Laburismo israeliano e colonizzazione

Come il partito Laburista israeliano ha concepito le colonie ebraiche illegali in Palestina

 

Ramzy Baroud

24 agosto 2019  Middle East Monitor

 

 

Dopo la vittoria israeliana nella guerra del 1967 diventò impossibile per gli ideologi sionisti mascherare la vera natura del loro Stato: un regime colonialista inflessibile con un progetto espansionista.

Anche se il sionismo fu fin da principio un’impresa coloniale, molti sionisti rifiutarono di vedere se stessi come colonizzatori. I “sionisti culturali”, i “sionisti riformisti” e i “sionisti laburisti” sostenevano progetti politici simili a quelli dei “revisionisti” [la corrente sionista di destra, ndtr.] e di altre forme estreme di sionismo. Quando venne messa alla prova, la differenza tra il sionismo di sinistra e di destra dimostrò di essere una semplice semantica ideologica. Entrambi i gruppi lavorarono per mantenere la stessa dissonanza cognitiva: vittime alla ricerca di una patria e coloni con un progetto razzista e violento.

Questo paradigma intellettuale egoista è ancora in vigore oggi, più definito nei discorsi politici apparentemente conflittuali dei partiti di destra (Likud e altri partiti nazionalisti religiosi e di estrema destra) e di sinistra (laburista e altri) israeliani. Per i palestinesi, tuttavia, entrambe le correnti politiche sono due facce della stessa medaglia.

Dopo la decisiva vittoria israeliana nella guerra del giugno 1967, il nazionalismo ebraico acquisì un nuovo significato. Nacque l’“esercito invincibile” di Israele, e anche gli ebrei scettici cominciarono a vedere Israele come uno Stato vittorioso, che ora era una forza regionale, se non internazionale, di cui tener conto. Cosa altrettanto importante, furono i cosiddetti “progressisti di sinistra” israeliani e altri “sionisti moderati” che progettarono completamente il periodo più riprovevole della storia.

L’occupazione israeliana del Sinai, delle Alture del Golan, di Gerusalemme est, della Cisgiordania e di Gaza e la distruzione degli eserciti uniti di Egitto, Siria e Giordania entusiasmarono la maggioranza degli israeliani, spingendo molti a sviluppare una prospettiva imperialista e ad adottare totalmente un progetto colonialista, basato sulla convinzione che il loro esercito fosse il più forte in Medio Oriente. Gli stessi istinti espansionisti contribuirono a santificare il principio sionista secondo cui “non si sarebbe dovuto dividere mai più Eretz Israel [la Terra di Israele, ndtr.].”

Di fatto, come ha sostenuto il professor Ehud Sprinzak (citato nel libro di Nur Masalha “Imperial Israel and the Palestinians: The Politics of Expansion” [Israele imperialista e i palestinesi: la politica di espansione]), dopo la vittoria israeliana nel 1967, il concetto di espansione imperialista e il rifiuto della “divisione” di Eretz Israel si convertì in “un principio più vigoroso e influente nel sionismo moderno.” Indipendentemente dal fatto se Israele abbia anticipato del tutto questa espansione territoriale di massa o meno, il Paese sembrava deciso a rafforzare rapidamente le proprie conquiste, rifiutando qualunque richiesta di tornare alle linee dell’armistizio del 1949.

Benché gli ebrei religiosi fossero intossicati dall’idea che la zona biblica di “Giudea e Samaria” “ritornasse” ai suoi lontani proprietari, il primo movimento per capitalizzare le conquiste territoriali fu, di fatto, un’organizzazione laica d’élite chiamata “Movimento per Tutta la Terra di Israele” (WLIM).

La conferenza ufficiale di fondazione del WLIM si celebrò poco dopo la vittoria di Israele. Benché fosse stata fondata e dominata da attivisti del partito Laburista, il WLIM superò i confini del partito e le divisioni ideologiche, unite nella loro determinazione a conservare tutta la Palestina, come tutto Israele. In quanto alla popolazione indesiderata, quelli che non vennero espulsi dovevano essere assoggettati a dovere.

Mentre l’Egitto e altri Paesi arabi denunciavano la loro sfortunata guerra, la Palestina si occupò totalmente della prigionia dei palestinesi nella loro stessa terra. Proprio quando Israele celebrava la sua vittoria sugli eserciti arabi ufficiali, i soldati israeliani si riprendevano sorridenti mentre facevano il segno di vittoria presso il cosiddetto “Muro del Pianto”, così come nei luoghi santi della Gerusalemme araba. I palestinesi si prepararono al peggio.

Di fatto, come Baruch Kimmerling scrive nel suo libro “The Palestinian People: A History” [I Palestinesi: la genesi di un popolo, La Nuova Italia, 2002], “fu il momento nella storia palestinese più privo di speranza”, i rifugiati palestinesi che sognavano di tornare alla Palestina precedente al 1948 si scontrarono con una immane difficoltà, nei fatti una nuova Nakba, perché il problema dei rifugiati ora peggiorò e si aggravò a causa della guerra e della creazione di 400.000 nuovi rifugiati. Le ruspe israeliane si spostarono rapidamente in molte parti dei territori palestinesi appena conquistati, come fecero in altre terre arabe occupate, demolendo realtà storiche e costruendone di nuove, come fanno tuttora.

Poco dopo la guerra, Israele cercò di rafforzare la sua occupazione, in primo luogo rifiutando le proposte di pace presentate dal nuovo presidente egiziano, Anwar Sadat, a partire dal 1971, e in secondo luogo attivando la costruzione di colonie in Cisgiordania e a Gaza.

Le prime colonie avevano scopi militari e strategici, dato che l’intenzione era quella di creare fatti sul terreno tali da alterare la natura di un qualunque futuro accordo di pace; di lì il piano Allon, così chiamato da Yigal Allon, un ex ministro e generale del partito laburista nel governo israeliano, che si assunse il compito di delineare un progetto israeliano per i territori palestinesi appena conquistati.

Il piano intendeva annettere per “ragioni di sicurezza” il 30% della Cisgiordania e tutta Gaza. Stabilì la costituzione di un “corridoio di sicurezza” lungo il fiume Giordano, oltre alla “Linea verde”, una delimitazione israeliana unilaterale delle proprie frontiere con la Cisgiordania. Il piano prevedeva l’annessione della Striscia di Gaza a Israele e intendeva restituire parte della Cisgiordania alla Giordania come primo passo verso la messa in pratica dell’“opzione giordana” per i rifugiati palestinesi, cioè la pulizia etnica con la creazione di una “patria alternativa” per i palestinesi.

Il piano fallì, ma non del tutto. I nazionalisti palestinesi garantirono che mai si sarebbe realizzata una patria alternativa, ma la confisca, la pulizia etnica e l’annessione della terra occupata furono un successo totale. Ciò che fu altrettanto importante e coerente fu che il piano di Allon fornì un indicatore inequivocabile che il governo laburista di Israele aveva tutte le intenzioni di conservare almeno grandi aree della Cisgiordania e di tutta Gaza, e non intendeva rispettare la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite [risoluzione del 1967, che imponeva il ritiro dai territori occupati, ndt.].

Per approfittare dell’interesse politico della colonizzazione in Cisgiordania per il governo, un gruppo di ebrei religiosi affittò un hotel nella città palestinese di Hebron (Al-Khalil) per passare la festa di Pesach [la Pasqua ebraica, ndtr.] nella “Tomba dei patriarchi” e si rifiutò semplicemente di andarsene. Ciò provocò la passione per la Bibbia degli israeliani religiosi ortodossi in tutto il Paese, che si riferivano alla Cisgiordania con la sua denominazione biblica, Giudea e Samaria. Il loro movimento risvegliò anche le ire dei palestinesi, che videro con totale costernazione come la loro terra venisse conquistata, chiamata con un nuovo nome e poi colonizzata da stranieri.

Nel 1970, per “espandere” la situazione, il governo israeliano costruì la colonia di Kiryat Arba nella periferia della città araba, che attirò altri ebrei ortodossi a Hebron. Il piano Allon poteva essere stato ideato per obiettivi strategici, ma poco dopo ciò che era strategico e politico si confuse con quello che diventò religioso e spirituale.

In definitiva i palestinesi stavano perdendo molto velocemente la loro terra, un processo che avrebbe portato a un grande spostamento di popolazione israeliana, inizialmente a Gerusalemme est occupata – che venne annessa illegalmente poco dopo la guerra del 1967 – e alla fine nel resto dei territori occupati. Nel corso degli anni l’aumento delle colonie strategiche si unì all’espansione per ragioni religiose, promossa da un movimento vitale, esemplificato nella creazione di Gush Emunim (Blocco dei Fedeli [movimento dei coloni nazional-religiosi, ndtr.]) nel 1974. Il movimento era deciso a insediare in Cisgiordania legioni di fondamentalisti ebrei.

Il piano di Allon si estese anche fino ad includere Gaza e il Sinai. Allon desiderava creare una “striscia” di territori che avrebbe fatto da zona cuscinetto tra Egitto e Gaza. “Zona cuscinetto” fu, in questo contesto, un nome in codice per colonie ebraiche illegali e posti militari nell’estremo sud della Striscia di Gaza e in zone adiacenti del nord del Sinai, una regione che Israele denominò la “pianura di Rafiah”.

All’inizio del 1972 migliaia di uomini, donne e bambini, per lo più beduini palestinesi, vennero espulsi dalle loro case nel sud di Gaza. Nonostante vivessero nella zona da generazioni, la loro presenza era un ostacolo rispetto ad un piano dell’esercito israeliano che presto avrebbe inglobato la metà di Gaza. Furono evacuati senza che venisse loro permesso di portare via neppure i propri beni, per modesti che fossero. L’esercito israeliano affermò che nella zona la pulizia etnica venne messa in atto “solo” a danno di 4.950 persone. Ma i capi delle tribù affermarono che più di 20.000 abitanti vennero obbligati ad abbandonare le proprie case e terre.

Allon aveva conferito ad Ariel Sharon e ad altri comandanti militari l’incarico di dividere i territori da poco occupati in piccole regioni, tra le quali inserire colonie strategiche e basi militari per indebolire la resistenza locale e consolidare il controllo israeliano.

“(Sharon) racconta di essersi trovato in una duna (nei pressi di Gaza) con ministri del governo”, scrisse Gershom Gorenberg, “a spiegare che, insieme alle misure militari, per controllare la Striscia voleva “strisce” di colonie che dividessero le città tagliando la regione in quattro parti. Un’altra “striscia” avrebbe attraversato il confine del Sinai, contribuendo a creare una “zona neutrale ebraica tra Gaza e il Sinai per interrompere il flusso di armi e dividere le due regioni, nel caso in cui il resto del Sinai fosse tornato all’Egitto.”

Il resto è storia. Benché negli ultimi giorni la presenza demografica dei coloni si sia spostata in larga misura verso destra e la loro influenza politica sia aumentata esponenzialmente a Tel Aviv, questi coloni, che ora rappresentano circa 600.000 persone che vivono in più di 200 insediamenti, sono l’orribile creazione della “sinistra” israeliana con il totale sostegno e appoggio della destra, tutti al servizio della causa originaria del sionismo, che è rimasto fedele ai principi fondativi: un movimento colonialista sostenibile solo con la violenza e la pulizia etnica.

 

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

 

 

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)