilitare o perpetuare la tortura. (enfasi aggiunta).

In altre parole: un medico può comunque essere complice della tortura anche se la sua partecipazione non è diretta. In quanto professionisti medici responsabili del benessere dei loro pazienti i medici hanno l’obbligo etico di segnalare e denunciare gli abusi di cui sono testimoni, di proteggere i loro pazienti, di garantire la riservatezza delle informazioni mediche personali dei pazienti e di astenersi da qualsiasi situazione in cui venga utilizzata o minacciata la tortura.

Le prove degli ultimi 30 anni dimostrano che regolarmente i medici israeliani non rispettano questi obblighi etici e operano in violazione del diritto internazionale. Come dettagliato nei rapporti di Human Rights Watch, Amnesty International, Physicians for Human Rights-Israel e molti, molti altri, in Israele il coinvolgimento dei medici nella tortura è sistematico e di fatto parte integrante del regime di tortura israeliano.

La complicità dei medici nella tortura si manifesta in vari modi. Come spiegato nello studio globale di Addameer del 2020, Cell 26, prima dellinizio dellinterrogatorio di un detenuto, i medici israeliani collaborano con gli interroganti dello Shin Bet per certificareo constatare che siano idonei” ad essere sottoposti a tortura. Per tutta la durata dellinterrogatorio un medico fornisce il via liberaaffinché la tortura possa continuare.

Ma lautorizzazione alla tortura va oltre un superficiale controllo sanitario. Nei loro esami, gli operatori sanitari cercano i punti deboli fisici e psicologici da sfruttare in una persona. Queste debolezze vengono condivise attivamente con gli interroganti per aiutarli a spezzare lo spirito del prigioniero.

Inoltre i medici israeliani tacciono sulle ferite che osservano durante la tortura. Invece di adempiere alle proprie responsabilità etiche con il denunciare gli abusi, i medici falsificano o si astengono dal documentare gli effetti fisici e psicologici della tortura sul corpo e sulla mente di un detenuto, privando le vittime della possibilità di utilizzare potenziali prove contro i loro torturatori.

La complicità medica nella tortura si estende oltre i singoli professionisti fino allintero sistema sanitario israeliano. I detenuti palestinesi raccontano che gli interroganti sono addestrati a metodi di abuso progettati per infliggere il massimo danno. Questa conoscenza non è innata; al contrario, secondo Cell 26, la ricerca medica è coinvolta con gli interroganti delloccupazione israeliana per armarli di tecniche e programmi di tortura specifici intesi a causare sofferenze estreme ai detenuti palestinesi lasciando minimi segni fisici.

Dal 7 ottobre le indagini e le testimonianze di sopravvissuti alla tortura, difensori e organizzazioni per i diritti umani e persino alcuni informatori israeliani hanno confermato che il coinvolgimento dei medici israeliani nella tortura è ancora in corso. Il 16 aprile un rapporto scioccante dellAgenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e lOccupazione Lavorativa (UNRWA) sulla tortura dei detenuti di Gaza ha affermato che quando tentavano di ricevere assistenza medica per la cura delle ferite causate dalle torture, i prigionieri palestinesi venivano invece picchiati più duramente dai medici della prigione.

La complicità dei medici nella tortura include anche la negligenza medica, una pratica deliberata e di lunga data nelle carceri israeliane. Un rapporto di Physicians for Human Rights-Israel [Medici per i diritti umani-Israele] pubblicato il mese scorso descrive in dettaglio le orribili condizioni di reclusione in un ospedale da campo situato presso la base militare e centro di detenzione di Sde Teiman. Secondo il rapporto, il personale medico presta assistenza a pazienti immobilizzati e bendati; esegue procedure mediche invasive senza che i pazienti ricevano sufficienti spiegazioni in anticipo o diano il loro consenso; rifiuta di prestare le cure rifiutando la somministrazione di farmaci antidolorifici e giustificando la fornitura del trattamento esclusivamente nei casi in cui ciò aiuti le forze di sicurezza a interrogare i pazienti. Inoltre, al personale medico non è richiesto di denunciare o documentare casi di violenza o tortura di cui sia stato testimone né di firmare documenti medici con il proprio nome o numero di licenza, proteggendolo da qualsiasi potenziale indagine riguardante la violazione delletica medica.

Nellindagine della CNN su Sde Teiman altri tre informatori israeliani presso il centro di detenzione hanno rivelato come le procedure mediche presso la struttura siano a volte eseguite da medici sottoqualificati, tanto che [l’ospedale da campo] si è guadagnato la reputazione di ‘paradiso per i tirocinanti’”.

Come ha detto uno degli informatori alla CNN: Mi è stato chiesto di imparare come fare delle cose sui pazienti, eseguendo procedure mediche minori che sono totalmente al di fuori della mia competenzail trovarmi soltanto lì mi sembrava di essere complice di abusi. La stessa persona ha anche assistito ad amputazioni eseguite su persone che avevano subito ferite causate dalla costrizione continuativa delle mani.

Le condizioni all’interno dellospedale da campo di Sde Teiman sono così disastrose che allinizio di aprile un medico israeliano di stanza presso la struttura ha scritto una lettera al ministro della Sanità israeliano esprimendo le sue preoccupazioni. In essa afferma che le circostanze sono così cupe che i suoi impegni fondamentali nei confronti dei pazientisono stati lasciati da parte e che le équipe mediche della struttura, così come il Ministero della Salute, stanno violando la legge israeliana sullincarcerazione dei combattenti illegali.

Quando i medici sono agenti del colonialismo

La partecipazione alla tortura dei medici professionisti coloro il cui dovere è evidentemente quello di guarire, alleviare la sofferenza e agire nel migliore interesse dei loro pazienti non è una contraddizione. Indipendentemente dalletica o dalle leggi, il personale medico israeliano opera innanzitutto come agente del regime coloniale di insediamento israeliano. Sotto il colonialismo di insediamento tutti gli aspetti della società di un colonizzatore hanno un unico scopo: favorire loppressione delle persone colonizzate.

La professione medica non è diversa. Nel suo saggio Medicina e colonialismoFrantz Fanon delinea cosa significa praticare la medicina in un contesto coloniale. Parlando dellAlgeria francese, scrive:

il medico stessoha deciso di escludersi dal cerchio protettivo che i principi e i valori della professione medica hanno intessuto attorno a luiIn una data regione, il medico si rivela talvolta come il più sanguinario dei colonizzatoricosì diventa il torturatore sotto le apparenze di un medico.

Fanon continua: Sul piano strettamente tecnico il medico europeo collabora attivamente con le forze coloniali nelle loro pratiche più spaventose e più degradanti”.

Gli ultimi 230 giorni hanno reso dolorosamente evidente che lannientamento delle infrastrutture sanitarie di Gaza è uno degli obiettivi centrali della campagna genocida di Israele. Oltre alla distruzione degli ospedali, gli operatori sanitari palestinesi vengono rapiti, torturati e uccisi a centinaia. Secondo il Ministero della Sanità di Gaza dal 7 ottobre almeno 493 operatori sanitari sono stati assassinati da Israele. Altri 200 sono stati fatti prigionieri dalle forze di occupazione israeliane. Alcuni come il dottor Adnan Al-Bursh, primario di ortopedia presso lospedale al-Shifa sono stati torturati a morte dopo mesi di prigionia.

Mentre Israele bombarda e distrugge gli ospedali i medici israeliani torturano i prigionieri palestinesi. Mentre Israele giustizia i pazienti palestinesi, i suoi medici condividono ricerche mediche per aiutare a torturare meglio i detenuti palestinesi. Nelle parole del dottor Al-Bursh: La pratica della medicina è diventata un criminee la detenzione e la tortura a morte è diventata la punizione per aver salvato vite umane”.

Mentre i medici palestinesi muoiono negli ospedali di Gaza con i loro pazienti i medici israeliani sono complici del genocidio.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




‘Sola e ammanettata’: una madre palestinese ha paura di partorire all’interno della prigione israeliana

Shatha Hammad

Kufr Nimah, Cisgiordania occupata

27 agosto 2021 – Middle East Eye

Incinta e affetta da complicanze, Anhar al-Deek afferma che sarebbe più sicuro se suo figlio potesse rimanere nel suo grembo

***Il 3 settembre Anhar al-Deek è stata liberata su cauzione di 40.000 shekel pari a 10.500 euro e posta agli arresti domiciliari. Leggi la notizia dopo questo articolo.

Anhar al-Deek, 25 anni, si sta avvicinando alla data del parto, ma a differenza della maggior parte delle madri, Anhar teme la nascita di suo figlio. Sente che è più sicuro che lui rimanga nel suo grembo che dietro le sbarre della prigione israeliana in cui è detenuta, dove non prova altro che paura e ansia.

L’esercito israeliano ha arrestato Anhar l’8 marzo nel villaggio di Kufr Nima, a ovest della città di Ramallah, mentre si trovava nei terreni agricoli della sua famiglia.

Gli agenti l’hanno accusata di un tentato accoltellamento. I tribunali israeliani non hanno emesso una sentenza in risposta all’appello della sua famiglia per il rilascio, ignorando il fatto che è incinta e soffre di complicanze.

Anhar è riuscita a far uscire una lettera rivolta alla sua famiglia attraverso un’altra detenuta recentemente rilasciata. Esprimendo la sua paura di affrontare le fasi del parto lontano dalla sua famiglia, ha scritto: “Cosa devo fare se sono nata lontano da voi e sono stata ammanettata mentre stavo per partorire?

“Sapete quanto è [difficile] un parto cesareo… Immaginatelo in prigione, sola e in manette”.

La madre di Anhar, Aisha di 57 anni, trascorre intanto il suo tempo a prendersi cura di sua nipote di un anno e mezzo, Julia.

“Si sveglia di notte chiamando sua madre e non la trova vicino a lei”, ha detto Aisha.

“Ciò che mi addolora di più è che a volte mi chiama ‘mamma’, o chiama ‘mamma’ qualsiasi donna della famiglia”.

Picchiata durante la gravidanza

In occasione dell’arresto di Anhar Aisha ha riferito a MEE che sua figlia era uscita per una passeggiata nel terreno di famiglia sulla collina Raysan e che soffriva di depressione a causa della gravidanza.

Un gruppo di soldati israeliani l’ha aggredita e l’ha accusata di aver tentato di accoltellarli.

“Anhar ci ha detto che durante l’arresto l’hanno picchiata duramente, nonostante gridasse che era incinta, ma a loro non importava”, continua Aisha.

Immediatamente dopo il suo arresto Anhar è stata portata nella prigione di HaSharon, dove per un mese è stata sottoposta ad interrogatori e messa in isolamento.

Anhar ha detto ai suoi avvocati di essere stata tenuta in condizioni durissime e sottoposta a lunghe ore di interrogatorio, senza alcuna considerazione per il suo stato fisico e psicologico.

“Anhar è stata sottoposta per un mese a pesanti torture, dopodiché è stata trasferita nella prigione di Damon, dove le prigioniere vivono in condizioni difficili”, sostiene Aisha, aggiungendo che Anhar non può dormire a causa della mancanza di un materasso decente.

Dice che sua figlia soffre di forti dolori al bacino e ai piedi, oltre che di stanchezza generale.

Isolamento

Durante la sua prima gravidanza – con Julia – Aisha non aveva mai lasciato sola la figlia Anhar, soprattutto nel corso dell’ultimo mese. Le era rimasta accanto durante il parto e si è occupata di lei costantemente.

Questa volta, tuttavia, Aisha vive nella paura e nell’ansia per il fatto di non poter fare nulla per sua figlia.

Nella sua lettera Anhar ci ha comunicato che non sapeva come si sarebbe svegliata dopo il parto senza al proprio fianco sua madre e suo marito”, continua Aisha.

“Pensa anche molto a come sarà incatenata al letto”.

L’amministrazione carceraria israeliana ha informato Anhar che dopo il parto lei e il suo bambino saranno posti in isolamento come precauzione contro la trasmissione del coronavirus ad altri dopo il ritorno dall’ospedale.

Mi preoccupa molto che le altre prigioniere non potranno occuparsi di Anhar. Lei e suo figlio staranno soli in cella,” afferma Aisha.

Un modello”

Nel 1972, la prigioniera palestinese Zakiya Shammout ha dato per prima alla luce un figlio in una prigione israeliana.

Anhar chiamerà suo figlio “Alaa”. Sarà il nono bambino palestinese a subire la stessa sorte.

In un breve servizio l’agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa ha documentato le esperienze di sette detenute che hanno partorito in carcere, scoprendo che tutte avevano sofferto, in particolare perché durante il travaglio e il parto le braccia e le gambe erano incatenate al letto.

La sorella di Anhar, Amna, ha detto a MEE che il massimo che ha potuto fare per sua sorella è stato organizzare campagne sui social media e contattare le organizzazioni per i diritti umani e gli organi di informazione per attirare l’attenzione sul caso di sua sorella.

“Oggi ci poniamo molte domande sul ruolo delle organizzazioni di donne e dei difensori dei diritti umani nel sostenere le donne palestinesi di fronte agli attacchi israeliani, alle persecuzioni e alle grandi ingiustizie a cui sono soggette”, dice Amna.

“Anhar è oggi un modello non della sofferenza delle prigioniere, ma della sofferenza delle donne palestinesi”.

Amna afferma che la sua più grande paura per Anhar deriva dagli attacchi di depressione di cui soffre e dalla probabilità che subisca ulteriori traumi dopo il parto, una situazione che verrebbe esasperata dalle condizioni carcerarie.

Messaggi vocali

Dal momento del suo arresto ad Anhar è stata concessa solo una visita dei familiari, del marito, mentre sua madre e sua sorella non hanno potuto vederla per quasi sei mesi, da quando è stata arrestata.

Le viene anche impedito di parlare con la sua famiglia al telefono. La madre di Anhar afferma che l’esercito israeliano ha anche ritirato al marito di Anhar il permesso di lavoro per l’accesso alle aree occupate dal 1948 [cioè in Israele, ndtr.], come ulteriore punizione per la famiglia.

“Fino ad ora non ho potuto vederla e ho sentito la sua voce solo una volta, ma le inviamo dei messaggi vocali sulla sua bambina Julia attraverso una delle stazioni radio locali che lei può ascoltare”, aggiunge Aisha.

Anhar ci ha detto di smettere di lasciare che Julia si rivolga a lei alla radio; non riesce a capire che sua figlia sta crescendo, lontana da lei”.

Secondo il Palestine Prisoners Club [ONG che monitora e sostiene i prigionieri politici palestinesi, ndtr.] Anhar è una delle 11 madri palestinesi imprigionate nelle carceri israeliane, su un totale di 40 detenute. La maggioranza si trova nella prigione di Damon in condizioni durissime e vergognose.

In un comunicato l‘organizzazione ha dichiarato che quando l’amministrazione carceraria israeliana consente ai bambini di andarle a trovare viene loro impedito di abbracciare le loro madri, una situazione che è peggiorata con la diffusione del Covid-19 e la mancanza di visite regolari da parte dei familiari.

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Prigioniera incinta trasferita agli arresti domiciliari con un’ammenda di 40.000 shekel

3 settembre 2021 – IMEMC News

Secondo quanto riportato da Quds News Network [Rete di notizie Quds; la QNN è una delle principali agenzie d’informazione nei territori palestinesi occupati, ndtr.] giovedì il tribunale militare israeliano di Ofer ha deciso di rilasciare Anhar ad-Deek, 25 anni, la donna palestinese al nono mese di gestazione, dopo una permanenza di sei mesi in una prigione israeliana.

Giovedì la Commissione palestinese per gli affari dei detenuti ed ex detenuti [organo operativo del ministero per gli affari dei detenuti dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] ha annunciato che le autorità di occupazione hanno rilasciato ad-Deek assegnandole gli arresti domiciliari e una ammenda di 40.000 shekel (10.500 euro).

Ad-Deek, sposata e madre di un bambino, della città di Kafr Ni’ma, all’interno del governatorato di Ramallah nella Cisgiordania centrale occupata, è stata arrestata dalle forze israeliane l’8 marzo, Giornata internazionale della donna, a seguito di quello che le autorità hanno affermato essere un presunto tentativo di accoltellamento.

Organizzazioni a difesa dei diritti umani hanno organizzato campagne per chiedere alle autorità di occupazione di rilasciare immediatamente la detenuta incinta.

Sulla base di notizie correlate le autorità carcerarie hanno rilasciato anche un’altra donna palestinese, Ayat Mahfouth, dopo averla tenuta in prigione per cinque anni.

Secondo Addameer [ONG palestinese che monitorizza il trattamento dei prigionieri palestinesi e fornisce assistenza legale, ndtr.] Le donne palestinesi incinte non sono sfuggite agli arresti di massa di civili palestinesi sotto il regime di occupazione israeliano illegale. Tra il 2003 e il 2008 Addameer ha documentato quattro casi di detenute palestinesi costrette a partorire mentre si trovavano nelle carceri israeliane; tutte loro hanno ricevuto cure prenatali e postnatali molto scarse o inesistenti.

Poiché l’incarcerazione di donne incinte comporta un rischio elevato non solo per la donna stessa ma anche per gli esiti del parto e per la successiva crescita e sviluppo del neonato, i loro casi sono estremamente preoccupanti. Le donne incinte nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani non godono di alcun trattamento preferenziale in termini di dieta, spazio vitale o trasferimenti negli ospedali”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)